UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VERONA
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VERONA
DIPARTIMENTO DI STUDI GIURIDICI
DIRITTO PRIVATO EUROPEO DEI RAPPORTI PATRIMONIALI CICLO XXII
TITOLO DELLA TESI DI DOTTORATO
RAPPORTO TRA DOMANDA DI ADEMPIMENTO E DOMANDA DI RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO
Coordinatore: Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx: Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
Dottorando: Dott.ssa Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
RAPPORTO TRA DOMANDA DI ADEMPIMENTO E DOMANDA DI RISOLUZIONE DEL
CONTRATTO PER INADEMPIMENTO
INDICE
Capitolo Primo: La risoluzione del contratto per inadempimento | |
1. | Introduzione |
2. | Le origini storiche della risoluzione per inadempimento |
2.1 | La risoluzione nel diritto romano |
2.2 | Dal diritto intermedio al code civil francese |
2.3 | Il ruolo della risoluzione nel codice del 1865 |
3. | Ambito di applicazione della risoluzione per inadempimento |
4. | L’applicabilità della risoluzione ai contratti aleatori |
5. | L’applicabilità della risoluzione ai contratti a titolo gratuito |
6. | L’applicabilità della risoluzione ai contratti con efficacia reale |
7. | L’applicabilità della risoluzione ai contratti plurilaterali |
8. | Il fondamento della risoluzione |
9. | I presupposti della risoluzione |
9.1 | L’inadempimento |
9.1.2 | L’ambito oggettivo |
9.1.3 | L’ambito soggettivo |
9.1.4 | Segue: l’inadempimento imputabile |
9.1.5 | L’inadempimento grave |
9.2 | L’inadempimento reciproco |
Capitolo Secondo: I rapporti tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento: la scelta reversibile | |
1. | Rapporti tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c. |
2. | Il cosiddetto “ius variandi” nel codice del 1865 |
3. | La Relazione del Guardasigilli al codice |
4. | Le ragioni giustificatrici della reversibilità |
5. | Lo ius variandi come regola processuale |
6. | I limiti al mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione |
6.1 | Segue: i limiti interni al processo |
6.2 | Segue: i limiti esterni al processo |
7. | La natura sostanziale dello ius variandi |
8. | Il rapporto tra l’art. 1453, II comma, I parte x.x. x x’xxx. 000, XX comma c.p.c. alla luce della riconosciuta natura sostanziale dello ius variandi |
Capitolo Terzo: La scelta irreversibile: l’art. 1453, II comma, seconda parte c.c. | |
1. | Le ragioni giustificatrici del divieto |
2. | La portata del divieto |
3. | La teoria restrittiva |
4. | Le teorie liberali |
5. | L’applicazione del divieto all’interno del processo |
6. | La domanda di adempimento subordinata a quella di risoluzione |
7. | I limiti all’applicazione del divieto dopo il processo |
8. | Le singole fattispecie di non operatività dell’effetto preclusivo dopo il processo |
9. | La ratio sottesa alla non applicabilità del divieto di ius variandi dopo il processo |
10 | Gli interessi contrapposti |
11. | L’applicazione del divieto di ius variandi al di fuori del processo |
12. | I rapporti tra domanda giudiziale di risoluzione e richiesta sostanziale di adempimento successiva al processo |
13. | I rapporti tra domanda giudiziale di risoluzione e richiesta sostanziale di adempimento nel corso del processo |
14. | L’effetto preclusivo della risoluzione stragiudiziale |
Capitolo Quarto: Rapporto tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento nel diritto privato francese | |
Parte prima |
1. | L’art. 1184 Code civil |
2. | Il fondamento della condition résolutoire sous-entendue |
3. | I presupposti per l’applicazione della résolution judiciaire di cui all’art. 1184 Code civil |
4. | Gli ampi poteri concessi al giudice nell’ambito del giudizio di risoluzione |
5. | La concessione del délai de grâce |
6. | Il rigetto della domanda di risoluzione |
7. | L’accoglimento della domanda di risoluzione |
8. | La condanna al risarcimento del danno |
9. | La condanna all’adempimento |
10. | I principi sottesi alla facoltà del giudice di decidere ultra petita |
11. | I più limitati poteri concessi al giudice nell’ambito del giudizio di adempimento |
12. | Il rapporto tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e il “diritto di pentimento” nel diritto francese |
13. | Le singole ipotesi di sostituzione della domanda giudiziale originariamente proposta |
14. | La scelta tra esecuzione forzata e risoluzione dopo il passaggio in giudicato della sentenza |
15. | La domanda di adempimento successiva alla sentenza di risoluzione del contratto |
16. | La domanda di adempimento successiva alla sentenza di rigetto della domanda di risoluzione del contratto |
17. | La domanda di risoluzione successiva alla sentenza di condanna all’adempimento del contratto |
18. | Le cumul formel d’actions e la proposizione subordinata delle due azioni |
Parte seconda | |
19. | Conclusioni |
20. | I principi coinvolti nel rapporto tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento in Francia ed in Italia |
CAPITOLO I
La risoluzione del contratto per inadempimento
1. Introduzione
La validità di un contratto attiene al momento genetico di perfezionamento dello stesso. Peraltro un accordo, seppur concluso validamente, può non produrre gli effetti cui è geneticamente predisposto, qualora circostanze sopravvenute incidano sul suo momento funzionale.
Ciò accade quando, per il verificarsi di eventi successivi alla conclusione dell’accordo, il programma contrattuale posto in essere dalle parti non sia più in grado di funzionare e, quindi, di assicurare il soddisfacimento degli interessi dei contraenti.
L’inidoneità del regolamento contrattuale può dipendere dal comportamento delle parti ovvero da fattori non imputabili e imprevedibili, sottratti al controllo delle medesime.
In entrambi i casi il legislatore ha previsto un apposito meccanismo che consente di riequilibrare il rapporto contrattuale attraverso la eliminazione dei suoi effetti.
Quanto alla prima ipotesi, l’art. 1453 c.c. offre alla parte non inadempiente di un contratto a prestazioni corrispettive la possibilità, di fronte all’inadempimento della controparte, di agire in giudizio onde ottenere, salvo sempre il diritto al risarcimento del danno, l’adempimento della prestazione contrattuale ovvero la risoluzione del contratto
1 Per una panoramica generale sulla risoluzione GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 949 ss.
con conseguente scioglimento dal relativo vincolo negoziale.
Ciò significa che il legislatore ha ritenuto di assegnare al creditore la scelta tra il considerare l’inadempimento di controparte definitivo (nell’ipotesi di scelta del rimedio risolutorio) ovvero semplicemente provvisorio (in caso di esercizio dell’azione di adempimento) e, quindi, di qualificarlo - potremmo dire - come semplice ritardo, sanabile, in quanto tale, con l’adempimento tardivo.
Al 2° comma dell’art. 1453 c.c. il legislatore si spinge oltre, determinando l’ampiezza e circoscrivendo i limiti della scelta accordata alla parte non inadempiente; recita infatti la norma: “La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”.
Ciò comporta il riconoscimento a favore del creditore di un limitato ius variandi; ed infatti, l’azione volta ad ottenere l’adempimento coattivo del contratto può essere mutata nell’azione diretta ad ottenerne lo scioglimento, mentre, al contrario, la scelta della risoluzione non può essere abbandonata a favore dell’esecuzione forzata dell’accordo.
Dal tenore letterale della norma emerge chiaramente che il creditore può cambiare idea solo nell’ipotesi in cu abbia inizialmente scelto di chiedere l’adempimento del contratto, non nell’ipotesi inversa.
La presentazione della domanda di risoluzione non solo esaurisce il margine di libertà del creditore, ma blocca anche l’iniziativa del debitore; il terzo comma della norma de qua recita, infatti, che “dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.
Anche se il tenore letterale delle disposizioni in oggetto è apparentemente chiaro e invalicabile, dottrina e giurisprudenza ne hanno a più riprese vagliato la solidità,
giungendo sempre più frequentemente a superarne i limiti.
Ci si è chiesti cioè se la domanda di risoluzione determini una paralisi totale del rapporto sostanziale e processuale in essere tra creditore e debitore oppure se vi sia margine per una modifica dello stesso su iniziativa dell’una ovvero dell’altra parte.
Scopo del presente studio è, pertanto, quello di analizzare i significati che la norma può assumere e che in concreto ha assunto anche alla luce dei risultati cui sono giunte dottrina e giurisprudenza.
La conduzione ponderata di tale analisi e l’approdo a dei risultati plausibili presuppone in via preliminare uno studio introduttivo sull’istituto della risoluzione che, partendo dalle sue origini storiche, si occuperà del suo ambito di applicazione, del suo fondamento e approderà all’esame dei suoi presupposti operativi.
Solo la definizione dei contorni della risoluzione per inadempimento consentirà di affrontare la questione dei rapporti tra l’istituto e la richiesta di adempimento, al fine di valutare l’eventuale spazio concesso all’autonomia privata per forzare il dato positivo.
2. Le origini storiche della risoluzione per inadempimento
2.1 La risoluzione nel diritto romano
E’ opinione quasi unanime che il rimedio della risoluzione non fosse conosciuto nel diritto romano2.
A giustificazione di tale assunto si sono sviluppati diversi orientamenti che hanno preso perlopiù in considerazione lo schema contrattuale più diffuso nella pratica quotidiana del commercio, vale a dire il contratto di compravendita.
2 Per una analisi più approfondita si veda AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, pag. 13 e ss. Per una rapida disamina sulla risoluzione nel contesto storico-dogmatico si veda invece XXXXXXXXX, La risoluzione del contratto nella prospettiva storico-dogmatica: dalla nullità ex tunc al rapporto di liquidazione contrattuale, in Diritto europeo, 2001, p. 825 ss.
Secondo una prima opinione3, a sostegno dell’inesistenza del rimedio deporrebbe l’indipendenza delle obbligazioni del venditore e del compratore nella compravendita romana4.
Mancando tra le prestazioni dedotte in contratto un rapporto di interdipendenza analogo al vincolo sinallagmatico oggi normativamente previsto nei contratti bilaterali, difetterebbe per il contraente che ha adempiuto la possibilità di pretendere la prestazione connessa alla propria.
Ciò comporterebbe, come conseguenza, la configurabilità del rimedio solo nei casi in cui tra le prestazioni vi sia una relazione sinallagmatica tale da rendere l’una la causa giustificatrice dell’altra.
Tale affermazione costituirebbe, a contrariis, argomento a sostegno della teoria (che meglio si spiegherà in prosieguo) che individua il fondamento della risoluzione in un difetto sopravvenuto della causa del contratto, tale da alterare l’equilibrio geneticamente esistente tra le prestazioni ivi dedotte.
Secondo altri, l’assunto da cui si è partiti muoverebbe innanzitutto dalla considerazione che il commercio si sviluppava prevalentemente attraverso il ricorso alla vendita reale in cui pagamento del prezzo e consegna della cosa (la cosiddetta mancipatio) erano requisiti essenziali ai fini del perfezionamento del contratto e non solo della sua esecuzione5.
Va da sé che la mancata esecuzione di una delle due prestazioni non incideva sul rapporto giuridico già in essere, ma impediva direttamente la nascita del contratto.
3 Ne riferisce CERAMI, voce Risoluzione del contratto in Enciclopedia del diritto, XL, Milano, 1989, p. 1288 ss.
4 Una più marcata interdipendenza funzionale tra prestazioni era invece presente nel contratto di locatio conductio e, segnatamente, nella locatio rei. Era infatti riconosciuta a determinate condizioni sia al locatore, attraverso l’esperimento dell’actio locati, sia al conduttore, attraverso l’esercizio dell’actio conducti, la facoltà di chiedere la risoluzione del rapporto contrattuale. Così XXXXX, Problèmes relatifs à la location des entrepots en droit romain, Parigi, 1965, p. 261, nota 1202.
5 SCADUTO, L’exceptio non adimpleti contractus nel diritto civile italiano in Annali Xxxxxxx, x. 0, Xxxxxxx, 1921.
Il principio secondo il quale la proprietà del bene non veniva acquistata dall’acquirente fintantoché non fosse stato pagato il prezzo, non fosse data garanzia per il suo pagamento ovvero il venditore non avesse fatto credito al compratore, era reputato poi più che sufficiente per tutelare il venditore dal rischio di inadempimento dell’acquirente poiché, essendone ancora proprietario, poteva riottenerne il possesso attraverso l’azione di rivendica.
L’esigenza di tutelare il creditore di un contratto si sviluppa allora solo con la successiva evoluzione economica e, soprattutto, con la nascita della vendita obbligatoria caratterizzata dall’obbligo di pagare il prezzo e di trasferire la proprietà del bene.
Ciononostante, l’evoluzione del rimedio risolutorio non è immediata; ancora in età dioclezianea, infatti, l’actio venditi e l’actio empti potevano essere esperite, in caso di inadempimento della controparte, solo per ottenere la controprestazione e non per risolvere il contratto.
Un primo avvicinamento si registra con la creazione, dapprima come clausola contrattuale voluta dalla concorde volontà dei contraenti e poi come mezzo di tutela accordato dal Pretore a titolo di equità, della cosiddetta exceptio inadimpleti contractus che consentiva perlopiù al venditore di non consegnare la cosa fino al momento del pagamento del prezzo6.
A ben vedere tuttavia, l’istituto non va sottovalutato, merita anzi qualche breve cenno in considerazione del fatto che esso mostra qualche analogia con istituti che verranno
6 Di essa vi è traccia nelle Istituzioni di Gaio e nei testi del Digesto.
7 Si rimanda a tal riguardo agli studi condotti dai giureconsulti romani, tra i quali, XXXXXXX, Istituzioni di diritto romano, Roma, 1928, II, p. 286 nonché ad AULETTA, op. cit. p. 24 ss.
disciplinati, parecchi secoli più tardi, nelle prime codificazioni degli stati europei. Nonostante la varietà di opinioni espresse al riguardo, si ritiene perlopiù che, ai fini della risoluzione del contratto di vendita, non fosse sufficiente l’inadempimento, ma fosse necessaria una manifestazione di volontà da parte del contraente adempiente.
Ciò si giustifica affermando che, se così non fosse stato, il compratore, in caso di perimento del bene acquistato, avrebbe potuto rendersi inadempiente, risolvere la vendita e addossare al venditore il rischio della cosa venduta.
Particolarmente interessante, ai fini del presente studio, il fatto che, secondo i maggiori interpreti delle fonti romane, una volta manifestata la volontà di risolvere l’accordo, il contraente non inadempiente non potesse più cambiare idea e pretendere dalla controparte il pagamento del prezzo. Allo stesso modo, qualora la parte non inadempiente avesse chiesto e accettato il corrispettivo, non avrebbe più potuto chiedere la risoluzione del contratto.
Questo divieto assoluto di ius variandi fa sicuramente pensare al disposto dell’art. 1453, 2° comma c.c., laddove impedisce al contraente non inadempiente, che abbia scelto di risolvere il contratto, di ritornare sui propri passi e pretendere l’adempimento di controparte.
Più drastico rispetto alla norma del nostro codice civile era tuttavia il modus operandi della legge commissoria: il divieto per il contraente di modificare in itinere la propria volontà sussisteva infatti anche nel caso in cui avesse inizialmente chiesto il pagamento del prezzo.
Le differenze evidenziate si giustificano considerando la diversa natura dei due istituti e le differenti modalità con cui essi operano.
In particolare, nella compravendita romana cui fosse stata apposta una clausola commissoria, il divieto di variare la domanda di risoluzione in richiesta di adempimento
poteva essere fatto risalire agli stessi caratteri della lex commissoria, vale a dire al fatto che si trattava di clausola accessoria che, una volta inserita nel contratto, ne diventava parte integrante ed essenziale.
L’attivazione della clausola e il suo operare con efficacia retroattiva determinavano necessariamente quale conseguenza l’estinzione ex tunc del contratto che la conteneva. Il divieto opposto invece veniva giustificato con la considerazione che, agendo in base al rapporto negoziale in essere, la condizione doveva considerarsi definitivamente mancata con la conseguenza del venir meno del presupposto sul quale fondare la richiesta di risoluzione.
Diversi, come meglio si vedrà nel secondo capitolo, gli argomenti ai quali perlopiù ci si riporta nel nostro ordinamento giuridico per spiegare il divieto di mutare la domanda di risoluzione in domanda di adempimento, di cui all’art. 1453, 2° comma c.c..
Trattasi, infatti, di argomentazioni che non ineriscono alla struttura e alle sorti del contratto, il che si spiega facilmente considerando che, mentre la clausola commissoria costituiva un elemento facente parte integrante dell’accordo raggiunto dalle parti, l’attuale risoluzione si pone completamente al di fuori della negoziazione condotta dai contraenti.
Trattandosi di rimedio previsto per legge, nessun ruolo spetta al riguardo alla volontà negoziale così come concordata e oggettivata nel testo dell’accordo, essendo sufficiente l’intenzione debitamente manifestata da una delle parti successivamente alla mancata esecuzione ex uno latere del contratto.
L’importanza della clausola compromissoria è stata forse, ci sia consentito, a parere di chi scrive, sottovalutata dagli studiosi che si sono occupati della risoluzione per inadempimento.
Balza agli occhi, infatti, che, pur nella differenza di disciplina e dato comunque per
presupposto che pur sempre di istituti giuridici diversi si tratta, è anche vero che si possono individuare delle analogie.
Non sembra revocabile indubbio, dapprima, che alla base vi sia un’esigenza comune, ovverosia la necessità di tutelare in certo qual modo il contraente che, pur avendo rispettato i termini dell’accordo per avervi dato attuazione, è risultato danneggiato dall’inadempimento di controparte.
Entrambi gli istituti finiscono poi, a parere di chi scrive, con l’interagire con uno degli elementi essenziali dell’accordo: la causa.
Pare innegabile infatti che, volendo considerare la causa come il presupposto che unisce le due prestazioni e rende l’una la ragione giustificatrice dell’altra, la risoluzione – a prescindere dalle modalità concrete del suo operare – trovi il proprio fondamento in un difetto sopravvenuto del rapporto causale.
In entrambi i casi, in altre parole, la risoluzione sarebbe la conseguenza logica di un “difetto dello scambio” che non permette alla causa del contratto di funzionare.
L’importanza della lex commissoria, come preannunciato, emerge anche dallo studio del code civil francese – precursore di tutte le principali codificazioni europee, tra le quali, in primis, il nostro codice del 1865 - nel quale pure, sebbene con le profonde differenze che si andranno ad analizzare, la risoluzione viene costruita secondo lo schema della condizione risolutiva di inadempimento.
Ora, se è vero che la risoluzione così come esistente nell’ordinamento giuridico francese, costituisce il risultato degli approfondimenti condotti nel diritto intermedio ed, in particolare, dagli studiosi del diritto canonico, è anche vero che può ipotizzarsi un trait d’union, seppur flebile, con la lex commissoria del contratto di compravendita del diritto romano.
2.2 Dal diritto intermedio al Code civil francese
Se è vero che solo con il codice civile del 1942 la risoluzione viene riconosciuta come rimedio generale applicabile ai contratti a prestazioni corrispettive, distinta da quegli altri istituti quali la rescissione, la nullità e l’annullamento, con i quali era stata trattata promiscuamente sia dai legislatori che dagli interpreti, è anche vero che, nel dipanare le incertezze esistenti in merito al rimedio in oggetto, molto si deve anche alla codificazione napoleonica, la quale fu preceduta da un grande sforzo dottrinale volto a dare una sistemazione teorica ad istituti giuridici come la risoluzione.
E se anche il legislatore xxxxxxxxxxx non giunse a riconoscerle una propria autonomia e una propria disciplina, il grande merito del code civil del 1804 fu di considerare il “contratto come paradigma”8, superando in tal modo la tipicità contrattuale e ponendo il fondamento normativo per una trattazione unitaria della formazione, dell’efficacia, dell’invalidità e dell’inefficacia dei contratti9.
Ed infatti l’esperienza giuridica medievale e moderna aveva sempre preso in considerazione i singoli contratti nella loro configurazione tipica, senza giungere alla teorizzazione di una figura giuridica in grado di abbracciare le singole fattispecie contrattuali.
Ciò rappresenta il motivo per cui le singole situazioni risolutorie erano state sempre analizzate in relazione a questo o a quel contratto, senza estenderne la portata alla categoria contrattuale considerata nella sua unitarietà.
E’ comunque nel diritto intermedio ed in particolare nel diritto canonico che il rimedio
de quo conosce un suo primo importante sviluppo anche se a livello embrionale.
8 MESSINEO, voce Contratto (Diritto privato – teoria generale) in Enciclopedia del diritto, IX, Milano, 1961, p. 785 ss.
9 XXXXXXXX, voce Risoluzione del contratto (diritto intermedio) in Enciclopedia del diritto, XL, Milano, 1989, p. 1293 ss..
Nel codice napoleonico, che, ripetesi, grande influenza ha avuto sulle codificazioni europee e sui codici italiani preunitari, l’inadempimento non ha assunto rilevanza giuridica autonoma, ma è stato configurato come contenuto presunto di una condizione risolutiva tacita.
Recita infatti l’art. 1184 code civil francese: “La condition résolutoire est toujours sous- entendue dans les contrats synallagmatiques, pour le cas où l’une des deux parties ne satisfera point à son engagement”.
Il code civil francese pertanto, attraverso la previsione di una applicazione generalizzata alla categoria dei contratti sinallagmatici, rappresenta il primo passo verso la configurazione che l’istituto della risoluzione per inadempimento ha assunto nel nostro codice civile attuale.
10 Tale ricostruzione consentiva di dare attuazione al noto brocardo “fides non est servanda ei qui frangit fidem” il quale a sua volta permetteva di punire il contraente infedele, privandolo del diritto di ricevere la prestazione della parte rimasta invece fedele. Per uno studio più ampio si veda XXXXX, op. cit., p. 225 nota 26.
11 Per una trattazione più approfondita dell’art. 1184 code civil francese e della condizione tacita di inadempimento si rinvia a SMIROLDO, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982, p. 264 ss.
12 L’influenza di tale impostazione emerge in numerosi codici quali il codice del Regno delle Due Sicilie, il codice per il Regno di Sardegna del 1837 e il codice per gli Stati estensi del 1851.
Il fatto di essere disciplinata all’art. 1184 nella sezione dedicata alle obbligazioni condizionali comporta come conseguenza l’accostamento, da parte della maggioranza della dottrina francese, della condizione tacita di inadempimento alla condizione risolutiva espressa prevista nell’art. 1183 code civil13.
L’accostamento non pare impedito dal fatto che, ai sensi del 2° comma dell’art. 1184 “Dans ces cas, le contrat n’est point résolu de plein droit”, esistendo a favore della parte non inadempiente il potere di scelta tra adempimento e risoluzione14.
Il 3° comma della stessa norma chiarisce infine che la risoluzione deve essere domandata al giudice. Trattasi di formulazione non certo felice se si pensa che il riferimento alla condizione non lascia supporre la necessità del ricorso al giudice. La disposizione è stata perlopiù spiegata con la preoccupazione di evitare la rigorosa applicazione dei principi connessi alla condizione risolutiva tra i quali, in primis, il carattere automatico della risoluzione.
In particolare l’esigenza di ricorrere al giudice per ottenere la risoluzione del contratto è stata concepita come l’unico strumento in grado di tutelare la posizione del debitore di fronte a pretese temerarie del creditore.
Come detto, la codificazione napoleonica ha saputo esercitare una grande influenza sui codici europei tra i quali figurano, per quanto concerne la nostra legislazione in particolare, il codice albertino (il quale tuttavia, a differenza del compagno francese, escludeva che la condizione tacita di inadempimento potesse operare nella compravendita di immobili15), e poi, come meglio vedremo nel prossimo paragrafo, il
13 Così XXXXXXXX, Droit civil français suivant l'ordre du Code Napoléon, ouvrage dans lequel on a tâché de réunir la théorie à la pratique, VI, Parigi, 1824, n. 554 ; MARCADE’, Explication théorique et pratique du code napoléon contenant l’analyse critique des auteurs e de la jurisprudence, IV, sub art. 1184, Parigi, 1866, p. 465.
14 E in questo modus operandi non può non ravvisarsi una certa analogia con le modalità operative della clausola commissoria.
15 Recitava, infatti, l’art. 1275 del codice albertino: “Il venditore di uno stabile non può chiedere la risoluzione della vendita per il motivo che il prezzo non viene pagato. Ogni convenzione in contrario si avrà per non apposta”.
codice del 1865, che tornò alla formulazione originaria dell’art. 1184 c.c. francese, lasciando cadere la disposizione eccezionale in materia di vendita immobiliare.
2.3 Il ruolo della risoluzione nel codice del 1865
L’influenza esercitata dal code civil francese sul nostro codice del 1865 si manifesta chiaramente a partire dalla stessa formulazione letterale della norma.
Recita infatti l’art. 1165 c.c.: “La condizione risolutiva è sempre sottintesa nei contratti bilaterali, pel caso in cui una delle parti non soddisfaccia alla sua obbligazione.
In questo caso il contratto non è sciolto di diritto. La parte verso cui non fu eseguita l’obbligazione, ha la scelta o di costringere l’altra all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi.
La risoluzione del contratto deve domandarsi giudizialmente, e può essere concessa al convenuto una dilazione secondo le circostanze.”
Come già avevano fatto gli studiosi francesi dell’800, i quali si erano limitati ad accostare la condizione tacita di cui all’art. 1184 alla condizione risolutiva espressa del precedente art. 1183, anche la dottrina italiana si limitò perlopiù ad affermare il fondamento condizionale dell’istituto, pur sottolineandone il diverso modus operandi.
Tuttavia, se anche al suddetto intervento non veniva data la giusta importanza sotto il
16 In tal senso CAPORALI, Teoria della condizione risolutiva tacita nel diritto civile, Firenze, 1885, p. 5 ss.
profilo della giustificazione causale dell’istituto, nondimeno la presenza del giudice in materia era molto forte. Spettava infatti all’autorità giudiziaria, oltre al potere di dichiarare la risoluzione, anche la facoltà di concedere al debitore un termine per l’adempimento.
Si trattava di una facoltà particolarmente ampia se si considera che la concessione era rimessa alla discrezionalità del giudice, il quale, secondo quanto previsto dall’art. 1165, poteva accordarla semplicemente “secondo le circostanze”.
Si giungeva addirittura a ritenere che il termine potesse essere concesso in grado d’appello, pur sussistendo tutti i presupposti per la risoluzione.
Ne derivava che il debitore, inizialmente inadempiente, poteva adempiere nel termine successivamente concessogli dal giudice, e paralizzare, per tale via, l’operare della risoluzione17, pur ricorrendone tutti i presupposti.
Ciò, ovviamente, rappresentava un importante (forse eccessivo) strumento di tutela del debitore, il quale poteva, a propria discrezione ed in qualsiasi momento – vale a dire semplicemente decidendo di adempiere – bloccare lo scioglimento del contratto e, con esso, paralizzare la domanda giudiziale già presentata dal creditore.
Fu forse proprio la considerazione dell’eccessiva protezione accordata al debitore, uno dei motivi che portò il legislatore a prevedere una disciplina parzialmente diversa con l’introduzione dell’art. 42 del Codice di commercio del 1882 e con la soppressione, ivi prevista, del potere giudiziale di dilazione.
Ne derivò un’importante differenza di disciplina tra obbligazioni civili e obbligazioni di carattere commerciale e fu proprio alla normativa introdotta dal codice di commercio che si ispirò, perlomeno da questo punto di vista, il legislatore del 1942 nella regolamentazione della risoluzione per inadempimento.
17 In tal senso Tribunale di Bologna, 14 maggio 1879 in Prima raccolta completa della giurisprudenza sul codice civile, vol. VI, sub art. 1165 n. 732, p. 91.
Particolarmente importante era l’inciso contenuto al secondo comma dell’art. 1165, laddove si prevedeva la facoltà del contraente adempiente di scegliere tra domanda di adempimento e domanda di scioglimento del contratto.
Nessuna preclusione sembrava prima facie sussistere al riguardo in capo alla parte che si attivava per la tutela giudiziale della propria posizione contrattuale; ed infatti, nessun limite sembrava derivare dalla norma alla facoltà del contraente di mutare la domanda giudiziale già esperita e di chiedere la risoluzione in luogo dell’adempimento o, viceversa, di chiedere l’adempimento dopo aver agito per ottenere la risoluzione.
Si trattava di un potere di scelta particolarmente ampio il quale, a ben vedere, trovava un limite proprio nel potere del debitore di adempiere nel “termine di grazia” concessogli dal giudice ex art. 1165 ultimo comma, nel corso del processo.
Xxxxxxxx, a parere di chi scrive, la dilazione concessa dal giudice poteva trovare una propria giustificazione causale proprio alla luce dell’ampio potere di scelta accordato al creditore.
Va da sé che, una volta eliminata la possibilità di concedere un termine di dilazione per l’adempimento (il che avvenne dapprima ad opera del codice del commercio del 1882 e, poi, ad opera del legislatore del 1942), si doveva in qualche modo circoscrivere anche l’eccessiva facoltà di scelta lasciata al creditore. Cosa che, come ben si sa, è avvenuta con l’art. 1453 II comma, codice civile.
18 Per lo studio del rimedio nella materia commerciale si veda VIVANTE, Trattato di diritto commerciale,
Vol. IV, II, Roma, 1919, p. 183 ss.
3. Ambito di applicazione della risoluzione per inadempimento
Il rimedio della risoluzione, come preannunciato, è ammesso alla presenza di una circostanza sopravvenuta che impedisce al contratto di funzionare; tale circostanza, nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1453 c.c., è costituita dall’inadempimento della controparte.
Come recita la stessa disposizione, la risoluzione può essere esercitata solo nei contratti “con prestazioni corrispettive”, caratterizzati cioè dalla presenza di due attribuzioni patrimoniali reciproche.
Nel circoscrivere l’ambito di applicazione del rimedio, l’art. 1453 c.c. ripete pedissequamente quanto indicato nella Relazione al codice (n. 660), secondo la quale la risoluzione “può verificarsi esclusivamente rispetto ai contratti a prestazioni corrispettive”; la stessa Relazione precisa poi che con tale espressione deve intendersi “ogni contratto che abbia per oggetto attribuzioni patrimoniali reciproche in situazione di sinallagma (…) in cui l’attribuzione procurata o promessa ad una parte è scopo dell’attribuzione procurata o promessa all’altra”.
Il nesso di corrispettività “qualificato”, necessariamente richiesto tra le prestazioni come presupposto per la risolubilità, porta a ritenere irrilevante l’inadempimento di alcune prestazioni che potremmo definire di carattere accessorio e secondario; tali, ad
19 Così Cassazione, 30 luglio 1984, n. 4534 in tema di contratto preliminare di vendita immobiliare in cui il promittente venditore si era impegnato in via alternativa a concludere il contratto definitivo o a rilasciare procura irrevocabile a vendere il bene al promissario acquirente; ugualmente Cassazione, 9 dicembre 1988, n. 6680.
esempio, le prestazioni che il creditore deve eseguire al fine di rendere più agevole l’adempimento del debitore o, ancora, le obbligazioni restitutorie (si pensi all’obbligo di restituzione del locatario, dell’usufruttuario e del mutuatario), le quali addirittura permangono in vita anche in presenza di un contratto annullato o dichiarato nullo20.
Sebbene la disposizione de qua chiarisca in maniera sufficientemente precisa l’ambito di applicazione del rimedio, vi sono delle categorie contrattuali per le quali la
sua operatività appare tutt’altro che pacifica.
Scopo dei prossimi paragrafi è pertanto quello di esaminare le principali fattispecie21 contrattuali in relazione alle quali l’applicabilità della risoluzione è apparsa più
dubbiosa, per cercare di giungere ad una soluzione soddisfacente.
4 L’applicabilità della risoluzione ai contratti aleatori
La sussistenza, nell’ambito di un contratto, di prestazioni corrispettive è stata da taluno ritenuta elemento necessario ma non sufficiente per l’applicabilità del rimedio
risolutorio.
Al riguardo occorre premettere che nella categoria suddetta vanno tenute distinte due diverse tipologie di contratti: quelli commutativi e quelli aleatori; secondo qualche
20 SACCO, Il Contratto, in Trattato di diritto civile diretto da Xxxxx, II, III, Torino, 2004, p. 621 ss.
21 L’analisi che ci si accinge a condurre non è, a dire il vero, esaustiva, posto che il problema si pone anche con riferimento ad altre fattispecie contrattuali. Tra queste, un breve cenno meritano i contratti cosiddetti “onerosi”, i quali, pur essendo caratterizzati da “sacrifici economici a carico di entrambi i contraenti”, non possono comunque definirsi “sinallagmatici”, difettando in loro il nesso di interdipendenza tra prestazioni, che giustifica il ricorso al rimedio risolutorio. Esempi importanti ne sono il mandato e il deposito oneroso, i quali, tradizionalmente, sono sempre stati considerati come contratti unilaterali o, tutt’al più, bilaterali imperfetti.
La dottrina ha ritenuto, per lo più, che la prestazione del mandatario o del depositario non trovasse la propria ragion d’essere nel compenso della controparte, quanto, piuttosto, nel rapporto di fiducia esistente tra i contraenti e che li aveva portati alla conclusione dell’accordo. Attualmente, la tendenza ad ampliare l’ambito di applicazione del rimedio risolutorio, ha indotto gli autori e la giurisprudenza a far rientrare anche tali fattispecie contrattuali nel novero dei “contratti a prestazioni corrispettive”. Così LUMINOSO, Il mandato e la commissione, in Trattato Xxxxxxxx, 12, Obbligazioni e contratti, IV,Torino, 1985, p. 45. In giurisprudenza cfr. Cassazione, 16 ottobre 1984, n. 5209. Per una rapida disamina si veda anche XXXXXX, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie in Il Trattato del contratto a cura di Xxxxx, V, 2, Milano, 2006, p. 20.
autore solo agli accordi di tipo commutativo sarebbe applicabile la risoluzione per inadempimento, laddove, al contrario, quelli aleatori sarebbero soggetti esclusivamente a manutenzione22.
La teoria sembrerebbe trovare fondamento nell’art. 1878 c.c. il quale, a proposito della rendita vitalizia, tipico contratto aleatorio, espressamente sancisce l’impossibilità di ricorrere alla risoluzione per inadempimento in caso di mancato pagamento delle rate di rendita scadute, attribuendo al creditore solo la facoltà di far sequestrare e vendere i beni del suo debitore allo scopo di utilizzarne il ricavato per il pagamento della rendita. In verità, la norma sembra dover essere interpretata tenendo conto della ratio che vi sta alla base, ovverosia l’esigenza di tutelare al meglio il creditore della rendita: la possibilità di far sequestrare e vendere i beni del debitore gli garantisce infatti di disporre il più velocemente possibile di una somma di denaro da impiegare per il
soddisfacimento dei propri bisogni.
Non va dimenticato inoltre, a scapito della tesi menzionata, che anche in materia di rendita vitalizia è espressamente prevista un’ipotesi di risoluzione per inadempimento; l’art. 1877 c.c. sancisce infatti la risolubilità della rendita costituita a titolo oneroso,
qualora il debitore non dia al creditore o diminuisca le garanzie pattuite.
A ciò si deve aggiungere il fatto non secondario che il legislatore, se avesse effettivamente voluto sottrarre i contratti aleatori al rimedio della risoluzione per
inadempimento, avrebbe probabilmente previsto una norma ad hoc,
all’art. 1469 c.c. con riferimento all’eccessiva onerosità sopravvenuta.
come ha fatto
Anche esigenze di equità sostanziale depongono a favore dell’ammissibilità della risoluzione per inadempimento nei contratti aleatori. Così, ad esempio, se anche il codice civile agli artt. 1901 e 1924 si occupa esclusivamente di disciplinare il potere di risoluzione spettante all’assicuratore, senza fare alcun cenno ad un analogo potere 22 XXXXX, La risoluzione del contratto per inadempimento, Napoli, 1950, p. 138 ss.
dell’assicurato, non sembrano esservi dubbi sul fatto che l’assicurazione possa risolversi anche per inadempimento dell’assicuratore, dovendo in caso contrario l’assicurato continuare a pagare i premi non ancora scaduti23.
5. L’applicabilità della risoluzione ai contratti a titolo gratuito
Dal tenore letterale dell’art. 1453 c.c. sembra evincersi chiaramente che l’applicazione della risoluzione per inadempimento è limitata ai contratti a prestazioni
corrispettive.
Solo la funzione di scambio presente in tali contratti e resa impossibile
dall’inadempimento ex uno latere giustificherebbe il ricorso al rimedio de quo.
Nei contratti a titolo gratuito, per contro, in quanto caratterizzati dalla presenza di una prestazione a carico di una sola parte, alla quale non corrisponde un sacrificio della
controparte, il rimedio non troverebbe applicazione.
A tale opinione, sostenuta soprattutto dai primi commentatori del codice24, è venuta progressivamente sovrapponendosi la tesi contraria favorevole all’applicazione del
xxxxxxx risolutorio anche ai contratti con una sola prestazione.
Tale opinione sembra giustificarsi alla luce del fatto che, pur in mancanza di una relazione sinallagmatica tra prestazioni, a carico del beneficiario potrebbero essere posti degli obblighi di carattere accessorio, considerati, nella fattispecie concreta, determinanti nell’economia del contratto e che egli potrebbe anche non adempiere25.
Ciò presupporrebbe trattarsi di obblighi che, sebbene meramente accessori da un punto
23 L’esempio è riportato da XXXXXXXXX, La risoluzione per inadempimento, Il Codice Civile, Commentario, sub art. 1453, fondato da Xxxxxxxxxxx, diretto da Xxxxxxxx, Milano, 2007, p. 4 ss. Si veda lo stesso autore per una disamina più dettagliata dei casi di applicabilità della risoluzione per inadempimento.
24 Tra questi ENRIETTI, La risoluzione del contratto in generale, in Commentario D’Xxxxxx-Xxxxx, sub art. 1453 x.x., Xxxxxxx, 0000, p. 780; XXXXXXX, Diritto civile e commerciale, II, 1, IV, Padova, 2004, p. 559 ss.
25 L’opinione è di XXXXXX, La responsabilità, Diritto Civile, V, Milano, 1994, p. 259 ss.
di vista astratto, abbiano condizionato, nel caso concreto, la stessa conclusione del
contratto, entrando, per ciò stesso, a far parte del vincolo sinallagmatico.
Va da sé che, per tale via, la loro violazione opererebbe alla stregua dell’inadempimento della prestazione principale, andando così ad alterare l’equilibrio sinallagmatico
concretamente sviluppatosi all’interno del contratto.
Si pensi, al riguardo, ad una donazione modale in cui il disponente si sia deciso al
compimento dell’atto solo in vista dell’adempimento dell’onere.
Nei contratti a titolo gratuito, ovviamente, inadempiente potrebbe essere lo stesso
contraente tenuto alla prestazione.
Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ad un contratto di deposito (presunto
gratuito) e all’obbligo di custodia gravante sul depositario.
Al riguardo, si potrebbe ipotizzare che il depositante si sia rivolto ad un determinato depositario solo in considerazione delle sue ottime capacità di custodia di un bene
particolarmente prezioso.
Se il depositario violasse il suddetto obbligo, lasciando incustodito il bene o semplicemente non custodendolo secondo quanto contrattualmente stabilito, si potrebbe anche ritenere fondata la pretesa del depositante di chiedere lo scioglimento dell’accordo per inadempimento, allo scopo di ottenere quanto prima la restituzione del
xxxx e potersi rivolgere aliunde per la custodia dello stesso.
E’ vero che in simili casi non si può pensare alla risoluzione come rimedio che pone nel nulla il vincolo sinallagmatico esistente tra le prestazioni contrattuali, ma si tratta di chiedersi se ciò sia sufficiente per negare spazio al rimedio al di fuori delle ipotesi
normativamente previste.
In realtà, con riferimento precipuo alla donazione modale, che una “parvenza” di corrispettività fosse ivi rintracciabile, era già presente al legislatore del 1942, il quale,
all’art. 793 c.c., ha espressamente disciplinato la risoluzione della donazione per
inadempimento dell’onere.
Sulla rapportabilità del rimedio risolutorio specifico al modello generale sono stati scritti fiumi di inchiostro; al riguardo, a parere di chi scrive, pare convincente la tesi di coloro i quali individuano tra i due istituti un rapporto di genus (art. 1453 c.c.) ad speciem (art. 793 c.c.) e che giustificano le differenze di presupposti e di operatività con
ricorso alle peculiarità proprie del contratto di donazione.
Se si accetta quanto sopra, si deve giocoforza ammettere l’applicabilità anche alla risoluzione dell’atto di liberalità per inadempimento del modus, dell’art. 1453 2° comma
c.c. in materia di ius variandi26, con tutte le problematiche che ciò comporta e che si
analizzeranno nel corso del secondo capitolo.
Se l’applicazione del rimedio risolutorio al contratto di donazione è giustificata dalla presenza di una norma ad hoc, così come sopra interpretata, altrettanto non può dirsi per
altri contratti a titolo gratuito.
Il riferimento espresso contenuto nell’art. 1453 c.c. ai soli contratti a prestazioni corrispettive27 impedisce un’applicazione diretta della norma ai contratti gratuiti e impone di vagliare l’applicabilità della risoluzione per inadempimento a detti contratti alla luce sia della funzione ascrivibile al rimedio risolutorio sia dei principi generali
esistenti in materia contrattuale.
Quanto al primo aspetto, la questione, a parere di chi scrive, è profondamente connessa alla discussione relativa al fondamento della risoluzione, di cui ci si occuperà nel
paragrafo 8 del presente capitolo.
Vale, comunque, la pena di premettere che ciò che induce un contraente alla conclusione di un contratto a prestazioni corrispettive è il perseguimento di un risultato
26 Così PALAZZO, Le donazioni, artt. 769-809 in Commentario Xxxxxxxxxxx, Milano, 1991, p. 414 ss.
27 Pur nell’accezione più ampia che della definizione si tende ad offrire oggigiorno; si veda al riguardo quanto riportato in nota 21.
economico inteso in senso ampio, identificabile con l’adempimento della prestazione da
parte dell’altro contraente e reso possibile dal carattere reciproco delle prestazioni.
Si tratta di vedere se una simile funzione possa essere riconosciuta alla risoluzione anche nei contratti a titolo gratuito, caratterizzati dalla deduzione in contratto di una sola
prestazione a carico di un solo contraente.
Ora, non sembrano esservi dubbi che il perseguimento di un “certo” interesse
economico possa essere ravvisato anche in alcuni contratti gratuiti.
Così, ritornando all’esempio sopra riportato del deposito gratuito, non è revocabile in dubbio che l’interesse del depositante alla custodia e, quindi, alla restituzione del bene, abbia, in senso lato, un proprio valore economico anche se, ovviamente, non trova la propria giustificazione causale in un analogo interesse in senso contrario della
controparte.
In via astratta, quindi, non sembrerebbero esservi impedimenti all’applicazione ai contratti gratuiti di un rimedio che consenta al contraente di liberarsi da un contratto che
non è più in grado di assolvere alla propria funzione.
Quanto ai principi generali esistenti in materia contrattuale, merita innanzitutto di essere
ricordato il principio per cui nessuno può essere indeterminato parte di un contratto rimasto ineseguito.
costretto a rimanere a tempo
In altri termini, se il negozio rappresenta lo strumento giuridico apprestato dal legislatore per consentire ai soggetti (siano essi persone fisiche, persone giuridiche o enti privi di personalità) di conseguire i loro obiettivi, nel momento in cui esso cessa di svolgere tale funzione, non ha più, in quanto tale, alcuna ragione di persistere e ai contraenti insoddisfatti deve essere garantita la possibilità di liberarsi dal vincolo
contrattuale.
Con precipuo riferimento ai contratti gratuiti da cui nascono obblighi restitutori, vi è poi
il diritto del contraente che ha consegnato all’altro un proprio bene, di vedersi restituito
quello stesso bene.
In simili casi - data per presupposta la mancanza astratta di ostacoli giuridici all’applicazione di un rimedio risolutorio analogo a quello predisposto dall’art. 1453
c.c. per i contratti a prestazioni corrispettive – si tratta di verificare se l’effetto dello scioglimento dal vincolo contrattuale possa eventualmente essere ottenuto attraverso
rimedi specifici previsti con riferimento alle singole figure negoziali.
Nella disciplina dei contratti in oggetto (caratterizzati cioè dalla presenza dell’obbligo di restituzione) è dato talvolta rinvenire una disposizione che consente al soggetto che si è
temporaneamente privato del bene, di chiederne la restituzione.
Così, a titolo meramente esemplificativo, ritornando all’esempio del deposito gratuito, l’art. 1771 c.c. prevede a carico del depositario l’obbligo di restituire la cosa in custodia,
a semplice richiesta del depositante.
Analogamente, nel comodato, l’art. 1804 c.c. prevede – oltre al risarcimento del danno – l’obbligo di restituzione immediata del bene in caso di inadempimento degli obblighi gravanti sul comodatario e gli artt. 1809 e 1810 c.c. disciplinano l’obbligo di restituzione (a prescindere da qualsiasi inadempimento) nel comodato a tempo
determinato ovvero indeterminato.
Se si pensa che nella risoluzione per inadempimento, uno degli effetti principali derivanti dalla pronuncia di scioglimento del contratto è costituito proprio dall’obbligo di restituzione da parte del contraente inadempiente di quanto eventualmente ricevuto dal contraente fedele, ne deriva, giocoforza, che talvolta i rimedi specifici previsti nei singoli contratti – come, negli esempi sopra fatti, in particolare, i rimedi di cui agli artt.
1771 e 1804
risoluzione.
c.c. – assolvono, perlomeno parzialmente, alla funzione propria della
Conseguenza ne è che, nonostante la compatibilità astratta dell’istituto della risoluzione per inadempimento ai contratti a titolo gratuito, la presenza di espressi rimedi specifici rende spesso, in concreto, superfluo il ricorso all’istituto de quo.28
6. L’applicabilità della risoluzione ai contratti con efficacia reale
Qualche dubbio suscita l’applicabilità della risoluzione per inadempimento ai contratti con efficacia reale, ovverosia costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali. Le perplessità sono dovute allo stesso tenore letterale dell’art. 1453 c.c. laddove fa riferimento ai contratti da cui derivano in capo ai contraenti “obbligazioni” che devono
essere adempiute.
Ed invero, di obbligazioni in senso stretto non può parlarsi in merito ai contratti con effetti reali, posto che la costituzione, la modifica o l’estinzione del diritto avviene sulla base del semplice consenso legittimamente prestato, senza che al riguardo sia necessario
l’adempimento di alcuna obbligazione.
E’ anche vero però che, accanto agli effetti principali propri del contratto con efficacia reale, dall’accordo promana tutta una serie di obblighi a carico dei contraenti; così, ad esempio, volendo citare il più importante contratto traslativo, la vendita, se anche non vi sono dubbi che il trasferimento della proprietà del bene e il pagamento del prezzo non costituiscono di regola oggetto di obbligazioni in quanto non attengono all’esecuzione del contratto, ma al suo stesso perfezionamento, è altrettanto indubbio che dall’accordo
possono derivare obbligazioni sia a carico del venditore che dell’acquirente.
28 Secondo autorevole dottrina, nei contratti gratuiti senza determinazione di durata, la tutela del disponente sarebbe assicurata dall’esistenza di un generale diritto di recesso ad nutum che gli consentirebbe in ogni momento, a prescindere dall’inadempimento del soggetto obbligato, di uscire dal vincolo contrattuale, chiedendo la restituzione del bene. Si tratterebbe, pertanto, di un rimedio idoneo a supplire alla mancanza della previsione espressa dell’istituto della risoluzione. Così SICCHIERO, op. cit., p. 15 ss.; similmente, XXXXXX, op. cit., p. 38.
Tra queste, ad esempio, l’obbligo della parte alienante di garantire il compratore contro
il rischio di evizione o per la presenza di vizi o la mancanza di qualità.
L’applicazione del rimedio risolutorio diviene più ampia quando l’efficacia reale del contratto è differita ad un momento successivo alla sua conclusione, poiché in tal caso anche il trasferimento della proprietà del bene o il pagamento del prezzo possono
diventare oggetto di obbligazioni e possono, in quanto tali, rimanere inadempiute.
Il dato letterale dell’art. 1453, 1° comma c.c., pertanto, laddove si riferisce al concetto di “obbligazioni”, porta a circoscrivere l’operatività della risoluzione nell’ambito dei contratti con efficacia reale alle sole ipotesi in cui sia comunque configurabile un
obbligo a carico dei contraenti, il prestazioni di carattere secondario.
che di regola avviene con esclusivo riferimento a
Ciò, tuttavia, potrebbe forse andare oltre l’intenzione del legislatore così come
oggettivizzata nella disposizione di legge.
Ed infatti, il riferimento ai “contratti a prestazioni corrispettive” di cui al 1° comma della norma potrebbe forse valere a circoscrivere l’ambito di applicazione del rimedio, nel senso che le “obbligazioni” che possono essere non adempiute devono comunque identificarsi con la “prestazione sinallagmatica”; e, per tale, non può che intendersi la prestazione principale del contratto, quella che trova la propria causa nella prestazione
della controparte.
Conseguenza sarebbe l’operatività del rimedio nei soli casi in cui l’efficacia reale del contratto è differita ad un momento successivo alla sua conclusione, con esclusione
delle ipotesi “normali” di efficacia reale immediata.
Se così fosse, proprio perché nei contratti con effetti reali la prestazione principale non ha di regola carattere obbligatorio, vi sarebbe poco margine per la configurabilità del
rimedio in siffatta categoria29.
Uno spiraglio a favore di una più ampia applicazione della risoluzione potrebbe forse ricavarsi dallo stesso tenore letterale del primo comma della norma, laddove si riferisce, utilizzando il genere plurale, alle “obbligazioni” che ciascun contraente ha nei contratti
a prestazioni corrispettive.
Ora, non vi è dubbio che, se una è la prestazione principale che ciascuna parte è tenuta ad adempiere, è anche vero che a carico di ognuna incombono più obbligazioni
accessorie, in quanto tali connesse alla prestazione principale.
Ciò porta con sé, quale logico corollario, ammettere la risoluzione – ovviamente con riferimento alle sole obbligazioni accessorie - anche nei casi in cui l’efficacia reale è immediata30.
A ben vedere, l’applicabilità del rimedio in oggetto ai contratti produttivi di effetti reali
immediati può essere ampliata anche per altra via.
Spesso, infatti, il legislatore codicistico in materia contrattuale utilizza il concetto di “obbligazione” attribuendogli un significato più ampio di quello che si può trarre dal senso comunemente connesso al termine. Quasi che l’obbligazione dovesse essere intesa come sinonimo di prestazione o, meglio ancora, di “attribuzione patrimoniale” a
favore dell’altro contraente.
Va da sé che, in tal modo, l’istituto trova ben più ampia possibilità di operare all’interno
29 Le uniche ipotesi in cui la risoluzione risulterebbe configurabile sarebbero allora quelle in cui il contratto produce nell’immediato solo effetti obbligatori, mentre quelli reali sono rimandati ad un momento successivo; ciò si verifica, ad esempio, nel caso di vendita di cosa generica, di cosa futura o, ancora, di cosa altrui.
30 Ovviamente, la risoluzione del contratto per inadempimento di obbligazioni accessorie presuppone il superamento del criterio della “non scarsa importanza”, criterio che sicuramente delimita la possibilità di far dichiarare lo scioglimento del contratto qualora inadempiuta sia un’obbligazione secondaria. Nulla toglie, tuttavia, che un’obbligazione “accessoria” in astratto assuma nell’economia del rapporto negoziale concreto un’importanza preponderante. La distinzione tra obbligazioni principali e accessorie ha talvolta portato la giurisprudenza ad affermare che di “non scarsa importanza si possa parlare solo in presenza di obbligazioni principali inadempiute”. Così Cassazione, 30 marzo 1990, n. 2616. Nel senso invece che l’accertamento del giudice debba essere riferito all’intera economia del contratto, senza limitarsi alla valutazione del carattere principale od accessorio della prestazione cfr. Cassazione, 18 novembre 1992, 12343.
dei contratti de quibus, ben potendosi applicare anche in mancanza di obbligazioni
intese in senso tecnico.
7. L’applicabilità della risoluzione ai contratti plurilaterali
Il tenore letterale dell’art. 1453 c.c. lascia impregiudicata anche la questione della
sua applicabilità ai contratti plurilaterali, caratterizzati cioè dalla presenza di più contraenti.
A tal riguardo giova precisare che nella suddetta categoria si fanno tradizionalmente
rientrare due diverse fattispecie: da un lato i contratti in cui le prestazioni dei vari
contraenti assolvono ad una funzione di scambio31, dall’altra quei contratti attraverso i quali le parti mirano al perseguimento di un obiettivo comune.
Tra i primi si citano di regola, a mero titolo esemplificativo, la cessione del contratto, la
cessione dei beni ai creditori, il contratto collettivo di lavoro e, recentemente, il patto di famiglia; tra i secondi, invece, il contratto di società, l’associazione, il consorzio.
Un’indicazione in senso affermativo circa l’applicabilità dell’art. 1453 c.c. anche ai contratti plurilaterali sembra provenire dall’art. 1459 c.c. il quale dispone che l’inadempimento di una parte non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, “salvo che la mancata prestazione debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale”. Ciò importa che l’inadempimento normalmente non tocca il vincolo che
lega i contraenti non inadempienti, ma solo il legame dell’inadempiente verso tutti gli altri, con conseguente risoluzione parziale del contratto.
Qualora, tuttavia, la “prestazione mancata” debba considerarsi fattore essenziale del
consenso di tutte le parti, l’uscita dal rapporto del singolo contraente inadempiente può
31 Non è tuttavia mancato chi ha negato la stessa configurabilità dei contratti plurilaterali con funzione di scambio, identificando per ciò stesso la categoria con i contratti associativi. In tal senso si è espresso MESSINEO, Il contratto in genere in Trattato Cicu-Messineo, I, Milano, 1973, p. 604 ss richiamato anche da SICCHIERO, op cit., p. 797.
determinare quale effetto riflesso lo scioglimento di ogni vincolo e, quindi, dell’intero rapporto32.
La norma in parola, nel richiamare l’art 1420 c.c., sembra riferirsi esclusivamente ai contratti plurilaterali in cui “le prestazioni di ciascuna parte sono dirette al
conseguimento di uno scopo comune”.
Ora, il fatto che l’art. 1459 c.c. si riferisca solamente alla seconda categoria anzidetta
pone il problema di valutare se l’istituto della risoluzione per applicabile anche ai contratti plurilaterali con funzione di scambio.
inadempimento sia
Diverse sono le soluzioni prospettabili al riguardo.
Da un lato, il silenzio potrebbe spiegarsi in considerazione del fatto che i contratti plurilaterali di scambio rientrano pur sempre nell’ambito di applicazione dell’art. 1453 c.c., il quale, riferendosi semplicemente ai contratti sinallagmatici, non distingue tra
accordi bilaterali e plurilaterali.
Logico corollario di tale prospettiva è la non necessità di una specifica previsione espressa al riguardo; essa lascia tuttavia insoluta la questione di una risolubilità parziale
del contratto, limitata cioè al solo contraente inadempiente.
Il silenzio potrebbe essere altresì interpretato in senso favorevole ad una applicazione
analogica o estensiva dell’art. 1459 c.c. ai contratti conseguente configurabilità di una risoluzione parziale.
plurilaterali di scambio, con
Per quanto riguarda i contratti con comunanza di scopo, di risoluzione, a ben vedere, parla non solo l’art. 1459 c.c., ma anche altre norme dettate con riferimento specifico a determinate figure contrattuali; tra queste rientra, a titolo esemplificativo, l’art. 2286
c.c., relativo alle cause di esclusione del socio nell’ambito delle società di persone.
Le cause elencate dalla norma possono essere ricondotte all’inadempimento imputabile
32 DALMARTELLO, voce Risoluzione del contratto in Novissimo Digesto Italiano, XVI, Torino, 1969, p. 130 ss.
(così le “gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale”) ovvero all’impossibilità della prestazione (quali, ad esempio, l’interdizione e
l’inabilitazione).
Quanto all’inadempimento imputabile, in particolare, il requisito di gravità che deve permeare le inadempienze, nel richiamare la “non scarsa importanza” dell’inadempienza di cui all’art. 1455 c.c., è prova ulteriore della riconducibilità dell’esclusione alla
risoluzione per inadempimento.
Appurato quanto detto, diverso è il modus operandi delle due disposizioni: mentre l’art. 1453 c.c. presuppone una domanda volta ad accertare giudizialmente l’esistenza e la gravità dell’inadempimento, nel caso di cui all’art. 2286 c.c., l’esclusione opera alla stregua di rimedio risolutorio potestativo, essendo la relativa decisione demandata alla
maggioranza dei soci calcolata per teste.
Solo nell’ipotesi in cui la società si componga di due soci riprende vigore il principio generale del carattere giudiziale della risoluzione, così come precisato dall’art. 2287,
ultimo comma c.c.
Da quanto sopra, emerge, per i contratti con comunione di scopo33, un concorso di discipline: da un lato, quella speciale relativa al singolo contratto plurilaterale (quale, ritornando all’esempio sopra fatto, l’art. 2286 c.c.), dall’altro, quella generale rappresentata dall’art. 1459 c.c. e, con esso, dagli artt. 1453 e seguenti del codice civile. La disciplina parzialmente diversa contenuta nelle norme speciali rispetto a quelle generali del titolo II del libro quarto introduce il problema di stabilire quale sia in
concreto la disciplina applicabile.
33 Ci si è occupati solo dell’art. 2286 c.c., ma le norme contenenti una disciplina sostanzialmente risolutoria sono anche altre. Così, ad esempio, in tema di associazioni, l’art. 24 c.c., il quale attribuisce all’assemblea il diritto di escludere l’associato per gravi motivi; o, ancora, l’art. 2320 c.c. in materia di società in accomandita semplice, l’art. 2344 c.c. per la società per azioni, il quale, prevedendo la dichiarazione di decadenza del socio che non esegue i conferimenti, altro non fa che disciplinare lo scioglimento del contratto di società nei confronti del socio xxxxxx.
La questione è stata variamente risolta.
Da un lato, la tesi basata sul noto brocardo lex specialis derogat generalis imporrebbe di applicare le norme relative alla singola fattispecie ogniqualvolta esse differiscano dalla disciplina generale; dall’altro, non va sottaciuto quanto dispone l’art. 1323 c.c., secondo il quale tutti i contratti (a prescindere quindi dal fatto che abbiano funzione di scambio o comunanza di scopo, siano bilaterali o plurilaterali) “sono sottoposti alle norme generali contenute in questo titolo”34 e, quindi, anche alla disciplina contenuta negli artt. 1453 e
seguenti.
Le due soluzioni, in realtà, si integrano a vicenda, nel senso che le disposizioni generali devono cedere il passo di fronte ad una disciplina speciale espressa, parzialmente o completamente difforme. D’altro canto, per tutti gli aspetti non toccati dalle norme
speciali non potrà non direttamente applicabile.
farsi riferimento alla disciplina generale che pur rimane
8. Il fondamento della risoluzione
L’indagine sul fondamento della risoluzione ha da sempre appassionato gli animi
degli studiosi, dando molteplici soluzioni35.
luogo ad un ampio e approfondito dibattito che ha portato a
Sebbene la trattazione dell’argomento possa sembrare prima facie superflua in relazione al tema precipuo del presente lavoro, in realtà indagare le ragioni che stanno a fondamento del rimedio può aiutare a comprendere se e fino a che punto l’autonomia privata possa arrivare a forzare il dato normativo in tema di risoluzione; ciò ovviamente,
34 Appare favorevole a questa seconda soluzione SICCHIERO, op cit., p. 797.
35 Tra coloro che si sono occupati dell’argomento SACCO Il Contratto, op. cit., p. 611. Per una rapida disamina del fondamento dell’istituto si veda PISCIOTTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 2000, p. 12 ss.
ai fini della presente analisi, interessa soprattutto con riferimento al rapporto tra
domanda di risoluzione e domanda di adempimento.
Fra le prime teorie sviluppatesi sull’argomento ancora sotto la vigenza del codice del
1865, meritano rilievo cosiddette “soggettive”.
quelle che potremmo riunire nella categoria delle teorie
Vi erano innanzitutto coloro che ritenevano che la risoluzione trovasse il proprio fondamento in una “condizione risolutiva” intesa non in senso tecnico, bensì come
tacitamente convenuta tra le parti.
Ciò veniva perlopiù spiegato considerando che le parti, al momento della conclusione del contratto, non intendevano impegnarsi in maniera incondizionata, bensì
subordinatamente al conseguimento della controprestazione.
L’opinione trovava il proprio fondamento normativo nell’art. 1165 del codice previgente, laddove disponeva che “la condizione risolutiva è sempre sottintesa nei contratti bilaterali, pel caso in cui una delle parti non soddisfaccia alla sua obbligazione”36.
A tal riguardo tuttavia si rilevava come l’art. 1165 disponesse che il contratto non poteva comunque considerarsi sciolto di diritto, pur in presenza di quella particolare condizione risolutiva costituita dall’inadempimento, dal che si ricavava che in realtà non
di vera condizione si trattava.
Proprio perché fondata sul tenore testuale della norma de qua, la tesi suddetta ha perso
gran parte del suo valore con l’entrata in vigore del nuovo codice.
Secondo un altro orientamento, sviluppatosi sempre sotto il vigore del codice del 1865 e rapportabile sempre nell’alveo delle “teorie soggettive”, la risoluzione
36 In tal senso DIKOFF, Studi sulla risoluzione dei contratti bilaterali secondo l’art. 1165 del c.c. italiano in Archivi Giurisprudenza, 1930, p. 3 ss.; XXXXXX, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, IV, Fonti delle Obbligazioni – Continuazione dei Contratti, Firenze, 1886, p. 205, il quale, peraltro, pur riconoscendo nella risoluzione una implicita convenzione tra le parti, nega che la stessa possa configurarsi come condizione.
troverebbe il suo fondamento nella discrasia tra la volontà contrattuale e lo stato di cose concretamente verificatosi, per cui il contratto non sarebbe più corrispondente alla volontà dei contraenti37.
A tal riguardo si può obiettare che l’inadempimento causa di risoluzione deve essere necessariamente imputabile ad uno dei contraenti e, quindi, in quanto tale, rapportabile ad uno di essi quanto meno a titolo di colpa (salvi, come meglio si vedrà in seguito, i casi di “imputabilità oggettiva”), vertendosi, in caso contrario, nel diverso ambito della
risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Ciò comporta che, per lo meno per una delle parti, la situazione verificatasi sarebbe
perfettamente coincidente con la sua volontà di non dare esecuzione al contratto.
Alle teorie soggettive si contrappongono quegli orientamenti che potremmo definire “oggettivi”, secondo i quali la risoluzione troverebbe il suo fondamento in un “difetto
dello scambio” che non permette alla causa del contratto di funzionare.
Il fondamento viene così ricondotto ad un difetto della causa dell’accordo38, tale da alterare l’equilibrio contrattuale originariamente esistente tra le prestazioni
contrapposte.
La peculiarità di siffatte teorie è l’aver sviluppato un concetto che potremmo definire “dinamico” di causa, in quanto legato non più solo al momento genetico del contratto,
ma rapportato anche alla sua successiva esecuzione.
Anche tale orientamento è stato sottoposto a critica: si è obiettato infatti che la risoluzione colpisce il rapporto e non il contratto, né, quindi, gli elementi strutturali
dello stesso; a ciò si è aggiunto che il difetto di causa porta alla nullità del contratto e
37 Così OSTI, La risoluzione del contratto per inadempimento. Fondamento e principi generali in Scritti Giuridici, I, Milano, 1973, p. 403 ss.
38 Tra gli interpreti che, in diversa misura si sono fatti paladini della “teoria oggettiva” merita citare: XXXXXXX XXXXXXXXXX, Dottrine Generali del Diritto Civile, IX, Napoli, 1989, p. 185; SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale in Trattato di diritto civile diretto da Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, IV, III, Milano, 1980, p. 269; BETTI, Fonti e vicende dell’obbligazione in Teoria Generale delle Obbligazioni, III, Milano, 1954, p. 67 ss.; XXXXX, op. cit. p. 12 ss.; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, III, Milano, 1959, p. 681.
In realtà, la critica prova troppo; se è vero infatti che la mancanza di causa determina la nullità del contratto ex art. 1418 c.c., è anche vero che, affinché ciò si verifichi, l’assenza deve essere originaria.
Diversamente, nel caso in cui il difetto di causa abbia carattere funzionale, si sia cioè verificato in un momento successivo al perfezionamento dell’accordo, la conseguenza consisterebbe nel diritto riconosciuto in capo alla parte non inadempiente di sciogliere il vincolo contrattuale. E proprio il riconoscimento di tale facoltà presupporrebbe necessariamente l’esistenza di un contratto validamente perfezionatosi.
D’altronde, che nessuno scambio di prestazioni concretamente si verifichi tra le parti del contratto appare di lapalissiana evidenza: non da parte del contraente inadempiente che si rifiuta di eseguire la propria, non da parte del contraente adempiente che ha diritto alla restituzione di quanto eventualmente già prestato.
Si è poi ulteriormente sostenuto che la teoria difetterebbe di basi normative, in quanto, de iure condito, l’unica causa disciplinata dal codice civile è quella di cui all’art. 1325, indissolubilmente legata al momento della nascita del contratto.
Ora, se è vero che di causa si parla espressamente solo con riferimento al momento genetico, è anche vero che ogni contratto, per poter continuare ad esistere come tale e ad essere inquadrato in una determinata categoria, deve avere una giustificazione causale
39 In senso critico XXXXXXXXXX Xxxxx (Diritto Privato) in Enciclopedia del Diritto, vol. VI, Milano, 1960, p. 553.
40 Alla teoria del difetto funzionale della causa mostra di aderire anche la giurisprudenza; in tal senso, ex multis, Cass.azione, 1 giugno 2004, n. 10477, Cassazione, 4 gennaio 2002, n. 59, Cassazione, 3 febbraio
1987, n. 2221, Cassazione, 10 febbraio 1984, n. 1021.
che lo accompagna per tutta la sua esistenza.
Se è vero che nel nostro ordinamento giuridico, al di fuori degli atti di liberalità, non è generalmente ammesso un arricchimento che non importi contestualmente uno scambio con altro soggetto, è anche vero che non può neppure parlarsi di un principio generale “dell’arricchimento reciproco” a fronte della presenza di numerosi contratti aleatori che prescindono completamente dalla suddetta reciprocità e anzi fondano la propria causa proprio sul rischio insito in tale mancanza.
Secondo altri autori ancora, il fondamento del rimedio risiederebbe nel fatto di essere strumento di coercizione indiretta all’adempimento; in altri termini, la risoluzione diventerebbe non solo o meglio, non più solo, strumento per il soddisfacimento del creditore, ma anche e soprattutto mezzo di afflizione del debitore inadempiente.
41 In tal senso si è espresso GORLA, Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, p. 131 ss..
42 Così AULETTA, op. cit., p. 125.
43 Di tale opinione è AULETTA, op. cit., p. 137 ss., secondo il quale la risoluzione sarebbe, insieme alla ritenzione e all’esecuzione forzata, “uno dei mezzi fondamentali nei quali si concreta la tutela giuridica
La teoria in parola ha sollevato numerosi interventi critici dovuti sia ai dubbi circa il significato da riconoscere al termine “sanzione”, intriso di senso più dal punto di vista della morale e del sociale che non dal punto di vista giuridico, sia al fatto che essa più che al fondamento del rimedio sembra far riferimento alla funzione dello stesso, prescindendo completamente dalla ratio che ne sta alla base44.
A ciò deve poi aggiungersi il fatto che la sanzione produrrebbe i suoi effetti non solo sul contraente inadempiente, ma anche e soprattutto sulla parte adempiente, costretta sia a rinunciare alla prestazione promessale sia ad agire per la restituzione di quanto eventualmente da lei già prestato.
Né sembra potersi affermare, a sostegno della tesi de qua, che la sanzione consisterebbe nell’obbligo del contraente infedele di risarcire il danno, posto che risarcimento e risoluzione sono rimedi autonomi.45 Ed infatti il primo può essere domandato anche senza richiedere lo scioglimento del vincolo contrattuale e la risoluzione, a sua volta, non comporta sempre la richiesta di risarcimento, essendo all’uopo necessaria la prova del subito danno46.
disposta dalla legge per i contratti bilaterali”. Sembra condividere tali idee XXXXXX, op. cit., p. 263, il quale tuttavia precisa “che non si deve in tal modo attribuire al rimedio una connotazione repressiva o afflittiva”.
44 Per un’ampia e approfondita disamina delle teorie rapportabili all’orientamento della risoluzione come “sanzione” si veda BASINI, Risoluzione del contratto e sanzione dell’inadempiente, Milano, 2001, p. 140 ss.
45 Per una critica esauriente alla teoria si veda SICCHIERO, op. cit., p. 40 ss.
46 Sull’asserita autonomia tra risarcimento e risoluzione LUMINOSO, Della risoluzione per inadempimento
in Commentario Scialoja e Xxxxxx a cura di Xxxxxxx, XX, X, 0, Xxxxxxx-Xxxx, 0000, p. 9 ss.
47 Ciononostante e pur in mancanza di un divieto espresso a livello legislativo, si tende ad affermare l’impossibilità di apporre al contratto una “clausola di irresolubilità”. Tra i motivi che portano tendenzialmente ad affermarne la non apponibilità al contratto vi è quello per cui una tale clausola sortirebbe l’effetto di “sganciare” le due prestazioni, rendendole autonome l’una dall’altra. Ciò porterebbe alla rottura del legame sinallagmatico che le caratterizza e le renderebbe indipendenti l’una dall’altra. Si
ovviamente non può che giocare a favore della possibilità per i contraenti di influire di comune accordo sulla disciplina del rimedio risolutorio, ampliandone o restringendone i confini o ancora modificandone le modalità di funzionamento.
La tutela di interessi meramente privatistici non può che giocare a favore dell’elasticità del rapporto tra risoluzione e adempimento, giustificando, entro determinati limiti, la possibilità di variare la domanda.
Ciò tuttavia, come meglio si vedrà nel prossimo capitolo, sarà possibile fintantoché non si vada ad urtare contro interessi la cui tutela è sottratta alla disponibilità dei singoli.
9. I presupposti della risoluzione
9.1. L’inadempimento
Il presupposto sui cui si basa tutto l’impianto risolutorio è ovviamente l’inadempimento posto in essere da uno dei contraenti.
In tale categoria possono farsi rientrare tutte le infedeltà ai doveri imposti dal contratto, indipendentemente dall’eventuale perdita patrimoniale subita, e, quindi, a mero titolo
produrrebbe così il passaggio da un contratto a prestazioni corrispettive ad un accordo che si inserisce “nella logica della donazione o del gioco”, imponendo a ciascuna parte di “accettare ora per allora di donare alla controparte o di arricchire comunque la controparte ove questa sia inadempiente al contratto e insolvibile rispetto all’obbligazione risarcitoria” (l’inciso tra virgolette è di SACCO “Il Contratto”, op. cit., p. 616). Può sorgere in questi casi il dubbio se le attribuzioni patrimoniali, dapprima sorrette da un’unica causa (basti pensare ad una tipica causa di scambio), possano successivamente affrancarsi da essa e reggersi ciascuna su una propria nuova causa. A ben vedere la risposta al quesito potrebbe dipendere dal significato che si vuole attribuire all’istituto giuridico della causa.
Non va poi dimenticato il principio cardine dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. che consente alle parti di determinare liberamente il contenuto dell’accordo nei limiti imposti dalla legge; ora, non esistendo in materia alcun limite imposto dal legislatore, non si vede perché i contraenti non possano liberamente prevedere il patto di irresolubilità.
La validità del patto in oggetto è stata da ultimo confermata nei Principi della Commissione Lando secondo i quali “I rimedi in caso di inadempimento possono essere esclusi o limitati a meno che ciò non sia contrario ai principi della buona fede e della correttezza” (art. 8:109).
Non vi sono dubbi, per contro, circa l’ammissibilità del patto volto ad ampliare i confini della risoluzione; basti pensare, al riguardo, alla possibilità di prevederla anche in caso di inadempimento “di scarsa importanza” come pare in effetti consentire lo stesso legislatore con la clausola risolutiva espressa di cui all’art. 1456 c.c.
esemplificativo, l’omissione della prestazione dedotta in contratto, la sua attuazione difettosa ovvero ancora la commissione di attività vietata dall’obbligazione.
L’esatta comprensione del concetto di inadempimento presuppone di considerarne sia l’ambito oggettivo, ovverosia il suo contenuto, sia l’aspetto soggettivo e, in particolare, la necessità che esso sia in qualche modo rapportabile al comportamento del debitore.
9.1.2 L’ambito oggettivo
Partendo dall’ambito oggettivo, volendo in certo qual modo individuare le ipotesi in cui l’inadempimento può portare alla risoluzione, potremmo indicare tre diverse situazioni rilevanti a tal fine: l’adempimento inesatto, l’adempimento ritardato e l’inadempimento definitivo.
Tralasciando la terza ipotesi che non pone problemi di sorta, la prima fattispecie ricorre qualora la prestazione, anche se in tutto o in parte effettuata, non possieda “i requisiti soggettivi e oggettivi, che sono idonei a farla coincidere con l’oggetto dell’obbligazione ed a soddisfare l’interesse del creditore” 50.
48 Cfr. Cassazione, 16 luglio 2001, n. 96379; Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 97.
49 Per una disamina delle teorie sviluppatesi nel tempo si veda BASINI, op. cit., p. 132 ss.. In tal senso si sono espresse sia la giurisprudenza: Cassazione, 16 luglio 2001, n. 9637; Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 97 in Danno e Responsabilità, 1997, p. 727; Cassazione, 7 maggio 1982, n. 2843; che la dottrina: XXXXX, I rimedi sinallagmatici in Trattato di diritto privato diretto da Xxxxxxxx, 10, Torino, 2002, p. 654; FRAGALI La dichiarazione anticipata di non voler adempiere in Rivista di Diritto commerciale, 1966, I,
p. 243; XXXXXX, L’inadempimento prima del termine in Rivista di Diritto civile, I, 1975, p. 248.
50 Così XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento in Contratto e impresa, 1991, p. 863.
Vi è concordia al riguardo nel ritenere che anche l’adempimento inesatto, pur concretandosi in una prestazione, qualora rivesta particolare importanza avuto riguardo all’interesse del creditore, sia rilevante ai fini della risoluzione.
Più problematici invece la definizione e l’esatto inquadramento del ritardo nell’adempimento.
Si discute, al riguardo, se il ritardo (che, ovviamente, per acquistare rilievo deve essere di “non scarsa importanza”) determini in capo al creditore la nascita di un diritto quesito a chiedere la risoluzione ovvero se al debitore debba essere riconosciuta la facoltà di eliminare il presupposto della domanda di risoluzione mediante un adempimento tardivo.
Ovviamente, ciò che qui interessa è il ritardo verificatosi fino al momento preclusivo della proposizione del rimedio risolutorio. Il III comma dell’art. 1453 c.c. è, infatti, per lo meno prima facie, chiaro, nell’identificare la domanda giudiziale come momento finale per l’adempimento tardivo.
Si tratta, in altri termini, di verificare se il ritardo sia di per sé solo sufficiente a giustificare il rifiuto del creditore di ricevere la prestazione e, per tale via, debba essere sempre e necessariamente equiparato all’inadempimento definitivo, ovvero se vi sia spazio per convertire il ritardo in adempimento tardivo, sufficiente, come tale, a soddisfare l’interesse del creditore.
Il discorso in oggetto presuppone che l’adempimento sia ancora giuridicamente possibile e che non fosse previsto nel contratto un termine essenziale, poiché, in tal caso, non vi sono dubbi che il ritardo diventi inevitabilmente inadempimento.
Si potrebbe ipotizzare, argomentando a contrariis dall’art. 1453, ultimo comma c.c., che il ritardo, fino a che non sia proposta domanda di risoluzione, non possa mai essere
equiparato al mancato adempimento51.
La tesi, sebbene fondata dal punto di vista normativo, presenta alcuni inconvenienti, tra i quali, in primis, quello di lasciare il creditore alla mercé del debitore, in grado di convertire la situazione a lui sfavorevole e da lui stesso provocata, in situazione a lui vantaggiosa52.
E’ anche vero però che la parte non inadempiente può sempre bloccare l’iniziativa della controparte chiedendo la risoluzione, per cui l’eventuale ritardo o disinteresse nel proporre l’azione rischierebbe di produrre un danno nella sua sfera patrimoniale.
Per contro la celerità nell’agire premierebbe il creditore, ponendolo al riparo da possibili futuri adempimenti ai quali non sia più interessato.
Le sorti del contratto, in tal modo, verrebbero a dipendere dalla volontà del contraente adempiente, il quale potrebbe bloccare l’adempimento tardivo con la domanda di risoluzione proposta originariamente ovvero in seguito all’esercizio dello ius variandi. Così facendo, tuttavia, si attribuirebbe un ruolo centrale all’arbitrio del creditore, premiando la sua celerità nel domandare la tutela giudiziale del suo diritto.
In realtà, tutta la discussione deriva dal fatto che il legislatore si è limitato a vietare l’adempimento successivo alla domanda di risoluzione, disinteressandosi completamente del problema analogo che può verificarsi prima di quel momento.
Sorge allora il problema del significato che si può attribuire al silenzio del legislatore. Al riguardo si potrebbe ipotizzare una semplice lacuna da colmare con ricorso ai principi generali comunque desumibili in materia contrattuale.
Si potrebbe, al contrario, ritenere che il silenzio normativo risponda ad un disegno ben preciso messo in atto dal legislatore; in particolare, potrebbe ipotizzarsi l’applicazione
51 Così in dottrina DALMARTELLO, voce Risoluzione del contratto, op. cit., p. 135; in giurisprudenza la tesi è prevalente; cfr. ex plurimis, Cassazione, 29 maggio 1997, n. 5235; Cassazione, Sezioni Unite, 9 luglio 1997, n. 6224 in Giustizia Civile, 1998, I, p. 825.
52 L’affermazione è di Cassazione, 31 luglio 1987, n. 6643 in Foro Italiano, 1988, I, c. 138.
del noto brocardo ubi lex volui dixit.
In entrambe le ipotesi, a parere di chi scrive, la conseguenza dovrebbe essere la possibilità dell’adempimento tardivo. Più precisamente, nella seconda ipotesi non sembra revocabile in dubbio che il codificatore, se avesse voluto impedire l’adempimento tardivo ante causam, lo avrebbe detto espressamente così come ha fatto per l’adempienza successiva a tale momento.
Qualora invece si ipotizzi una lacuna, potrebbe farsi ricorso al principio della conservazione del rapporto contrattuale o, ancora, al principio del favor debitoris, con la conseguenza di ammettere l’adempimento tardivo, ferma restando, per il creditore, la possibilità di agire per il risarcimento dell’eventuale danno derivante dal ritardo.
La possibilità di adempiere tardivamente anche se, comunque, prima della domanda, potrebbe desumersi anche dal fatto che fino a tale momento ci si trova di fronte ad un rapporto di carattere esclusivamente privatistico; al contrario, a partire dalla proposizione della citazione, il rapporto viene a coinvolgere anche interessi di natura pubblicistica che trascendono le parti del contratto. E proprio l’attivazione del sistema giudiziario verrebbe a limitare la libertà del debitore di adempiere tardivamente.
Quanto detto, preme ribadirlo, presuppone la mancanza nel contratto di un termine essenziale o per dichiarazione espressa delle parti ovvero perché tale carattere deve comunque essergli riconosciuto in considerazione della natura dell’accordo.
Se tale essenzialità non sussiste, il ritardo, in quanto tale, potrà fondare altre pretese da parte del creditore, ma non quella diretta a far dichiarare lo scioglimento del contratto.
Si ritiene invece che non rientri fra i presupposti della risoluzione l’esistenza di un danno, ovverosia di una perdita patrimoniale quantificabile in denaro.
Ciò non significa che l’ordinamento sia indifferente alle conseguenze negative che possono derivare dall’inadempimento, ma semplicemente che esso rileva di per se
La non essenzialità del danno ai fini del rimedio risolutorio viene giustificata facendo ricorso alla funzione che gli è propria: la risoluzione mira infatti al ripristino dello status quo ante, vale a dire al ristabilimento della situazione, soprattutto giuridica, esistente prima del vincolo contrattuale.
Diversamente il risarcimento del danno garantisce al creditore il diverso risultato di ottenere l’equivalente pecuniario dell’utilità da lui persa in conseguenza dell’inadempimento di controparte.
53 L’opinione, che appare generalmente condivisa, viene espressa da LUMINOSO, Della risoluzione per inadempimento, op. cit., pag. 12; nello stesso senso, SACCO, Il contratto, op. cit., pag. 948.
54 Il carattere autonomo dei due rimedi viene talora riportato anche alla diversa ripartizione dell’onere della prova. Da una parte vi è chi si esprime nel senso di ritenere che il creditore che agisce sia tenuto esclusivamente a provare l’esistenza del titolo negoziale e non anche l’inadempimento di controparte; ciò a prescindere dal fatto di avere agito per la risoluzione, per l’adempimento o per il risarcimento.
In senso conforme si sono espressi, in dottrina: AULETTA, La risoluzione per inadempimento, op. cit.; XXXXXXXXX, Della risoluzione per inadempimento in Commentario Scialoja Branca, Libro IV, Delle Obbligazioni, I, 1, art.1453-1454, Bologna, 1990, p. 73; in giurisprudenza: Cassazione, 7 febbraio 1996,
n. 973 in Foro Italiano, 1996, I, 1265; Cassazione, 15 ottobre 0000, x. 00000 in Foro Italiano 2000, I, 1917.
In senso contrario si esprime talaltra dottrina, supportata anche da parte della giurisprudenza, secondo la quale spetta all’attore in risoluzione l’onere di provare solo il fatto costituente l’inadempimento, mentre all’attore che agisce per il risarcimento spetterebbe anche l’onere di provare il danno.
Cfr. Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 124; Cassazione, 8 gennaio 2000, n. 123 in Contratti, 2000 con nota di XXXXXXXXX.
Recentemente sono intervenute sul punto le Sezioni Unite della Cassazione le quali, aderendo sostanzialmente al primo indirizzo, hanno sostenuto che, a prescindere dal fatto che il creditore agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento, egli deve limitarsi a provare la fonte del suo diritto, spettando poi al debitore dimostrare l’avvenuto adempimento ovvero il fatto che rende a lui non imputabile l’inadempimento. A tal riguardo non basta poi che il convenuto provi la semplice difficoltà della prestazione o il fatto ostativo del terzo, richiedendosi la prova dell’impiego della necessaria diligenza nel rimuovere gli ostacoli che impedivano l’esatto adempimento.
L’unica eccezione al principio dianzi esposto si avrebbe, sempre secondo la Cassazione, nell’ipotesi di obbligazione negativa in cui spetterebbe al creditore agente per l’adempimento, per la risoluzione ovvero per il risarcimento, il compito di provare il fatto stesso dell’inadempimento, vale a dire l’onere di provare che il debitore ha tenuto un comportamento commissivo in violazione dell’obbligazione di non facere o di non dare. Cassazione, Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533 in Corriere Giuridico, 2001, 1565 con nota di MARICONDA. Nello stesso senso, ex plurimis, Cassazione, 19 aprile 2007, n. 9351; Cassazione, 13 giugno 2006, n. 13674; Cassazione, 12 aprile 2006, n. 8615 Cassazione, 25 settembre 2002, n. 13925;
Cassazione, 15 novembre 2002, n. 16092; Cassazione, 18 novembre 0000, x. 00000.
9.1.3. L’ambito soggettivo
9.1.4. Segue: L’inadempimento imputabile
Tra i requisiti soggettivi dell’inadempimento vi è, innanzitutto, l’imputabilità.
Trattasi di requisito56 fatto proprio soprattutto dalla giurisprudenza57, la quale esclude l’applicabilità del rimedio in presenza di un inadempimento incolpevole.
Sebbene l’affermazione non trovi conferma espressa nell’art. 1453 c.c., il quale si limita a parlare di inadempimento senza nulla aggiungere e senza richiedere requisiti ulteriori, si ritiene cionondimeno che l’inadempienza debba essere rapportata al debitore a titolo di colpa o di dolo.
A tanto si giunge ritenendo che, pur mancando un riferimento esplicito all’imputabilità nella norma de qua, la stessa debba essere integrata con quanto disposto dall’art. 1218 c.c., laddove introduce, in presenza di un mancato adempimento, la presunzione relativa di imputabilità del debitore.
La tesi pare ulteriormente avvalorata dal confronto dell’art. 1453 c.c. con la norma di cui all’art. 1463 c.c. in tema di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
55 Così Cassazione, 10 giugno 1998, n. 5774 in Vita Notarile 1999, 1207; Cassazione, 23 luglio 2002, n. 10741; Cassazione, 11 giugno 2004, n. 11103.
56 Il requisito è analizzato da XXXXXXX, La Giurisprudenza sul Codice Civile, Libro IV, Delle Obbligazioni, IV, a cura di Xxxxxxxxxx, Xxxxxx, Xxxxx, Xxxxxx, 0000. Per una panoramica sulle posizioni di dottrina e giurisprudenza, da ultimo, DELLACASA, Inadempimento e risoluzione del contratto: un punto di vista della giurisprudenza, in Danno e responsabilità, 3/2008.
57 Così, ex plurimis, Cassazione, 28 marzo 1953, n. 812; Cassazione, 4 febbraio 1967, n. 364; Cassazione, 25 settembre 1984, n. 4820; Cassazione, 22 maggio 1986, n. 3408.
Anche l’inadempienza provocata da un’impossibilità sopraggiunta determina infatti lo scioglimento del rapporto, ma, a differenza di quanto accade nell’art. 1453 c.c., la mancanza di imputabilità impedisce che le conseguenze del mancato adempimento possano essere poste a carico del debitore.
A conferma della necessaria esistenza del requisito dell’imputabilità starebbe altresì il fatto che solo nell’ipotesi di cui all’art. 1453 c.c., e non in quella disciplinata dall’art. 1463 c.c., all’azione di risoluzione si accompagna il diritto al risarcimento del danno58. Se così non fosse la distinzione tra le due norme non avrebbe alcuna ragion d’essere e dovrebbe, secondo taluno, considerarsi il frutto di un mero errore del legislatore.
In senso pienamente conforme alla teoria de qua, si esprimono quanti sostengono le teorie soggettive in tema di fondamento della risoluzione per inadempimento e individuano il presupposto del rimedio in una sanzione a carico del debitore per il suo comportamento colpevole59.
Eppure non mancano voci in senso contrario, secondo le quali l’art. 1453 c.c., nel disciplinare la risoluzione, prescinderebbe da qualsivoglia requisito soggettivo.
Ciò viene giustificato, ancora una volta, facendo ricorso al fondamento che si vuole riconoscere alla risoluzione. Si afferma infatti che l’inadempimento, comunque caratterizzato, stravolge il sinallagma funzionale del contratto60 ed è proprio tale stravolgimento che, impedendo all’accordo di funzionare, ne decreta inderogabilmente la fine.
58 Nel senso che l’imputabilità sia requisito necessario per la risoluzione per inadempimento si esprimono, in dottrina, AULETTA, op. cit., pag. 147; XXXXXXXXXXX, op. cit. p. 128 ss.; in giurisprudenza, fra le molte, Cass. 22 maggio 1986 n. 3408; Cass. 28 febbraio 1985 n. 1741.
59 Così, ad esempio, AULETTA, op. cit., p. 147 ss..
60 In tal senso si sono espressi XXXXX, op. cit.,p. 20; XXXXXXXXXX, L’inadempimento, Xxxxx xx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx, 0000, p.317; SACCO, Il contratto, cit., p. 948 ss.. Quanti sostengono che la risolubilità per inadempimento è svincolata dal requisito della imputabilità non giungono ad affermare che che il contratto è risolubile anche in presenza di una mancata esecuzione della prestazione imputabile al fatto del creditore o risulti, comunque, legittima a causa del comportamento della controparte.
Ai fini della presente indagine, l’adesione all’una o all’altra delle due teorie o, eventualmente, la scelta a favore di altra diversa opinione, presuppone, in via preliminare, di chiarire i termini della questione.
Si tratta, innanzitutto, di stabilire l’esatto significato da attribuire all’imputabilità dell’inadempimento, per verificare se inadempimento imputabile equivalga ad inadempimento colpevole.
Risolta la questione, si tratterà poi di stabilire se ed in quali limiti la scelta suddetta possa influire sul rapporto tra domanda di risoluzione e domanda di adempimento.
Di regola, l’imputabilità viene identificata con la riferibilità dell’inadempimento alla sfera soggettiva del debitore; nel senso che una condotta in tanto può essere riferita ad un soggetto, in quanto sia ravvisabile in capo allo stesso colpa o dolo.
Xxxxxxx tuttavia chiedersi se la colpa e il dolo esauriscano il novero dei casi in cui le conseguenze derivanti da un certo comportamento possono essere addossate al soggetto che lo ha posto in essere, ovvero se vi siano delle ipotesi in cui, nonostante la mancanza di colpa o dolo, la condotta può comunque essere imputata al soggetto e causare la risoluzione del contratto per inadempimento.
La lettura degli articoli del codice civile induce ad affermare l’esistenza di casi in cui, pur mancando dolo o colpa, il mancato adempimento del contratto può essere ugualmente posto a carico del debitore.
Si veda, ad esempio, l’art. 1228 c.c. che pone a carico del debitore il fatto doloso o colposo dell’ausiliario.
Xxxxxx, in tale ipotesi, benché nessuna colpa o dolo possa essere ravvisato nella condotta del contraente61, il quale può aver utilizzato la diligenza media o anche
61 Ed infatti, a riprova del fatto che si prescinde assolutamente dal requisito della colpa, vi è l’impossibilità di far ricorso alla prova liberatoria contraria.
massima nella scelta del proprio ausiliario, l’inadempimento dell’accordo può essere ugualmente posto a suo carico.
Ciò porta a ritenere l’esistenza di una “zona grigia” in cui un determinato comportamento, pur non essendo colposo, è comunque imputabile ad un soggetto e, in quanto tale, sufficiente a fondare sia la domanda di adempimento che la domanda di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c.
Tirando le fila del discorso si può giungere ad affermare che la tesi da ultimo sostenuta, ponendosi a metà strada tra le due teorie contrapposte dianzi citate, dà all’art. 1453 c.c. il giusto peso soprattutto nei rapporti con l’art. 1463 c.c.
Ovviamente, se confrontata con la teoria dell’imputabilità soggettiva sostenuta dalla giurisprudenza63, amplia la possibilità di ricorrere all’art. 1453 c.c. a scapito dell’art. 1463 c.c. e, quindi, ovviamente, aumenta le ipotesi in cui il soggetto non inadempiente può disporre della scelta tra i due rimedi ivi previsti.
La stessa soluzione, a ben vedere, argina l’ambito di applicazione dell’art. 1463 c.c. ai soli casi di “impossibilità definitiva, oggettiva ed assoluta” della prestazione; solo in tali
62 Cfr. SICCHIERO, op. cit., p. 170 ss. Secondo l’autore per spezzare il nesso causale tra inadempimento e debitore è necessario “l’intervento di un fattore esterno non governabile dal debitore, senza che assumano però rilievo a suo favore le sue vicende personali ed essendogli invece addebitabile l’inadempimento che comunque gli sia riferibile a prescindere da qualsiasi altra valutazione”.
63 In merito all’atteggiamento assunto dalla giurisprudenza, va sottolineato che recentemente la stessa Corte di Cassazione sembra aver parzialmente rivisitato il proprio orientamento, sostenendo che il concetto di imputabilità va liberato dalle interferenze con il tema delle esimenti e rapportato, se non proprio alla condotta del debitore, quantomeno alla sua sfera di controllo. Così, Cassazione, 2 maggio 2006, n. 10139, la quale ha ritenuto che lo sciopero aziendale fosse imputabile all’impresa debitrice a titolo di responsabilità oggettiva, in quanto rientrante nella sua sfera di organizzazione e controllo. Nella fattispecie l’opinione è generata dal fatto che l’impresa aveva di fatto provocato lo sciopero disponendo il trasferimento di alcuni dipendenti senza consultare le organizzazioni sindacali. Per un riferimento più ampio si veda DELLACASA, Inadempimento e risoluzione del contratto: un punto di vista sulla giurisprudenza, op. cit., p. 262.
ipotesi, infatti, non avrà più senso chiedere l’adempimento e l’unica strada percorribile sarà quella dello scioglimento del contratto.
Tale soluzione non può che essere favor creditoris e, quindi, agevolare il soggetto non inadempiente il quale, non solo avrà a propria disposizione la scelta tra i due rimedi, ma potrà anche vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno.
9.1.5. L’inadempimento grave
L’inadempimento, ancorché imputabile al debitore e, in quanto tale, fonte di responsabilità e risarcimento, potrebbe non essere sufficiente per portare allo scioglimento del contratto.
Ciò è dovuto alla disposizione di cui all’art. 1455 c.c., secondo la quale, l’inadempimento, per essere causa di risoluzione, deve essere “di non scarsa importanza”.
Alla base della norma vi sono innanzitutto esigenze di proporzionalità: la risoluzione è un rimedio pesante perché, almeno secondo il dato letterale dell’art. 1453 II comma, c.c., scelta la via, alteram non datur, in quanto non sono ammessi per il creditore ripensamenti di sorta; a ciò deve poi aggiungersi che il rimedio distrugge il vincolo contrattuale ponendolo nel nulla.
Sarebbe, pertanto, esagerato applicarlo a qualsiasi ipotesi di malfunzionamento del contratto.
Proprio le suddette esigenze di cautela impongono di valutare la gravità dell’inadempienza alla luce dei due diversi criteri suggeriti dalla stessa norma di legge. Il primo è il criterio oggettivo, basato sulla funzione e sul peso che la prestazione inadempiuta ha nell’economia del contratto.
Trattasi di parametro necessario ma non sufficiente per fondare la risoluzione, posto che, un inadempimento, ancorché grave nell’economia astratta del contratto, potrebbe non esserlo alla luce della valutazione concretamente fattane dal creditore, così come una inadempienza di per sé non grave potrebbe divenire tale in considerazione dell’impatto che concretamente ha avuto sulla vittima.
Occorre, pertanto, prendere in considerazione anche un secondo criterio, di tipo soggettivo,64 che tiene conto dell’interesse che la vittima di un particolare contratto ha concretamente all’adempimento e la cui applicazione può rovesciare i risultati del primo criterio65.
In caso contrario si rischierebbe di giungere a dei risultati che non rispondono alle esigenze che il legislatore aveva di mira, senza contare le difficoltà che il giudice incontrerebbe di fronte a simili valutazioni e il rischio conseguente di incorrere in
64 Cassazione, 26 luglio 2000, n. 9800; Cassazione, 29 settembre 1994, n. 7937 in Giurisprudenza Italiana, 1995, I, 1, p. 1010. Per una disamina su criteri utilizzati nella valutazione dell’inadempimento si veda BATELLI, Domanda di Risoluzione e criteri di valutazione dell’inadempimento, in Giurisprudenza italiana, 3, 2005, p. 478.
65 Si veda al riguardo XXXXXX, op. cit., p. 6 ss.
66 Così, ad esempio, l’art. 129 codice del consumo, laddove prevede a carico del venditore l’obbligo di consegnare “beni conformi al contratto di vendita”, individuando poi concretamente alcune circostanze in presenza delle quali i beni possono considerarsi tali.
67 Così ha più volte avuto modo di esprimersi la giurisprudenza; cfr, ex multis, Cassazione, 15 marzo 2004, n. 5250.
giudicati eccessivamente discrezionali.
Proprio un simile uso rappresenta un limite intrinseco al giudizio del giudice, il quale, se anche non potrà esimersi dall’utilizzare le proprie categorie concettuali nell’analisi de qua, dovrà comunque tenere conto di indici soggettivi e oggettivi che devono portare ad un risultato univoco: la gravità dell’inadempimento. Di tale valutazione dovrà, peraltro, necessariamente, dare conto nella motivazione della sentenza.
Analogamente poi, anche l’esigenza di conservare il contratto, nei limiti in cui ciò sia possibile, di fronte all’idoneità della risoluzione di spazzarlo via definitivamente, fa propendere per l’uso congiunto e ponderato dei due parametri.
Il requisito della gravità dell’inadempimento acquista particolare importanza ai fini precipui della presente indagine, vale a dire in relazione al rapporto tra domanda di risoluzione e domanda di adempimento. Al riguardo basti pensare al fatto che la gravità costituisce requisito della sola richiesta di risoluzione, essendo sufficiente, ai fini della seconda domanda, il semplice inadempimento.
Quanto detto significa che la facoltà di scelta accordata al creditore ex art. 1453, II comma c.c., con le conseguenze che ne derivano, esiste solo nei limiti in cui l’inadempimento possa qualificarsi come grave.
Quanto detto riguarda sia la scelta iniziale circa il rimedio da esperire, sia l’eventuale
68 In tal senso si è espressa in maniera costante anche la giurisprudenza: cfr. Cassazione, 27 gennaio 1979, n. 626; Cassazione, 15 febbraio 1985, n. 1300; Cassazione, 10 settembre 1991, n. 9485; Cassazione, 26 luglio 2000, n. 9800; Cassazione, 22 maggio 2001, n. 695.
scelta successiva, sempre se e nei limiti in cui la si ammetta.
Così, ad esempio, la parte non inadempiente, dopo aver scelto di chiedere l’adempimento, potrà cambiare idea e optare per la risoluzione, solo se l’inadempimento, sia esso inizialmente grave o meno, possa ritenersi tale al momento in cui viene esercitato lo ius variandi concesso dalla norma in esame.
Quanto invece all’ipotesi inversa di mutamento della domanda di risoluzione in richiesta di adempimento, ovviamente laddove e nei limiti in cui la si ritenga ammissibile, nessuna influenza avrà su tale facoltà la persistente gravità dell’inadempienza, considerato che essa non è requisito richiesto ai fini della domanda di adempiere.
Sotto tale profilo la gravità potrà semmai rilevare ai fini della continuazione del giudizio di risoluzione, domandandosi se il requisito debba limitarsi a sussistere al momento iniziale della proposizione della domanda ovvero se esso debba continuare ad esistere anche nel corso del procedimento.
Il quesito è di non poca importanza se si considera che dalla sua soluzione può dipendere l’esito del giudizio di risoluzione.
Ed infatti, la scelta nell’uno o nell’altro senso ripartisce tra le parti processuali il rischio della possibile infondatezza iniziale della pretesa; così, attribuire rilievo, ai fini della valutazione della gravità, anche al periodo successivo alla presentazione della domanda, significa far dipendere dal comportamento del convenuto in risoluzione il fondamento della relativa domanda e, quindi, l’esito finale del giudizio.
Il convenuto, infatti, potrebbe sfruttare la durata del procedimento per ridurre la gravità dell’inadempienza e, quindi, far propendere a proprio favore l’esito del giudizio.
Al contrario limitare la rilevanza della gravità al momento iniziale significa addossare
all’attore tutti i rischi dell’infondatezza della domanda proposta69.
La scelta tra l’una o l’altra delle due soluzioni impone di partire dalla considerazione del divieto posto a carico del debitore dall’art. 1453, 3° comma c.c., di offrire la prestazione successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione.
Tale soluzione, a parere di chi scrive, appare esatta, oltre che per il fatto di avere un fondamento normativo, anche perché improntata ad esigenze di equità sostanziale e processuale: sarebbe infatti iniquo far dipendere l’esito della scelta fatta propria da un soggetto, esclusivamente dal comportamento di altro soggetto.
Appare, per contro, più rispondente ad esigenze di correttezza, porre a carico del proponente i rischi di una domanda temeraria o comunque priva dei requisiti richiesti per legge.
Senza dimenticare le innegabili esigenze di certezza che pure sottendono alla soluzione divisata: rapportare la gravità dell’inadempimento anche alla fase successiva alla proposizione della domanda pone il problema di individuare a quale momento o fase del giudizio sia possibile riferire la valutazione.
Va da sé che non esistono criteri univoci al riguardo, con la conseguenza che un inadempimento potrebbe in astratto risultare più o meno grave nel corso dello stesso procedimento.
Per tale via il risultato sarebbe il riconoscimento in capo al giudice di un potere altamente discrezionale, poiché dalla scelta soggettiva di ancorare la gravità ad un
69 Nello stesso senso si esprime SICCHIERO, op. cit., p. 579.
70 Alla medesima conclusione giungono XXXXX, Il contratto, op. cit., p. 636 ss.; XXXXXX, op. cit., pp. 132 ss. In giurisprudenza, nello stesso senso, Cass.azione, 14 maggio 2004, n. 9200. Nel senso invece di attribuire rilievo anche al comportamento successivo alla proposizione della domanda di risoluzione si veda Cassazione, 7 giugno 1993, n. 6367.
momento piuttosto che ad un altro, dipenderebbe l’esito della stessa azione di risoluzione.
Quanto detto circa la necessità di cristallizzare il requisito della gravità al momento iniziale del giudizio non comporta che tutto ciò che accade successivamente sia ininfluente ai fini del giudizio.
9.2. L’inadempimento reciproco
Il codice non disciplina l’ipotesi in cui a non adempiere la prestazione siano entrambi i contraenti.
Gli unici criteri esistenti in materia sono pertanto quelli fissati dalla giurisprudenza, la quale, partendo dalla necessità della comparazione tra inadempimenti, ha perlopiù stabilito la regola della prevalenza di un inadempimento sull’altro.
In altri termini, si è condotto un esame comparativo, onde verificare quale inadempienza possa considerarsi più grave e, quindi, prevalente sull’altra.
Più precisamente, si è ritenuto che il giudice, non potendo pronunciare la risoluzione per inadempimento di entrambe le parti, debba addebitare l’inadempienza a quello dei
71 Secondo qualche autore, ciò comporterebbe che il creditore, il quale abbia ancora interesse a ricevere la prestazione, dovrebbe accettare di riceverla qualora “la domanda risarcitoria sia in tal modo soddisfatta”71, incorrendo, in caso contrario, nel rischio di vedere accertarsi nei propri confronti un concorso di colpa nella causazione del danno”. Così SICCHIERO, op. cit., p. 581. Sennonché, forse, affermare questo riporterebbe la questione ai termini di cui sopra, con la possibilità che il debitore possa, con il proprio comportamento, influire sull’andamento del giudizio contro il divieto di cui all’art. 1453, III comma c.c.
contraenti che, con il proprio comportamento, ha 72alterato il nesso di reciprocità che lega le prestazioni, dando per ciò stesso causa all’inadempimento dell’altro.
In caso di eguale parità degli inadempimenti, la giurisprudenza ha abbracciato nel tempo soluzioni diverse: in un primo momento si riteneva che entrambe le domande dovessero essere respinte con la conseguenza che il contratto rimaneva in vita anche se con un futuro alquanto incerto.
Non era tuttavia facilmente giustificabile il fatto che i contraenti dovessero rimanere vincolati ad un rapporto contrattuale bilateralmente ineseguito che, per ciò stesso, risultava agli occhi di entrambi privo di interesse.
Successivamente si è preferito far ricorso alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta73, perlomeno nei casi in cui gli inadempimenti non potevano essere provati. Tale soluzione, tuttavia, appare non perfettamente rispondente ai requisiti previsti dall’art. 1463 c.c., posto che ciascuna prestazione rimane di per sé giuridicamente e materialmente possibile.
Più fondata risulta la soluzione, pure talvolta abbracciata, della risoluzione per doppio inadempimento,74 in considerazione del fatto che la reciprocità nulla toglie e nulla aggiunge al fondamento, alle caratteristiche e alla operatività della risoluzione.
Basti pensare, a tal riguardo, che ciascun inadempimento mantiene una propria autonomia e indipendenza, senza nulla togliere all’inadempienza di controparte.
Xxxxxxx, al riguardo, i risultati cui si può pervenire in relazione alla tutela risarcitoria: ci si chiede infatti se le colpe reciproche si neutralizzino a vicenda con la conseguenza che nessuna parte avrà diritto al risarcimento ovvero se ciascuna di esse mantenga integro il
72 Cassazione, 3 gennaio 2002, n. 27.
73 Cassazione, 24 novembre 2000, n. 15167 secondo la quale “il giudice che in presenza di reciproche domande di risoluzione fondate da ciascuna parte sugli inadempimenti dell’altra, accerti l’inesistenza di singoli specifici addebiti, non potendo pronunciare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità dell’esecuzione del contratto per effetto della scelta ex art. 1453 2° comma c.c. di entrambi i contraenti”.
74 Cassazione, 29 aprile 1993, n. 5065 in Contratti, 1993, p. 527.
proprio diritto, salva la compensazione fino alla concorrenza dei due importi.
Tale seconda opinione risulta maggiormente giustificata alla luce della considerazione che non esiste nel nostro ordinamento giuridico un principio in base al quale le colpe reciproche si cancellano a vicenda.
Dubbi sorgono nell’ipotesi in cui a fronte di un inadempimento reciproco, si delinei un contrasto tra domanda di risoluzione da parte di un contraente e domanda di adempimento presentata dall’altro.
Non potendo a rigor di logica trovare accoglimento entrambe, si pone il problema di stabilire quale debba considerarsi prevalente sull’altra. A tal riguardo sembra maggiormente giustificata l’opinione che attribuisce prevalenza alla domanda di risoluzione in quanto avallata sia dal dato normativo che da esigenze sostanziali.
Quanto al primo, l’art. 1453 c.c. pone come principio generale l’impossibilità di adempiere o, comunque, di chiedere l’adempimento successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione.
Alla stessa conclusione si giunge considerando “la dialettica degli interessi che vengono qui in evidenza”, per cui l’interesse volto a ricostruire la sostanza del patrimonio anteriore al contratto sembra dover prevalere su quello che potrebbe facilmente portare alla sostituzione dello scambio in natura con lo scambio per equivalente75.
75 La riflessione è di LUMINOSO, op. cit. p. 29 nota 3.
76 Così anche SICCHIERO, op. cit., p. 365.
CAPITOLO II
I rapporti tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento: la scelta reversibile
1. Rapporti tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione del contratto per inadempimento ex art. 1453 c.c.
Come già preannunciato nel capitolo precedente, l’obiettivo primario del presente lavoro consiste nell’occuparsi del rapporto tra la domanda di adempimento del contratto e la domanda di risoluzione del medesimo per inadempimento, alla luce di quanto disposto dall’art. 1453, 2° comma c.c.
La disposizione attribuisce al creditore la possibilità di reagire all’inadempienza del debitore attraverso la facoltà di scelta tra l’azione per ottenere l’adempimento ovvero, viceversa, per ottenere la risoluzione e, quindi, lo scioglimento definitivo del vincolo contrattuale.
Ciò significa che di fronte all’inadempimento di controparte la scelta circa il futuro e le sorti del rapporto è rimessa all’iniziativa della parte non inadempiente.
Di fronte all’inadempimento di controparte, quindi, il creditore può reagire secondo due diverse modalità, la cui attuazione concreta comporta per il medesimo conseguenze
77 La quale, nel primo esempio fatto, rientrerà nell’ambito di applicazione dell’art. 1453 c.c., mentre nel secondo costituirà un’ipotesi di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
profondamente differenti.
Tali sono quelle disciplinate dal capoverso della disposizione in esame, il quale, nella prima parte, attribuisce al creditore una facoltà di scelta reversibile: qualora egli abbia agito chiedendo l’adempimento del contratto può, infatti, cambiare idea e scegliere la risoluzione.
Diversamente, nella seconda parte, la scelta è irreversibile in quanto, il creditore, qualora abbia deciso di sciogliere il rapporto, non può tornare sui suoi passi e chiedere la conservazione del vincolo.
Scopo della presente analisi è ora quello di analizzare dettagliatamente il predetto meccanismo “bidirezionale”, onde saggiarne l’ambito e i limiti di operatività.
2. Il cosiddetto “ius variandi” nel codice del 1865
Lo studio dello ius variandi così come disciplinato dal legislatore del 1942 presuppone un breve excursus storico sulle sue origini e sul suo sviluppo, che va ad integrare quanto già esposto nel capitolo I.
Come già visto, l’istituto della risoluzione era disciplinato in modo profondamente diverso nel codice del 186578. L’influenza esercitata dalla codificazione d’oltralpe aveva fatto sì che il rimedio operasse come una sorta di “condizione risolutiva tacita”, implicitamente data per presupposta nei contratti bilaterali; con la particolarità che essa non operava alla stregua della condizione di efficacia disciplinata dagli artt. 1353 ss. del
78 L’art. 1165 del codice così recitava: “La condizione risolutiva è sempre sottintesa nei contratti bilaterali, pel caso in cui una delle parti non soddisfaccia alla sua obbligazione.
In questo caso il contratto non è sciolto di diritto. La parte verso cui non fu eseguita l’obbligazione, ha la scelta o di costringere l’altra all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi.
La risoluzione del contratto deve domandarsi giudizialmente, e può essere concessa al convenuto una dilazione secondo le circostanze.”
codice attuale, ma richiedeva l’intervento dell’autorità giudiziaria, appositamente chiamata a pronunciarsi dalla parte non inadempiente.
Come già preannunciato nel primo capitolo, nessun riferimento normativo espresso alla reversibilità o meno della scelta era contenuto nel codice del 1865; l’art. 1165 si limitava, infatti, a prevedere a favore del creditore la scelta tra la manutenzione e lo scioglimento del vincolo contrattuale, senza nulla aggiungere.
Ciò veniva giustificato prevalentemente con esigenze di tutela del debitore, il quale, una volta presentata la domanda di risoluzione da parte del creditore, doveva considerarsi “assolto” dall’obbligo di adempiere il contratto e, conseguentemente, libero di offrire aliunde la prestazione dedotta nell’accordo.
Senza contare poi il fatto che, a fronte del disinteresse del creditore, il debitore poteva già essersi spogliato del bene, venendo, in tal modo, a trovarsi nella situazione di doverlo recuperare nuovamente, magari a condizioni ben più onerose.
Trattasi, come si vedrà in prosieguo, di una motivazione che successivamente verrà spesso utilizzata anche sotto il vigore del codice civile del 1942 per giustificare l’irreversibilità della scelta effettuata.
Diversamente, in caso di domanda di adempimento si riteneva pacificamente che al contraente fedele fosse concesso di mutare la propria richiesta.
79 Così, ex multis, FERRARA Senior, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p. 340.
80 Tra questi VIVANTE, op. cit., n. 1626.
Tra le spiegazioni fornite al riguardo, particolarmente diffusa era quella secondo la quale l’inizio del processo avrebbe aggravato l’inadempimento del convenuto, rafforzando, se non addirittura fondando, il presupposto essenziale per la domanda di risoluzione.
Tale ratio sottendeva l’esigenza di tutela del creditore, il quale, a fronte dell’aggravarsi dell’inadempimento, necessitava di strumenti di difesa ancora maggiori e più efficaci.
Infatti, solo successivamente al concreto soddisfacimento del creditore, ottenuto per una ovvero per l’altra via, l’esigenza di tutela poteva considerarsi definitivamente soddisfatta.
Va da sé che solo a seguito del concreto soddisfacimento raggiunto dal creditore per effetto dell’esecuzione forzosa o in seguito all’esecuzione spontanea conseguente a sentenza di condanna, si riteneva che lo ius variandi venisse definitivamente meno.
Non pare revocabile in dubbio il fatto che grande influenza sul carattere reversibile o irreversibile della scelta tra le due azioni, avesse, anche sotto il vigore del codice del 1865, l’adesione all’una ovvero all’altra delle teorie sviluppatesi in merito al fondamento dell’istituto della risoluzione.
In particolare, i sostenitori della tesi che attribuiva alla risoluzione un fondamento sanzionatorio a carico del contraente inadempiente affermavano il carattere sempre reversibile della scelta, a prescindere dal tipo di giudizio inizialmente instaurato.
Non parevano, pertanto, esservi limiti al passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione, posto che il perdurare di una situazione di inadempienza non 81 Così AULETTA, op. cit., p. 460.
poteva assolutamente limitare il potere del creditore di tutelare al meglio la propria posizione; anzi, proprio il carattere sanzionatorio della risoluzione giustificava il passaggio dalla richiesta di adempimento alla domanda di risoluzione.
Qualche dubbio, al contrario, sarebbe potuto sorgere in merito alla compatibilità fra la teoria della “sanzione” ed il passaggio opposto.
Se, infatti, a fronte del persistere dell’inadempimento, la risoluzione veniva configurata come la giusta sanzione a carico dell’infedele, in base a quale ragione si sarebbe dovuto giustificare il passaggio dalla domanda di risoluzione a quella di adempimento.
Cionondimeno, tra i sostenitori della “teoria coercitiva”, vi è stato chi ha giustificato il passaggio da risoluzione ad adempimento forzato in base alla loro identica natura di mezzi satisfattivi, concessi dalla legge al creditore per tutelare al meglio il suo credito.
Ciò nel senso di ritenere che la facoltà di scelta fosse sempre possibile fintantoché la tutela del creditore non fosse di fatto raggiunta con la prestazione forzata (esecuzione specifica o esecuzione per equivalente) o con la sentenza di risoluzione.
A diversa soluzione potevano intuibilmente condurre le teorie soggettive basate sul fondamento condizionale della risoluzione.
Non pare revocabile in dubbio, infatti, che il verificarsi dell’inadempimento inteso quale avvenimento risolutorio sia del rapporto che del contratto che ne sta alla base, potesse facilmente condurre all’assoluta irrevocabilità della scelta compiuta.
Sennonché, i sostenitori della suddetta teoria, pur rapportando l’inadempimento nell’alveo della condizione, non ne traevano tutte le necessarie conseguenze.
L’accostamento all’elemento condizionale, quale avvenimento che spazza via con efficacia ex tunc tutto quanto fino a quel momento verificatosi, avrebbe dovuto 82 Così AULETTA, op. cit., p. 462 ss.
giocoforza condurre ad ammettere la sola possibilità di un’azione di “accertamento risolutivo”, nel senso cioè di riconoscere alla sentenza di risoluzione carattere meramente dichiarativo, esclusa la stessa facoltà di agire per l’adempimento.
Tuttavia, come si è già detto nel corso del Capitolo I, le teorie condizionali non potevano non tener conto del dato normativo, il quale, ai fini della risoluzione, richiedeva la necessaria mediazione dell’intervento del giudice.
Per tale via, anche chi aderiva alle teorie condizionali riusciva ad ammettere il carattere “bidirezionale” del passaggio, nel senso cioè di ammettere il passaggio a prescindere dalla domanda proposta per prima.
Sennonché, in tal modo, i sostenitori della teoria de qua non si rendevano conto che la soluzione cui giungevano era in netto contrasto con l’assunto da cui erano partiti.
Il che equivale a dire che la reversibilità del passaggio portava necessariamente a smentire il fondamento condizionale dell’istituto risolutorio.
Problematica poteva sembrare anche la compatibilità fra la teoria che individuava il fondamento della risoluzione nella mancanza di causa e il riconoscimento della possibilità di passare dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione e viceversa. In verità, sebbene l’argomento venisse utilizzato proprio per smentire l’attendibilità della teoria della causa, non sembravano, a parere di chi scrive, esservi soverchi problemi di compatibilità.
Ciò, tuttavia, sul presupposto di considerare correttamente il difetto di causa che sta alla base del rimedio risolutorio; esso, infatti, non andava (e non va, dato che il problema, come vedremo più ampiamente in prosieguo, si ripropone anche nel sistema attuale) identificato con il difetto genetico che determina, in quanto tale, la nullità del contratto.
Come si è già visto nel corso del Capitolo I, il difetto derivante dall’inadempimento ha carattere funzionale, incide, cioè, sul rapporto, lasciando impregiudicata la causa genetica dell’accordo e, quindi, facendo salva la validità dello stesso.
L’inadempimento ex uno latere, inoltre, e il difetto di scambio che ne deriva, devono essere necessariamente verificati ad opera dell’autorità giudiziaria di modo tale che solo con la pronuncia del giudice il contratto potrà considerarsi sciolto.
Va da sé che fino al momento della sentenza di risoluzione l’accordo deve considerarsi ancora in essere, con tutte le conseguenze che ne derivano in relazione alla possibilità di passare da una domanda all’altra.
3. La Relazione del Guardasigilli al codice
Di fronte all’ampia libertà di cambiamento della domanda giudiziale e alla discrezionalità che l’art. 1165 sembrava offrire al creditore, non tardò a farsi strada l’esigenza di dettare delle regole espresse aventi la finalità di regolamentare e, quindi, di arginare detta facoltà di cambiamento.
Proprio tale esigenza si sente sottesa nel n. 661 della Relazione al codice, secondo il quale “la risoluzione può essere chiesta anche se la parte fedele ai propri obblighi aveva promosso giudizio per ottenerne l’esecuzione; il che è ovvio dato che perdura lo stato di violazione del contratto.” E ancora: “non è invece consentito che la domanda di risoluzione si muti in domanda di adempimento; scegliendo la risoluzione, il contraente implicitamente dichiara di non aver più interesse al contratto e il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l’esecuzione della prestazione”.
La Relazione al codice giustifica il carattere reversibile della scelta nel caso in cui l’attore abbia intrapreso dapprima l’azione di adempimento, mutandola poi in domanda
di risoluzione, facendo ricorso al principio di tutela del creditore, vittima dell’altrui inadempimento.
Quanto all’ipotesi inversa, come già era accaduto sotto il vigore del codice abrogato, appare evidente che anche la Relazione giustifica l’irreversibilità della scelta facendo ricorso al principio del favor debitoris, inteso quale esigenza che l’inadempiente non resti esposto a tempo indeterminato al mero arbitrio del creditore.
4. Le ragioni giustificatrici della reversibilità
Cominciando ad addentrarci nel tema specifico del presente studio, è giunto il momento di analizzare le cause giustificatrici e i limiti di quanto disposto dal 2° comma dell’art. 1453 c.c. in relazione al mutamento della domanda giudiziale proposta.
Lo scopo, come già preannunciato, è di vagliarne la solidità e la fondatezza.
L’analisi non può che partire dalla prima parte della norma de qua, afferente la reversibilità della richiesta di adempimento.
I motivi che hanno guidato il legislatore in tale scelta coincidono sostanzialmente con le ragioni che già sotto il vigore del Codice del 1865 avevano indotto dottrina e giurisprudenza, nel silenzio della legge, a riconoscere il carattere reversibile della scelta nell’ipotesi in cui il creditore avesse inizialmente agito per ottenere l’adempimento del contratto.
83 Si è affermato che la scelta rimarrebbe reversibile fintantoché l’adempimento non sia stato integralmente attuato; la semplice offerta reale della prestazione, se non accettata, non è di per sé sufficiente, qualora non comprenda anche il risarcimento del danno da ritardo e le spese processuali (Cassazione, 7 luglio 1987, n. 5902, Arch. civ., 1988, p. 45).
In primis, va sicuramente citata l’esigenza di tutela del creditore di fronte alla persistente inadempienza del debitore convenuto per l’adempimento.
Infatti, il perdurante comportamento omissivo del debitore non fa altro che peggiorare la sua posizione, sino a giustificare la perdita di interesse ad ottenere l’adempimento da parte del creditore.
Tale perdita di interesse, dal canto suo, induce a ritenere che l’unica via percorribile nella tutela creditoris sia il passaggio dall’adempimento alla risoluzione.
La perdita dell’interesse all’adempimento può essere collegata a tutta una serie di eventi contingenti quali, a titolo meramente esemplificativo, la perdita della capacità di adempiere, personale od economica, del debitore o i cambiamenti tecnologici relativi ai beni ad alto contenuto innovativo, tali da renderli inutilizzabili o, comunque, da diminuirne il valore; il tutto unito poi alla durata dei giudizi, oramai al di fuori dei limiti della ragionevolezza.
Va da sé che, nel perdurare dell’inadempimento, nessun affidamento meritevole di tutela sussiste in capo al debitore, con la conseguenza che l’unico soggetto da tutelare risulta essere il creditore.
Sotto tale profilo la risoluzione diventa una sorta di extrema ratio a difesa delle ragioni del creditore e si pone perfettamente in linea con il pensiero di quanti riconoscono nella risoluzione un fondamento di sanzione.
Ciò, tuttavia, non può ritenersi sufficiente per aderire alle teorie sul carattere “sanzionatorio” del rimedio, posto che la suddetta mutatio libelli si spiega, come vedremo, anche alla luce delle altre teorie sul fondamento della risoluzione.
Così, non vi sono dubbi che anche la teoria che individua il fondamento della risoluzione nel venir meno della giustificazione causale del rapporto contrattuale, appare coerente con il carattere reversibile della scelta in oggetto.
Nessun ostacolo infatti, né sostanziale né processuale, impedisce al creditore, di fronte ad un rapporto ancora esistente ancorché claudicante, di cambiare idea e di passare dalla richiesta di adempimento a quella di scioglimento del vincolo.
In verità, a parere di chi scrive, il passaggio dalla prima alla seconda domanda appare del tutto svincolato da qualsiasi legame con il fondamento che si voglia riconoscere all’istituto. Xxxx è che, persistendo l’inadempimento, il rimedio de quo risulta lo strumento più adeguato di fronte ad un rapporto gravemente ed irrimediabilmente compromesso.
Né, ci sia consentito, sembrano esservi motivi per vincolare la parte adempiente alla scelta originaria - fatta in un momento in cui il perdurare del rapporto appariva ancora vantaggioso - impedendole, di fronte alla presa di coscienza della irrimediabilità dell’inadempimento, di cambiare idea chiedendo lo scioglimento del rapporto.
Non vi ostano sicuramente esigenze di tutela della controparte, posto che la medesima, persistendo nel suo inadempimento, non mostra certo di fare affidamento sulla continuazione del rapporto84. Xxxx, proprio il suo colposo o doloso inadempimento impedisce di considerarla meritevole di qualsiasi tutela sia sostanziale che giudiziale.
Né sembrano essere di ostacolo principi di natura processuale.
84 Così anche SMIROLDO, op. cit., p. 311 ss.
85 Così, testualmente, il Tribunale di Ravenna, 8 novembre 1994, secondo il quale “la domanda giudiziale di inadempimento, anche se vale come rinuncia agli effetti risolventi dell’inadempimento pregresso, non può valere come rinuncia a quelli dell’inadempimento futuro”.
Né, si è giustamente osservato86, sembra esistere un principio di irretrattabilità della scelta compiuta, tale da vincolare l’attore alla propria scelta.
Se così fosse si sortirebbe l’effetto di paralizzare la tutela del creditore, indissolubilmente legato ad una scelta non più adeguata alle sue esigenze di tutela, finendo con il pregiudicare proprio colui che invece si voleva tutelare.
Nessun ostacolo alla citata reversibilità arriva dal principio di eguale tutela delle parti nel processo, posto che, come già ampiamente chiarito, nessuna tutela merita il debitore convenuto che persiste nel suo comportamento inadempiente.
Analogamente nessuna incompatibilità esiste con il principio di economia dei giudizi, di cui, anzi, la norma de qua rappresenta proprio una modalità di espressione, posto che consente di evitare un nuovo processo, con tutti i conseguenti risvolti positivi in termini di risparmio di tempo e di spese.
Tutto ciò con la logica conseguenza che il detto principio di tutela delle ragioni creditorie deve essere ritenuto libero di manifestarsi nei modi che nel singolo caso risultano più adeguati, ivi compreso il passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione.
5. Lo ius variandi come regola processuale
Si ritiene prevalentemente, soprattutto in giurisprudenza, che lo ius variandi di cui all’art. 1453 2° comma c.c. sia una facoltà di natura meramente processuale87 attribuita alla parte e che, come tale, vada coordinata con i principi che regolano il mutamento della domanda nel corso del giudizio.
86 SMIROLDO, op. cit., p. 310.
87 In tal senso in dottrina DELLACASA, Inattuazione e risoluzione, op. cit., p. 213 ss; XXXXX Sul mutamento in appello della domanda di adempimento in quella di risoluzione in Giur. Compl. Cass. Civ., III, 1948, p. 377.
Proprio perché contenente una facoltà processuale, si ritiene che l’art. 1453, II comma
c.c. sia una norma di valore procedurale e che, come tale, rappresenti una sorta di lex specialis rispetto alle norme processuali che in via generale disciplinano le domande nuove, destinata, in detta veste, a prevalere sulle stesse.
In tal senso si esprime in maniera pressoché univoca la Suprema Corte di Cassazione, la quale, con pronunce financo tralatizie, afferma che “la previsione del secondo comma dell’art. 1453 c.c., in forza della quale è possibile, in deroga alle norme processuali che dispongono il divieto della “mutatio libelli” nel corso del processo, la sostituzione – anche in appello ed eventualmente in sede di giudizio di rinvio – della domanda di risoluzione per inadempimento a quella originaria di adempimento del contratto”88.
Vi è di più. Siccome la suddetta norma prevede una mutatio libelli, essa, in quanto norma di carattere speciale, non può che derogare ai limiti generalmente posti dall’art. 183, VI comma c.p.c., con la conseguenza che la domanda nuova potrà essere proposta anche decorsi i termini perentori ivi previsti.
La giurisprudenza di legittimità è poi concorde nello stabilire che la suddetta deroga in tanto sia ammissibile in quanto si resti comunque all’interno della stessa causa petendi. La Cassazione ha infatti avuto modo di osservare che alla base della successiva domanda di risoluzione devono comunque porsi gli stessi fatti e lo stesso inadempimento su cui si fondava l’originaria domanda di adempimento89.
Più precisamente, al riguardo “l’esercizio della facoltà ex art. 1453 x.x. xx xxxxxx xxx xxxxx xxx xxxxxxxx xx xxxxx grado e anche in appello la domanda di adempimento in quella di risoluzione, in deroga al divieto sancito dagli artt. 183,184 e 345 c.p.c., in
88 Così Cassazione, 31 ottobre 2008, n. 26325; nello stesso senso, tra le tante, Cassazione, 16 giugno 2009, n. 13953; Cassazione, 6 aprile 2009, n. 8234; Cassazione, 18 gennaio 2008, n. 1003; Cassazione, 27 marzo 2004, n. 6161; Cassazione, 26 aprile 1999, n. 4164, Cassazione, 27 marzo 1996, n. 2715; Cassazione, 6 settembre 1994, n. 7668.
89 In tal senso Cassazione, 10 aprile 1999, n. 3502; Cassazione, 2 marzo 1996, n. 1636 in Giustizia Civile,
1996, I, p. 1963, Cassazione, Sez. Un., 18 febbraio 1989, n. 962 in Rivista di diritto processuale, 1990, vol. 45, p. 876 ss. con nota di ROTA, Dalla domanda di adempimento alla domanda di risoluzione; Cassazione, 11 maggio 1987, n. 4325; Cassazione, 7 agosto 1982, n. 4445.
tanto è giuridicamente ammissibile in quanto resti nell’ambito dei fatti posti a base dell’inadempienza originariamente dedotta, sia cioè una prosecuzione della facoltà di scelta iniziale tra tali due domande, in quanto diversamente, ove siano prospettati atti nuovi configuranti una nuova causa petendi, con introduzione di un nuovo tema d’indagine, riprendono vigore le preclusioni di cui agli artt. 183, 184 e 345 c.p.c.”90.
A ben vedere, detta soluzione finisce con il limitare più di quanto si creda la portata derogatrice che la giurisprudenza riconosce all’art. 1453, II comma c.c.
Ed infatti, per tale via, la deroga alle norme propriamente processuali opera fintantoché si resti nell’ambito dei fatti già contestati al debitore, laddove invece il verificarsi di un fatto nuovo richiederebbe comunque l’instaurazione di un successivo processo.
Quid iuris qualora nel corso del giudizio sopravvengano circostanze nuove di importanza e gravità tali da ridefinire o meglio riqualificare l’inadempimento originario ed estinguere, per ciò stesso, l’interesse del creditore ad ottenere l’esecuzione forzosa del contratto?
Stando al ragionamento più volte espresso dalla Suprema Corte, il creditore, in tal caso, non avrebbe altra via che quella di presentare una nuova domanda di risoluzione instaurando, quindi, un nuovo processo.
Quanto al precedente giudizio invece, esso presumibilmente terminerebbe con una sentenza di condanna, destinata, tuttavia, dato il sopraggiunto disinteresse del creditore all’adempimento, a restare ineseguita.
Tutto ciò comporterebbe un aggravio di spese e costi e finirebbe con il pregiudicare il diritto di tutela del creditore, costretto ad affrontare un nuovo giudizio e ad attendere le lungaggini del suo corso per ottenere il soddisfacimento del suo interesse.
Parrebbe, piuttosto, a parere di chi scrive, che i fatti sopravvenuti, qualora si possano
90 Le parole sono di Cassazione, Sez. Un., 18 febbraio 1989, n. 962. In tal senso anche Cassazione, 27 novembre 1996, n. 10506.
comunque rapportare al comportamento pregresso del debitore in quanto ne costituiscano una conseguenza possibile ed eventualmente prevedibile, siano riconducibili nell’alveo dell’art. 1453, II comma c.c.91
Così, sembra potersi affermare l’esistenza di un unico fatto costitutivo - e, quindi, la possibilità di mutamento della domanda all’interno del giudizio - tutte le volte in cui l‘accadimento storico, pur scomponibile in una serie di circostanze, presenti comunque una propria coerenza interna, tale da poterlo considerare come una fattispecie unitaria.
A titolo meramente esemplificativo l’accadimento e, quindi, l’inadempienza, potrà considerarsi unica qualora il debitore dapprima semplicemente si rifiuti di consegnare un bene alla controparte e, poi, successivamente, se ne disfi, alienandolo o distruggendolo.
Le condotte de quibus, seppur diverse nei loro elementi costitutivi, presentano comunque un’intima connessione che permette di considerarle come due momenti del medesimo disegno criminoso.
La giurisprudenza ha tratto dal carattere processualistico dello ius variandi anche altre importanti conseguenze.
In particolare, dal fatto che si tratti di una facoltà attribuita alle parti espressamente dalla legge, ha fatto derivare la non necessità che la controparte accetti il contraddittorio92, dimenticando, un po’ troppo facilmente, che esso rappresenta un principio costituzionalmente garantito. Su detto tema, che merita una trattazione più approfondita, si tornerà, peraltro, nei paragrafi successivi.
Ancora, vi ha fatto derivare la non necessità che la relativa dichiarazione sia sottoscritta
91 Potrebbe accadere, altresì, che l’inadempimento del convenuto fosse anteriore alla domanda, ma che l’attore non potesse conoscerlo neppure usando l’ordinaria diligenza. Qualora la conoscenza sopraggiunga successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 183, comma 6 c.p.c., si può ritenere possibile una richiesta di rimessione in termini da parte dell’attore. Così DELLACASA, Inattuazione e risoluzione, op. cit., p. 221.
92 Così Cassazione, 11 febbraio 1993, n. 1698, Cassazione, 11 maggio 1987, n. 4325.
dalla parte personalmente o da un procuratore speciale, “vertendosi in tema non di un atto di disposizione del diritto in contesa, ma di un’attività processuale che di tale diritto costituisce soltanto una modalità di esercizio e che rientra pertanto nei poteri del procurator ad litem essendo questi abilitato a proporre, in aggiunta o in sostituzione di quelle proposte con l’atto di citazione, tutte le domande che siano ricollegabili con l’originario oggetto”93.
6. I limiti al mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione
Accantonando, per il momento, la questione del carattere processuale dell’art. 1453, 2° comma c.c., in quanto ci si tornerà in maniera più approfondita e, ci sia consentito, più corretta, nel prosieguo, occorre ora chiedersi se esiste un termine finale alla facoltà di tale mutatio libelli.
Una riflessione adeguata della materia, infatti, non può fermarsi alla constatazione della reversibilità della scelta, ma deve addentrarsi nell’ambito incerto dell’individuazione dei limiti oltre i quali il passaggio non è più possibile.
Come vedremo, proprio l’individuazione di tali limiti contribuirà ad affrontare nei giusti termini il discorso circa l’esatta natura dello ius variandi94.
Il legislatore si limita a dire che la domanda di adempimento può essere abbandonata in favore della domanda di risoluzione senza nulla aggiungere; senza precisare, cioè, se ciò possa avvenire solo all’interno dello stesso giudizio ovvero anche dopo ed oltre ad
93 Così Cassazione, 11 maggio 1987, n. 4325.
94 Lo ius variandi può essere reso più complicato dall’esistenza di una pluralità di soggetti componenti la parte attiva o passiva; la soluzione passa attraverso la scelta tra divisibilità o indivisibilità dell’azione di risoluzione. Se si aderisce alla prima teoria, nell’ipotesi di pluralità nel lato attivo, si potrà giocoforza ammettere la modifica della domanda da parte di taluni soltanto dei soggetti agenti; al contrario l’adesione alla seconda impostazione importa necessariamente l’accordo di tutti. Nel caso di pluralità nel lato passivo, anche in ossequio al principio della presunzione di solidarietà passiva, si ritiene preferibile affermare che, poiché l’adempimento va richiesto nei confronti di tutti i convenuti, allo stesso modo anche la risoluzione dovrà necessariamente rivolgersi contro tutti e ciascuno.
esso.
L’argomento è stato oggetto di ampi dibattiti sia in ambito dottrinale che a livello giurisprudenziale.
Numerosa, pertanto, risulta anche la casistica sviluppatasi al riguardo.
6.1. Segue: i limiti interni al processo
All’individuazione di tale ultimo termine nel processo di primo grado si è giunti, come già rilevato, partendo dall’equazione per cui, se l’art. 1453, II comma c.c. è norma processuale speciale, significa che essa è in grado, come tale, di vincere le preclusioni poste dall’art. 183, VI comma c.p.c. per la modifica della domanda.
Anche in tale ipotesi, la deroga appare la fin troppo semplice conseguenza del riconosciuto carattere processuale della norma di cui all’art. 1453, II comma c.c.
95 Così Cassazione, 27 marzo 1996, n. 2715; in tema di appalto analogamente cfr. Cassazione, 22 febbraio
1999, n. 1475 secondo la quale “In tema di appalto non è applicabile il principio stabilito per la vendita dal comma 2 dell'art. 1492 c.c. dell'irrevocabilità della scelta operata mediante domanda giudiziale, tra la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo, con la conseguenza che la domanda di risoluzione del contratto di appalto può proporsi nell'udienza di precisazione delle conclusioni dopo che con l'atto di citazione sia stata chiesta la riduzione del prezzo e che quest'ultima può essere nuovamente introdotta nel giudizio di appello in sostituzione di quella di risoluzione, in quanto fondata sulla stessa "causa petendi" e su un più limitato "petitum". Pertanto, non incorre in vizio di ultrapetizione il giudice che, qualora ritenga di non poter accogliere la domanda di risoluzione del contratto perché i vizi dell'opera non sono tali da renderla inidonea alla sua destinazione, disponga soltanto la riduzione del prezzo pattuito, adeguandolo all'opera compiuta”.
96 Tra le tante Cassazione 24 maggio 2005, n. 10927; Cassazione, 5 maggio 1998, n. 4521; Cassazione, 28 gennaio 1987, n. 791; in dottrina, tra i primi a sostenerlo, XXXXX, op. cit., p. 247 ss.
Ed infatti, posto che il capoverso dell’art. 1453 c.c. non pone limiti all’esercizio del diritto di mutare la domanda, esso dovrà giocoforza ammettersi fino alla sua “consumazione” e, dunque, in ogni fase e grado del giudizio.
Molto si è discusso sul fatto se il mutamento possa poi avvenire nel giudizio di rinvio97. Al riguardo, appare preferibile, come è stato sostenuto, distinguere a seconda dei casi ed ammettere il mutamento della domanda giudiziale se il rinvio avviene perché la sentenza ha omesso misure sananti o integrative (si pensi, ad esempio, al mancato ordine di integrazione del contraddittorio o di rinnovazione di atto nullo); in tal caso il processo deve svolgersi come se si discutesse per la prima volta nella fase di rito, con tutti i conseguenti poteri, ivi compresa la facoltà di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione98.
La soluzione affermativa si giustifica alla luce dell’esigenza di garanzia e di giustizia che il processo deve offrire ai contendenti (di cui il giudizio di rinvio è peraltro espressione fondamentale), esigenza che non può assolutamente considerarsi realizzata in una fase di merito svoltasi in modo incompleto e lacunoso.
Il mutamento della domanda non si ritiene invece ammissibile in cassazione, posto che il giudizio di legittimità si propone di confermare o cassare la sentenza d’appello, discutendosi solo del corretto esercizio della giurisdizione nei gradi di merito.
L’ampio spazio cronologico99 che si è via via riconosciuto al mutamento della domanda all’interno dello stesso processo, oltre ad essere l’immediata conseguenza del carattere processualistico costantemente attribuito all’art. 1453, II comma c.c., è anche il logico corollario dei principi che si sono visti costituire il fondamento della scelta reversibile.
97 In senso negativo, tra le altre, Cassazione, 16 febbraio 1972, n. 421; in senso affermativo Cassazione, 27 novembre 1996, n. 10506; Cassazione, 10 aprile 1986, n. 2503; Cassazione, 23 aprile 1981, n. 2414.
98 In senso conforme XXXXX, Xxxxx sostituzione della domanda di adempimento con la domanda di risoluzione nel giudizio civile di rinvio in Giurisprudenza italiana, I, 1, 1974, p. 259 ss., il quale peraltro, partendo dalla possibile casistica dei giudizi di rinvio, ne fa derivare la possibilità o meno del mutamento di domanda.
99 La casistica è riportata in XXXXXXXXX, op. cit. p. 86 ss.
E non poteva essere altrimenti, poiché una reversibilità più limitata avrebbe determinato il sacrificio sia di principi considerati il cardine del sistema processuale italiano che di valori posti alla base del sistema civilistico.
Nell’interpretazione del capoverso dell’art. 1453 c.c. la giurisprudenza generalmente distingue tra le facoltà concesse all’attore e quelle spettanti al convenuto.
Se, infatti, per il primo lo ius variandi opererebbe nei termini sopra riportati, per il secondo sussisterebbe una preclusione, nel senso di ritenere che la domanda di risoluzione dovrebbe, comunque, essere spiegata “tempestivamente”100.
La ratio di tale interpretazione non è, a dire il vero, particolarmente chiara. Apparentemente essa potrebbe trovare un appiglio nel dettato letterale del capoverso dell’art. 1453 c.c., poiché il riferimento al giudizio “promosso” potrebbe far pensare si tratti di una facoltà del solo attore.
In verità la norma si limita a dire che “la risoluzione può essere domandata”, senza precisare in alcun modo il soggetto cui è attribuito lo ius variandi.
Si ipotizzi, al riguardo, il caso che il venditore convenga in giudizio l’acquirente per ottenere il pagamento del prezzo ed il convenuto, da parte sua, chieda, in via riconvenzionale, la condanna alla consegna del bene venduto e si avveda poi che il bene risulta trasferito a terzi ovvero affetto da vizi tali da renderlo del tutto inidoneo all’uso cui è destinato.
Non si comprende per quale motivo all’attore dovrebbe essere concesso di cambiare idea in ogni istante, anche oltre i termini di cui all’art. 183 VI comma c.p.c., e che al convenuto sia, invece, precluso chiedere successivamente la risoluzione.
100 In tal senso, da ultima, Cassazione 24 maggio 2005, n. 10927 secondo la quale “…tale facoltà (n.d.r. lo ius variandi) è attribuita solamente alla parte che abbia chiesto l’adempimento e non anche a quella che in giudizio ad essa si opponga, la quale è pertanto tenuta a spiegare tempestivamente eventuale domanda di risoluzione” . Nello stesso senso Cassazione 15 ottobre 1992, n. 11279.
Trattasi di una scelta del tutto disancorata da principi sia di ordine sostanziale che processuale.
Dal primo punto di vista la teoria pare del tutto contraria ad esigenze di equità, posto che non tiene nel minimo conto la posizione del debitore convenuto.
Se è vero che lo ius variandi è posto nell’interesse e a tutela della posizione del contraente fedele, è altrettanto vero che il convenuto non può essere per ciò stesso privato di ogni strumento di difesa.
Senza contare poi che detta soluzione cozza contro l’esigenza di parità di trattamento delle parti nel processo e contro il principio di economia processuale.
L’impossibilità per il convenuto di modificare la propria domanda secondo quanto previsto all’art. 1453, II comma c.p.c., infatti, imporrebbe al medesimo - nell’ipotesi in cui il primo giudizio terminasse con la condanna all’adempimento - di affrontare un nuovo processo per far accertare che la cosa è già stata trasferita a terzi o che è gravemente viziata.
Stante quanto sopra, a parere di chi scrive, appare più equo e maggiormente rispondente ai predetti principi, ritenere che lo ius variandi non sia prerogativa del solo contraente fedele, ma possa essere esercitato, in presenza di determinati requisiti, da entrambe le parti in causa101.
Xxxx è forse che il convenuto che chieda in via riconvenzionale l’altrui adempimento assumendo una condotta processuale attiva e non si limiti ad un comportamento
101 Nel senso del testo SICCHIERO, op. cit., p. 310 ss.
102 Nello stesso senso si veda anche XXXXXXXXX, op. cit., p. 81 ss.
meramente difensivo si trasforma, perlomeno da un punto di vista sostanziale, in un “attore in riconvenzionale” con conseguente pacifica applicazione dello ius variandi di cui all’art. 1453 c.c.
6.2. Segue: i limiti esterni al processo
Il mutamento di domanda è stato ammesso, a dire il vero con qualche contrasto, anche al di fuori del giudizio instaurato per ottenere l’esecuzione del contratto.
Ciò che suona strano è che detto mutamento sia stato ammesso anche da quella giurisprudenza che tanto si è affannata ad affermare il carattere meramente processuale dello ius variandi104.
Così facendo, infatti, non pare esservi dubbio che l’art. 1453, II comma c.c. acquisti un significato più ampio di quello tradizionalmente attribuitogli dalla giurisprudenza, di mera deroga ai termini perentori di cui all’art. 183, VI comma c.p.c.
Finché ci si limita a spiegare lo ius variandi in detti termini, si consente al diritto di operare solo all’interno del medesimo giudizio, sia pure in primo o in secondo grado ovvero in sede di rinvio.
Le sentenze che hanno riconosciuto l’operatività del diritto anche oltre i limiti del singolo procedimento, sono rimaste, comunque, nell’ambito della sfera processuale,
103 In questo senso SMIROLDO, op. cit., p. 316 ss.; AULETTA, Ancora sul mutamento della domanda di esecuzione in domanda di risoluzione, in Giurisprudenza italiana, I, 1950, p. 661ss.; XXXXXXXXX, op. cit.,
p. 88 ss.
104 Così Cassazione, 18 maggio 1994, n. 4830: “la disposizione dell’art. 1453, comma 2 c.c. la quale, in deroga agli artt. 183, 184, 345 c.p.c. consente di sostituire all’originaria domanda di esecuzione del contratto quella di risoluzione per inadempimento, trova applicazione anche nel caso in cui la condanna all’adempimento sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato, sempre che questa non abbia avuto esecuzione per essere proseguito l’inadempimento”.
occupandosi esclusivamente dell’ipotesi in cui la successiva richiesta di risoluzione assuma la veste di domanda giudiziale volta all’instaurazione di un nuovo processo.
In altri termini, i giudici non hanno saputo cogliere dall’assunto cui sono giunti tutte le conclusioni che invece avrebbero potuto trarne, rimanendo comunque ancorati al significato tradizionalmente riconosciuto allo ius variandi di facoltà meramente processuale.
La teoria che ammette il mutamento della domanda anche dopo che la sentenza di condanna è divenuta definitiva merita, comunque, accoglimento se si pensa che la condanna all’adempimento non equivale ad adempimento concreto.
Xxxxx toglie, infatti, che il debitore, nonostante la condanna, possa rimanere inadempiente, aggravando in tal modo la sua posizione nei confronti del creditore, il quale, di fronte alla persistente prorogatio dell’inadempienza, potrebbe perdere interesse ad una esecuzione forzata rivelatasi lunga e difficile.
Né sembra potersi sostenere, in senso contrario alla tesi esposta, che in tal modo il creditore cumulerebbe i due strumenti di tutela, in contrasto con il carattere necessariamente alternativo attribuito ai medesimi dall’art. 1453 c.c., né che per tale via il creditore diverrebbe destinatario di un indebito arricchimento.
Non si dubita, infatti, che il debitore, di fronte all’eventuale pretesa della parte creditrice di ottenere sia l’esecuzione coattiva che la risoluzione (con le conseguenze insite in tale rimedio, tra cui la restituzione della prestazione eventualmente già eseguita) non esiterebbe a bloccare la plurima e disonesta pretesa della controparte con gli strumenti appositamente messigli a disposizione dall’ordinamento giuridico.
Ed infatti, a seconda del momento in cui il creditore disonesto decida di introdurre il giudizio di risoluzione, l’ordinamento reagisce apprestando a favore del debitore nuovamente convenuto appositi mezzi di tutela.
Così, se la domanda di risoluzione venisse notificata dopo che la sentenza di condanna è stata eseguita con soddisfacimento del creditore, il debitore potrebbe bloccarla eccependo l’avvenuta esecuzione dell’accordo.
Qualora, invece, il creditore tentasse di dare esecuzione al giudicato di condanna successivamente all’introduzione del giudizio di risoluzione, il debitore potrebbe opporsi all’esecuzione in base al disposto dell’art. 1453 c.c. che vieta di chiedere l’adempimento successivamente alla domanda di risoluzione.
Dubbi circa la successiva proponibilità di una domanda di risoluzione avente ad oggetto il medesimo contratto al cui adempimento il debitore è stato condannato, potrebbero derivare dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna e, quindi, dal principio del ne bis in idem.
Il giudicato, infatti, copre con la sua autorità tutto ciò che ha costituito l’antecedente logico necessario per pervenire alla decisione, precludendo, per ciò stesso, ogni possibilità di riesaminare ciò che ha costituito l’oggetto del precedente giudizio.
105 La giurisprudenza è andata oltre, ritenendo che la domanda di risoluzione possa essere esercitata anche in seguito all’esercizio dell’azione esecutiva, nell’ipotesi in cui questa abbia portato ad un soddisfacimento solo parziale del creditore; cfr. Cassazione, 22 marzo 2001, n. 4123. Tale soluzione, tuttavia, suscita qualche perplessità se solo si pensa che l’accoglimento della domanda di risoluzione dovrebbe comportare la restituzione della prestazione eventualmente già eseguita dal creditore, il quale, pertanto, verrebbe a disporre sia della propria prestazione sia di parte di quella eseguita dal debitore con conseguente suo indebito arricchimento ed onere del debitore di agire per la ripetizione di quanto ingiustamente prestato. Per tale via, quindi, si rischierebbe di realizzare un eccesso di tutela del creditore a totale scapito del debitore. Né ha senso affermare che il creditore potrebbe ripetere solo parte della prestazione eseguita, posto che essa potrebbe essere per natura o per volontà indivisibile, senza parlare poi delle difficoltà che si incontrerebbero nella valutazione della parte di prestazione ripetibile corrispondente a quella ottenuta. Trattasi, comunque, di riflessioni che, a ben vedere, cozzano contro il concetto stesso di risoluzione che determina, in quanto tale, lo scioglimento del vincolo contrattuale e, quindi, l’estinzione del rapporto che ne deriva e che postulerebbero invece l’ammissibilità, anche nel contratto a prestazioni corrispettive con due sole parti, la risolubilità parziale del rapporto.
Per ritenere operante detta preclusione occorre che tra i due giudizi, quello di adempimento e quello di risoluzione, vi sia un’identità oggettiva, in quanto i fatti posti a fondamento siano gli stessi, e soggettiva, in quanto le parti siano le medesime.
Si tratta ora di vagliare se dette identità siano rinvenibili anche nella fattispecie in esame.
Tralasciando la questione dell’identità delle parti dei due giudizi, il discorso va concentrato sull’aspetto oggettivo che entrambe le azioni coinvolgono.
Appare utile, a riguardo, analizzare il pressoché costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “nel caso in cui tale condanna (n.d.r.: quella all’adempimento) sia rimasta di fatto inadempiuta è possibile, infatti, chiedere lo scioglimento del contratto, permanendo l’inadempimento, senza alcuna necessità per l’attore di mettere in esecuzione preventivamente la sentenza di condanna, perché l’esercizio dell’azione di esecuzione non è un dovere per la parte vittoriosa, ma una facoltà che, come tale, può anche non essere esercitata. Poiché il rapporto tra le parti, nel momento in cui la sentenza passa in giudicato, diviene sostanziale e non più processuale, nulla vieta alla parte vittoriosa di rompere il contratto proponendo la domanda di risoluzione, il cui unico presupposto è l’inadempimento, non già…l’effettivo inizio né tanto meno infruttuoso esito dell’azione esecutiva”106.
Lasciando per ora da parte il pur non trascurabile inciso del riconoscimento dell’esistenza di un rapporto sostanziale e non meramente processuale tra le parti e, quindi, conseguentemente, anche tra i due rimedi107, va preliminarmente sottolineato che di regola si riconosce alle due domande la stessa causa petendi108, in quanto entrambe traggono origine e giustificazione dall’inadempimento del contratto.
106 Così Cassazione, 4 ottobre 2004, n. 19826.
107 Detto rapporto costituirà, infatti, oggetto del prossimo paragrafo.
108 In tal senso XXXXX, op, cit., p. 217.
Xxxxxxxx dubbi sorgono invece in merito all’eventuale identità del petitum109, trattandosi al riguardo di capire quale sia effettivamente l’oggetto dei due rimedi e quale ampiezza gli si debba riconoscere.
Qualora si volesse invece attribuire al concetto di “oggetto” un significato più ampio, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che le due domande, in quanto comunque dirette a reagire ad una mancanza sopravvenuta di equilibrio, presentano una comune funzione riequilibratrice.
Per tale via, a ben vedere, si giungerebbe a riconoscere ai due rimedi un’identità di petitum che non consentirebbe di superare il principio del ne bis in idem senza violarlo. Se anche è vero, tuttavia, che innegabilmente entrambe le azioni presentano una finalità con funzione “riequilibratrice”, a parere di chi scrive, l’attribuzione di un significato particolarmente ampio al petitum rischia di far perdere ai due rimedi la propria specificità.
Ciò senza dimenticare che solo l’azione di adempimento ha di mira il ripristino dell’equilibrio proprio del contratto, laddove invece l’azione di risoluzione mira piuttosto a ricreare, per quanto possibile e con l’ausilio delle eventuali conseguenti restituzioni, l’equilibrio antecedente la conclusione del contratto.
109 Nel senso che le due domande differiscono quanto al petitum si sono espressi AULETTA, op. cit., p. 465; XXXXXXXXX, op. cit., p. 88; DELLACASA, op. cit., p. 217. In giurisprudenza, nello stesso senso, Cassazione, 4 ottobre 2004, n. 19826; Cassazione, 18 maggio 1994, n. 4830; Cassazione, 27 settembre 1986, n. 5788; nel senso invece che domanda di adempimento e domanda di risoluzione avrebbero lo stesso oggetto si è espressa, ma trattasi di opinione del tutto minoritaria, Cassazione, 12 maggio 2003, n. 7272.
110 Ibidem.
Ma forse sembra più corretto sostenere che la domanda di risoluzione in quanto tale, più che ad un ripristino dell’equilibrio, si propone di porre fine alla situazione di disequilibrio venutasi a creare all’interno del vincolo contrattuale, a prescindere dall’ottenimento di una nuova situazione di equilibrio.
Il più opportuno riconoscimento a ciascun rimedio di un petitum specifico, costituito ora dall’adempimento ora dallo scioglimento del contratto, consente di superare l’ostacolo costituito dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna all’adempimento e di giungere ad ammettere l’esperibilità della domanda di risoluzione nell’ambito di un nuovo giudizio.
Tornando alla sopra citata sentenza, essa supera l’empasse costituito dal ne bis in idem, percorrendo la strada dell’inadempimento sopravvenuto.
In altri termini, essa nega che il principio possa trovare applicazione nel caso in cui il debitore persista nel non adempiere la prestazione promessa anche dopo la pronuncia della sentenza di condanna.
Se, infatti, è vero che entrambe le domande hanno a fondamento l’inadempimento contrattuale, è anche vero che la prima ha ad oggetto l’inadempimento originario, peraltro già constatato e ritenuto esistente dal primo giudice, mentre la seconda ha ad oggetto l’inadempimento sopravvenuto che verrà valutato per la prima volta dal nuovo giudice investito della causa.
L’espressione “inadempimento sopravvenuto” si riferisce al fatto che l’inadempimento originario, protraendosi anche dopo la sentenza di condanna, si arricchisce di nuovi elementi, azioni od omissioni, che danno vita ad un quid pluris rispetto all’inadempienza originariamente constatata.
Ciò non significa che l’inadempimento sopravvenuto sia nuovo e diverso da quello originario, trattandosi pur sempre del medesimo inadempimento, ancorché protrattosi
per più lungo tempo e, che, proprio per questo, non può identificarsi perfettamente con quello originario.
Ne consegue che i fatti posti a fondamento delle due domande non possono considerarsi identici.
Quanto sopra sembra invero sufficiente per negare che tra le due domande vi sia quell’identità oggettiva che costituisce uno dei pilastri su cui si basa il principio del ne bis in idem.
Ma la citata sentenza appare di indubbio interesse anche per un altro, forse sottovalutato, aspetto.
La possibilità di agire in risoluzione viene fatta dipendere dai giudici di legittimità, oltre che dall’inadempimento sopravvenuto (inteso nell’accezione sopra vista), anche dal fatto che la sentenza di condanna non consuma il diritto alla risoluzione attribuito al contraente non inadempiente ex art. 1453 c.c.
111 Le due domande (di adempimento e di risoluzione) non sembrano invece differenziarsi, almeno stando all’orientamento attualmente prevalente in giurisprudenza e consacrato recentemente anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio. Le Sezioni Unite hanno sostenuto che, a prescindere dal fatto che il creditore agisca per l’adempimento, per la risoluzione (o anche per il risarcimento del danno), egli deve limitarsi a provare la fonte del suo diritto, spettando poi al debitore dimostrare l’avvenuto adempimento ovvero il fatto che rende a lui non imputabile l’inadempimento. Cassazione, Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533 in Corriere Giuridico, 2001, 1565 con nota di MARICONDA. Nello stesso senso, ex plurimis, Cassazione, 19 aprile 2007, n. 9351; Cassazione, 13 giugno 2006, n. 13674; Cassazione, 12 aprile 2006, n. 8615 Cassazione, 25 settembre 2002, n. 13925;
Cassazione, 15 novembre 2002, n. 16092; Cassazione, 18 novembre 0000, x. 00000. Per una disamina degli oneri probatori si veda PATTI, Risoluzione per inadempimento del contratto di appalto, in Studium Iuris, 11, 2004, p. 1378.
In altri termini, l’intervenuto esercizio del diritto all’adempimento culminato con la sentenza di condanna non elimina per ciò stesso il diritto sostanziale allo scioglimento del contratto riconosciuto in via alternativa al creditore dalla norma in oggetto.
Anche la giurisprudenza, quindi, giunge, come vedremo suo malgrado ed in maniera alquanto inconsapevole, a riconoscere alla disposizione e alle domande in essa previste un significato che va oltre l’ambito meramente processuale.
Ma di questo argomento ci occuperemo più diffusamente nel prossimo paragrafo.
La possibilità di esercitare lo ius variandi successivamente alla condanna e, quindi, al di fuori del processo promosso per ottenere l’adempimento trova il suo fondamento anche e, forse, soprattutto, nel fatto che la sentenza di per sé non produce alcun mutamento nel vincolo contrattuale, che continua a permanere inalterato113.
Ed infatti, il giudicato di condanna all’adempimento nulla toglie e nulla aggiunge al rapporto sostanziale sottostante; anzi, a dire il vero lo rafforza, dotando il creditore dei mezzi che gli consentono di ottenere l’adempimento anche senza il consenso del debitore infedele.
112 In questo senso già ROTA, op. cit., p. 891 ss.
113 In tal senso, tra le prime sentenze in materia Cassazione, 21 maggio 1952, n. 1464 con nota di AULETTA, Sentenza di condanna all’esecuzione e azione di risoluzione per inadempimento; Cassazione, 28 febbraio 1955, n. 590; Cassazione, 6 aprile 1977, n. 1322; Cassazione, 18 maggio 1994, n. 4830 secondo la quale “La disposizione dell’art. 1453 comma 2 c.c. la quale in deroga agli art. 183, 184, 345
c.p.c. consente di sostituire all’originaria domanda di esecuzione del contratto quella di risoluzione per inadempimento, trova applicazione anche nel caso in cui la condanna all’adempimento sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato, sempre che questa non abbia avuto esecuzione per essere proseguito l’inadempimento”. Non sono mancate tuttavia sentenze in senso contrario: così, sempre tra le prime, Cassazione, 4 maggio 1942, n. 1164; Cassazione, 24 aprile 1974, n. 1191.
La circostanza che la sentenza di condanna non importi la novazione del rapporto contrattuale, comporta che il contraente non inadempiente manterrà tutti i diritti che da questo gli derivano.
Va da sé che, permanendo in vita il presupposto su cui si fonda il rimedio risolutorio, nessun ostacolo si frappone all’esperimento del medesimo anche oltre il processo instaurato ai fini dell’adempimento.
E’ plausibile ritenere che il legislatore, se effettivamente avesse voluto limitare la facoltà di variare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione all’interno del giudizio, lo avrebbe probabilmente previsto espressamente.
Nondimeno, probabilmente, avrebbe situato altrove la norma, vale a dire nel luogo deputato alla disciplina del processo, ovverosia nel codice di procedura civile.
Ma allora, forse, l’ampia dizione normativa nasconde un significato diverso da quello che tradizionalmente le si attribuisce.
7. La natura sostanziale dello ius variandi
Come già preannunciato, la constatazione che la possibilità di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione va oltre l’ambito del processo porta con sé conseguenze molto più importanti di quelle che si potrebbero prima facie immaginare e conduce ad abbracciare una soluzione diversa da quella divisata dalla giurisprudenza maggioritaria.
114 Così anche SMIROLDO, op. cit., p. 318 ss.
Non si tratta semplicemente di attribuire un fondamento sostanziale ad un principio processualistico, posto che spesso i principi che governano l’ambito giudiziale promanano da esigenze di tipo sostanziale, quanto piuttosto di riconoscere allo ius variandi un ambito operativo che va oltre il campo meramente processuale116.
L’approdo ad una simile teoria si basa su di una convincente – perlomeno a parere di chi scrive - interpretazione logico-sistematica del II comma dell’art. 1453 c.c., che tiene nel debito conto il contenuto dell’intera disposizione.
Ciò che si intende dire è che il diritto all’adempimento e il diritto allo scioglimento del vincolo contrattuale per inadempimento sono, prima di tutto, due diritti di carattere sostanziale.
La possibilità di esercitarli, oltre che sul piano sostanziale, anche sul piano processuale attraverso lo strumento della domanda giudiziale non incide in alcun modo sulla loro natura giuridica.
115 Così si è espresso REDENTI, L’offerta di riduzione ad equità in Rivista trimestrale diritto e processo civile, 1947, pag. 583 nota 13.
116 In tal senso si espresse anche SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, Milano, 1962, p. 140, secondo il quale: “di eccezione non c’è neppure l’ombra, perché la domanda è nuova non solo in un senso volgare e in realtà si tratta dell’esercizio di un diritto che non può essere pregiudicato dalla pendenza del giudizio”; nel senso che “in questo caso si può parlare di un concorso di azioni solo in senso improprio, ovvero di mera proiezione processuale; nel senso, cioè, per cui, sulla scorta della distinzione tra diritto ed azione, si afferma che ad ogni diritto corrisponde un’azione” si veda anche, tra i primi in tal senso, XXXXXXX, Azioni concorrenti in Problemi del processo civile, Napoli, 1934, p. 58.
117 Cfr. XXXX, op.cit., p. 883.
Ancora una volta, pertanto, il fatto che detto ius variandi possa essere esercitato oltre che sul piano sostanziale anche all’interno del processo non muta la sua natura sostanziale.
Non vi sono dubbi, innanzitutto, che l’ampia dizione normativa del 1° comma prescinda da qualsiasi “localizzazione” della richiesta di adempimento o di risoluzione, nel senso che il creditore potrà scegliere la via stragiudiziale ovvero la via giudiziale.
Quanto all’adempimento, in particolare, il contraente fedele potrà scegliere se ricorrere ab initio alla domanda giudiziale, ovvero tentare di percorrere la via extragiudiziale attraverso la diffida ad adempiere dell’art. 1454 c.c. oppure dando notizia all’altra parte di esigere l’esecuzione dell’accordo nonostante la scadenza del termine essenziale contrattualmente convenuto.
Nel caso, invece, in cui il creditore propenda subito per lo scioglimento del vincolo, qualora non opti per la risoluzione giudiziale, potrà rivolgere alla controparte una formale diffida ad adempiere ovvero semplicemente dichiarare che intende avvalersi della clausola risolutiva espressa qualora inserita nel corpo del contratto.
Va da sé che il II comma, rappresentando la continuazione logico-sistematica del I, non potrà che avere lo stesso significato e lo stesso ambito di applicazione.
Detta conclusione pare rafforzata anche dal fatto che la terminologia del capoverso, come già si è visto per il primo comma, pare prescindere da qualsiasi “categorizzazione” della natura della richiesta successivamente avanzata dal creditore.
In verità, che alla norma in rassegna non possa riconoscersi carattere esclusivamente
118 Lo stesso discorso relativo alla natura sostanziale dello ius variandi si potrà fare, a tempo debito, anche con riferimento all’ipotesi inversa, ovviamente qualora si accetti l’assunto che ammette la variazione da risoluzione ad adempimento nonostante l’apparente divieto normativo.
processuale, a parere di chi scrive, deriva anche dalla constatazione che i mezzi apprestati dal legislatore per ottenere la risoluzione, come già visto, sono sia di carattere giudiziale che stragiudiziale, con la logica conseguenza che, se nessuna limitazione risulta dal contesto normativo – come pare nel caso di specie – in applicazione anche del noto brocardo ubi lex voluit dixit, nulla impedirà al creditore di servirsi dell’una ovvero dell’altra strada.
Così, il contraente non inadempiente, pur avendo promosso giudizio per ottenere l’adempimento, potrà rivolgere alla controparte formale diffida ad adempiere, con l’avvertimento che l’inutile decorso del termine provocherà la risoluzione di diritto del contratto.
O, ancora, potrà decidere di servirsi della clausola risolutiva espressa, facendone dichiarazione alla controparte.
Oppure, ancora, potrà modificare la propria domanda di adempimento con la richiesta di risoluzione, rimanendo nell’ambito del giudizio.
L’assunto che si intende dimostrare trova conferma anche argomentando dal principio sostanziale che sta alla base della norma in oggetto, ovverosia la tutela delle ragioni creditorie; il riconoscimento del carattere meramente processuale della norma, in quanto imporrebbe al creditore che successivamente decidesse di chiedere lo scioglimento del vincolo, di rimanere nell’ambito processuale, finirebbe con il negargli la possibilità di ricorrere agli artt. 1454, 1456 e 1457 c.c.
Ciò, a ben vedere, porterebbe ad un risultato diametralmente opposto a quello da cui si è partiti.
Così facendo, infatti, si giungerebbe a negare al contraente fedele, che abbia inizialmente optato per una difesa giudiziale, la possibilità di servirsi degli strumenti stragiudiziali pur messi a disposizione dal legislatore.
Non pare neppure azzardato affermare che la norma, se interpretata in senso meramente processualistico, potrebbe addirittura finire con il violare principi costituzionalmente garantiti quali la parità e l’uguaglianza.
Il creditore poi, a seconda della scelta iniziale, si troverebbe a disporre di strumenti di tutela più o meno ampi.
Ed infatti, a fronte di una domanda giudiziale di adempimento non gli resterebbe che continuare nell’ambito processuale, usufruendo, semmai, della deroga ai termini di cui all’art. 183, VI comma c.p.c.
Per contro, nel caso in cui abbia dapprima tentato di ottenere l’adempimento in via stragiudiziale, rimarrà libero di chiedere la risoluzione proseguendo per tale strada, ovvero proponendo domanda giudiziale.
La riconosciuta natura sostanziale del diritto di mutare la richiesta di adempimento in richiesta di risoluzione consente allora di tutelare al meglio il creditore, al quale nulla impedirà di servirsi dei mezzi processuali apprestati dall’ordinamento, rimanendo così nell’ambito del giudizio, ovvero di uscire dal processo per cercare un soddisfacimento stragiudiziale.
Riconoscere allo ius variandi carattere sostanziale non significa, quindi, che il diritto possa essere esercitato solo al di fuori del processo, ma che, al contrario, esso prescinde dalla sfera giudiziale o stragiudiziale, variando solo le modalità concrete del suo esercizio.
Ne consegue che parlare di “concorso di azioni” può risultare non solo riduttivo, ma addirittura fuorviante, atteso che prima e a fondamento dell’azione viene il diritto di cui la medesima costituisce la “mera proiezione processuale”119.
La sostanziale differenza che intercorre tra il puro concorso di azioni e il concorso di diritti (diritto all’adempimento e diritto alla risoluzione) si coglie ponendo mente al 119 Così ROTA, op. cit., p. 887.
fatto che mentre l’accoglimento di un’azione preclude l’altra, nel secondo caso solo la soddisfazione di un diritto estingue l’altro, con la logica conseguenza che la pronuncia favorevole non impedisce, in quanto tale, la proposizione dell’azione per il diritto concorrente.
Chiarita la natura sostanziale del diritto, occorre ora chiedersi come lo stesso possa qualificarsi.
Ciò nel senso che il diritto di variare la domanda non necessita (come invece accade per i diritti di credito), di una prestazione, essendo in sé completo ed autosufficiente.
Alla luce di quanto esposto sembra allora imporsi l’accostamento ai diritti potestativi123, trattandosi pur sempre di una facoltà che consente al titolare di realizzare il proprio interesse attraverso il suo semplice esercizio, sia che esso avvenga nel processo sia al di fuori di esso, senza che a tal fine sia richiesta la collaborazione o, comunque, un
120 Così ancora, XXXXX, op. cit., p. 244 ss; in senso analogo ROTA, op. cit., p. 892.
121 La riflessione è di MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, p. 355.
122 Così anche TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Milano, 2005, p. 63.
123 In senso conforme SICCHIERO, op. cit. p. 269 ss.; XXXXXX, Osservazioni in tema di rapporti tra domanda di risoluzione e inadempimento tardivo, 3, 2000, p. 1366; PATTI, Risoluzione per inadempimento, contratti di durata e contratto di appalto d’opera in Rivista di diritto commerciale, 7- 8/9-10, 2002, p. 532.
determinato comportamento da parte di altro soggetto.
8. Il rapporto tra l’art. 1453, II comma, I parte x.x. x x’xxx. 000, XX comma c.p.c. alla luce della riconosciuta natura sostanziale dello ius variandi
Il riconosciuto aspetto sostanziale dello ius variandi potrebbe portare ad affermare che l’art. 1453, II comma c.c. non deroga, in quanto legge speciale, alla disposizione di cui all’art. 183 VI comma c.p.c., con il logico corollario che il creditore, qualora intendesse esercitare lo ius variandi all’interno del processo, dovrebbe farlo nel rispetto dei termini perentori ivi previsti.
Ciò in considerazione, soprattutto, del fatto che la norma de qua, con le limitazioni ed i termini ivi previsti, è stata introdotta solo nel 1990 per rispondere a determinate esigenze di riforma del sistema processuale ed è, pertanto, di molto successiva all’art. 1453, II comma c.c.
Tali sono, innanzitutto, esigenze di carattere pubblicistico in quanto finalizzate ad un ordinato e razionale svolgimento del processo, attraverso la fissazione dell’oggetto della controversia sin dall’inizio, nonché esigenze di interesse privatistico di garantire una maggiore attuazione del contraddittorio tra le parti, impedendo “mosse a sorpresa” che
124 In tal senso Tribunale di Alessandria, 25 marzo 1998 in Giurisprudenza italiana, 10, 1999, c. 1865 con nota critica di XXXX: “la facoltà, riconosciuta alle parti dall’art. 1453, 2° comma, x.x., xx xxxxxx, xxx xxxxx xxx xxxxxxxx, la domanda di adempimento del contratto in domanda di risoluzione del medesimo, deve coordinarsi con il sistema di preclusioni introdotte con la novella del 1990 e, in particolare, con l’art. 183 c.p.c., nella parte in cui fissa, come termine ultimo per la precisazione e modificazione delle domande ed eccezioni già proposte, quello concesso dal giudice per il deposito delle memorie di cui all’ultimo comma della norma richiamata”.
possano mettere in difficoltà l’avversario125.
A chi scrive, tuttavia, la cennata interpretazione del rapporto intercorrente tra l’art. 1453, II comma x.x. x x’xxx. 000, XX comma c.p.c. non convince; il carattere sostanziale riconosciuto allo ius variandi, infatti, non porta necessariamente ad una interpretazione restrittiva della prima norma, nel senso, cioè, di comprimerla entro i limiti previsti dall’art. 183, VI comma c.p.c.
Il limite che da tale punto di vista si può forse riconoscere a coloro che si sono occupati dell’art. 1453 e, in particolare, del rapporto tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione, è il fatto di essersi limitati alla ricerca del rapporto intercorrente tra la norma de qua e la norma processualistica (l’art. 183 c.p.c.), allo scopo precipuo di individuare quale delle due possa considerarsi prevalente sull’altra.
Al riguardo ci sembra forse preferibile pensare che ciascuna abbia un proprio ambito di operatività e di applicazione che non interferisce e non limita necessariamente l’ambito di operatività e di efficacia dell’altra, in quanto fondate ciascuna su propri principi e destinate a rispondere ad esigenze diverse, sebbene tutte di fondamentale importanza.
Ciò comporta, quale logico corollario, che lo ius variandi possa essere esercitato anche oltre i termini perentori dettati dall’art. 183, VI comma c.p.c. per la modifica delle domande formulate.
Resta, tuttavia, la necessità di coordinare l’esercizio di tale diritto in sede processuale con il principio del contraddittorio di cui all’art. 111, comma 2 della Costituzione, secondo il quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità”.
Ne consegue che l’esercizio della facoltà di mutare la domanda di adempimento originariamente formulata in giudizio in domanda di risoluzione, dovrà ritenersi
125 Tra coloro che si sono occupati delle finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione del nuovo sistema di preclusioni cfr. XXXXXXX, Le preclusioni nella riforma del processo civile in Rivista diritto processuale, 1992, p. 296 ss.
impossibile ogniqualvolta alla controparte non sia attribuita la facoltà di difendersi, come accadrebbe, ad esempio, se il diritto fosse esercitato per la prima volta nella memoria di replica di cui all’art. 190 c.p.c.
Poiché, tuttavia, nessun limite interno al processo viene di fatto delineato dall’art. 1453, comma 2 c.c., pare vieppiù arbitrario che esso possa essere introdotto in modo del tutto discrezionale dall’interprete.
Quanto sopra porta, giocoforza, a ritenere che l’esercizio del diritto (financo nella memoria di replica ex art. 190 c.p.c.) non possa considerarsi tardivo da parte del giudice, il quale, di conseguenza, dovrà consentire alla controparte di difendersi mediante l’integrazione del contraddittorio sia sotto il profilo sostanziale che probatorio. Ciò che potrà avvenire rimettendo in termini le parti e riassegnando alle medesime le scadenze di cui all’art. 183, VI comma c.p.c.
La critica per cui detta rimessione in termini cozzerebbe contro il principio dell’economia processuale risulta vieppiù pretestuosa se si considera che per tale via si consente di dare applicazione al principio costituzionalmente garantito del diritto al contraddittorio.
Senza dimenticare poi che “scopo del processo è riconoscere la ragione a chi la abbia”126.
Vi è, inoltre, da considerare che la rimessione in termini non porta ad un allungamento necessariamente sproporzionato della vicenda processuale, posto che i termini di cui all’art. 183, VI comma c.p.c., oltre ad essere brevi, hanno anche carattere perentorio.
Ciò senza dimenticare che ci si trova pur sempre di fronte ad un “inadempimento che non è stato ancora sanato offrendo la prestazione prima che la domanda di adempimento sia mutata in risoluzione, sicché nel contrasto tra diversi interessi, resta
126 Così SICCHIERO, op. cit., p. 312.
da preferire quello del contraente deluso anziché proteggere il contraente infedele”127. Appena soggiunto poi che il riconoscimento di un diritto in capo al contraente fedele non può non permettergli di allegare e provare in giudizio la fattispecie generatrice del suo diritto.
127 L’espressione è ancora di SICCHIERO, op. cit., p. 312 ss.
CAPITOLO III
La scelta irreversibile: l’art. 1453, II comma, seconda parte c.c.
1. Le ragioni giustificatrici del divieto
Ai sensi dell’art. 1453, II comma, seconda parte c.c., “non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”.
Ciò significa che la proposizione della domanda di risoluzione produce l’effetto di precludere al creditore la possibilità di chiedere l’adempimento.
La stessa giurisprudenza di legittimità ha sancito che “la norma di cui al 2° comma, art. 1453 c.c., che pone il divieto di chiedere l’adempimento del contratto quando è già stata domandata la risoluzione”, è posta “nell’interesse della parte inadempiente”129. Ciò in quanto la reversibilità condurrebbe ad un eccessivo aggravamento della posizione del debitore, il quale dovrebbe tenersi pronto ad adempiere per un tempo indefinito.
Al contrario, per effetto del carattere irreversibile della scelta effettuata dal creditore, il contraente inadempiente, considerando decaduto l’interesse dell’altro contraente all’adempimento, non si terrà più pronto ad adempiere e potrà, pertanto, offrire aliunde la prestazione non eseguita, preparandosi, al tempo stesso, a sopportare il risarcimento del danno, organizzando le proprie forze ed attività in tale direzione.
Alla giustificazione di cui sopra si è aggiunto che il contraente non inadempiente
128 Sul fatto che l’irreversibilità sia posta a tutela dell’interesse del debitore concorda la dottrina. Così, ad esempio, XXXXX, Il contratto, cit., p. 650; XXXXXXXXXXX, op. cit., p. 140; da ultimo DELLACASA, Inattuazione e risoluzione, cit., p. 225.
129 Così Cassazione, 24 maggio 1993, n. 5838; cfr. anche Cassazione, 29 novembre 2001, n. 15171.
potrebbe approfittare della possibile reversibilità della scelta effettuata e speculare sulle fluttuazioni del mercato successive alla domanda di risoluzione; si pensi, ad esempio, ad un improvviso ed inaspettato aumento di valore della merce acquistata e non ricevuta130, ciò che potrebbe far rinascere l’interesse del creditore al contratto, allettato dalla possibilità di rivendita del bene e, quindi, di maggior guadagno.
Per tale via si verificherebbe un nuovo interesse, non tanto alla prestazione in sé considerata, quanto piuttosto alla possibilità di lucrare sulla medesima.
Il divieto in parola pare ulteriormente rafforzato dal III comma dell’art. 1453 c.c. che impedisce al contraente inadempiente di eseguire la propria prestazione successivamente alla domanda di risoluzione. Detto comma, è stato giustamente osservato131, opera in due direzioni opposte: se da un lato fonda la legittimità del rifiuto dell’attore di ricevere la prestazione perché “il creditore, manifestando la volontà di sciogliersi dal rapporto, intende con ciò essere legittimato a procurarsi altrove, ove necessario, la prestazione inutilmente attesa”132, dall’altro dimostra come il contraente infedele sia libero, dopo quel momento, di utilizzare altrimenti la prestazione dovuta e la propria capacità economica.
Il principio del favor debitoris, a sua volta, sembra trovare la propria ratio nell’esigenza di certezza delle posizioni giuridiche; l’impossibilità di cambiare il proprio modo di agire, infatti, sicuramente garantisce maggiore sicurezza in quanto le parti restano “ancorate” al momento iniziale del procedimento a prescindere da qualsiasi accadimento posteriore.
Il medesimo principio pare potersi ricondurre, in ultima analisi, anche al principio dell’affidamento, inteso come convinzione in capo al debitore della carenza d’interesse del creditore alla continuazione del rapporto contrattuale e, quindi, come convinzione
130 In tal senso CARNEVALI Della risoluzione per inadempimento, op. cit., p. 81.
131 SICCHIERO, op. cit., 261.
132 Così XXXXXXXXXX, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, cit., p. 64.
della libera disponibilità della propria prestazione133.
Convinzione originata dalla scelta del contraente non inadempiente di chiedere lo scioglimento del vincolo contrattuale con la perdita definitiva della prestazione non eseguita.
Sennonché, se l’irreversibilità viene fatta dipendere esclusivamente dall’affidamento del debitore nella risoluzione del contratto, si rischia di giungere ad un impasse nell’ipotesi in cui detto affidamento di fatto manchi.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui il debitore neghi il proprio inadempimento o chieda, comunque, l’adempimento della controprestazione, dimostrando, per ciò stesso, di avere ancora interesse alla continuazione del rapporto. Se così è, l’irreversibilità rischia di rimanere priva di fondamento, o, meglio, finisce con l’essere giustificata solo in
133 Con il ricorso al principio dell’affidamento viene perlopiù giustificata anche la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione.
Ed infatti, nessun affidamento del convenuto merita di essere tutelato qualora egli, fin dal momento della proposizione della domanda, sia a conoscenza del fatto che l’attore ha conservato l’intenzione di ottenere, ancorché in via subordinata, l’esecuzione del contratto.
Affinché ciò accada le due domande devono essere proposte contestualmente, vale a dire nello stesso atto, di modo tale che si tratti di due domande distinte, ancorché coeve dal punto di vista cronologico; diversamente ritornerebbe ad avere vigore il principio della irreversibilità di cui all’art. 1453, 2° comma
c.c. come si ritiene accadere nell’ipotesi in cui la domanda di adempimento venga proposta esplicitamente solo al momento della precisazione delle conclusioni.
L’ammissibilità viene giustificata anche con l’interesse dell’attore a proporre le due domande in via gradata nell’ipotesi in cui il Giudice, non ritenendo l’inadempimento sufficientemente grave ai sensi dell’art. 1455 c.c., rigetti la domanda di risoluzione. Fra le tante, in tal senso, Cassazione, 9 dicembre 1988, n. 6672; Cassazione, 26 agosto 1986, n. 5235; Cassazione, 11 maggio 1996, n. 4444 in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, I, 1997, p. 742 ss. con nota di CUBEDDU, Divieto di domanda di adempimento e interesse del creditore. La prima sentenza ad esprimersi affermativamente sulla questione fu Cassazione, 22 ottobre 1955, n. 3429 in Giurisprudenza Italiana, 1956, I, 1, p. 481 con nota di XXXXXXX Xxxxxxx di risoluzione e domanda di adempimento (in via principale e in via subordinata e questioni sull’importanza dell’inadempimento).
134 Così XXXXX, op. cit., p. 240 ss.; SICCHIERO, op. cit., p. 263 ss.
presenza di un affidamento135.
In altri termini, partendo da tale assunto, si può giungere ad affermare che la regola posta dall’art. 1453, II comma, II parte c.c. non risulta sempre dotata di una propria ratio sostanziale, ovvero si può inferire che la preclusione, in quanto fondata sull’affidamento, opera solo in sua presenza.
Per tale via si apre, quindi, il primo varco verso il riconoscimento di una possibile portata limitata del divieto.
Ne deriva che l’impossibilità di mutare la richiesta di risoluzione in richiesta di adempimento rischierebbe di pregiudicare chi invece si pretendeva di tutelare anche se dalla norma non traspare assolutamente l’onere del debitore di provare l’interesse ad avvalersi dell’eccezione.
In aderenza a quanto sopra e nel tentativo di dare al divieto una giustificazione più ampia e comprensiva, si è aggiunto che esso troverebbe la propria ragion d’essere nel principio della buona fede intesa in senso oggettivo.
Così, secondo una recente Cassazione “alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente che chieda incondizionatamente la risoluzione è
135 In senso critico rispetto al principio dell’affidamento si pone CONSOLO, Il processo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Rivista di diritto civile, I, 1995, p. 316.
136 Così già Corte d’Appello di Torino, 17 febbraio 1947 in Xxxx Xxxxxx, 0000, col. 304.
137 In senso contrario all’onere del debitore di provare il proprio interesse alla risoluzione MIRABELLI, I Contratti in generale, in Commentario del Codice Civile, IV, 2, Torino, 1980, p. 613 ss.