Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Cooperazione Internazionale e Politiche per lo Sviluppo Sostenibile Ciclo XIX
Settore/i scientifico disciplinari di afferenza:
M-DEA/01 Discipline Demoetnoantropologiche / SPS/07 Sociologia Generale
Donne Migranti a Modena:
Il Lavoro di “Badante” tra Vincolo e Risorsa
Presentata da: Xxxxxx Xxxxx
Coordinatore Dottorato Relatore
Xxxx. Xxxxxx Xxxxx Prof.ssa Xxxx Xxxxx Xxxxxxx
Correlatore Xxxx. Xxxxx Xxxxxx
Esame finale anno 2008
INDICE
Introduzione | p. | 5 |
1. La ricerca | p. | 5 |
1.1 Perché Modena e perché le ‘badanti’ | p. | 5 |
1.2 Vincoli familiari e transnazionalismo | p. | 8 |
1.3 Vincoli e opportunità dell’occupazione di badante: fattori strutturali e | p. | 11 |
fattori soggettivi | ||
1.4 La differenza come ‘discriminante’ e come ‘risorsa’ nello spazio | p. | 16 |
quotidiano | ||
1.5 La ‘badante’ tra affettività, lavoro e diritti | p. | 18 |
1.6 Diritti e Integrazione: un’analisi multidimensionale | p. | 22 |
2. Metodologia di indagine | p. | 23 |
3. Immigrazione femminile e assistenza agli anziani: alcuni dati per un settore di difficile decifrazione | p. | 26 |
3.1. Motivi dell’emersione del fenomeno “badanti” | p. | 26 |
3.2. Le assistenti familiari straniere in Italia | p. | 33 |
3.3. Le assistenti familiari straniere a Modena | p. | 46 |
4. Alcune riflessioni teoriche | p. | 52 |
4.1 Il transnazionalismo delle migrazioni
4.2 ‘Cultura’, ‘identita’ e ‘appartenenza’: strumenti concettuali rigidi o flessibili?
4.3 Le differenze oltre la cultura: il concetto di “superdiversità”
4.4 Accesso alla cittadinanza e titolarità dei diritti: nuovi e vecchi esclusi
p. 52
p. 61
p. 69
p. 76
Capitolo 1:
Le Badanti Transnazionali: Cause, Conseguenze e Strategie Migratorie
1.1 La scelta di emigrare: una decisione “altruista” o “egoista”?
1.2 Problemi di care-drain: il vuoto di cura che le “badanti” si lasciano alle spalle
1.3 Pratiche transnazionali e assistenza domiciliare
p. 89
p. 89 p. 101
p. 107
Capitolo 2:
All’origine della ‘Scelta’: “Badante”, un Destino Ineluttabile?
2.1 Il peso delle “reti” nella definizione della destinazione e dell’occupazione
2.2 Il mestiere di “badante”: scelta passiva o strategia del progetto migratorio?
p. 119
p. 119
p. 125
Capitolo 3:
Le Badanti e l’alterità: l’uso della “differenza” dentro e fuori casa
3.1 La “differenza” nella ricerca del lavoro: le discriminazioni implicite all’attività di “badante” e l’uso dell’appartenenza. Genere, razza, religione, condizione sociale
3.2 La “differenza” come criterio di interrelazione extra-lavorativa
3.2.1 .Il ‘tempo libero’ delle badanti e l’interazione con gli italiani
3.2.2 La “cultura” delle badanti: tra posizioni essenzialiste ed uso processuale dell’identità
p. 140
p. 140
p. 150
p. 151
p. 160
Capitolo 4: La differenza oltre la ‘cultura’: superdiversita’ e cittadinanza
4.1 Accesso alla cittadinanza e titolarità dei diritti: la differenza ex lege
4.2 La differenza nell’esercizio dei diritti: dalle asimmetrie di potere all’autosfruttamento
p. 172
p. 172
p. 195
Alcune Riflessioni Conclusive Bibliografia
p. 215
p. 226
INTRODUZIONE
1. La Ricerca
1.1 Perché Modena e perché le ‘badanti’
Nell’ultimo decennio, la rinnovata attenzione al fenomeno delle lavoratrici straniere impegnate nell’attività di assistenza agli anziani, spesso identificate con l’appellativo di “badanti”, ha posto in evidenza, da un lato, i limiti strutturali dei sistemi di welfare di molte società occidentali, e di quella italiana in modo particolare e, dall’altro, l’impatto trasformativo in termini di composizione della popolazione straniera in molti centri urbani.
A livello locale come a livello nazionale, l’accesso delle “badanti” al mercato del lavoro ha cambiato in parte la composizione dei flussi: se la migrazione orientata al settore domestico non è nuova nella storia, nemmeno quella femminile, ciò che invece cambia rispetto al passato sono le caratteristiche delle donne coinvolte nella migrazione.
È nostro scopo, attraverso il presente lavoro, ricostruire le diverse peculiarità che contraddistinguono le donne straniere coinvolte in questo segmento occupazionale, i molteplici fattori che incidono sulla costruzione e sull’evoluzione della loro esperienza migratoria, sulle strategie di vita e lavoro, e sulle successive fasi di integrazione e interazione sociale.
La scelta della provincia di Modena come luogo di osservazione è dettata, oltre che dall’assenza di studi qualitativi su questo fenomeno in tale realtà geografica, anche dal particolare rilievo che centri di piccole-medie dimensioni, ma caratterizzati da un alto livello di sviluppo economico e industriale, presentano nell’analisi dei processi di integrazione dei migranti.
Non sono solo le “città globali” descritte dalla Saskien1 come centri nevralgici di un sistema economico-finanziario globale in rapida e crescente integrazione, ad assumere valore nello studio dei fenomeni migratori. Proprio in relazione alle caratteristiche economiche e sociali dell’Italia, non sembra possibile non tenere conto, nello studio delle migrazioni, del peso rivestito da quelle province, seppur di modeste dimensioni, caratterizzate dalla contemporanea interazione di tre settori trainanti: piccola e media impresa, agricoltura e servizi. Questa triade occupazionale rappresenta, ormai da diversi anni, il polo di attrazione per un alto numero di migranti, garantendo non solo possibilità lavorative, ma di regolarizzazione e di integrazione nella società di accoglienza, in particolar modo quando il lavoro rappresenta qualcosa di più di un fattore economico, assurgendo a meccanismo che crea “cittadinanza”.
La provincia di Modena è stata lungamente, ed è tuttora, caratterizzata da una consistente domanda di forza lavoro straniera proveniente dal tessuto produttivo locale. Si tratta di una realtà economica costituita da un alto numero di piccole e medie imprese distribuite sul territorio, sviluppatesi negli anni senza comunque provocare né processi di marginalizzazione del comparto agricolo né addensamenti in parti limitate dell’area2. È proprio in questo quadro che si sono inseriti molti lavoratori stranieri, trovando collocazioni stabili nelle imprese industriali e artigiane, nel settore agricolo e nei servizi.
È in particolare attraverso il settore dei servizi che si è potuto registrare, anche a Modena, un riequilibrio della composizione di genere della popolazione migrante: da un lato, le imprese e le cooperative di servizi hanno occupato spesso donne immigrate giunte a seguito del ricongiungimento familiare;
1 X. Xxxxxx, Le città globali, UTET, Torino, 1997, e, della stessa autrice: Globalizzati e scontenti, il Saggiatore, Milano, 2002; Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna, 2004.
2 X. Xxxxx, L’immigrazione nella provincia di Modena. Dinamiche storiche, processi d’insediamento e percorsi d’inserimento sociale, Materiali di discussione, Settembre 2005, disponibile on line al sito: xxxx://xxxxxxxxxxxxxxx.xxx.
dall’altro, la crescita della domanda nel settore dell’assistenza privata agli anziani e, più in generale, di cura alle persone, ha coinvolto un segmento diverso della popolazione straniera femminile ed ha prodotto una riarticolazione della composizione di genere all’interno delle singole comunità nazionali.
Sarà dunque nostro obiettivo, come anticipato, osservare come fattori strutturali e fattori soggettivi incidano sulla composizione ed articolazione di questo segmento lavorativo, e come gli stessi concorrano nell’avvicinare o nell’allontanare le migranti straniere da questa occupazione.
La multidimensionalità dell’analisi che caratterizza il presente lavoro è dettata dall’esigenza di cogliere simultaneamente gli innumerevoli fattori capaci di costituire al tempo stesso vincolo e risorsa per ciascuna migrante, eleggendo il “quotidiano” a spazio principe dello studio delle dinamiche di negoziazione di “potere”, “libertà” e “diritti”. A tal fine sarà nostro primario obiettivo osservare come le migranti siano agenti attivi nella determinazione dei propri percorsi sociali e professionali, evitando di ricondurre l’analisi esclusivamente a processi meccanici di macro livello che ne definiscono la collocazione sociale.
È questo il motivo per cui, all’interno di questa ricerca, convergono i contributi di autori afferenti a settori disciplinari diversi, in particolare di quattro “aree” scientifiche: scienze sociologiche, antropologiche, politologiche e giuridiche. I contributi interdisciplinari, lungi dal fornire un’interpretazione esaustiva di un fenomeno che, oltre ad essere estremamente ampio, presenta confini costantemente mutevoli, vogliono solo rappresentare i tasselli complementari di un puzzle dalla complessa soluzione.
1.2 Vincoli familiari e transnazionalismo
Proprio per alcune sue caratteristiche, che osserveremo diffusamente all’interno del presente lavoro, il fenomeno del “badantato” merita di essere approfondito oltre che in termini di analisi quantitativa, in relazione alle caratteristiche che assume in termini qualitativi il vivere e il lavorare come badante.
Parte del badantato è incentrato su donne in età matura, con una storia biografica complessa, con una famiglia e dei figli in patria, che si accollano, in una fase ormai avanzata delle propria vita privata e familiare, l’onere di risollevare il nucleo familiare dall’impellente pericolo di arretramento sociale ed economico indotto (la maggior parte delle intervistate proviene dell’est Europa) dalla transizione dei propri sistemi dall’economia di piano all’economia di mercato. È necessario osservare come questo fenomeno abbia posto solo in un secondo momento in evidenza i pesanti risvolti di tipo sociale che si vengono a creare nei luoghi di origine a seguito della migrazione. Si tratta infatti in molti casi di donne che, nel tentativo di creare speranze per il futuro dei propri figli, sono costrette a delegare ad altri individui (spesso altre donne) i propri oneri del presente: mentre infatti la cura della famiglia dell’uomo migrante è resa possibile dalla presenza e dall’impegno della moglie, lo stesso non sembra accadere quando è la donna a trasformarsi in migrante e breadwinner della famiglia, e a fungere da cardine della strategia di mobilità sociale del nucleo familiare nel contesto di origine.
Il fatto che le mansioni di cura siano tradizionalmente affidate alle donne, e che in capo ad esse resti collocato l’onere sociale di prendersi cura dei figli e della casa, pone alle migranti l’obbligo di stabilire, come vedremo più avanti, strategie compensative della propria assenza, che raramente si traducono in una rinegoziazione dei ruoli di genere all’interno della famiglia. Ciò comporta necessariamente che l’osservazione non possa essere rivolta in maniera
esclusiva o preponderante al ruolo ed alla funzione che svolgono le donne nel mercato del lavoro, ma debba altresì concentrarsi sulle abilità di queste lavoratrici di essere madri transnazionali, e sulla capacità delle famiglie di origine di queste donne di ripensarsi, organizzarsi e funzionare in termini transnazionali. Tenteremo dunque di ricostruire un quadro che tenga conto, da un lato, degli aspetti emotivi legati alla migrazione, con particolare riferimento alla separazione dai figli, tema che ha sollevato negli ultimi anni l’interesse di alcuni studiosi3 e, dall’altro, di quelli organizzativi del vivere transnazionale delle badanti e dei propri nuclei familiari.
Nonostante, come si avrà modo di sottolineare all’interno della presente ricerca, attraverso la categoria interpretativa del transnazionalismo delle migrazioni non si voglia ricondurre le diverse realtà e strategie ad un unico modus migratorio, osservare le condotte economiche, sociali e politiche di queste migranti al di là e al di qua dei confini degli stati nazione consente di fotografare la complessità di un fenomeno che non va più solo guardato in termini di “assimilazione” o di “ritorno”, ma che permette di osservare i diversi campi sociali che le badanti costruiscono in più realtà e che coinvolgono, contestualmente, diversi soggetti legati inscindibilmente – seppure in spazi geografici differenti – all’esperienza migratoria di queste lavoratrici. Osservare il legame delle badanti ai componenti del nucleo familiare rimasti in patria è importante non solo per comprendere le implicazioni che esso comporta rispetto al tipo di insediamento della migrante nel contesto di accoglienza, ma anche misurare gli effetti che produce nei
3 Si veda in particolare X. Xxxxxxxxxx, X. Xxx, E. R. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Madri Migranti Le migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia: percorsi e impatto sui paesi di origine, CESPI, Working paper 34/2007, Roma, febbraio 2007; X. Xxxxxxx Xxxxxxxx, Servants of globalization. Women, migration, and domestic work, Stanford (Cal.), Stanford University Press, 2001, p. 54 e, della stessa Xxxxxxx, Bambini e famiglie trasnazionali nella nuova economia globale. Il caso xxxxxxxxx, in Xxxxxxxxxx B., Xxxxxxxxxx A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 85. Rispetto al legame delle migranti con i membri della famiglia rimasti in patria – o comunque residenti in altri luoghi – l’autrice parla di dislocazione, come elemento capace di trasformare e caratterizzare l’identità stessa di queste donne.
contesti di provenienza, dove sovente i frutti economici della migrazione trovano un più accurato e preciso impiego e investimento, economico, sociale e politico.
Xxxxxxxx la capacità di queste donne di essere ‘transnazionali’ è inoltre importante perché consente un’osservazione meno protesa, come ha dimostrato invece in prevalenza la letteratura di ispirazione femminista4, a guardare al fenomeno come mero prodotto dei processi di riassetto dell’ordine internazionale e, dunque, di strutture schiaccianti ed escludenti, permettendo di restituire quell’ agency spesso negata alle migranti. Seppur riconoscendo il peso che i processi di macro-livello esercitano sulla vita e sulle capacità integrative di queste migranti, le badanti (ma ciò può essere vero anche per altri migranti)
4 Collocando il fenomeno della migrazione, in particolare quella femminile, all’interno della crescita del capitalismo globale, Xxxxx Xxxxx enfatizza le responsabilità del “primo mondo”, attraverso l’imposizione dei piani di aggiustamento strutturale (PAS), nella costruzione di condizioni di “insostenibilità sociale” tali da obbligare le donne “terzomondiste” a migrare: “Le Agenzie del Primo Mondo orchestrano deliberatamente la distruzione dei servizi sociali del Terzo Mondo attraverso i PAS per rendere i paesi debitori del Terzo Mondo irrevocabilmente vulnerabili ai loro creditori del Primo Mondo. Ciò rende possibile la mercificazione delle donne del Terzo Mondo per l’esportazione lavorativa, divenendo impossibile per le donne sostenere le proprie famiglie a casa a seguito della devastazione dei PAS e forzandole a emigrare, spesso lavorando come serve domestiche nel Primo Mondo”. (X. Xxxxx, Disposable Domestics: Immigrant Women Workers in the Global Economy, South End Press, Cambridge (MA), 2000, p. 16) Secondo l’autrice, dunque, la migrazione forzata cui sarebbero indotte le donne a causa delle ingerenze economiche del ‘primo mondo’ nei propri contesti politico-economici obbliga a leggere l’opzione migratoria non come ‘scelta’ delle donne ma come imposizione strutturale. Xxxxx, dunque, ripercorre e approfondisce, in maniera ancor più marcata, le cause evidenziate dalla Sassen, che individua le cause delle migrazioni globali nelle politiche poste in essere dai governi, dalle istituzioni finanziarie internazionali e dalle società multinazionali. (Cfr. X. Xxxxxx, Perchè migrano?, in Le Monde Diplomatique-il Manifesto, novembre 2000 e, della stessa autrice, Globalizzati e scontenti, op. cit.). Xxxxxxx Xxxxxxxx, seppur riconoscendo la variabilità delle motivazioni sottese l’emigrazione, sottolinea come “la ragione prevalente dell’emigrazione, anche tra i professionisti, è la povertà. Le donne vogliono guadagnare di più per i propri figli , genitori, e per la famiglia allargata, e spesso descrivono la migrazione in termini di mera sopravvivenza”. (X. Xxxxxxxx, Doing the Dirty Work? The Global Politics of Domestic Labour, Zed Books, London, 2000, p. 29). In termini analoghi, Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxxx affermano che la povertà “spinge a emigrare” le donne del Terzo Mondo e dei paesi ex comunisti (p. 14), le quali vengono dipinte dalle autrici come “persone che lottano e vittime al tempo stesso” (p. 19). (X Xxxxxxxxxx, X. X Xxxxxxxxxx., Introduzione, in Xxxxxxxxxx X., Hochschild A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004).
dimostrano comunque, se non la si vuole definire “resistenza”, almeno una capacità di “riorganizzazione strategica”, sfruttando nella maniera più efficiente possibile alcune innovazioni, specie tecnologiche, che il nuovo sistema internazionale offre, e muovendosi in quelli che qui verranno definiti gli “interstizi della legalità”, dunque quegli spazi legittimamente sfruttabili che consentono di muoversi tra le barriere politico-amministrative erette dagli stati nazione.
Ma l’osservazione delle pratiche transnazionali di queste lavoratrici ci permetterà altresì di cogliere alcuni fattori dirompenti che caratterizzano il fenomeno allo stato attuale: la capacità di muoversi al ‘di là’ e al ‘di qua’ dei confini, non è certamente solo il frutto delle doti organizzative di queste migranti, ma è da un lato condizionata dalle norme e dalle barriere poste alla libertà dei migranti dalla legislazione nazionale e, dall’altro, è spesso gestita da strutture criminali, sovente collegate ad alcuni soggetti istituzionali.
Un transnazionalismo, dunque, spesso garantito o accelerato dall’intermediazione di soggetti altri sia rispetto ai migranti sia rispetto allo Stato, che fa supporre che in molti casi la possibilità di muoversi secondo tale modello organizzativo sia estesa precipuamente agli strati meno indigenti della popolazione.
1.3 Vincoli e opportunità dell’occupazione di badante: fattori strutturali e fattori soggettivi
Comprendere appieno la portata e le caratteristiche del fenomeno “badanti” comporta necessariamente l’analisi in merito a come diversi fattori, strutturali, sociali, economici e soggettivi possano contemporaneamente coesistere
nell’indirizzare, avvicinare o allontanare le singole migranti da questo ambito occupazionale.
Quello delle badanti, come si illustrerà dettagliatamente nel corso del presente studio, è certamente uno dei settori più favoriti nella definizione delle quote annuali di ingresso effettuata dal decreto flussi5. Il badantato è infatti considerabile uno dei settori lavorativi che la politica guarda forse con maggiore apertura e flessibilità: è il campo in cui sono concessi maggiori ingressi per quote, è uno dei pochi settori non assoggettati a regime transitorio nell’accesso dei neo-comunitari. Addirittura il d.d.l. Xxxxx-Xxxxxxx (rimasta disegno di legge a causa della caduta del governo Prodi) stabiliva la parziale liberalizzazione degli ingressi per le badanti, prevedendo che la quota stabilita per lavoro subordinato domestico e di assistenza alla persona potesse essere superata in una misura prefissata, in presenza di un numero di richieste di nulla osta eccedenti la stessa quota. La condizione di “favore” che queste lavoratrici vivono – in un più generale clima di forte repressione e ostacolo perpetrato dalla politica verso il fenomeno immigrazione complessivo – rende assai più semplice la penetrazione del mercato lavorativo italiano attraverso tale segmento occupazionale. Ciò comporta che, a prescindere da età, istruzione, necessità e aspirazioni, molte donne inizino la propria esperienza lavorativa in Italia come badanti.
Se è vero, da un lato, che le caratteristiche del mercato del lavoro italiano e delle politiche di immigrazione hanno un forte peso nell’indirizzare molte donne straniere verso questa attività, non si può non dedicare parimenti attenzione a quei fattori che invece possono spingere, in una seconda fase, queste donne a restare o a uscire dal settore.
5 Il “Decreto flussi” è il provvedimento attraverso il quale il governo italiano effettua la programmazione annuale del numero di ingressi di lavoratori extracomunitari in Italia. Il Decreto Flussi rientra nella normale programmazione e gestione dei flussi migratori, e si differenzia quindi da altri strumenti di carattere straordinario che consentono la regolarizzazione o la c.d. “sanatoria” dei lavoratori stranieri.
L’attività di assistenza agli anziani, spesso ricondotta e analizzata senza distinguo all’interno del più generale settore del ‘lavoro domestico’, viene sovente descritta nella letteratura di ispirazione femminista – molto prolifica sul tema - come settore di confino delle lavoratrici immigrate6, foriero di sfruttamento e sottomissione7. Come già anticipato, questa impostazione teorica soffre il limite di spostare l’ago della bilancia solo sulle cause “strutturali” che indirizzano prima, ed imprigionano poi, le lavoratrici domestiche nel settore, raffigurando le donne dedite a tali attività come mere destinatarie passive di una riorganizzazione strutturale del mercato lavorativo che, sfruttando i differenziali di reddito, potenzia la polarizzazione delle classi sociali, e costringe le immigrate a tale lavoro per effetto di una serie di discriminanti che le blocca nel settore senza possibilità di agire.
Sebbene alcuni dei fattori analizzati dalle autrici citate siano di notevole interesse, e giochino un concreto peso nella gerarchizzazione e nella selezione delle migranti in questo settore, riteniamo necessario, per comprendere appieno la complessità del fenomeno, gettare lo sguardo un po’ oltre la mera iniquità strutturale – accompagnata da forme di razzismo8 e discriminazione - come unica causa di occupazione nel settore.
6 In particolare X. Xxxxxxxx, Doing the Dirty Work, op. cit.; X. Xxxxxxxxxx addirittura sostiene, in merito al ricorso a donne immigrate per il lavoro domestico, che “neppure salari e condizioni di lavoro migliori potranno cancellare di fatto la gerarchia esistente tra una padrona e la sua collaboratrice domestica” (p. 105), anche se poi ammette una “apertura” nel caso dell’assistenza a soggetti vulnerabili, come gli anziani o i disabili, la cui dipendenza da persone terze non suscita nell’autrice “nulla di riprovevole” ma anzi, potrebbe creare, se sostenuta da sussidi pubblici, posti per “le collaboratrici che oggi puliscono le case dei ricchi” (p. 107). (Cfr. X. Xxxxxxxxxx, Collaboratice domestica, agli ordini!, in Xxxxxxxxxx B., Xxxxxxxxxx A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004).
7 Oltre alle opere già citate di X. Xxxxxxxx, e di Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxxx, si veda anche X. Xxxxxx, Gender, Migration and Domestic Service: The Politics of Black Women in Italy, Xxxxxxxxx, Xxxxxxx,0000, X. Xxxxxx, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive e Approdi, Roma, 2001; F Scrinzi., Professioniste della tradizione. op. cit.
8 In particolare si rimanda alle opere citate di X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxxx ed A. R. Xxxxxxxxxx, F Scrinzi.
A parere di chi scrive, queste donne non devono essere analizzate solo come migranti o come “badanti”, non esistono solo a partire dal momento dell’entrata in un paese occidentale o sviluppato, ma hanno storie e biografie ciascuna diverse, che possono contribuire a limitare o ad ampliare le possibilità di inserimento sociale e professionale nel contesto di approdo.
Per tale motivo, il presente lavoro si pone l’obiettivo di accogliere nell’analisi, insieme ai fattori strutturali ed alle pratiche “discriminatorie” che delimitano le “categorie” favorite e sfavorite all’interno del quadro complessivo del c.d. “badantato”, altri fattori, in primis soggettivi, che possono a loro volta avere un peso importante nella capacità o nella volontà di inclusione o esclusione delle donne da questa attività.
Certamente, le caratteristiche anagrafiche, quelle psicologiche, le necessità economiche e sociali, le aspettative professionali, i legami affettivi in patria, concorrono in maniera ogni volta diversa a definire il percorso di ogni migrante. Non è certamente possibile tratteggiare un unico profilo di “badante”: sebbene infatti molte di esse, come avremo modo di approfondire, siano donne in età adulta che intraprendono il proprio percorso migratorio in concomitanza con alcune scelte cruciali della vita familiare, in particolare per ciò che riguarda i figli, il fenomeno coinvolge anche donne più giovani, senza figli o con figli molto piccoli, spesso con progetti ancora indefiniti o instabili. Se da un lato troviamo alcune donne che riconducono espressamente la strumentalità dell’occupazione di badante ad una precisa strategia economica, altre mettono in evidenza una tensione emancipativa che cerca proprio nella migrazione la propria realizzazione, conferendo all’attività professionale un peso diverso nelle proprie necessità di affermazione. Le caratteristiche di questa occupazione, spesso gravosa e assolutizzante in termini di impegno orario e di isolamento sociale, creano dunque reazioni profondamente diverse, e generano aspettative
estremamente distinte, a seconda del singolo individuo analizzato e del proprio progetto migratorio.
L’analisi dei fattori soggettivi sottostanti la “scelta” dell’attività di badante è dunque estremamente importante: come avremo modo di approfondire, se per talune intervistate questa occupazione è spesso una scelta di “ripiego” in un mercato di lavoro altamente discriminante, per altre tale lavoro non costituisce un destino unicamente imposto da condizioni sistemiche, quanto piuttosto un’opzione strumentale alla realizzazione di un preciso disegno migratorio.
Il nostro intento sarà dunque quello di evidenziare, oltre alle discriminanti di “razza”, “genere”, “condizione sociale”, “religione” – care alla letteratura femminista già citata - quei fattori che spingono razionalmente alcune badanti a restare nel settore e che frenano queste lavoratrici nella costruzione di opportunità professionali diverse e nella costruzione di percorsi alternativi. Al contempo, cercheremo di analizzare quali siano, invece, le caratteristiche che portano a poter parlare di “trappola occupazionale” e che spingono, molto spesso, alcune di queste migranti a vivere problematicamente un’attività inizialmente pensata come ‘temporanea’.
Gli interessi soggettivi delle migranti non ci spingeranno ovviamente a chiudere gli occhi di fronte alle possibilità di asservimento o vessazione che alcune lavoratrici sono in vari casi indotte a sopportare, e su cui è necessaria una riflessione, in primo luogo politica, per riaffermare controlli e repressioni di condotte illegittime all’interno delle mura domestiche (troppo spesso avulse da verifiche). Il nostro intento è solo quello di riassegnare una maggiore libertà e autonomia di scelta a queste migranti, e di analizzare le opzioni strategiche di queste lavoratrici in un’ottica che sappia soppesare oltre alle condizioni del contesto di approdo, anche le variabili soggettive a monte della migrazione, le sensibilità personali, le esigenze, i timori nell’intraprendere percorsi più autonomi.
Se le variabili strutturali sono importanti nella definizione dei percorsi di inserimento, altrettanto lo sono le variabili soggettive. Xxxxxxxxxsi solo sulle prime e sottovalutare le seconde non consente di ritrarre un quadro coerente ed armonico del fenomeno complessivamente inteso. Con ciò non si intende affermare che il lavoro di badante non rappresenti oggi troppo spesso un settore di confino per le straniere o per alcune categorie di migranti, ma sottolineare semplicemente che non è solo quello.
1.4 La differenza come ‘discriminante’ e come ‘risorsa’ nello spazio quotidiano
La “differenza” si è imposta come tema centrale del dibattito nell’ambito degli studi sulle migrazioni, all’interno del quale la rappresentazione dell’alterità, e la produzione sociale delle pratiche e dei significati da essa derivanti, hanno sollevato numerosi interrogativi in merito a come garantire una convivenza ‘multiculturale’. Come si avrà modo di spiegare, la “differenza” è spesso interpretata in termini culturali e identitari, ed è frequentemente utilizzata al fine di scandire spazi di originalità e autenticità che allontanano piuttosto che unire migranti e autoctoni.
Il tentativo di questo lavoro sarà quello, sulla scorta delle suggestioni offerte da alcuni autori9, di superare il limite dimostrato dal dibattito sul multiculturalismo di identificare concetti come “cultura” e “appartenenza” come un bagaglio pre- sociale che orienta l’azione degli individui, per tentare di dimostrare come tali concetti possano, diversamente, essere analizzati come una “produzione situata” scaturente, volta per volta, da confronti, anche conflittuali.
9 Per una ricostruzione dettagliata delle singole posizioni dottrinali si rimanda alla sezione “Alcune riflessioni teoriche”, paragrafi 1.2 e 1.3
In tal senso sarà altresì possibile comprendere, all’interno dello specifico fenomeno delle ‘badanti’, se e quanto pesi questo lavoro nella forme di autorappresentazione e di percezione della “differenza”.
A tal fine, il nostro sguardo, più che concentrarsi sulle nozione di ‘cultura’ e di ‘differenza’, si soffermerà sull’uso che le persone da noi osservate fanno di tali concetti, per comprendere appieno come nella pratica quotidiana, ed all’interno di relazioni asimmetriche di potere tra le parti coinvolte, i singoli attori, utilizzino le differenze in senso ogni volta nuovo e strategico rispetto alle proprie necessità. Cercheremo dunque di ricostruire la capacità della differenza di trasformarsi in “risorsa politica”, ossia in un fattore capace di agire sia come vincolo sia come opportunità nel quotidiano lavoro di definizione della realtà e della gestione dei confini sociali.
La nostra osservazione sulla “differenza” tenta di superare, oltre alla visione essenzialistica della cultura, la tendenza già evidenziata, in particolare tra alcune autrici10, a studiare la prima come fattore unicamente idoneo a creare esclusione sociale, e dunque come mero potere esogeno vittimizzante e segregante. Lo studio delle migranti dedite al lavoro di assistenza agli anziani (o, più in generale, occupate nel lavoro domestico) è infatti spesso incentrato sui fattori di differenza capaci di discriminare o escludere queste lavoratrici dai diversi ambiti della società di approdo, creando campi di segregazione e marginalizzazione. Il limite di questa analisi, seppur importante, è però quelli di rendere le donne straniere soggetti passivi altamente “depoliticizzati”11: se è vero che la differenza creata dall’alto può essere capace di escludere e schiacciare l’individuo verso il basso, è altresì vero che l’individuo
10 X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, A. R. Hochschild, X. Xxxxxx, X. Xxxxxxx, hanno posto in evidenza il ruolo di fattori come età, provenienza, razza, genere, sesso nel creare discriminazione e gerarchizzazioni tra le migranti nell’accesso al lavoro.
00 X. Xxxxxxx Xxxxxxxx, diversamente dalle autrici citate, mostra come le stesse immigrate, più che attori inermi, sono a loro volta protagoniste attive di strategie di riorganizzazione idonee a creare occupazione e mobilità sociale. Parreñas R. S., Servants of globalization. Women, migration, and domestic work, Stanford (Cal.), Stanford University Press, 2001.
quotidianamente interagisce e negozia, all’interno del proprio reticolo sociale e relazionale, la sua posizione, la sua forza e il suo potere.
Guardare alla differenza, oltre che come fattore di esclusione, come una risorsa quotidianamente messa in campo dall’individuo per negoziare la propria forza e la propria posizione nella società è importante per cogliere appieno le dinamiche di interazione e di costruzione dei significati sociali. Come illustra efficacemente Xxxx Xxxxxxx, “osservata nella dimensione dell’interazione quotidiana, la differenza appare come uno strumento indispensabile per selezionare e organizzare la realtà sociale in forme di senso condivise”12.
Alla luce di tali considerazioni sarà nostro obiettivo volgere lo sguardo a come le “badanti” oggetto del nostro studio siano, oltre che “vittime” di fattori di discriminazione e di creazione e riproduzione della differenza, agenti attivamente impiegati nella creazione e nell’utilizzo di questi stessi elementi, sia come risorsa “promozionale”, che come strumenti di identificazione e riconoscimento dotati a loro volta di forza escludente o includente verso l’esterno.
1.5 La ‘badante’ tra affettività, lavoro e diritti
La letteratura è concorde nel sottolineare che il lavoro di ‘badante’ presenta, a differenza di altre occupazioni, dinamiche assai peculiari di interazione e sovrapposizione tra la sfera lavorativa e quella personale e sociale.
Come avremo modo di approfondire nel corso della trattazione, la relazione che si crea tra i diversi soggetti coinvolti nel rapporto (dall’assistente straniera, all’assistito, ad altri attori della famiglia italiana allargata, spesso i figli), specie
12 X. Xxxxxxx, L’estranea di casa: la relazione quotidiana tra datori di lavoro e badanti, in X. Xxxxxxx e G. Semi, Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 2007, p. 99.
nei casi di coresidenza, può assumere svariate forme, assurgendo in taluni casi a rapporto intimo, in altri affettivo, in altri ancora conflittuale.
Vivere quotidianamente a contatto con una persona anziana, come si vedrà, comporta il consolidamento di rapporti che vanno ben oltre il semplice dato lavorativo: la relazione che spesso si viene a creare tra la badante e la persona anziana incorpora elementi di intimità, affettività e di coinvolgimento psicologico che tendono a confondere la sfera relazionale con quella lavorativa, mettendo in luce il potenziale rischio che dall’offuscamento dei confini tra i due ambiti di interazione possa derivare una riduzione del ‘potere contrattuale’ delle lavoratrici.
Sebbene tale rischio, come analizzeremo, possa rappresentare un’ipotesi concretizzabile nella realtà, la tendenza dimostrata nel dibattito letterario citato precedentemente13 a guardare alla costruzione di vincoli di familiarità con le lavoratrici come uno strumento opportunistico o come un’esigenza dei datori
13 Xxxxxxx Xxxxxxxx, nella famosa opera “Doing the Dirty Work”, sostiene che “la lavoratrice domestica svolge un ruolo, e cruciale per questo ruolo è la sua riproduzione dello status della datrice donna (di classe media, non occupata, pulita) in contrasto col proprio (di lavoratrice, degradata, sporca)” (p.2). In questo senso, la datrice, secondo la Xxxxxxxx, cerca di comprare “la ‘personhood’ della lavoratrice invece del suo lavoro”, con la conseguenza che “la lavoratrice risulta svantaggiata nello scambio”. Proprio in relazione ad un lavoro caratterizzato “da una certa interazione umana, un datore può comprare i servizi di un essere umano che non è fino in fondo un vero essere umano (…) ma un essere umano socialmente morto” (p. 121). Ecco allora che, secondo la Xxxxxxxx, la familiarizzazione del rapporto lavorativo è conveniente al datore, che otterrebbe “chiari vantaggi dall’offuscamento della relazione lavorativa, perché questa indebolisce la posizione negoziale della lavoratrice in termini di salari e condizioni” (p. 123). La capacità del rapporto “familiaristico” di aggravare il disequilibrio nella relazione di potere tra la lavoratrice domestica ed il datore è evidenziato anche in X. Xxxxx e X. Xxxxxxxxx, Not One of the Family; Foreign Domestic Workers in Canada, University of Toronto Press, Toronto, 1997. Anche Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx-Xxxxxx si allinea a questa tesi, ma riconosce altresì che il diverso atteggiamento di molti datori di lavoro odierni (a Los Angeles), che “considerano con nuovo distacco e indifferenza” i propri lavoratori domestici, portano i secondi ad esprimere la necessità di una maggior considerazione e comprensione. (X. Xxxxxxxxx-Xxxxxx, Storie senza lieto fine, in Xxxxxxxxxx B., Xxxxxxxxxx A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, p.70).
inconciliabile con le mere necessità lavorative di queste donne14 non sembra, ancora una volta, idonea a rappresentare coerentemente la complessità del fenomeno, quanto piuttosto a rinchiuderlo in una scatola ideologica unicamente capace di rappresentarne le forme deviate di sfruttamento e vessazione.
L’attitudine a ricondurre, senza ammettere eccezioni, l’eventuale relazione armonica o solidaristica tra datrice e lavoratrice all’interno di una logica che vede schierato, in maniera manichea, un profittatore (il datore o la datrice) contro una vittima (la lavoratrice) sembra voler inverare, senza onere di prova, l’equazione: ‘asimmetria di posizione’ = ‘sfruttamento’. L’inclinazione a sottostimare, se non ad ignorare, l’eventuale necessità della stessa lavoratrice di costruire un rapporto più intenso in termini relazionali con persone con cui si interagisce e si convive in maniera continuativa non aiuta, a parere di chi scrive, a ricostruire la reale dimensione e forma del fenomeno.
Sarà pertanto nostro obiettivo osservare se e come la stessa lavoratrice straniera sia indotta nel quotidiano a costruire qualcosa “di più” all’interno della famiglia presso cui o per cui lavora per comprendere come le necessità ‘relazionali’ possano spingere in primo luogo la badante a ricostruire la relazione con la famiglia italiana, o alcuni dei suoi componenti, in termini “affettivi”.
Senza sottovalutare i casi né di palese né di velato sfruttamento, tenteremo di dimostrare come l’inclinazione a rinvenire nelle azioni solidaristiche dei datori di lavoro una sorta di cinico o calcolatore “paternalismo”15 o “maternalismo”16
14 Xxxxxxx Xxxxxxxxx sottolinea come “L’ingresso in famiglia sembra essere l’elemento che porta i datori a desiderare che l’assistente domiciliare, oltre ai normali compiti di cura, viva con slancio emotivo e affettivo il lavoro di assistenza verso l’anziano; essi frequentemente rischiano di dimenticare che, l’assistente è principalmente alla ricerca di un impiego”. Xxxxxxxxx X. e X. Xxxxxxxxx, La dimensione del rapporto di lavoro: ruoli e vissuti a confronto , in X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx. (a cura di), Xxxxxxxxx X., Xxxxxxxxx X. (a cura di), Un’assistenza senza confini. Welfare ‘leggero’, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, Ismu-Regione Lombardia, 2005, Milano, p. 129
15 Xxxxxxxxx Xxxxxxx afferma , secondo i dati da lei raccolti, che “Il trattamento delle badanti può essere visto come un razzismo condito di buoni sentimenti, a metà strada tra il paternalismo e l’espressione degli stereotipi razzisti più espliciti”. X. Xxxxxxx, op. cit., p. 111.
(fattore giudicato, come approfondiremo in seguito, con ancora maggiore severità da buona parte della letteratura di ispirazione femminista nei confronti delle datrici donne) non sia capace di rappresentare correttamente la complessità dei rapporti sociali all’interno delle mura domestiche.
Attraverso tale impianto non si tenderà, ovviamente, a sostenere che nel caso le relazioni umane siano valutate positivamente, il rapporto lavorativo passi in secondo piano e le ipotesi di sfruttamento siano meno gravi. Tale ricostruzione ci consentirà invece di riflettere sulla possibilità, spesso negata, che dalla “familiarizzazione” del rapporto lavorativo non derivi soltanto la tendenza del datore ad approfittare della lavoratrice, ma la propensione delle stesse badanti ad essere più flessibili rispetto alle proprie mansioni o al proprio impegno, e a negoziare in taluni casi, o a concedere in altri, vantaggi extra-contrattuali.
Queste considerazioni non ci spingeranno, certamente, ad omettere dall’analisi la pericolosità che tale pratica incorpora nel delegare alla “mediazione” quotidiana, diritti e potere, ma ci consentiranno di esaminare le modalità di azione concreta che gli attori mettono in campo nell’edificare i propri confini e nel costruire strategie di compensazione dell’asimmetria di posizione.
Sarà dunque nostro obiettivo valutare se lo spazio di rivendicazione dei diritti sia realmente compromesso dalla relazione familiaristica tra i soggetti, portando la badante ad una posizione di totale ricattabilità e asservimento o se, piuttosto, ad esso si sommi un lavoro di quotidiana negoziazione tra le parti, in cui anche la badante è dotata di forza contrattuale. In altre parole, proveremo a ricostruire come la rivendicazione formale (o istituzionale) dei diritti possa praticamente convivere, proprio a causa delle peculiarità che tale occupazione incorpora, con
16 La Xxxxxxxx afferma, in linea con la tesi di Xxxxxx Xxxxxxx, che il “maternalismo” nei rapporti tra lavoratrice e datrice, inteso come “cordialità tra le due donne”, non può che rafforzare l’inferiorità dell’immigrata. X. Xxxxxxxx, Un lavoro come un altro? La mercificazione del lavoro domestico, in Xxxxxxxxxx B., Xxxxxxxxxx A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 114. Si veda anche X. Xxxxxxx, Between Women: Domestic Workers and Their Employers, Temple University Press, Philadelphia, 1985.
un’attività di contrattazione personale, comprensione e conciliazione tra i singoli soggetti coinvolti.
1.6 Diritti e Integrazione: un’analisi multidimensionale
La riflessione sull’esercizio o sulle forme di sacrificio dei propri diritti, presentata nell’ultimo paragrafo, non potrà prescindere da un’analisi complessiva in merito al più generale quadro normativo e politico regolante diritti, libertà e accesso alle risorse per queste migranti. L’analisi dei vincoli/opportunità dovrà dunque essere orientata a cogliere quelle ulteriori categorie o forme di differenziazione che ampliano o restringono la capacità delle badanti di creare percorsi migratori e professionali qualitativamente migliorativi della propria condizione.
È necessario infatti tenere presente che le donne oggetto del presente studio, oltre che “ badanti” sono “migranti”, e in quanto tali afferiscono a una o più delle categorie di creazione statuale, prima ancora politica che giuridica. In questo senso, se parte del lavoro sarà orientato, come anticipato, all’analisi dei fattori sociali capaci di produrre effetti concreti nella vita di queste donne, un’altra parte, non meno importante, dovrà occuparsi di risignificare l’essere badante e migrante attraverso le forme di stratificazione create dalla politica e dall’ordinamento nel suo complesso.
L’analisi multidimensionale che caratterizza il presente lavoro è dettata dall’esigenza di approfondire lo sguardo oltre le più tradizionali forme di discriminazione che accompagnano l’integrazione di queste donne nel contesto di approdo, e di cogliere simultaneamente, come si è anticipato, gli innumerevoli fattori capaci di costituire al tempo stesso vincolo e risorsa per ciascuna di esse, in maniera diversa.
Genere, età, provenienza, forme di rappresentazione e autorappresentazione devono essere osservate in parallelo con altri fattori come status, regolarità, accesso alle risorse, esclusione formale e sostanziale, accesso alla cittadinanza, perché il quadro analitico possa assumere una portata complessivamente idonea a rappresentare minuziosamente il fenomeno.
L’interdisciplinarietà metodologica sarà lo strumento per mezzo del quale tenteremo di ricostruire un quadro olistico del fenomeno osservato, attraverso le molteplici variabili che scandiscono la quotidianità - tra vincoli e opportunità – dell’esperienza migratoria delle donne oggetto della ricerca.
2. Metodologia di Indagine
La presente ricerca nasce come approfondimento qualitativo di uno studio da me precedentemente condotto (attraverso la società di ricerca Piramix di Reggio Xxxxxx, formalmente incaricata) su commissione delle Consigliere di Parità della Provincia di Modena, attualmente in corso di pubblicazione, dal titolo “Da Badanti ad Assistenti familiari. Una pluralità di ruoli, una attività da qualificare”17.
La ricerca commissionata dalla Provincia di Modena è stata realizzata attraverso interviste in profondità, realizzate dal mese di febbraio del 2007 al mese di ottobre dello stesso anno mediante questionari semistrutturati, ad un campione di 150 intervistate, composto da donne straniere impiegate come “badanti” presso nuclei familiari (anche monoparentali) modenesi e residenti sia nel comune di Modena che in altri comuni della provincia modenese.
17 I dati riportati citati all’interno del presente studio si riferiscono alla versione presentata ufficialmente (ma distribuita solo in cd rom) all’omonimo convegno tenuto dalla Provincia di Modena presso il Baluardo della Cittadella il 12 marzo 2008.
È in occasione della rilevazione dei dati per tale ricerca che ho realizzato alcuni approfondimenti tematici, in particolare attraverso colloqui con 38 intervistate, per poter raccogliere ulteriori testimonianze e maggiori riflessioni su aspetti parzialmente o totalmente esclusi dall’indagine della Provincia.
Il questionario utilizzato come strumento di raccolta dati per la Provincia, composto da 27 domande strutturate, in parte chiuse – per permettere la rilevazione di dati anagrafici e standardizzabili – in parte aperte – per cogliere al meglio le peculiarità legate alle esperienze delle singole intervistate, è suddiviso in 4 sezioni ognuna con una specifica finalità.
La prima sezione, composta da tredici domande, costituisce la parte anagrafica dell’indagine quantitativa e fornisce alcuni elementi cognitivi sul progetto migratorio delle intervistate. In particolare, attraverso questa sezione si conosce la provenienza, l’età, lo stato civile, il livello di istruzione delle intervistate, e si ottengono informazioni in merito al proprio nucleo familiare in patria, alle cause della migrazione ed ai motivi sottostanti la scelta della provincia di Modena come destinazione.
La seconda sezione, composta da 6 domande aperte, è dedicata allo studio delle condizioni lavorative delle assistenti familiari. Le domande hanno lo scopo di conoscere il percorso professionale e la situazione attuale dell’intervistata da un punto di vista professionale, contrattuale e retributivo. Inoltre, si indaga sui rapporti instaurati con la persona anziana e la famiglia presso cui l’intervistata lavora e sui rapporti esistenti con gli operatori e i servizi attivi nel Comune di residenza.
La terza sezione del questionario, composta di 4 domande, ha lo scopo di analizzare le previsioni per il futuro delle intervistate. A tale scopo le domande, anche in questo caso aperte, puntano a conoscere le aspettative ed i progetti delle assistenti familiari, sia da un punto di vista personale (desiderio di ritornare in patria o eventuali progetti di ricongiungimento familiare) che
professionale (volontà di cambiare lavoro). In questa sezione si indaga, inoltre, in merito alla capacità delle intervistate di aiutare economicamente i propri familiari in patria e sulle rimesse mensili.
La quarta ed ultima sezione, composta di 4 domande, analizza nel suo complesso le esigenze di formazione ed integrazione sociale per conoscere il grado d’integrazione e gli eventuali desiderata – sia formativi sia socializzanti – delle intervistate.
L’approfondimento qualitativo condotto al fine di realizzare il presente studio riprende e penetra a fondo parte dei temi toccati dal questionario, e si concentra sull’analisi di alcuni importanti fattori che costituiscono il perno della presente trattazione, tra cui citiamo:
⮚ Capacità delle assistenti familiari di organizzare la propria esperienza migratoria in senso transnazionale;
⮚ Strategie compensative utilizzate per coprire la propria assenza con rispetto ai familiari rimasti in patria;
⮚ Il peso delle “reti” nella definizione della destinazione e dell’occupazione;
⮚ Relazione tra attività di badante e progetto migratorio;
⮚ Uso di concetti come “alterità”, “cultura” e “identità” nella strategia discorsiva delle intervistate, sia nel lavoro sia nell’interazione extra-domestica;
⮚ Vincoli di tipo formale e istituzionale nell’accesso alle opportunità formative ed ai diritti.
Profilo delle intervistate
Le interviste sono state realizzate a 38 donne così suddivise: 18 ucraine, 11 moldave, 5 rumene, 1 polacca, 1 russa, 1 marocchina, 1 ghanese.
Le intervistate sono donne di diverse età e residenti in diversi comuni della provincia modenese.
È essenziale chiarire che, a causa della realizzazione, seppur non esclusiva, ma in buona parte preponderante, delle interviste presso enti e sindacati, il campione analizzato è prevalentemente (ma non esclusivamente) composto da lavoratrici attualmente in regola.
Anche la composizione geografica del campione, di conseguenza, potrebbe scontare limiti di rappresentatività per quei gruppi maggiormente confinati nell’ambito informale di questo segmento lavorativo.
In maniera analoga, la proiezione quantitativa dei dati locali e nazionali rispetto agli addetti al settore domestico (dal quale non è possibile estrapolare i dati relativi solo all’attività di assistenza agli anziani) si riferisce al fenomeno “regolare”, così come registrato attraverso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS), e non tiene pertanto conto del fenomeno irregolare o sommerso, né in termini di diffusione, né di portata o composizione.
3. Immigrazione femminile e assistenza agli anziani: alcuni dati per un settore di difficile decifrazione
3.1. Motivi dell’emersione del fenomeno “badanti”
Da diversi anni la “rinascita”18 del lavoro domestico salariato, settore in cui è possibile collocare il lavoro di cura agli anziani, oggetto del presente lavoro di
18 In un saggio pubblicato su Polis, Xxxxx Xxxxxxx illustra come dopo gli anni in cui il lavoro domestico veniva considerato da molti studiosi un’occupazione ormai residuale, e dunque destinata a scomparire per effetto della riorganizzazione delle relazioni sociali dettata dal
ricerca, è al centro di numerosi studi19. Sono migliaia le famiglie che in Italia, per garantire la cura e l’assistenza dei propri familiari anziani, si rivolgono in gran misura a donne straniere, identificate comunemente con l’appellativo “badanti”. Questo termine, per quanto non apprezzabile, è ormai largamente utilizzato per autodefinire il proprio ruolo dalle stesse “assistenti familiari”20,
processo di modernizzazione, la crescita del numero dei lavoratori domestici in Europa registrata a cavallo del Novecento e del nuovo millennio ha richiamato l’attenzione sulla “rinascita” del lavoro domestico salariato e sulla necessità di decifrare e spiegare tale fenomeno. X. Xxxxxxx, Il mito del lavoro domestico: struttura e cambiamenti in Italia (1970- 2003), in Polis, n. 3, dicembre 2005, p 437.
19 In particolare si veda: Xxxxxxx X., Le colf: ansie e desideri delle datrici di lavoro, in Polis,
n. 1, 2004, pp. 137-164; Xxxxxxxxx X., Xxxxxxxxx X. (a cura di), Un’assistenza senza confini. Welfare ‘leggero’, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, Ismu-Regione Lombardia, 2005, Milano; Xxxxxx J., Gender, Migration and Domestic Service: The politics of Black Women in Italy, Xxxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000; Xxxxxx J., Le Acli colf di fronte all’immigrazione straniera: genere, classe ed etnia, in Polis, n. 1, 2004, pp. 77-106; Xxxxxxxx X., Doing the Dirty Work? The Global Politics of Domestic Labour, Zed Books, London, 2000; Xxxxxxxx B., Different roots in common ground: transnationalism and migrant domestic workers in London, in Journal of Ethnic and Migration Studies, n. 4, 2002, pp. 673-683; Xxxxxxxx F., Mottura G., Xxxxxxxx E.(a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, FrancoAngeli, Milano, 2003; Casella Paltrinieri A., Collaboratrici domestiche straniere in Italia. L’integrazione culturale possibile, in Studi emigrazione, n. 143, 2001, pp. 515-538; Castegnaro A., La rivoluzione occulta nell’assistenza agli anziani: le aiutanti domiciliari, in Studi Zancan-Politiche e servizi alle persone, n. 2, 2002, pp. 11-34; Xxxxxxx A., Xxxxx, genere, classe. Le tre dimensioni del lavoro domestico in Italia, in Polis, n. 2, 2003, pp. 317- 342; Xxxxxxxxxx X., Xxxxxxxxxx A.R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 108-117; Gori C. (a cura di), Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma, 2002; Hondagneu-Xxxxxx, P., Domestica: Immigrant Workers Cleaning and Caring in the Shadows of Affluence, Xxxxxxx, University of California Press, 2001; Xxxxxxx A, Domestiche straniere e datrici di lavoro autoctone. Un incontro culturale asimmetrico, in Studi emigrazione, n. 148, 2002, pp. 859- 879; Parreñas R. S., Servants of globalization. Women, migration, and domestic work, Stanford (Cal.), Stanford University Press, 2001; Ranci C., L’assistenza agli anziani in Italia e in Europa: verso la costruzione di un mercato sociale dei servizi, FrancoAngeli, Milano, 2001; Sarti R., “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”. Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia: uno sguardo di lungo periodo, in Polis, n. 1, 2004, pp. 17-46; Xxxxxxx F., Professioniste della tradizione. Le donne migranti nel mercato del lavoro domestico, in Polis, n. 1, 2004, pp. 107-136; Xxxxxxx X., Migrazione femminile e lavoro domestico: un terreno da esplorare, in La Critica Sociologica, n. 134, 2000, pp. 78-88; Xxxxx A., Xxxxxxxx A. M., Il mercato delle collaborazioni domestiche a Napoli: il caso delle ucraine e delle polacche, in La Rosa M., Zanfrini L. (a cura di), Percorsi migratori tra reti etniche, istituzioni e mercato del lavoro, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 193-224; Xxxxxxxx E., Badanti: donne come noi, in La rivista di servizio sociale, n. 2, 2003, pp. 39- 66.
20 Un primo significativo intervento normativo in merito a tale figura del mondo del lavoro familiare è avvenuto in occasione della regolarizzazione fatta nel corso del 2002 (art. 33 della
come invece le definisce il contratto collettivo nazionale dei lavoratori domestici, valido anche per le prime, data l’assenza di un contratto ad hoc per queste figure. Ma il termine “badante”, diffuso a più livelli, non rende certamente giustizia al lavoro svolto da queste figure, le quali oltre a “badare” persone anziane che presentano sovente gravi deficit di autonomia motoria e complicate situazioni di salute, svolgono importanti mansioni di ordine infermieristico e assistenziale.
Quando parliamo del c.d. “badantato” ci riferiamo ad un fenomeno altamente complesso, che coinvolge decisioni di politica migratoria, strategie di welfare, politica e mercato del lavoro, trasformazioni degli assetti sociali e familiari. Certamente, per quanto riguarda l’Italia, si tratta di un processo abbastanza recente, che trova la sua origine nella crescente domanda di assistenza e di cura alla persona. Le assistenti familiari, impiegate, di regola, nel lavoro di cura alle persone anziane, per lo più non autosufficienti, sono diventate figure centrali di un welfare “autogestito” cui ricorrono, di fatto, le famiglie italiane, dato il crescente bisogno di servizi rivolti alla terza età, e la limitata risposta dei servizi pubblici in tale settore.
Il mutamento del ruolo rivestito dalla donna all’interno della famiglia in un modello sociale che, come nel caso italiano, non ha visto riorganizzarsi i ruoli di genere nel lavoro domestico, è un fattore che, assieme alla crescita della partecipazione della componente femminile al mercato del lavoro, ha fatto si
Legge 189 del 2002), ma la definizione giuridica era ancora poco chiara; la norma si rivolgeva infatti a chiunque avesse “occupato alle proprie dipendenze personale di origine extracomunitaria adibendolo ad attività di assistenza a componenti della famiglia affetti da patologie o handicap che ne limitano l'autosufficienza”. Un riferimento generale era comunque la tipologia di mansioni comprese nelle varie categorie del Contratto Collettivo Nazionale di Categoria per il lavoro domestico. Una prima vera definizione normativa della figura generalmente chiamata “badante” vi è stata con la Finanziaria 2005. La Legge 30 dicembre 2004, n. 311 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)" ne parla nei termini di “addetti alla propria assistenza personale nei casi di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana”. Infine, il nuovo CCNL per il lavoro domestico, in vigore dal 1 marzo 2007, definisce questi lavoratori “assistenti familiari” (si veda in particolare l’art. 9).
che, anche nel nostro paese, la domanda di servizi privati da parte delle famiglie registrasse un netto amento, anche tra gli strati meno abbienti della popolazione. È naturale che, quando la donna svolge una professione al di fuori delle mura domestiche21, la sua capacità di prestare servizio anche all’interno del nucleo familiare risulti notevolmente ridotta, ragion per cui un aiuto a domicilio è strategicamente necessario per “salvaguardare” il proprio posto di lavoro22.
Sebbene la presente ricerca non si sia soffermata ad indagare le ragioni e le caratteristiche della domanda del lavoro di cura, si esclude che la crescita del lavoro domestico sia solo l’esito dello spostamento verso forme occupazionali più elevate da parte delle donne autoctone attraverso il ricorso alla forza lavoro immigrata. A parziale dimostrazione di questa tesi citiamo le parole usate da una datrice di lavoro, incontrata in sede di intervista presso la sede di un sindacato a Modena, che accompagna per effettuare le pratiche burocratiche necessarie alla regolarizzazione l’assistente ucraina impiegata per la cura della madre anziana:
“Guardi che io faccio l’operaia, guadagno si e no 900 euro al mese … praticamente li verso quasi tutti per pagare lo stipendio a lei (“la badante”), ma non so come fare diversamente.. mia madre adesso non è autonoma, ma parliamo seriamente… se vive altri due, tre anni, quelli che sono, è tanto… allora io cosa faccio? Mi licenzio per starle dietro? E poi, quando mia madre
21 È importante però sottolineare come, proprio nel caso dell’assistenza agli anziani, il ricorso a figure private come le “badanti” non sia condizionato solo dall’attività extradomestica della donna. Come illustrato da Xxxxx Xxxxxxx: “l’offerta è così vantaggiosa (…) da incoraggiare anche alcune famiglie in cui la moglie non lavora a ricorrervi”. Cfr. X. Xxxxxxx, Il mito del lavoro domestico, op. cit., p. 457 e p. 460.
22 In questo senso numerosi Autori, tra cui si cita: X. Xxxxxxxxx, L’altro welfare. Famiglie in affanno e aiutanti domiciliari immigrate, in X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, (a cura di), Un’assistenza senza confini. Welfare ‘leggero’, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, Xxxx-Xxxxxxx Xxxxxxxxx, 0000, Xxxxxx, pp. 13-48; X. Xxxxxx, Gender, Migration and Domestic Service: The politics of Black Women in Italy, Xxxxxxx, Xxxxxxxxx, 0000; X. Xxxxxxx, Il mito del lavoro domestico: struttura e cambiamenti in Italia (1970-2003), in Polis, n. 3, dicembre 2005, p 437.
non ci sarà più, alla mia età, cosa crede che trovo un altro lavoro? io non ho alternative, viviamo con lo stipendio di mio marito, e col mio paghiamo la badante. È difficile sa? E Dio non voglia che si ammali anche la madre di mio marito…”
Questa testimonianza ci dimostra dunque che il ricorso alla “badante” non può e non deve esser guardato solo come segno dell'emancipazione delle donne “occidentali”, ma anche come conseguenza del crescente costo della vita e della diminuzione del potere di acquisto dei salari, anche nel nostro paese, che spinge spesso entrambi i coniugi ad avere, e a mantenere anche quando i familiari anziani necessitino di cure, un'occupazione retribuita23. La scelta è legata strettamente alla forte discriminazione che le donne in età adulta (ma non solo) vivono nel mercato del lavoro italiano: interrompere un contratto lavorativo per accudire un proprio familiare può essere una scelta fatale sul lungo periodo, data la difficoltà di reinserimento lavorativo che il mercato presenta specie per le donne di una certa fascia d’età.
È comunque evidente come, quando il sistema di welfare di un paese, ed il modello italiano ne è la conferma, tende a comprimere l’erogazione di servizi a favore di strumenti mirati alle famiglie o ai singoli24, il ricorso da parte delle famiglie a lavoratori salariati risulti pressoché inevitabile. Da un modello pubblico si passa dunque ad un modello informale, descritto in letteratura come
23 Sulla categoria, in generale, del lavoro domestico la letteratura ha posto in rilievo il ricorso da parte dei ceti medio-bassi. Cfr. X. Xxxxx, “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”. Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia: uno sguardo di lungo periodo, in Polis, n. 1, 2004, p. 20; X. Xxxxxxx, Le colf: ansie e desideri delle datrici di lavoro, in Polis, n. 1, 2004, p. 138; X. Xxxxxxx, Il mito del lavoro domestico, op. cit., p. 457.
24 Si pensi, in particolare all’erogazione da parte degli enti pubblici degli assegni di cura, utilizzati in alcuni casi dal familiare che assiste e, in altre circostanze, per il pagamento, magari “in nero”, di assistenti familiari private. Sulla preferenza accordata dal sistema di welfare ai trasferimenti monetari diretti alle famiglie a discapito di una più articolata fornitura di servizi pubblici si veda C. Ranci, Le nuove disuguaglianze sociali in Xxxxxx, Xxxxxxx, Xx Xxxxxx, 0000.
“welfare leggero”25, fortemente deprofessionalizzato, che utilizza in modo improprio – autogestendole -le risorse stanziate dal mercato sociale.
È comunque importante sottolineare che anche nelle regioni in cui il servizio pubblico presenta buoni standards di attenzione alla popolazione anziana, la propensione di molte famiglie a fare ricorso al care privato è dettata altresì da quella che in letteratura è descritta “cultura della domiciliarità”26, ossia la tendenza a mantenere il familiare in casa evitando il ricorso a strutture private.
Al pari di tali motivazioni, non possiamo ignorare l’incremento della speranza di vita registrato nel nostro paese e la previsione di aumento del peso percentuale degli adulti sulla popolazione locale, fattori che contribuiscono fortemente, e contribuiranno ancor più in futuro, all’incremento della domanda di assistenza27. Il ricorso a lavoratrici immigrate per mansioni di assistenza è, infatti, sintomatico delle difficoltà del nostro sistema di welfare a far fronte alle richieste di una società in costante trasformazione: la crescita del numero degli anziani nella popolazione italiana non trova infatti adeguata copertura nell’offerta dei servizi pubblici ad essa destinati. Proprio la difficoltà incontrata dal servizio pubblico nel dare adeguata risposta al costante incremento della domanda di servizi assistenziali, ha fatto sì che le famiglie italiane si rivolgessero al mercato privato: in tale scenario si sono inserite, in maniera vieppiù crescente, le donne immigrate, in larga misura provenienti dai paesi dell’Est Europa, che hanno accettato di svolgere mansioni anche dequalificanti rispetto alla propria formazione, ma necessarie per lo meno per il “primo” inserimento nel mercato italiano. Ciò ha risvegliato anche l’attenzione di una
25 X. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Fasi e flussi migratori: le donne come protagoniste, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 3, 2004, p. 210.
26 Si vedano in particolare i saggi di Castegnaro: X. Xxxxxxxxxx, La rivoluzione occulta nell’assistenza agli anziani. Le aiutanti domiciliari, in Studi Zancan, Politiche e servizi alle persone, n. 2, 2002 e, dello stesso Autore, La regolarizzazione delle aiutanti domiciliari, in Studi Zancan. Politiche e servizi alle Persone, n. 3, 2002.
27 X. Xxxx (a cura di), Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carrocci, Roma, 2002, p. 40.
letteratura sociologica e antropologica che per molti anni ha etichettato il fenomeno migratorio femminile come processo non autonomo, in quanto effettuato a seguito di mariti o padri, quindi delle più dinamiche componenti maschili del nucleo familiare.
Ma le tendenze dell’assetto sociale e demografico italiano, unitamente alle politiche restrittive in materia di immigrazione, fanno si che una sostanziosa percentuale di questi lavoratori e lavoratrici sia confinata nel mercato del lavoro informale. Non sfugge certamente, in tale ottica, la complessa dinamica giuridica che accompagna l’inserimento in famiglia della donna immigrata (o, in misura alquanto minore, dell’uomo); al fine di regolarizzare la presenza e l’impiego di queste figure non basta ovviamente, per quanto importante da un punto di vista sociale, il desiderio di regolarizzazione da parte della famiglia “datrice” di lavoro, ma è necessario subordinare il rapporto di lavoro allo scadenzario dei decreti ministeriali che ne consentono l’ingresso, creando di fatto le condizioni per la proliferazione del c.d. lavoro “nero”, oltre all’insicurezza tanto delle lavoratrici straniere quanto delle famiglie italiane che usufruiscono del loro servizio.
Alla difficoltà di regolarizzazione delle assistenti familiari prive di permesso di soggiorno si aggiunge altresì l’interesse economico di ridurre i costi aggiuntivi del contratto, che spinge il datore di lavoro, e in alcuni casi lo stesso lavoratore, a fare a meno della relativa stipulazione. In questo modo, alla “clandestinità” dello straniero, condizione che inibisce la regolarizzazione di qualsiasi rapporto lavorativo, si aggiunge il “sommerso”, ossia la conduzione, di fatto, di rapporti lavorativi con l’assistente familiare al di fuori di qualsiasi copertura contrattuale.
Inoltre, come è stato sottolineato in letteratura, “è improprio ricondurre il fenomeno solo al lato della domanda, poiché anche l’offerta presenta caratteristiche tali da incrementare la richiesta di lavoro domestico: i compensi
contenuti richiesti dai collaboratori domestici immigrati incoraggiano infatti sempre più famiglie ad avvalersi del loro lavoro quotidiano”28. In questo modo, dunque, il meccanismo domanda-offerta tenderebbe ad invertirsi: la disponibilità sul mercato del lavoro domestico di risorse a basso costo indurrebbe anche le famiglie con minori possibilità economiche ad avvalersi di tali figure per la cura dei propri familiari non autonomi29.
Certamente, come avremo modo di analizzare, lo studio di questo segmento occupazionale obbliga a tenere in considerazione molti elementi tra loro interconnessi: politiche migratorie, trasformazione dei sistemi di welfare, peculiarità del mercato lavorativo, progetti migratori, caratteristiche soggettive delle migranti. La contemporanea analisi di questi fattori ci consentirà, dunque, di ricostruire gli elementi caratterizzanti il settore dell’assistenza agli anziani nella provincia di Modena, mettendo a punto un’analisi, il più completa possibile, della multidimensionalità di questo fenomeno.
3.2. Le assistenti familiari straniere in Italia
È stato più volte sottolineato in letteratura come l’Italia possa ormai certamente essere considerata parte di quel sistema di collegamento tra Europa e paesi di emigrazione; un sistema in cui l’immigrazione, da fenomeno straordinario, giunge a costituire una “componente strutturale”30 della società, ponendo sfide cruciali per quanto concerne l’assetto del territorio, l’organizzazione del sistema di welfare, l’integrazione della popolazione straniera nel tessuto sociale e produttivo locale.
28 Cfr ACLI- IREF, Il Welfare fatto in casa, Roma, 2007, p. 5.
29 Sul tema cfr. X. Xxxxxxx, Il mito del lavoro domestico, op. cit., pp. 452-459.
30 X. Xxxxxxx, Razza, genere, classe. Le tre dimensioni del lavoro domestico in Italia, in
Polis, n. 2, 2003, p. 319.
Il settore del lavoro domestico, ed in particolare, nel nostro studio, quello dell’assistenza agli anziani, rappresenta con certezza uno di quei settori attraverso il quale è possibile osservare l’immigrazione come un fenomeno ormai altamente stabile ed “ordinario” (in contrapposizione ai caratteri di straordinarietà con cui è stato spesso descritto) all’interno della società italiana. Dagli anni Novanta, con un ritmo accelerato rispetto ai decenni precedenti, il lavoro domestico a pagamento è cresciuto all’interno della società italiana, non solo tra i ceti elevati ma anche all’interno di quelli medi e bassi. La componente immigrata assume al suo interno un ruolo assai rilevante sotto diversi aspetti, tra cui: dimensioni quantitative, composizione di genere (più dei 2/3 sono donne), età del personale (non si tratta tanto di ragazze quanto di donne adulte, con una famiglia nel paese di origine), elevati livelli di istruzione, paesi di provenienza (non solo filippine ma soprattutto donne emigrate dai paesi dell'Est Europa).
Nel 1969, secondo i dati dell’Inps31, i lavoratori domestici stranieri erano 6 mila, 11 mila nel 1975, 36 mila nel 1991.
Dal 1991 al 2001 l’incidenza dei lavoratori stranieri nel settore domestico è passata dal 16,5% a 53,2%, come evidenzia la seguente tabella:
Tabella 1: Lavoratori domestici, nel complesso e stranieri, iscritti all’Inps, dal 1972 al 2001
Fonte: X. Xxxxx, “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”, op. cit., p. 18.
31 Citati in X. Xxxxxxx, op. ult. cit., pp. 319-320.
Addirittura, se misuriamo tale incremento sull’arco temporale degli ultimi 15 anni, è possibile rilevare come il numero di questi lavoratori sia più che decuplicato, come mostra la tabella:
Tabella 2: lavoratori domestici iscritti all’INPS italiani e stranieri per sesso
2001 | 0000 | 0000 | 0000 | 0000 | |
donne italiane | 124.226 | 126.419 | 125.972 | 125.456 | 123.714 |
donne straniere | 109.051 | 339.221 | 347.601 | 321.350 | 298.817 |
Totale donne | 233.277 | 465.640 | 473.573 | 446.806 | 422.531 |
%donne stran/tot donne | 46,7% | 72,9% | 73,4% | 71,9% | 70,7% |
uomini italiani | 4.997 | 5.370 | 5.252 | 5.259 | 5.304 |
uomini stranieri | 30.456 | 70.088 | 63.826 | 50.482 | 43.250 |
Totale uomini | 35.453 | 75.458 | 69.078 | 55.741 | 48.554 |
%uomini stran/tot uomini | 85,9% | 92,9% | 92,4% | 90,6% | 89,1% |
Tot. lavor.dom. stranieri Totale lavor. | 139.507 268.730 | 409.309 541.098 | 411.427 542.651 | 371.832 502.547 | 342.067 471.085 |
dom. % lav.stran/tot | 51,9% | 75,6% | 75,8% | 74,0% | 72,6% |
lavorat. |
Fonte: rielaborazione dati INPS, tratti dall’Osservatorio sui lavoratori domestici, disponibile on line al sito xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxxxxxx/xxxxx.xxx
L’incidenza del numero degli stranieri nel lavoro domestico è chiaramente aumentata a seguito della regolarizzazione del 2002 ad opera della c.d. “legge Bossi-Fini”32: l’incidenza dei lavoratori stranieri nel settore domestico passa così tra il 2001 e il 2002 dal 51,9% al 75,6%.
32 La regolarizzazione per le colf e le “badanti” è stata disposta dalla legge comunemente chiamata “Bossi Fini” (Legge 30 luglio 2002, n.189, “Modifiche alla normativa in materia di immigrazione e di lavoro”) che prevedeva che i datori di lavoro che, nei tre mesi precedenti l’entrata in vigore della norma, avessero occupato collaboratrici/xxxx xxxxxxxxx sprovvisti di permesso di soggiorno, potessero presentare una dichiarazione di emersione limitata ad una persona per nucleo familiare o senza vincoli numerici nel caso di collaboratrici/tori impiegati per l’assistenza di persone non autosufficienti.
I dati forniti mostrano chiaramente come il numero delle donne straniere a seguito della regolarizzazione sia triplicato, e quello degli uomini più che raddoppiato. Ad ogni modo, se osserviamo i dati registrati per gli anni a venire, osserviamo come il numero dei lavoratori stranieri analizzati per ‘genere’ assuma connotazioni diverse: nonostante in entrambi i casi il numero degli iscritti al settore domestico vada diminuendo, è in particolare sul versante maschile dove si osserva un netto calo dei lavoratori. Se infatti a seguito della ‘sanatoria’ il numero dei lavoratori uomini addetti al settore domestico raggiungeva le 70.088 unità, nell’arco dei tre anni successivi tale gruppo vede un’xxxxxx xx xxx 00.000 xxxxx, xxxx quasi al 40%. Per le donne, invece, nonostante al 2005 si registri una differenza di 40.000 unità, la diminuzione registrata dal 2002 è pari all’11,9%.
Non è facile offrire una lettura dettagliata di tali mutamenti, ma è possibile ipotizzare che nel comparto maschile si sia registrata una maggiore propensione all’utilizzo della sanatoria come strumento di primo accesso e, dunque, di regolarizzazione nel mercato del lavoro italiano. Anche nel caso delle donne, la spiegazione in merito al decremento del numero degli iscritti INPS potrebbe essere utilizzata in tal senso, fermo restando comunque che la difficoltosa normativa in termini di regolarizzazione delle posizioni lavorative per gli stranieri – in particolare non afferenti l’area UE – può dar luogo, sovente, come si avrà modo di mettere in luce più dettagliatamente all’interno del presente lavoro, al ritorno all’irregolarità nel caso non si riesca, entro periodi alquanto brevi, a ottenere un nuovo contratto di impiego, cui è subordinato il permesso di soggiorno. È dunque difficile quantificare il numero degli stranieri cui è semplicemente mancata l’occasione di rinnovo contrattuale (e sono dunque rimasti ‘esclusi’ dal settore formale) da quelli che hanno utilizzato la sanatoria del settore domestico per regolarizzare la propria posizione giuridico- amministrativa, ed hanno in seguito cambiato ambito professionale.
Ad ogni modo, alcune suggestioni in merito all’utilizzo della sanatoria per la regolarizzazione della propria posizione emergono anche dall’analisi dei dati per età:
Tabella 3: lavoratori domestici suddivisi per fascia d’età
2001 | 0000 | 0000 | 0000 | 0000 | |
Classi di età | N.lavoratori | N. lavoratori | N. lavoratori | N. lavoratori | N. lavoratori |
Fino a 20 | 2.606 | 10.923 | 5.968 | 3.299 | 3.021 |
21-25 | 15.975 | 55.212 | 46.119 | 30.780 | 21.907 |
26-30 | 34.385 | 80.649 | 76.708 | 62.902 | 50.749 |
31-40 | 87.761 | 166.044 | 166.986 | 153.590 | 140.601 |
41-50 | 74.601 | 147.312 | 155.820 | 154.702 | 151.978 |
51-60 | 47.425 | 72.239 | 80.948 | 86.328 | 91.005 |
61-65 | 4.356 | 6.596 | 7.631 | 8.218 | 8.781 |
Oltre 65 | 1.621 | 2.122 | 2.471 | 2.728 | 3.043 |
Senza ind. | . | 1 | . | . | . |
Totale | 268.730 | 541.098 | 542.651 | 502.547 | 471.085 |
Fonte: INPS - Osservatorio sui lavoratori domestici, disponibile on line al sito
xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxxxxxx/xxxxx.xxx
Appare evidente come le fasce di lavoratori più giovani registrino un fortissimo calo delle proporzioni assunte negli anni immediatamente successivi alla sanatoria, insinuando il dubbio – che verrà confermato dall’analisi qualitativa delle interviste all’interno del presente studio – che per i più giovani tale occupazione rappresenti essenzialmente una prima opportunità di inserimento lavorativo nel mercato italiano.
Evidentemente, ciò non accade alle fasce di lavoratrici in età più matura (molto presenti in questo settore), che calano in maniera molto leggera, oppure, addirittura, aumentano anche successivamente alla sanatoria. I motivi di tale trend saranno più dettagliatamente analizzati attraverso le interviste qualitative, a dimostrazione di diversi modelli migratori pensati e vissuti dalle singole migranti.
Oltre ad una maggior presenza di lavoratori stranieri in termini quantitativi, il settore della collaborazione domestica, e di conseguenza anche quello dell’assistenza agli anziani, ha registrato anche una variazione in termini di composizione.
Negli anni ’70 e ’80 le lavoratrici straniere impegnate nel settore provenivano in maggior misura dal continente africano (eritree, somale ed etiopi in particolare), da quello asiatico (in particolare dalle Filippine) e dal centro e sud America.
La provenienza di queste donne da paesi cattolici non è ovviamente casuale, come ricorda Xxxx Xxxxxxxx Bordogna, ma rappresenta una peculiarità dei flussi verso l’Italia originati dalle missioni cattoliche33 in questo periodo storico. L’inserimento lavorativo di queste donne è essenzialmente circoscritto alla mansione di colf a tempo pieno; si tratta di lavoratrici in larga misura regolari, che rientrano nei propri paesi per periodi di tempo limitati, mantenendo “un legame epistolare, molto spesso solo simbolico, con il loro paese di origine”34. Soltanto in seguito una parte rilevante di queste lavoratrici convertirà il proprio impiego in lavoro domestico ad ore, divenendo autonome anche in termini di alloggio e potendo finalmente utilizzare lo strumento del ricongiungimento familiare35.
Nel corso degli anni ’90, diversamente, (con particolare visibilità alla fine del decennio), a seguito della caduta del Muro di Berlino e del crollo dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’, si inseriscono in maniera alquanto vistosa le donne originarie dei paesi dell’Europa dell’Est, le quali trovano, in particolare,
33 X. Xxxxxxxx Bordogna, Fra le mura domestiche: sfruttamento e crisi del welfare nel lavoro di cura delle badanti, in M. A. Bernadotti e X. Xxxxxxx, Immigrazione e sindacato. Lavoro, discriminazione e rappresentanza, III Rapporto IRES, Ediesse, Roma, 2003, p. 164 e p. 169. Si veda altresì X. Xxxxxx e X. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Donne dal mondo. Strategie migratorie al femminile, Guerini Associati, Milano, 1991.
34 X. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, op. cit. (2003), p. 169.
35 X. Xxxxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Domanda di care domiciliare e donne migranti. Indagine sul fenomeno delle badanti in Xxxxxx-Romagna, Xxxxxxx 000, Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx, 2005, p. 22
sbocco nei lavori di cura agli anziani36. Mentre le colf del ventennio ‘70-‘80 provenivano da paesi in via di sviluppo, le “badanti” degli anni ‘90 e del nuovo millennio provengono, dunque, in forte misura da paesi in transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Trattasi, dunque, primariamente di migrazioni economiche dettate dal forte impatto registrato dalla popolazione in conseguenza della ristrutturazione economica e del conseguente aumento – o forse apparizione37 – della disoccupazione e, soprattutto, a seguito dell’innalzamento selvaggio dei prezzi dei beni di consumo a dispetto degli scarsi stipendi, e dunque di un basso potere di acquisto registrato dalla popolazione. Come sottolineato in letteratura, almeno agli inizi il fenomeno è caratterizzato da forte irregolarità ed estrema diffusione sul territorio nazionale italiano38.
La particolare concentrazione nel settore del lavoro domestico, da cui i dati sulle impiegate nell’assistenza domiciliare agli anziani non sono estrapolabili, di lavoratrici provenienti dai paesi dell’Europa orientale rispetto alle aree più tradizionalmente legate al settore è particolarmente evidente, anche in questo caso, a seguito della regolarizzazione del 200239: se fino al 2001, come mostra la tabella, la quota di lavoratrici europee era inferiore per importanza numerica a quella proveniente dalle Filippine, e solo leggermente superiore alla quota (centro e sud) americana, dal 2002, nonostante il gruppo delle domestiche
36 Cfr. X. Xxxxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Domanda di care domiciliare e donne migranti. op. cit., p. 22.
37 Come ricorda Xxxxxxxx Xxxxxxx, “In realtà, secondo gli esperti, la disoccupazione, fatta eccezione per la Germania dell’Est e per l’Albania, non è così elevata; in ogni caso non più elevata che nell’Europa occidentale. Si tratta però di un fenomeno nuovo, che si verifica nell’assenza di sussidi o aiuti”. X. Xxxxxxx, L’Europa dell’Est: il caso della Polonia e dell’Albania, in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Spazi migratori e luoghi dello sviluppo, L’Harmattan, Torino, 1999, pp. 132-133.
38 X. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, op. cit. (2003), p. 171.
39 Secondo i dati forniti dall’INPS, in occasione della ‘sanatoria’ del 2002, le donne sono state protagoniste di 321.000 domande di regolarizzazione, su un totale di 702.000, pari al 45,7% del totale. Cfr. INPS, Immigrazione e collaborazione domestica: i dati del cambiamento, INPS Monitoraggio Flussi Migratori, dicembre 2004, p. 10.
filippine viva un incremento pari al 18% e il gruppo sudamericano veda più che raddoppiata la propria consistenza, le lavoratrici dell’Est Europa marcano una profonda distanza rispetto a qualsiasi altra provenienza geografica, arrivando a settuplicare le proprie proporzioni:
Tabella 4: lavoratrici domestiche iscritte all’INPS per area di provenienza
Dati lavoratrici domestiche | 2001 | 0000 | 0000 | 0000 | 0000 |
per aree di provenienza Filippine | 30.634 | 36.319 | 36.538 | 36.893 | 36.720 |
Europa est | 26.182 | 200.868 | 208.181 | 189.483 | 174.134 |
America centrale | 4.789 | 6.955 | 6.957 | 6.739 | 6.418 |
America sud | 19.625 | 52.707 | 54.640 | 50.410 | 45.777 |
Africa centro sud | 10.478 | 13.669 | 12.794 | 11.734 | 10.927 |
Africa nord | 8.015 | 13.027 | 12.706 | 11.464 | 10.743 |
altro | 9.328 | 15.676 | 15.785 | 14.627 | 14.098 |
TOTALE donne straniere | 109.051 | 339.221 | 347.601 | 321.350 | 298.817 |
Fonte: rielaborazione dati INPS, tratti dall’Osservatorio sui lavoratori domestici, disponibile on line
al sito xxxx://xxxxxxx.xxxx.xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx/xxxxxxxxx/xxxxx.xxx
In termini di incremento percentuale il gruppo dell’Europa Orientale arriva addirittura a registrare a seguito della sanatoria un incremento pari al 667%. A seguire troviamo le lavoratrici latinoamericane, con aumento del 168,6%, certamente cospicuo ma non paragonabile in termini ‘fenomenologici’ a quello registrato dalle colleghe europee.
Tabella 5: Variazione % lavoratrici domestiche per gruppo di provenienza
Incidenza percentuale | variaz. % | variaz. % | variaz. % | variaz. % |
per aree di | 2001/2002 | 2002/2003 | 2003/2004 | 2004/2005 |
provenienza Filippine | 18,6% | 0,6% | 1,0% | -0,5% |
Europa est | 667,2% | 3,6% | -9,0% | -8,1% |
America centrale | 45,2% | 0,0% | -3,1% | -4,8% |
America sud | 168,6% | 3,7% | -7,7% | -9,2% |
Africa centro sud | 30,5% | -6,4% | -8,3% | -6,9% |
Africa nord | 62,5% | -2,5% | -9,8% | -6,3% |
altro | 68,1% | 0,7% | -7,3% | -3,6% |
TOTALE donne straniere | 211,1% | 2,5% | -7,6% | -7,0% |
Fonte: rielaborazione dati INPS, tratti dall’Osservatorio sui lavoratori domestici
È chiaro dunque come la percentuale delle lavoratrici domestiche provenienti dall’est Europa arrivi in poco tempo a rappresentare quasi il 60% delle lavoratrici straniere impiegate nel settore.
Tabella 6: peso gruppo geografico sul totale lavoratrici domestiche straniere
% donne per paesi di provenienza | 2001 | 0000 | 0000 | 0000 | 0000 |
Filippine | 28,1 | 10,7 | 10,5 | 11,5 | 12,3 |
Europa est | 24,0 | 59,2 | 59,9 | 59,0 | 58,3 |
America centrale | 4,4 | 2,1 | 2,0 | 2,1 | 2,1 |
America sud | 18,0 | 15,5 | 15,7 | 15,7 | 15,3 |
Africa centro sud | 9,6 | 4,0 | 3,7 | 3,7 | 3,7 |
Africa nord | 7,3 | 3,8 | 3,7 | 3,6 | 3,6 |
altro | 8,6 | 4,6 | 4,5 | 4,6 | 4,7 |
totale donne straniere | 100 | 100 | 100 | 100 | 100 |
Fonte: rielaborazione dati INPS - Osservatorio sui lavoratori domestici
I gruppi di lavoratrici provenienti da altre aree geografiche, pur registrando al loro interno notevoli incrementi in termini di numero assoluto, occupano a seguito della sanatoria un peso relativo alquanto modesto (le più influenti sono le latinoamericane) nel quadro complessivo.
L’operazione di regolarizzazione ha consentito dunque di prendere atto di una realtà fino al momento poco conosciuta o alquanto ignorata, ossia il forte incremento di quelle nazionalità ufficialmente poco rappresentate (in particolare
l’Ucraina per l’est Europa) o con una certa tendenza allo scivolamento nell’irregolarità (come la Polonia e la Romania), che, grazie all’esenzione dall’obbligo del visto per motivi turistici, riuscivano ad arrivare in Italia ma non a conseguire un titolo valido e duraturo per il soggiorno40.
È necessario a questo punto sottolineare come i dati finora analizzati e commentati si riferiscano soltanto al fenomeno dei lavoratori regolari, sollevando di conseguenza diversi dubbi in merito alla reale portata di un’occupazione spesso confinata nell’irregolarità. È stato già evidenziato in letteratura come i dati forniti dall’INPS non rappresentino che “la punta di un iceberg, la cui parte sommersa è andata crescendo fino a coinvolgere – secondo stime Istat – più di 800.000 lavoratori”41. Alla luce di tali dati è possibile dunque notare come la massiccia regolarizzazione effettuata nel 2002 sia comunque servita a regolarizzare solo in parte un fenomeno dai confini e dalle dimensioni spesso ignote.
Le stime relative al numero dei lavoratori impiegati nel settore domestico non sempre sono omogenee, ed ancor meno sembrano esserlo quelle relative al settore dell’assistenza agli anziani. Per il settore domestico l’Istat stimava la quota degli irregolari per il 2000 pari al 77% del totale dei lavoratori domestici42.
In uno studio pubblicato nel 2006 dall’IRS43 sul lavoro privato di cura la stima delle assistenti familiari regolari si attesta al 40% di una complessiva quantificazione di 619.732 assistenti straniere. Ammonterebbe dunque al 60% la quota complessiva del sommerso, distinguendosi al suo interno i casi delle
40 INPS, Immigrazione e collaborazione domestica: i dati del cambiamento, op. cit, p. 11.
41 X. Xxxxx, “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”. Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia: uno sguardo di lungo periodo, in Polis, n. 1, 2004, p. 17.
42 Le stime sono riportate da X. Xxxxx, op. ult. cit., p. 19, sulla base dello studio Istat L’occupazione non regolare nelle stime di contabilità nazionale secondo il Sec95. Anni 1992- 1999, dati analitici settembre 2002.
43 Cfr IRS, Il lavoro privato di cura in Lombardia, Milano, 2006
assistenti irregolari, ossia prive di inquadramento contrattuale, da quelle ‘clandestine’, prive anche dell’autorizzazione per il soggiorno, essendo che non necessariamente la persona priva di contratto sia altresì irregolarmente soggiornante.
Recentemente, Il Sole 24ore, in un dossier sul tema dell’assistenza agli anziani, ha ipotizzato una quota di irregolarità oscillante tra i 250.000 e i 900.000 lavoratori, cifra evidentemente alquanto imprecisa44.
Cifre così approssimative rivelano chiaramente le difficoltà che lo Stato incontra nel monitorare il settore, nel misurare e gestire i profondi cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi decenni. Un dato appare però abbastanza chiaramente: come evidenzia la Sarti in merito al servizio domestico, attualmente si registra in Italia, sia in termini di valore assoluto che relativo, un numero maggiore di occupati nel settore domestico rispetto al passato45.
La penetrazione del settore da parte di un’ampia quota di lavoratori stranieri, in particolare donne, ha fatto si che il ricorso a tali lavoratori non fosse certamente più prerogativa esclusiva delle classi agiate. L’incapacità del sistema pubblico di fornire il necessario supporto alle fasce più vulnerabili della popolazione ha reso la possibilità di ricorrere a lavoratori privati più che un ‘lusso’, una vera e propria esigenza anche per le classi medio-basse. Certamente la diminuzione del costo di assunzione, anche irregolare, di personale domestico, in particolare con rispetto alle mansioni di cura agli anziani, e la disponibilità delle lavoratrici straniere a svolgere tale mansione in co-residenza presso la famiglia o il
44 I dati forniti dal Dossier de Il Sole24ore, Il Welfare privato. Viaggio nel pianeta assistenza, 2 aprile 2007, sono citati in Provincia di Modena, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, Da Badanti ad Assistenti familiari. Una pluralità di ruoli, una attività da qualificare, Modena, 2007, p. 24.
45 X. Xxxxx, “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”, op. cit., p. 20. Inoltre, della stessa Autrice, si veda Domestic Service: Past and Present in Southern and Northern Europe, in Gender & History, vol.18 n.2 August 2006, pp. 222–245.
soggetto bisognoso di assistenza, hanno fatto si che anche le classi meno abbienti si rivolgessero al settore privato per alcune particolari mansioni46.
In questo senso Xxxxxx Xxxxxxxxxx sottolinea come, sebbene il fenomeno delle migrazioni orientate al lavoro domestico non sia affatto nuovo, se si ricorda “movimento costante di ragazze povere dalle campagne alle città dell’occidente”47, l’elemento che richiama l’attenzione nei flussi attuali è proprio la richiesta di tali figure all’interno dei ceti medio-bassi delle società di approdo48, ceti, come si è visto, spesso non dissimili da quelli delle stesse migranti.
Anche Xxxxxxxxx Xxxxx mette in evidenza come le trasformazioni dell’economia mondiale, e la conseguente ristrutturazione del mercato del lavoro, non abbiano prodotto effetti solo sulla composizione delle fila dei ‘datori’, bensì abbiano introdotto mutamenti anche sul versante dei lavoratori, in particolare, rispetto alla “ricomparsa” di domestici di estrazione sociale equiparabile a quella dei datori. L’Autrice ricorda come nelle società di antico regime “la presenza di servi di estrazione sociale non dissimile dai padroni derivava dal fatto che andare a servizio in gioventù poteva essere un modo per imparare un lavoro o altre abilità; dal fatto che, in alcuni contesti europei caratterizzati dalla trasmissione ereditaria a un erede privilegiato, i figli esclusi potevano rimanere nella dimora paterna come servitori; dal fatto che gli orfani potevano essere accolti con uno status più o meno servile in casa di parenti, conoscenti o altri oppure dal fatto che erano presenti schiavi stranieri talvolta di alta estrazione
46 Sul tema si veda anche X. Xxxxxxx, Le colf: ansie e desideri delle datrici di lavoro, in Polis, n. 1, 2004, pp. 137-164.
47 X. Xxxxxxxxxx, Migrazioni e incontri etnografici, Xxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, p. 26.
48 Ambrosini osserva come “Semmai, la vera questione riguarda la riproposizione di rapporti sociali e di lavoro preindustriali in una società postindustriale, e non solo nell’ambito di ristrette élite benestanti, ma con connotazioni di ampia diffusione sociale. Cfr. X. Xxxxxxxxx e
X. Xxxxxxxx, Il cuore in patria. Madri migranti e affetti lontani: le famiglie transnazionali in Trentino, Provincia Autonoma di Trento, 2007, p. 15.
nelle società di origine” 49. Non era dunque la “geografia delle disparità di potere a livello mondiale” secondo l’Autrice a segnare l’organizzazione sociale e la gerarchizzazione interna alla società, fattore che, al contrario, in epoca contemporanea sembra scandire tale stratificazione e sancire, dunque, la ‘differenza’ rispetto ai secoli passati.
All’interno del presente studio emergerà, infatti, come molte delle lavoratrici intervistate, spesso non più di giovane età, provengano da ceti sociali medi nei propri contesti di origine, e come il loro, più che un progetto migratorio orientato all’uscita dalla povertà, sia una strategia orientata ad evitare che i nuovi assetti economici internazionali facciano scivolare il nucleo familiare dal ceto medio a quello povero, a conferma di come in epoca contemporanea gli squilibri di potere in un mercato mondiale altamente disomogeneo rappresentino una delle fonti primarie di riorganizzazione sociale e lavorativa, nonché di stratificazione in termini di diritti, libertà ed opportunità50 tanto nelle società di partenza quanto in quelle di approdo.
49 X. Xxxxx, “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura” op. cit. , p. 22.
50 Ibidem, p. 22.
3.3. Le assistenti familiari straniere a Modena
Osservando i dati forniti dall’INPS per quanto riguarda la provincia di Modena, notiamo come i trend già evidenziati a livello nazionale si siano prodotti in maniera analoga anche a livello locale:
Tabella 7: Lavoratori domestici per provenienza
2001 | 0000 | 0000 | 0000 | 0000 | |||||||||||
F | M | Tot | F | M | Tot | F | M | T | F | M | Tot | F | M | Tot | |
Europa Ovest | 15 | 4 | 19 | 19 | 4 | 23 | 20 | 4 | 24 | 19 | 4 | 23 | 16 | 3 | 19 |
Europa Est | 209 | 18 | 227 | 3.224 | 115 | 3.339 | 3.339 | 100 | 3.439 | 3.078 | 57 | 3.135 | 3.020 | 65 | 3.085 |
America Nord | . | . | . | 2 | 1 | 3 | 1 | 1 | 2 | . | . | . | . | . | . |
America Centrale | 15 | . | 15 | 18 | . | 18 | 21 | . | 21 | 25 | 1 | 26 | 23 | . | 23 |
America Sud | 65 | 4 | 69 | 148 | 16 | 164 | 143 | 16 | 159 | 119 | 10 | 129 | 118 | 10 | 128 |
Asia Medio Orient | 2 | 3 | 5 | 25 | 5 | 30 | 28 | 5 | 33 | 23 | 3 | 26 | 22 | 5 | 27 |
Asia: Filippine | 445 | 76 | 521 | 526 | 95 | 621 | 510 | 80 | 590 | 517 | 72 | 589 | 539 | 80 | 619 |
Asia Orientale | 47 | 10 | 57 | 125 | 69 | 194 | 109 | 68 | 177 | 77 | 42 | 119 | 78 | 27 | 105 |
Africa Nord | 114 | 9 | 123 | 271 | 62 | 333 | 226 | 49 | 275 | 204 | 14 | 218 | 199 | 14 | 213 |
Africa Centro- Sud | 114 | 2 | 116 | 167 | 38 | 205 | 141 | 26 | 167 | 131 | 5 | 136 | 123 | 10 | 133 |
Oceania | . | . | . | 1 | . | 1 | 1 | . | 1 | 1 | . | 1 | 2 | . | 2 |
Totale | 1.026 | 126 | 1.152 | 4.526 | 405 | 4.931 | 4.539 | 349 | 4.888 | 4.194 | 208 | 4.402 | 4.140 | 214 | 4.354 |
Fonte: INPS- Osservatorio sui lavoratori domestici
Chiaramente, anche nel territorio modenese, l’impatto registrato dalla sanatoria del 2002 risulta evidente in particolar misura per il gruppo proveniente dall’Europa orientale, ed in maniera ancor più incisiva per le donne. La proporzione dei lavoratori provenienti, infatti, da questa’area geografica è 14 volte superiore a seguito della regolarizzazione, e l’uscita registrata negli anni
seguenti dal settore domestico, sebbene comune a entrambi i generi, è certamente più evidente (in termini di peso relativo sul totale) nell’universo maschile.
Sebbene anche altri gruppi geografici registrino incrementi del proprio peso relativo sul totale degli addetti al settore, gli incrementi numerici di tali gruppi non sono assolutamente paragonabili con le proporzioni assunte dai lavoratori (e in particolare dalle lavoratrici) europei, come dimostra la seguente tabella:
Tabella 8: Peso percentuale lavoratori stranieri per provenienza
2005 | |||
F | M | Tot | |
Europa Est | 69,36 | 1,49 | 70,85 |
America Centrale | 0,53 | 0,00 | 0,53 |
America Sud | 2,71 | 0,23 | 2,94 |
Asia: Filippine | 13,02 | 1,84 | 14,86 |
Africa Nord | 4,57 | 0,32 | 4,89 |
Africa Centro-Sud | 2,82 | 0,23 | 3,05 |
Altro | 2,71 | 4.11 | 2,88 |
TOTALE | 95,72 | 4,29 | 100,00 |
Fonte: rielaborazione dati INPS
Da sole, le donne dell’est Europa arrivano, nel 2005, a rappresentare quasi il 70% del totale dei lavoratori domestici stranieri.
Certamente, i dati variano se inseriamo nell’analisi del settore domestico il gruppo di lavoratori italiani, fermo restando che l’importanza acquisita dai lavoratori stranieri è evidente, in particolare, per alcuni paesi specifici:
Tabella 9: principali paesi di provenienza geografica
Fonte: Provincia di Modena, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, op cit., p. 36
I lavoratori ucraini, da soli, dallo 0.5% del 2001, arrivano a rappresentare nel 2003 più del 20% del totale degli addetti (regolari) del settore domestico. Tale proporzione, al contrario del trend registrato per molti altri gruppi, aumenta invece che diminuire negli anni successivi alla sanatoria. Anche il gruppo moldavo e quello polacco registrano, rispettivamente, un notevole incremento, in termini assoluti e relativi, arrivando a costituire, ciascuno, quasi il 12% dei lavoratori del settore. Per quanto riguarda la Romania, invece, notiamo come, nonostante si registri un incremento dei lavoratori domestici provenienti da
questo paese, la loro incidenza sul totale resta marginale, raggiungendo il 4% a seguito della sanatoria, percentuale che comunque diminuirà negli anni seguenti. Ciò accade nonostante quello dei rumeni rappresenti il gruppo più importante, in termini numerici, sul totale degli est-europei residenti a Modena (1388 uomini e 1822 donne)51, a (parziale) dimostrazione di come negli anni, in particolare le donne rumene, abbiano teso a cambiare settore. Al contrario, nel caso ucraino, su 179852 donne ucraine residenti a Modena, 1315 risultano (nel 2005) occupate in ambito domestico. In questo senso si evidenzia, dunque, il protagonismo di alcuni gruppi geografici in tale settore, e la tensione – che sarà approfondita in seguito – alla “discriminazione statistica”53 effettuata, in particolare, nell’affidamento delle mansioni di cura ed assistenza agli anziani. A ciò contribuisce anche il fatto che, come sottolineato da Xxxxxxxxxx e Mottura, “alle diverse provenienze geografiche sono in larga misura connesse differenze dei capitali sociali e delle reti relazionali di cui i soggetti migranti dispongono, e di conseguenza delle collocazioni sociali alle quali possono accedere e delle strategie occupazionali che sviluppano”54.
Dai dati forniti si evince altresì chiaramente come quei gruppi più tradizionalmente associati al lavoro domestico, dopo il 2001, assumano una decisiva minor incidenza a seguito del boom registrato dagli est europei. In particolare ci riferiamo ai lavoratori delle Filippine, i quali se fino al 2001
51 Dati dell’Anagrafe comunale- Servizio statistico e Osservatorio Economico e Sociale della Provincia di Modena, riportati in Provincia di Modena, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, op. cit., pp. 30 e 31
52 Ibidem, pp. 30-31
53 Di “discriminazione statistica” parla, in particolare, X. Xxxxxxxxx, La fatica di integrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 80, riferendosi alla preferenza accordata ad alcuni gruppi come garanti di una certa qualità del servizio. Il tema è trattato all’interno del presente lavoro al Capitolo 3, par. 3.1.
54 X. Xxxxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Domanda di care domiciliare e donne migranti. Indagine sul fenomeno delle badanti in Xxxxxx-Romagna, op. cit., p. 23. Si veda anche Mottura G., Necessari ma non garantiti. I fattori di vulnerabilità socio-economica presenti nella condizione di immigrati, in Xxxxxxxx F., Mottura G., Xxxxxxxx E. (a cura di). Il lavoro servile e le nuove schiavitù. FrancoAngeli, Milano, 2003.
rappresentavano il 20% dei lavoratori del comparto domestico, dal 2002 vedono più che dimezzato il proprio peso relativo.
Un altro dato di notevole importanza, che è necessario sottolineare, è l’incidenza che tuttora mantiene la popolazione autoctona nel settore: seppur dimezzato il proprio peso sul totale, che passa dal 55,3% al 22,5% tra il 2001 e il 2002, i lavoratori italiani rappresentano ancora quasi un quarto dei lavoratori domestici, nonché il gruppo più importante in termini assoluti e relativi. Il boom segnalato in merito alla regolarizzazione dei domestici stranieri effettuata nel 2002 non deve dunque far ritenere che tali figure abbiano ormai sostituito la componente autoctona in mansioni come il lavoro domestico.
Si può comunque facilmente supporre che proprio le necessità di cura ed assistenza agli anziani, più che l’attività di colf, abbiano contribuito al processo di espansione del lavoro domestico tra alcuni gruppi migranti, in particolare, come si avrà modo di approfondire all’interno del presente lavoro, per la disponibilità di tali figure a regimi lavorativi in co-residenza (difficilmente garantiti da lavoratori italiani) e il relativo minor costo.
Da ultimo, occorre segnalare che il gruppo di immigrazione più influente nel territorio modenese, quello dell’Africa settentrionale, (che registra al 2006
12.066 uomini e 7.467 donne residenti55), sia, nonostante le proprie dimensioni, più che marginale nel comparto domestico (sfiorando il 4,9% nel 2005). Le ragioni di questa “assenza”, come si evidenzierà, sono di varia natura, e provengono tanto dal versante della domanda quanto da quello dell’offerta del mercato domestico e di assistenza domiciliare.
I dati complessivamente forniti per il territorio di Modena e provincia si riferiscono, ovviamente, al fenomeno dei lavoratori regolari iscritti all’INPS. Le cifre del sommerso potrebbero decisamente anche raddoppiare – o più – il
55 Dati dell’Anagrafe comunale- Servizio statistico e Osservatorio Economico e Sociale della Provincia di Modena, riportati in Provincia di Modena, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, op. cit., pp. 30 e 31
numero degli addetti al settore, ed apportare alcune modifiche in merito alla composizione dei lavoratori per area di provenienza.
4. Alcune Riflessioni Teoriche
Prima di addentrarci nell’analisi qualitativa delle storie migratorie delle intervistate coinvolte nel presente studio è necessario offrire alcuni strumenti teorici che guidino la disamina dei fenomeni qui osservati.
Per comprendere appieno le peculiarità di alcune tendenze emerse dall’analisi qualitativa oggetto della presente trattazione è infatti necessario ripercorrere alcuni dei dibattiti su cui la letteratura ha già dimostrato particolare sensibilità ed interesse, e riflettere in merito alle analogie o alle differenze che le storie migratorie qui riportate presentano rispetto ad alcuni dei paradigmi offerti in campo scientifico-letterario.
Oltre a scrutare i motivi sottostanti la scelta migratoria delle intervistate, e i percorsi che l’hanno accompagnata, ci soffermeremo a riflettere su come e quanto le singole migranti si dimostrino capaci di “controllare”, “orientare” e “condurre” i propri progetti migratori. Uno degli obiettivi della presente ricerca è infatti quello di restituire autonomia ed agency alle migranti, per ovviare alla tendenza dimostrata da parte di alcune autrici, in particolare della letteratura gender-oriented, di enfatizzare in maniera smisurata il ruolo delle “strutture” e dei processi di riassetto dell’ordine internazionale, vittimizzando i soggetti osservati e sottostimando la capacità dei singoli individui di agire in maniera indipendente e di esercitare una propria volontà.
Certamente non è nostro intento chiudere gli occhi di fronte ai fenomeni in grado di “schiacciare” verso il basso i migranti, ma tenteremo altresì di analizzare come le lavoratrici straniere dedite ad un lavoro assai particolare (come quello di cura agli anziani) per impegno e isolamento sociale, riescano in parte a “sfruttare” alcuni dei cambiamenti che il sistema internazionale offre (tecnologia, trasporti, etc) e gestire in maniera più autonoma il proprio progetto
migratorio, a seconda del propria storia biografica, delle proprie origini, dell’età, degli obiettivi del progetto migratorio e delle aspettative in esso riposte.
Per tale motivo è necessaria una prima riflessione teorica su un fenomeno che può offrire alcune suggestioni interpretative alle storie migratorie qui osservate, in letteratura descritto come ‘transnazionalismo’ delle migrazioni, attraverso il quale cercheremo di comprendere in quali modi e in quali casi le migranti siano più o meno libere e capaci di vivere al di qua ed al di là dei confini degli stati- nazione, e di definire il proprio ruolo economico, sociale e politico in più contesti.
Si individueranno altresì le peculiarità che le diverse migranti presentano nel vissuto quotidiano, e che dimostrano l’impossibilità di intravedere comunità coerenti ed omogenee, ossia gruppi monolitici all’interno di una popolazione migrante complessiva. Il “quotidiano” sarà dunque lo spazio privilegiato della nostra osservazione; uno spazio in cui si dimostrerà possibile definire attraverso costanti negoziazioni i confini dei propri diritti, delle proprie libertà, delle opportunità di crescita e di inserimento. Da qui nasce l’esigenza di riflettere sulla capacità delle “differenze” tra le migranti di essere al tempo stesso vincolo e risorsa, a seconda del ruolo esercitato nella negoziazione e delle singole capacità e aspettative. Ancora una volta evidenzieremo come proprio le stesse migranti siano spesso oltre che vittime della differenza, abili agenti capaci di utilizzare le differenze in senso promozionale, e, dunque, attraverso queste, valorizzare e risignificare le proprie ‘identità multiple’.
La “differenza” sarà intesa in senso multidimensionale, perché è nostro obiettivo dimostrare come questa sia spesso il prodotto dell’interazione di più fattori, e non solo della contrapposizione tra ‘culture’ e ‘identità’ suppostamene conflittuali. In tal senso dunque è necessario utilizzare alcuni strumenti concettuali offerti in letteratura, che vanno dall’analisi e dalla critica al multiculturalismo a strumenti ermeneutici come la ‘superdiversità’, evitando ad
ogni modo di enfatizzare categorizzazioni e paradigmi puramente teorici, ma cercando di indagare nella complessità del quotidiano le forme di stratificazione e di riproduzione delle differenze, e il loro concreto uso da parte dei singoli individui.
Un’ultima riflessione teorica si concentrerà sulla “cittadinanza”, perché riteniamo che tale concetto necessiti di essere ri-significato, non solo nelle forme di accesso ai diritti, ma anche nella concreta capacità di esercizio di questi ultimi.
4.1 Il transnazionalismo delle migrazioni
L’idea in base alla quale molti migranti “rompono” con le proprie origini e “abbandonano” il proprio paese con la finalità di “inserirsi” stabilmente nel paese di approdo è stata fortemente messa in discussione dalla capacità dimostrata, al contrario, da molti migranti di essere attivi simultaneamente in entrambi i luoghi, muovendosi o ‘ingegnandosi’ nel superamento dei confini politico-amministrativi propri dei singoli stati. Tale fenomeno è stato individuato nelle recenti etnografie delle migrazioni con il termine di “transnazionalismo”, per indicare il processo attraverso il quale i migranti, facendo anche uso del progresso di molti strumenti tecnologici, sono in grado di mantenere relazioni sociali, economiche, politiche e culturali tra i due contesti parallelamente. Secondo la definizione proposta da Xxxxx Xxxxx, Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx, il transnazionalismo è quel processo “by which immigrants forge and sustain multi-stranded social relations that link together their societies of origin and settlement. We call these processes
transnationalism to emphasize that many immigrants today builds social fields that cross geographic, cultural and political borders”56.
Come sottolinea Xxxxxx, i fenomeni migratori raggiungono una complessità tale da richiedere uno sforzo verso il superamento di modelli bipolari classici, che contrappongono ipotesi di assimilazione/pluralismo etnico a ipotesi di ritorno in patria, affinché si possa analizzare la contemporanea capacità dei migranti di essere nello stesso tempo “qui” e “lì”57.
Diversi Autori hanno evidenziato come il transnazionalismo rappresenti più che un nuovo fenomeno, una nuova prospettiva interpretativa58, attraverso la quale “il fenomeno ha trovato i concetti e l’inquadramento cognitivo in grado di illuminarlo”59, permettendo agli studiosi di effettuare una più accurata analisi di come i migranti costruiscano e ricostituiscano le proprie vite come simultaneamente vincolate a più di una società60.
56 X. Xxxxx, X. Xxxxx Xxxxxxxx e C. Szanton Blanc, Nations unbound: transnational projects, postcolonial predicaments and deterritorilized nation-states, Xxxxxx and Breach, New York, 1994, p. 7. Sul tema si veda anche Xxxxx Xxxxxxxx, N., Xxxxx, X., Xxxxxxx Xxxxx, C., (eds) Toward a Transnational Perspective on Migration, AAN. X.X, Xxx Xxxx, 0000; X. Xxxxx, Thinking through Transnationalism: Notes on the Cultural Politics of Class Relations in the Contemporary United States, in Public Culture, n. 7, 1995; X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, The Study of Transnationalism: Pittfalls and Promises of an Emergent Research Field, in Ethnic and Racial Studies, vol. 22 , n. 2, 1999; X. Xxxxxx, X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Here or There? Contrasting Experiences of Transnationalism: Moroccans and Senegalese in Italy, CDE, Falmer, 2000; X. Xxxxxx, X. XxXxxx, X. Xxxxxxxx, International Perpectives on Transnational Migration: An Introduction, in International Migration Review, vol. 37, n. 3, 2003; Xxxxxxxx, Migrant transnationalism and modes of transformation, in International Migration Review vol. 38, n. 3, 2004, pp. 970-1001.
57 Riccio B. “Transnazionalismo”. Un punto di vista dall’Africa Occidentale, in Confronto, IV, n. 8, 1998; Si veda anche X. Xxxxxx, Riflessioni sull’approccio transnazionale alle migrazioni, in Afriche e orienti, II, n. 3/4, 2000; X. Xxxxxx (a cura di), Spazi transnazionali: esperienze senegalesi, in Afriche e orienti, II, n. 3/4, 2000; X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, "Transnazionalismo" e "Diaspora". Dalla ricerca sociale alle politiche globali?, in ISMU, XII Rapporto sulle migrazioni 2006, Milano, Xxxxxx Xxxxxx, 2007.
58 X. Xxxxxx, Conclusion: Theoretical Convergencies and Empirical Evidence in the Study of Immigrant Transnationalism, in International Migration Review, Vol. 37 N. 3, 2003, p. 874;
X. Xxxxxxxxx, Delle reti e oltre: processi migratori, legami sociali e istituzioni, in X. Xxxxxx,
X. Xxxxxxxxx (x xxxx xx), Xxxxxxxxx xx Xxxxxx. Reti migranti, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 34 e 38
59 Ibidem, p. 35.
60 X. Xxxxxx, Constraining metaphors and the transnationalisation of spaces in Berlin, in
Journal of Ethnic and Migration Studies, vol. 27, n. 4, 2001, p. 607.
L’analisi delle storie migratorie raccolte attraverso il presente studio metterà in luce l’esistenza di quello che è stato definito un “territorio circolatorio”61, come spazio in cui – nel nostro caso – le donne migranti vivono una ‘duplice’ vita al di qua e al di là dei confini nazionali, con contatti più o meno regolari (vedremo come lo status giuridico influisca effettivamente sulla portata del transnazionalismo) con il contesto di origine, e attraverso attività economiche (si pensi alle rimesse), pratiche sociali, culturali e politiche, attività comunicative ed organizzative.
L’interesse della letteratura sulle migrazioni transnazionali non verte sulla novità di tale fenomeno62, ma sulle sue caratteristiche di velocità e intensità63 che lo rendono più diffuso e pervasivo di quanto non accadesse in passato, riconoscendogli la potenzialità di incidere sia sulle società di origine che su quelle di arrivo64.
Interessante sul tema la distinzione tracciata da Vertovec tra “diaspora”, termine in voga e al tempo stesso oggetto di diatribe nella letteratura65, e “comunità
61 X. Xxxxxxx, Spazi circolatori e spazi urbani. Differenze tra i gruppi migranti, in Studi Emigrazione, n. 118, 1995 citato in Xxxxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxx, op. cit., p. 306.
62 Xxxxx X. Xxxxxx, ad esempio, pur sottolineando l’importanza della dimensione transnazionale nello studio delle migrazioni, evidenzia come “Le trasmigrazioni non sono un fenomeno né nuovo né omogeneo come spesso si tende a pensare”, R. D. Xxxxxx, Riflessioni sull’approccio transnazionale alle migrazioni, op. cit., p. 9. Altri autori hanno analizzato in cosa il transnazionalismo differisce e non dai ‘tradizionali’ modelli migratori, si vedano in particolare le opere di: X. Xxxxx Xxxxxxxx, Transmigrants and nation-states: Something old and something new in the U.S. immigrant experience, in X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxxxxx and X. XxXxxx (eds.), The Handbook of International Migration, New York: Xxxxxxx Xxxx Foundation, 1999, pp. 94-119;
X. Xxxxxx, The debates and significance of immigrant transnationalism, in Global Networks, vol. 1, n. 3, 2001, pp. 181-193; X. Xxxxxxxx, Trends and Impacts of Migrant Transnationalism, Centre on Migration, Policy and Society, Working Paper n. 3, University of Xxxxxx, 0000.
63 Cfr. M.P. Xxxxx e L.E. Guarnizo, (a cura di), Transnationalism from below, Transaction Publisher, New Brunswick, 1998.
64 R. D. Xxxxxx, Riflessioni sull’approccio transnazionale alle migrazioni, op. cit., p. 9.
65 Per un’analisi dei diversi significati attribuiti al termine ‘diaspora’ nella letteratura contemporanea, si veda, tra gli altri, X. Xxxxx, Global Diasporas. An Introduction, Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; X. Xxxxxx, In mezzo alle diaspore, in Aut aut, n. 298, luglio-agosto, 2000. L’antropologo Xxxxxxxx, richiamando i sei tratti costitutivi individuati da Safran per definire le ‘diaspore’, osserva come i caratteri principali della diaspora siano: “una storia di dispersione, miti/memorie relativi alla patria di origine, alienazione nel paese ospitante (cattivo ospite?),
transnazionale”: secondo l’Autore, la diaspora funziona come una comunità transnazionale fintanto gli scambi di risorse e informazioni restano vivi attraverso i confini; quando tali scambi non avvengono più, ad esempio col passaggio delle generazioni, ma le persone mantengono una ‘identificazione’ con il proprio contesto di provenienza o con persone della medesima origine, resta solo la ‘diaspora’; per tale motivo non tutte le diaspore coinciderebbero con comunità transnazionali, ma le comunità transnazionali emergerebbero sempre all’interno delle diaspore66.
Osservare la transnazionalità del fenomeno migratorio non significa, ovviamente, ricondurre ogni gruppo migrante alle medesime condizioni e caratteristiche migratorie: se da un lato è vero che le attività espletate attraverso i confini dello stato-nazione spaziano in diverse sfere, economica, culturale, religiosa, sociale e politica, incorporando caratteri di multidimensionalità67, dall’altro è altresì necessario ricordare che “ogni forma empirica di transnazionalismo si può caratterizzare per la predilezione o l’accentuazione di una o più di tali sfere”, ragion per cui è plausibile avere “in alcuni casi (…) pratiche “comprensive” multilivello, in altri pratiche più “selettive” concentrate su una determinata sfera di azione”68. In alcuni casi, dunque, i nuovi “campi sociali”69 costruiti tra gli spazi della migrazione potranno prendere forme diverse, a seconda dell’accentuazione dell’ambito di azione della diaspora.
desiderio di eventuale ritorno, costante preoccupazione di portare sostengo alla patria d’origine e una identità collettiva definita in buona misura proprio da questa relazione”; cfr.
X. Xxxxxxxx, Strade: viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, (trad. it.), Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 303 e X. Xxxxxx, Diasporas in Modern Societies: Myths of Homeland and Return, in Diaspora, vol 1, n. 1, 1991, pp. 83-99.
66 X. Xxxxxxxx, The political importance of diasporas, Working Paper No. 13, Centre on Migration, Policy and Society, University of Oxford, 2005, pp. 3-4.
67 X. Xxxxxx, X. XxXxxx, X. Xxxxxxxx, (eds), International Perpectives on Transnational Migration: An Introduction, in International Migration Review, vol. 37, n. 3, 2003.
00 X. Xxxxxx- X. Xxxxxx, op. cit., p. 310, che a loro volta richiamano Xxxxxx, DeWind, Xxxxxxxx, 2003.
69 Nel loro articolo introduttivo ai lavori contenuti, proprio sul tema delle migrazioni transnazionali, nel Volume 37, Numero 3, della Rivista International Migration Review del
Le storie migratorie offerte evidenzieranno, oltre alla predominanza di alcune sfere su altre, l’effettiva capacità delle diverse sfere di compensarsi tra loro: si pensi a come, ad esempio, l’essere transnazionalmente attivi nella sfera economica possa in un qualche modo aumentare la propria capacità di azione anche nel campo relazionale e familiare. Negli studi empirici infatti è stato più volte evidenziato come, data l’incapacità – assai sofferta dalle donne più che dagli uomini – di espletare il proprio ruolo di ‘madre’ e di care-giver verso i figli, le rimesse rappresentino un più o meno diretto “succedaneo” del lavoro di cura70 e della presenza fisica della madre, ed insieme ad esse i doni inviati “simboleggiano l’assente, ne trasmettono l’affetto, ne certificano lo sforzo di conoscere gusti ed esigenze di chi è rimasto, testimoniano del tempo che ha investito per trovare e spedire l’oggetto regalato; tanto più quando si tratta dei doni di una madre verso i figli che non può accudire direttamente”71.
La sfere economica, come si evidenzierà, può essere particolarmente pregnante quando lo status delle migranti vissuto nel paese di approdo comporta, di fatto, forme di transnazionalismo “limitato” in termini di libertà di movimento interfrontaliera. Anche in altri studi è stata evidenziata, infatti, la correlazione tra lo status giuridico del migrante e la piena transnazionalità del proprio progetto migratorio, come ricorda Xxxxxx: “Infatti, è solo quando si è ottenuto un permesso di soggiorno che ci si può permettere con serenità di attuare una strategia di vita transnazionale muovendosi come un pendolare che attraversa i confini degli stati”72. Ecco che allora nuove forme organizzative sono necessarie
2003, X. Xxxxxx, X. XxXxxx, X. Xxxxxxxx osservano che “transnational migrants are embedded in multi-layered social fields and that, to truly understand migrants’ activities and experiences, their lives must be studied within the context of these multiple strata” (p. 567).
70 E.M. Xxxxxx, Global care work and gendered constraints: the case of Puerto Rican transmigrants, in Gender and Society, vol. 17, n 4, 2003, pp. 609-626.
71 X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxx, Il cuore in patria, op. cit., p. 32.
72 X. Xxxxxx, Le esperienze delle donne migranti nell’ambiente di lavoro e il difficile percorso verso un’organizzazione di sostegno reciproco, in A. Sgrignuoli (a cura) Stereotipi e reti sociali tra lavoro e vita quotidiana. Un’analisi multiculturale della complessità di genere, Guraldi, Rimini, 2004.
per rimodellare e compensare la propria assenza, e nuovi strumenti, in particolare tecnologici, compensano la propria – parziale o totale – assenza.
Le strategie transnazionali messe in campo dalle migranti, come si avrà modo di osservare, costituiscono interessanti esempi di “valorizzazione” delle possibilità che il nuovo ordine economico e sociale, certamente spesso schiacciante, offre comunque alle migranti, e di come queste ultime siano nel tempo sempre più capaci di orientare in modo virtuoso e consapevole i propri progetti migratori, e non solo esserne passive destinatarie.
Sarà, inoltre, opportuno soffermarsi brevemente sulla domanda, acutamente sollevata in letteratura, se il transnazionalismo comporti una ‘trasformazione’ delle strutture sociali e dei valori, delle pratiche e delle istituzioni che le sorreggono, implicando dunque importanti mutamenti nell’organizzazione sociale, politica ed economica73 dei diversi contesti. Nonostante l’intensificazione e la maggior velocità dei flussi di comunicazione e di spostamento non implichi, necessariamente, alterazione delle strutture, è essenziale richiamare alcune considerazioni effettuate in dottrina su come l’intensità e la velocità dei flussi di risorse possano realmente contribuire ad alterare il modo in cui le persone agiscono74, e di come le modifiche in senso quantitativo del fenomeno possano comportare differenze qualitative nell’ordine complessivo75. Possiamo dunque supporre che, se guardato in un’ottica aggregata, il fenomeno del transnazionalismo delle migrazioni può essere
73 X. Xxxxxxxx, Conceiving and researching transnationalism, in Ethnic and Racial Studies, vol. 22, n. 2, 1999, pp. 447-462; X. Xxxxxxxx, Trends and Impacts of Migrant Transnationalism, op. cit., pp. 7-23. X. Xxxxxxx, Le migrazioni del ventunesimo secolo come sfida per la sociologia, in Mondi Migranti, 1/2007, p. 17.
74 X. Xxxxxxxx, Trends and Impacts of Migrant Transnationalism, op. cit., p. 9.
75 X. Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx economic transnationalism: Embedded strategies for household maintenance, immigrant incorporation, and entrepreneurial expansion, in Global Networks, vol. 1, n. 3, 2001, p. 220, citata in X. Xxxxxxxx Trends and Impacts of Migrant Transnationalism, op. cit., p. 8-9.
considerato potenzialmente idoneo a produrre cambiamenti negli assetti tanto di micro quanto di macro livello dei contesti di provenienza.
Come ha osservato Portes,
“While from an individual perspective the act of sending a remittance, buying a house in the migrant’s hometown, or traveling there on occasion have purely personal consequences, in the aggregate they can modify the fortunes and the cultures of these towns and even of the countries of which they are part. These and similar actions, multiplied by the thousands,translate into a flow of money that can become a prime source of foreign exchange for sending countries, into investments that sustain the home construction industry in these nations, and into new cultural practices that radically modify the value systems and everyday lives of entire regions.”76.
Sono, del resto, consapevoli gli stessi Stati, ed i loro governanti, delle potenzialità di trasformazione e di sviluppo che la transnazionalità dei propri migranti, e dei relativi flussi, possono offrire alle strutture economiche, politiche e sociali in loco, e sono conseguentemente diventati parte attiva di questo complesso quadro.
Certamente, si può essere più o meno concordi sulla portata del fenomeno del transazionalismo e dei relativi paradigmi interpretativi, ma le esperienze e le pratiche al di qua e al di là dei confini dello Stato-nazione riportate in questo ed in altri studi dimostrano la dinamicità dei fenomeni migratori contemporanei. Il nostro focus sulle donne impegnate nel lavoro di cura agli anziani metterà in evidenza le potenzialità che la “maternità” transnazionale offre nel creare occasioni di sviluppo, crescita e affermazione sociale per altri membri del
76 X. Xxxxxx, Conclusion: Theoretical Convergencies and Empirical Evidence in the Study of Immigrant Transnationalism, in International Migration Review, Vol. 37 N. 3, 2003, pp. 877- 878.
gruppo familiare della migrante, ed offre importanti spunti di riflessione su potenziali future iniziative di stampo economico, sociale e politico orientate al co-sviluppo.
4.2 ‘Cultura’, ‘identita’ e ‘appartenenza’: strumenti concettuali rigidi o flessibili?
Le tensioni sociali e politiche determinate in Italia – ma non solo - dai processi di immigrazione e di convivenza interetnica, unite al progressivo ridimensionamento delle politiche di welfare state e la crescente tensione connessa alla ristrutturazione capitalistica, che colpisce anche gli stati definiti “sviluppati”, sono state accompagnate da una crescente inquietudine in merito a questioni di “identità” e di “appartenenza”.
La domanda attuale che si pongono molti studiosi, ma che è parimenti trattata, non senza manipolazioni e strumentalizzazioni, dai politici e dai media, verte su come organizzare una società in cui le “differenze” non solo sono, con le migrazioni, in stretto contatto le une con le altre, ma sembrano rivendicate sempre con maggior rigore.
Se da un lato, infatti, parte della retorica politica si è concentrata sull’esaltazione del concetto di identità collettiva attraverso la radicalizzazione di nozioni quali “etnicità”, “cultura”, “tradizione”, per giustificare quello che Taguieff77 ormai venti anni fa descriveva come “razzismo differenzialista”, ossia una discriminazione fondata sulla condanna delle irriducibili “diversità” culturali delle comunità immigrate rispetto al contesto di approdo, dall’altro la medesima retorica “culturalista” e identitaria” è stata spesso utilizzata da parte di leader o
77 P. A. Xxxxxxxx, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo (1987), trad. it., Il Mulino, Bologna, 1994.
di alcuni gruppi di popolazione migrante per la costruzione del proprio “diritto alla differenza”, sull’assunto, ad esempio, che l’eguaglianza e la parità come volute dai “bianchi occidentali” altro non sarebbero che “il modello e le specificità dei bianchi estesi a misura universale”78 e, dunque omologazione a modelli estranei ai vari gruppi etnici.
Xxxxxxx osserva come “la retorica culturalista è diversa dal razzismo per il fatto che ipostatizza la cultura concepita come un set compatto, localizzato e storicamente radicato di tradizioni e valori trasmessi attraverso le generazioni”79. Dunque, ciò che distingue, secondo l’Autrice, il razzismo convenzionale da questo tipo di “fondamentalismo culturale” è il modo in cui sono percepiti coloro che idealmente minacciano la pace sociale e l’armonia della società in cui emigrano. In questa maniera, dunque, si porrebbero le basi per la costruzione e la legittimazione di vere e proprie pratiche di “esclusione”. In senso analogo, Xxxxxxxx pone in rilievo come “le vecchie ideologie razziste che argomentavano la necessità di escludere l’altro per prevenire la contaminazione della nazione assumono in questo modo una forma più moderna e accettabile”80.
L’essenzialismo culturale sarebbe associato, secondo Xxxxxx, alla crescita di “un’ansia culturale”81, ossia la paura di perdere l’identità82 e l’autenticità della propria cultura.
78 X. Xxxxxxx, Le società multiculturali, Xxxxxxx, Roma, 2002, p. 20 .
79 X. Xxxxxxx, Le nuove frontiere e le nuove retoriche culturali dell’esclusione in Europa, in Mezzadra, S., Xxxxxxxx, A (a cura di), I confini della globalizzazione, Roma, Manifestolibri, 2000, p. 163-164.
80 S. Castles, Le migrazioni del ventunesimo secolo come sfida per la sociologia, in Mondi Migranti, n. 1, 2007, p. 25.
81 X. Xxxxxx, Immigrazione e politica del riconoscimento della differenza in Italia, in X. Xxxxxx,
X. Xxxxx (a cura di), Le politiche del riconoscimento delle differenze, (trad. it.), Rimini, Guaraldi, 2006, p. 55.
82 Xxx Xxxxxxxx chiarisce come ‘alterità’ non sia sinonimo di ‘differenza’; affinché la prima diventi ‘differenza’ è necessario che “subentrino quelle procedure di astrazione, ordinamento e classificazione capaci di portare all’organizzazione concettuale di qualcosa come una cultura,
Si tratterebbe, secondo Xxxxxx, “di un tipo di strategia discorsiva che nega e contemporaneamente costruisce simbolicamente la sua opposizione nei confronti dei migranti attraverso argomentazioni emergenti dal senso comune, quali il desiderio di regole chiare, l’anelito a legge ed ordine, la difesa di interessi economici nazionali o locali e quella di interessi politici autoctoni, legittimando così la diffusa ostilità nei confronti dei migranti come naturale espressione di difesa del proprio territorio”83.
Il razzismo differenzialista darebbe così vita a forme di esaltazione delle differenze, esasperando le tendenze alla relativa preservazione. Come osserva Xxxxxxxxx, “Memorie, tradizioni, modi di vita peculiari possono essere salvaguardati solo al prezzo della separazione da altri gruppi umani, concepiti come portatori di culture diverse”84. In questo modo le ‘identità culturali’ diventano corpi rigidi, immodificabili, che non consentono meticciato, ed il concetto di “cultura” viene utilizzato per rinchiudere gli individui in realtà statiche.
Uno degli errori essenziali denunciati in letteratura è stata proprio questa tendenza a costruire una teoria “multiculturalista”, che vuole che le diverse “comunità” restino reciprocamente separate. In tal senso, il ‘multiculturalismo’ è stato al centro di numerose accuse da parte degli studiosi, che ne hanno criticato, come spiega Xxxxxx, la capacità di sovvertire i principi della liberaldemocrazia e ne hanno descritto il carattere essenzialista, in base al quale le culture vengono rappresentate in forma statica e finita85.
una società come caratteristiche, ad esempio, di un’etnia”. Cfr. X. Xxxxxxxx, L’identità etnica: storia e critica di un concetto equivoco, Xxxxxxx, Roma, 1998, p. 32.
83 X. Xxxxxx, “Toubab” e “vu cumprà”, op. cit., p. 28.
84 X. Xxxxxxxxx, Integrazione e multiculturalismo: una falsa alternativa, in Mondi Migranti, n. 1, 2007, p. 217.
85 X. Xxxxxx, An excess of alterity? Debating difference in a multicultural society, in Ethnic and Racial Studies, Vol. 30, n. 6, 2007, p. 985.
Come osservato da Baumann86, è necessario innanzitutto domandarsi se la “cultura” sia concepita come “una cosa che si possiede” o piuttosto come un “processo che si modella”. Fino ad oggi, spiega l’Autore, la più influente delle due teorie è quella essenzialista, che considera la cultura come un oggetto finito, capace di influenzare e plasmare i pensieri dei propri membri. In questa concezione, la cultura è qualcosa che “si ha” anziché qualcosa che “si fa” e si rimodella tramite una continua attività di rinnovamento. Tale concezione era stata tratteggiata anche da Xxxxxxxx attraverso la rappresentazione della cultura come “un corpo superumano che vive e muore”87 e dunque, aggiunge Xxxxxxx, come “un organismo vivente”. In tal modo, la cultura così concepita, non farebbe altro che consentire, da un lato, alla ‘comunità’ di tracciare criteri di esclusione/inclusione per i propri membri, e, dall’altro, di creare stereotipizzazioni nella società ‘ospitante’ nei confronti degli stranieri.
Secondo la concezione multiculturalista, dunque, la cultura sarebbe una sorta di “bagaglio” valoriale e comportamentale distintivo dei singoli gruppi, i quali risulterebbero omogenei al proprio interno ma fortemente separati da tutto ciò che è ‘esterno’. La dimensione del cambiamento, in questo quadro, è respinta come una forma di contaminazione che minaccia la “purezza” della cultura.
Xxxxxxx dunque osserva come tale visione, certamente poco utile per un futuro veramente ‘multiculturale’, trascuri il fatto che ogni individuo viva “in più di una cultura”88, e costruisca in senso ‘processuale’ significati attraverso la propria e le altre culture che lo circondano. Se, come afferma l’Autore, le differenti “fratture culturali” non corrono parallele le une alle altre, ma si intersecano formando una sempre mutevole di “fratture trasversali”, è necessario trovare un concetto di ‘cultura’ adeguato a trattarle. Per Xxxxxxx
86 X. Xxxxxxx, L’enigma multiculturale : stati, etnie, religioni, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 89.
87 X. Xxxxxxxx, I frutti puri impazziscono : etnografia, letteratura e arte nel secolo 20, (trad. it.), Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 235.
88 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 90.
infatti sono gli stessi scienziati sociali a non vedere la flessibilità che è dappertutto intorno a loro, proprio a causa della loro angusta visione della cultura89.
Anche Xxxxxxx, sostenendo che “la cultura è ovunque”, suggerisce di non limitarsi ad osservare le culture solo dal punto di vista delle differenze, e propone di focalizzarsi su come oggi l’uomo, soggetto al continuo apprendimento, riempia il suo gap informativo partecipando alla vita sociale, ossia il modo in cui i suoi modi di pensiero e azione diventano socialmente organizzati90.
Una delle ragioni per cui, secondo Xxxxxxx, si conserva la visione essenzialista di cultura – e dunque una ‘identità’ come oggettivamente data - risiede nella possibilità di esigere diritti: la persone fanno appello alla nazionalità per promuovere i propri diritti, ed invocano la propria ‘cultura’ per denunciare discriminazioni o per chiedere azioni affermative. L’obiettivo non sarebbe dunque tanto eliminare la parola “cultura” dalla retorica pubblica, metodo che non risolverebbe alcun problema, ma sfidare la tentazione di ridurre la cultura delle persone alla loro nazionalità, etnicità o religione.
Ma anche su questo punto Xxxxxxx ci allerta di fronte ad un potenziale pericolo: perdere l’interesse verso la cultura espressa in senso essenzialista. La suggestiva riflessione dell’Autore va nel senso di dimostrare che l’eventuale abbandono della cultura essenzialista – falsa ma popolare nei media e nella retorica politica - per quella processuale – scientificamente feconda ma certamente meno diffusa – sarebbe una scelta erronea, perché anche coloro, e sono la maggior parte, che vivono la cultura in termini essenzialisti vanno osservati in quanto “parte della realtà” che le scienze sociali devono studiare e con cui multiculturalisti devono fare i conti:
89 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 92.
90 X. Xxxxxxx, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna, 2001, in particolare pp. 43-66.
“Se le persone su cui noi basiamo i nostri studi espongono teorie che noi troviamo false, non possiamo semplicemente scartarle definendole “falsa ideologia” o “falsa coscienza”. Esse restano comunque parte della realtà che studiamo, e dobbiamo capire come operano, perché le persone le usano e cosa vogliono raggiungere con esse. Molto spesso, ciò che vogliono raggiungere è un senso di continuità culturale, un senso fermo di unicità o identità culturale, e una pretesa più forte a diritti di comunità. Compito dello scienziato sociale non è di screditare questi scopi, ma capire perché e in quali condizioni le persone usano una teoria essenzialista per raggiungere i propri scopi. Questa è la ragione principale del perché la teoria essenzialista popolare della cultura debba essere presa sul serio: essa in parte modella le realtà che dobbiamo comprendere”91.
Analogamente, altri autori osservano ed enfatizzano il bisogno di “analizzare piuttosto che demonizzare l’essenzialismo quotidiano”, e prendere sul serio, come xxxxxxx Xxxxxx, “i confini”, i quali sono “significativi per le persone coinvolte nei processi di negoziazione socio-culturale che si intendono comprendere”92.
Xxxxxxx e Xxxx, criticando a loro volta la debolezza dell’opera di ‘decostruzione’ del carattere essenzialista delle differenze elaborata da parte di una certa letteratura, propongono di utilizzare la categoria del “multiculturalismo quotidiano” per superare “una serie di semplici dicotomie che vedono opporsi in modo meccanico e speculare la differenza all’eguaglianza” e riuscire finalmente ad evidenziare la differenza come “risorsa
91 X. Xxxxxxx, op. cit., 2003, p. 97.
92 X. Xxxxxx, “Toubab” e “vu cumprà”, op. cit., p. 148
politica”, ossia come “elemento centrale – che può agire come vincolo o come risorsa – nel quotidiano lavoro di definizione della realtà e della gestione dei confini sociali”93. Vista così, la differenza non è più un bagaglio pre-sociale che orienta l’azione degli individui, ma una “produzione situata” scaturente, volta per volta, da confronti, anche conflittuali, emergenti in contesti in cui le risorse ed il potere sono distribuiti in forma asimmetrica.
Alla luce delle suggestioni degli Autori citati, la nostra analisi più che concentrarsi sul concetto di ‘cultura’ e sui suoi significati, dovrà soffermarsi sull’uso che le persone da noi osservate fanno del concetto di cultura. Ciò assume particolare rilievo se consideriamo che non è necessariamente vero che chi adotta l’approccio essenzialista non faccia uso anche della teoria processuale, o meglio non associ ad una sorta di discorso essenzialista una pratica processuale.
In questo forse consta la sfida del multiculturalismo, ossia nel “bisogno di scoprire empiricamente come esattamente le persone riescano a modellare le identità dialogiche mentre reificano al contempo quelle monologiche”94 Certamente la forma di multiculturalismo con cui nel nostro paese, ma non solo, abbiamo più di tutto avuto a che fare è la rappresentazione organizzata della differenza culturale. Sono in primo luogo le istituzioni pubbliche e parte del mondo dell’associazionismo o del volontariato organizzato a rappresentare questo discorso, pensando più che in termini di estensione dei diritti a prescindere dall’appartenenza ad una rappresentazione o ad una forma assistenziale diretta a minoranze definite da un punto di vista identitario95.
93 X. Xxxxxxx e G. Semi, Multiculturalismo quotidiano. Le pratiche della differenza, Xxxxxx Xxxxxx, Milano, 2007, p. 8.
94 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 146.
95 Si veda sul tema X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Transnational Migration, incorporation and rescaling processes: Some reflections from Xxxxxx Xxxxxxx (Italy), in X. Xxxxx Xxxxxxxx e X. Xxxxxx (eds.), Locating Migration, in corso di pubblicazione. Si ringraziano per gli Autori per l’accesso al manoscritto originale.
Rifacendoci ancora una volta al pensiero di Xxxxxxx, dobbiamo dunque tenere a mente che “la società multiculturale non è un patchwork di cinque o dieci identità culturali fisse, ma una rete elastica di identificazioni scorciate e sempre mutuamente situazionali”96. Ciò che deve dunque essere riconosciuto non è una data cultura reificata in quanto opposta ad un’altra, quanto piuttosto “la natura dialogica di tutte le identità” e, di conseguenza, il fatto che “le differenti identificazioni culturali possono e vogliono, in una società multiculturale, attraversare i rispettivi confini reificati”.
Il rapporto tra uomo e cultura ricostruito da questa letteratura non è statico: l’uomo produce cultura, e la cultura produce l’uomo. Se l’uomo cessasse di farla e di rifarla, la cultura cesserebbe di esistere. La cultura è anche cambiamento culturale; questa concezione “processuale” della cultura fa si che essa non si fermi mai, ma sia soggetta sempre a cambiamenti.
È analogamente ciò che Xxxxxxxx chiama ‘intercultura’, intesa come “narrazione condivisa, contestata e negoziata”97: ogni cultura si basa, secondo la filosofa, su narrative che articolano differenze, e che pensano la relazione tra identità e differenza. Secondo tale ricostruzione, dunque, se le culture si basano su narrative, il problema della differenza non è esterno ma interno alle culture stesse. In altre parole il dialogo narrativo di ciascuna cultura con l’altra è fondamentale per la costruzione di un “universalismo interattivo”, che è “la condizione di possibilità delle varie risignificazioni prodotte dall’essere umano e la condizione per comprendere che esiste una realtà dialogica, che è tanto individuale quanto collettiva”98.
96 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 124.
97 X. Xxxxxxxx, The claims of culture. Equality and diversity in the global era, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2002, p. 5.
98 Si veda l’intervista a Xxxxx Xxxxxxxx di X. Xxxxx e X. Xxxxxxxx intitolata “Il racconto degli altri. L'universalismo dialogico di Xxxxx Xxxxxxxx”, apparsa su Il giornale di filosofia il 30 novembre 2006, disponibile on line al sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx.
Affinché le teorie fin qui analizzate possano trovare una concreta applicazione pratica nella nostra analisi, ci concentreremo, come anticipato, non tanto sullo studio per se della differenza, ma su come la “differenza” sia in alcuni casi utilizzata per dar luogo a discorsi e a pratiche escludenti, essenzializzando concetti di ‘cultura’ e ‘appartenenza’ e come, in altri casi, sia superata attraverso una pratica discorsiva processuale capace di stabilire nuove forme di ‘convergenza’ imperniate su altri fattori ed altre caratteristiche. Di come, dunque, parafrasando Xxxx Xxxxxxx, la differenza diventi (o sia usata come) risorsa politica.
4.3 Le differenze oltre la cultura: il concetto di “superdiversità”
Parlare di “diversità” riferendosi al fenomeno migratorio porta spesso a concentrare l’attenzione sulla questione della “cultura”, e di come le diverse appartenenze e identità – come si è già detto spesso analizzate in forma essenzialista – modellino spazi di separazione e polarizzazione dei singoli gruppi etnico-culturali, e stimolino la riflessione sulle modalità possibili di superamento delle “differenze”, portando a creare pratiche di assimilazione, di integrazione, di inclusione, di incorporazione dai confini spesso poco chiari.
Nonostante non si voglia certamente in questa sede sottovalutare il tema delle differenze da un punto di vista “culturale”, e di come esse siano utilizzate in ambito politico e sociale, pare opportuno soffermarsi sui fenomeni – spesso trattasi di scelte politiche - che negli ultimi decenni hanno portato alla proliferazione di variabili molteplici che, in maniera diversa ma assai problematica, concorrono a definire nuove forme di differenziazione tra migranti, anche all’interno di gruppi culturalmente omogenei. In questo senso, dunque, il criterio “etnico” nell’analisi delle differenze appare alquanto
riduttivo, e si richiama l’attenzione su quell’insieme di variabili che comportano la creazione di veri e propri “status” differenti tra migranti, con ciò che ne deriva in termini di titolarità di diritti diversi, restrizione o ampliamento delle possibilità di accesso alle risorse, maggiori o minori opportunità e libertà, possibilità differenziate di integrazione.
L’insieme di tutte le variabili che concorrono, in maniera diversa, a creare nuove “categorie” di migranti tra loro profondamente dissimili è stato nella letteratura antropologica recentemente descritto col termine riassuntivo di “superdiversità” per spiegare “a level and kind of complexity (…) distinguished by a dynamic interplay of variables among an increased number of new, small and scattered, multiple-origin, transationally connected, socio-economically differentiated and legally stratified immigrants”99
Quello di ‘super-diversità’ è dunque proposto come un termine sintetico, che sebbene includa variabili non certamente ‘nuove’ nell’analisi delle migrazioni, permette di osservare la “differenza” in una prospettiva multidimensionale.
Le dinamiche socio-culturali di esclusione restano rilevanti, ma ad esse si sommano quei fattori che differenziano le prospettive tanto migratorie quanto insediative.
All’interno del presente studio tenteremo di analizzare, consci del fatto che tale trattazione non potrà essere ovviamente esaustiva, alcuni dei principali fattori che in primis le intervistate (senza addebitar loro certamente formulazioni teoriche astratte) mettono in evidenza come fattori di produzione e riproduzione delle differenze.
Uno dei principali ostacoli incontrati nella propria esperienza migratoria, si avrà modo di osservare, è certamente il proprio “status” di migrante, che non è uguale per alcuni come per altri.
99 X. Xxxxxxxx, Super-diversity and its implications, in Ethnic and Racial Studies, Vol. 30, n. 6, novembre 2007, p. 1024.
Molte intervistate hanno vissuto, e in alcuni casi vivono, uno status di irregolarità o di clandestinità: i due concetti non sono perfettamente coincidenti, anche se spesso portano a risvolti e problematiche analoghe. Si ricorda che il ‘clandestino’ è lo straniero entrato in Italia senza regolare visto di soggiorno, mentre l’ ‘irregolare’ è una persona che ha perso i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale, come nel caso di molte delle nostre intervistate che, allo scadere del visto turistico non hanno fatto ritorno in patria, diventando così over-stayers irregolarmente presenti sul territorio italiano.
Tanto la condizione di irregolarità quanto quella di clandestinità comportano gravi limitazioni nella vita di queste migranti, se si pensa che l’art. 2 del Testo Unico concernente la disciplina dell’immigrazione, testualmente recita: “Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano”100.
Ad una prima analisi emerge dunque come il quadro normativo – attraverso il
c.d. “diritto degli stranieri” – tenti di ridurre la distanza nel godimento dei diritti soggettivi tra i non cittadini regolarmente soggiornanti e i cittadini.
Quale trattamento “differente” riserva, dunque, il quadro legislativo allo straniero irregolare?
L’art. 1 chiarisce che “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”.
Il diritto, dunque, sancisce che la condizione umana e i diritti inviolabili dell’individuo “costituiscono sempre il limite alla discrezionalità legislativa della disciplina della condizione giuridica dello straniero”101. Ad alcuni diritti dunque, viene riconosciuto il carattere universalistico, svincolandoli dalla
100 Cfr. Art. 2, Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
101 X. Xxxxxxx, I principi, i diritti e doveri. Le politiche migratorie, in X. Xxxxxxxxxx (a cura di), Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, 2004, p. 86
territorialità e dal legame di cittadinanza con lo stato. Trattasi, ad ogni modo, dell’affermazione dell’ “umanitario” sul “politico”, ossia del parziale riempimento di quel gap di trattamento creato tra l’uomo in quanto tale ed il membro della comunità politica. Distinguere chi è “uomo” da chi è (o è assimilabile al) cittadino diventa dunque una questione politica di fondamentale importanza.
La differenza nelle condizioni di accesso ai diritti per lo straniero regolare e per quello irregolare è dunque presto chiarita: l’equiparazione al cittadino nel godimento dei diritti “in materia civile” è valida solo per lo straniero regolare, e all’irregolare resta dunque la “mera” disponibilità dei diritti fondamentali dell’uomo.
La distinzione tra stranieri regolarmente soggiornanti e stranieri irregolari è stata definita “una delle più eloquenti rappresentazioni di quanto una qualificazione normativa può incidere sulle opportunità di vita di un essere umano uguale ad un altro essere umano”102.
Lo status di migrante è dunque essenziale per definire le modalità e le possibilità di accesso ai diritti essenziali, e scandisce le limitazioni nel godimento di questi103. Secondo Xxxxxxxx, inoltre, il processo in base al quale il migrante è posto in condizione di acquisire la propria ‘regolarità’ è sottoposto a verifiche e giudizi di merito tali da far si che i migranti accedano a determinati diritti e servizi solo se “meritevoli”, individuando una dicotomia tra deserving immigrants e undeserving immigrants104 che definisce inclusione ed esclusione.
102 X. Xxxxxxxx, voce Straniero, in Dizionario Costituzionale, a cura di X. Xxxxx, Roma-Bari, 2000, p. 453.
103 Dal Lago definisce i migranti che versano in condizioni di irregolarità, e che dunque non godono dei diritti civili previsti dall’ordinamento, come “non-persone”. Nei loro confronti, sostiene l’Autore, “il diritto si arresta (…) nel senso che li esclude dal proprio ambito”. Cfr.
A. Dal Lago, Non Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 223.
104 X. Xxxxxxxx, Immigrati e Welfare: Europa e Usa, in La critica sociologica, n. 143-144, 2002, p. 9
Gli esclusi, i ‘non meritevoli’, non saranno dunque responsabilità dello Stato, essendo tutto al più un problema affrontabile da attori sociali privati, attraverso, per esempio, la beneficenza.
È interessante dunque comprendere come la rigidità delle previsioni normative in merito al rinnovo dei permessi di soggiorno, che non ammettono periodi di disoccupazione, pena la ‘ricaduta’ nell’irregolarità, crea non solo le condizioni utili ad una costante “ricattabilità” dei migranti – i quali accetteranno spesso qualunque condizione di lavoro imposta dal datore pur di mantenere la propria occupazione, ma flessibilizza, il confine tra regolarità ed irregolarità, rimettendone in discussione il nesso logico con le pratiche di inclusione ed esclusione. In sintesi, come è stato affermato in letteratura, la precarizzazione delle condizioni di vita, “sfumando i confini tra regolare ed irregolare, sfuma gi stessi confini tra inclusione ed esclusione” 105.
Nonostante, dunque, alcune norme del diritto degli stranieri siano finalizzate al raggiungimento di una eguaglianza sostanziale, “la loro effettività resta spesso inficiata dalla strutturale precarietà della condizione del non-cittadino”106.
Vediamo dunque già dalle prime battute come la “differenza” tra i migranti non sia sufficientemente analizzabile con il parametro “etnico”, ma sia permeata da altri importanti fattori, e di come sia necessario analizzare in maniera diversa il fenomeno migratorio, attraverso un’operazione che Xxxxxx definisce di “disaggregazione” delle comunità migranti, restituendo “un certo grado di complessità che vertici di osservazione quali macro-sociologici possono involontariamente occultare”107.
La creazione ex lege di categorie di migranti si somma, dunque, agli altri fattori inficianti la piena realizzazione di opportunità e garanzie per queste donne: si
105 X. Xxxxx, Migranti e Clandestini, Questioni di confine, Sapere2000, Roma, 2007, p. 153.
106 X. Xxxxxxx, I principi, i diritti e doveri. Le politiche migratorie, in X. Xxxxxxxxxx (a cura di), Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, 2004, p. 83.
107 X. Xxxxxx, “Toubab” e “Vu Cumprà” Transnazionalità e rappresentazioni nelle migrazioni senegalesi in Italia, op. cit., p. 76.
pensi all’influsso determinato da alcune delle caratteristiche (che esamineremo nei vari capitoli), come l’appartenenza di “genere” ed alla ghettizzazione delle donne straniere, indipendentemente dalle proprie origini, ad alcuni settori del mercato del lavoro italiano, fenomeno che ha portato alcuni a sottolineare la riduzione dei potenziali ruoli di queste migranti a quello di moglie, domestica o prostituta108. Assieme al genere possiamo poi aggiungere altri fattori che contribuiscono alla determinazione delle logiche di inclusione/esclusione, come l’età, il livello di istruzione, la lingua.
Fattori giuridici, politici e sociali si mescolano assieme nel determinare le dinamiche e le caratteristiche di tale super-diversità.
Al di là dello status di regolarità/irregolarità, si pensi infatti a quante diverse categorie di migranti il quadro normativo nazionale ed internazionale sia stato capace di creare negli anni: i nuovi migranti comunitari, a seguito dell’allargamento ad Est dell’Unione Europea, cui non occorre, ad esempio, il permesso o la carta di soggiorno ai fini dell’assunzione al lavoro in Italia109; i migranti altamente specializzati, che godono, e godranno in maniera crescente in futuro, di regimi speciali e procedure accelerate; i richiedenti asilo che non hanno diritto ad iscrizione nelle liste di disoccupazione e avviamento al lavoro, e dunque non possono lavorare in Italia, a differenza invece di coloro che hanno già visto riconosciuto il proprio status di rifugiato politico; i lavoratori migranti stagionali, cui è consentita solo l’attività alle dipendenze del datore di lavoro intestatario dell’autorizzazione al lavoro per ingresso dall’estero. Oppure si pensi all’ultima “sanatoria”, regolamentata dal d.l. 195 del 2002, che ha permesso ai soli lavoratori subordinati di regolarizzare la propria posizione, impedendo di fatto la regolarizzazione a tutti coloro i quali avessero svolto
108 X. Xxxxxxx, Una presenza che ci interroga, in X. Xxxxxxxxx, (a cura di), Le mani invisibili. La vita e il lavoro delle donne immigrate, Ediesse, Roma, 1994, pp. 21-226.
109 Per l’assunzione di neo-comunitari è sufficiente un documento d’identità valido e il Codice Fiscale. Successivamente la/il lavoratrice/tore richiederà direttamente alla Questura o tramite gli Uffici postali la carta di soggiorno.
attività lavorative in forma “alternativa” al rapporto di dipendenza, come in regime autonomo o in forme flessibili, e creando dunque una profonda asimmetria tra le possibilità di legittimazione e messa a regime della propria posizione tra i diversi migranti.
Inoltre, esistono anche casi ‘particolari’ di ingressi non vincolati alle quote definite annualmente, come dirigenti, professori e ricercatori universitari, traduttori e interpreti, collaboratori domestici a seguito del datore di lavoro110. Si pensi inoltre a come discendenti di cittadini italiani, o alcune nazionalità considerate più affini con le quali si sono instaurati particolari rapporti, o individui dotati di capitale finanziario o umano elevato spesso godano di trattamenti preferenziali.
In tale quadro, è possibile ritenere che le forme di costruzione della “super- diversità” ad opera dello Stato saranno determinanti per il futuro trattamento e la futura integrazione della popolazione immigrata, al pari, o addirittura in misura maggiore, del criterio identitario, spesso sbandierato e strumentalizzato nella retorica pubblica ma di fatto ovviato a favore di regole pragmatiche di interesse politico.
Per tale motivo in letteratura si evidenzia la necessità di concentrare la ricerca “beyond studies of socio-economic mobility, segregation and such based on ethnic or immigrant classification alone”111
La ‘super-diversità’ è capace di plasmare nuove forme di ‘alterità’, attraverso soggetti bloccati in trappole di esclusione sociale, dotati di scarso potere di influenza e partecipazione e difficilmente rappresentati da forme organizzative superiori. Per assurdo, potremmo avere soggetti altamente rappresentati in senso etnico – attraverso, ad esempio, i propri leader comunitari - ma scarsamente protetti in termini di diritti e garanzie a causa di altri fattori di diversità.
110 L’elenco è fornito dall’art. 27 del T.U. D. Lgs. 286/98.
111 X. Xxxxxxxx, Super-diversity and its implications, op. cit., p. 1044.
Lo “status” del singolo migrante non è solo un fattore cruciale nella determinazione delle relazioni dell’individuo con lo Stato, il suo mercato del lavoro, il suo sistema legale, le sue risorse, ma è un importante catalizzatore nella formazione del capitale sociale e rappresenta una potenziale barriera alla formazione di legami trasversali tanto di tipo etnico quanto socio-economico112. Ciò deve far riflettere attentamente studiosi e policy-makers: proprio questi ultimi, infatti, sembrano ancora rigidamente ancorati a logiche di stampo multiculturalista nella definizione delle strategie e delle politiche in materia di immigrazione, lasciando spesso al margine della propria riflessione, e della propria azione, tali fondamentali aspetti.
4.4 Accesso alla cittadinanza e titolarità dei diritti: nuovi e vecchi esclusi
Nel paragrafo precedente si è visto come lo status giuridico del migrante possa incidere sulla sua capacità di essere ‘titolare’ di diritti, sulla sua possibilità di accedere ai ‘servizi’ offerti dalle istituzioni pubbliche, sulla sua potenziale idoneità a svincolarsi dal quadro teorico internazionale dei diritti umani ed entrare in quello più soggettivo e particolaristico dei diritti di cittadinanza garantiti dallo Stato.
È necessario, per comprendere appieno i limiti e le possibili evoluzioni di questo tema, soffermarsi sul valore odierno del concetto di ‘cittadinanza’ e sulle pressioni che, in epoca attuale, sono esercitate da parte di molti studiosi e di molti gruppi di individui – ‘cittadini’ e non – affinché tale nozione sia rivista, ed assuma una portata più ampia ed inclusiva.
In termini giuridici la cittadinanza è la condizione della persona fisica, il
cittadino, alla quale l'ordinamento giuridico di uno Stato riconosce la pienezza
112 Ibidem, p. 1040.
dei diritti civili, politici, economici e sociali. La cittadinanza, quindi, può essere vista sia come lo status del cittadino sia nell’ottica del rapporto giuridico tra cittadino e stato. Definito chi sono i ‘cittadini’, la nozione di ‘straniero’ non si desume espressamente dalle norme di diritto positivo italiano, ma la si ricava, al contrario, dalla concezione di cittadino: è straniero chi non possiede la cittadinanza italiana.
Tale costruzione giuridica crea, dunque, una netta demarcazione tra chi ‘appartiene’ allo Stato e chi non vi appartiene, tra i ‘nazionali’ e i ‘non nazionali’, tra chi sta ‘dentro’ e chi sta ‘fuori’. Come osservato da Sayad, è per queste ragioni che “pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa a se stesso pensando l’immigrazione”113.
La condizione giuridica dello straniero ha subito, nell’ordinamento italiano, una rapida trasformazione nella seconda metà degli anni ‘80; fino ad allora essa era essenzialmente lasciata alle norme di diritto internazionale, mentre le poche e frammentarie norme interne che disciplinavano la materia erano preminentemente improntate a fini di polizia e sicurezza.
Con l’intensificarsi del fenomeno migratorio lo Stato ha iniziato a percepire la “minaccia” dal primo esercitata verso il proprio modello di cittadinanza, e verso le fondamenta dello stato moderno, ossia i propri elementi costitutivi: popolo114, territorio e sovranità. Il migrante inizia dunque a rappresentare un “pericolo” per lo Stato, smascherando la finzione della sua presunta naturalità, e desacralizzandone i presupposti originali.
Lo stato dunque, mantenendo la distinzione tra cittadini e stranieri, assoggetta i secondi ad una disciplina ad hoc perché la loro permanenza sia differenziata da
113 X. Xxxxx, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di Stato”, in Aut aut, n. 275, 1996, p. 10.
114 È necessario distinguere tra il concetto di ‘popolo’, come insieme dei cittadini, da quello di ‘popolazione’, che sottintende l'insieme delle persone che risiedono sul territorio di uno stato (i suoi abitanti), a prescindere dal fatto che siano suoi cittadini, includendo dunque anche stranieri ed apolidi.
quella dei propri cittadini, in termini di diritti e doveri. Come osserva Xxxxxxxx, l’idea di stato-nazione come “comunità politicamente unitaria ed etnicamente e culturalmente omogenea” fa si, come spiegava Xxxxxxxx, che “la nazionalità si sovrappone alla cittadinanza” e la “membership alla nazione coincide con l’appartenenza allo Stato e la titolarità dei diritti cittadinanza”115.
Utilizzando tale apparato concettuale, dunque, l’essere ‘membri’ di una comunità-nazionale resta prerogativa esclusiva dei ‘cittadini’, i quali sono identificati attraverso la preferenza del criterio del diritto romano dello ius sangunis (nella locuzione latina di ‘diritto del sangue’) e dunque della discendenza da cittadini, piuttosto che del principio dello ius soli, ossia della nascita su quel determinato territorio.
Nemmeno il processo di unificazione dell’Unione Europea, che ha posto le basi per la costruzione di una ‘cittadinanza europea’, ha scalfito la forza del concetto di cittadinanza per i singoli stati, dato che la prima non si sostituisce alla seconda, ma semplicemente vi si aggiunge.
Le istanze che negli ultimi anni i movimenti migratori ed i loro protagonisti hanno sollevato allo Stato fanno si che la cittadinanza risulti schiacciata tra la sua portata giuridico-formale e le sue potenzialità di trasformazione, ed apre, come si è affermato in letteratura, un interessante quesito in merito al rapporto tra l’universalismo dei diritti e il particolarismo dell’appartenenza ad un determinato ‘territorio’ ed al suo ‘popolo’, enfatizzando le discrasie tra processi globali e appartenenze locali116.
L’irrigidimento dei confini e del loro valore tanto formale quanto simbolico è evidente e pressoché esclusivo per le migrazioni di ‘persone’, dato che la
115 X. Xxxxxxxx, Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società dell’immigrazione, Laterza, Bari, 2007, p. XI-XII, 2007. Ad ogni modo, si ricorda che la definizione di cittadinanza come status conferito a coloro che sono membri della comunità risale a Xxxxxxxx (Xxxxxxxx, T.H. Citizenship and Social Class, Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxxx, 0000.
116 Si veda sul tema X. Xxxx, Cittadinanza. Storia di un concetto teorico-politico, in Filosofia politica, vol XIV, n. 1, p. 18.
globalizzazione ha, al contrario, intensificato e promosso il flusso di merci e capitali, sfumando ed attenuando il potere di controllo delle frontiere da parte degli stati-nazione. Sono solo le persone, con la loro mobilità, ad impaurire lo Stato117.
Mentre infatti si va sviluppando una pratica, come si è visto, di migrazione transnazionale, che trascende i confini degli stati, la cittadinanza è ancora saldamente ancorata e regolamentata all’interno dei confini dello stato- nazione118.
Proprio su quest’ultimo concetto, è necessario fare un breve richiamo alla celebre elaborazione di Xxxxxxxx Xxxxxxxx della nazione come “una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana”119, e dunque come prodotto innanzitutto culturale, ossia come processo creativo dell’immaginario sociale umano; l’appartenenza alla nazione, dunque, richiede ai suoi membri vincoli di fratellanza o solidarietà, e, quasi come una religione, è satura di valori e identificazioni collettive.
Xxxxxxx, in tal senso, sottolinea come nonostante le “origini” siano finzioni popolari, esse abbiano un’enorme efficacia sociale. La coscienza nazionale sarebbe, dunque, una costruzione “completamente artificiale”, ed avrebbe portato ad un “nazionalismo quasi religioso”120.
È in tale concezione di stato-nazione e di ‘nazionalità’ che si inserisce a pieno titolo la cittadinanza formale basata sulla discendenza quasi-familiare da una determinata comunità-stato.
117 Castles osserva come “La globalizzazione significa essenzialmente flussi attraverso le frontiere, flussi di capitali, merci, idee e persone. Gli stati-nazione accolgono i primi due tipi, ma restano diffidenti verso gli altri”. X. Xxxxxxx, Le migrazioni del ventunesimo secolo come sfida per la sociologia, in Mondi Migranti, n. 1, 2007, p. 24.
118 X. Xxxxxxx, e X. Xxxx, Re-reading citizenship and the transnational practices of immigrants, in Journal of Ethnic and Migration Studies, vol. 25, n.2, 1999, pp. 213-32
119 X. Xxxxxxxx, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, (trad. it.) Manifesto Libri, Roma, 1996, p. 25.
120 X. Xxxxxxx, L’enigma multiculturale, op. cit., p. 47.
Uno dei nodi essenziali del dibattito sulla cittadinanza consta nella centralità della questione per la definizione, come si è già avuto modo di osservare, di chi ‘includere’ e chi invece ‘escludere’ dal godimento dei diritti garantiti dallo stato. Il tema è particolarmente rilevante se si pensa che le odierne dimensioni del fenomeno migratorio, la velocità dei suoi flussi e le dinamiche di transnazionalità che lo contraddistinguono vieppiù, hanno obbligato i governi a rivedere il ruolo del welfare state nei confronti di soggetti vincolati dalla residenza legale nel territorio, e hanno spinto alla creazione di uno status mediano tra quello di cittadino e quello di straniero, tra quello, dunque di “soggetto incluso” e quello di “soggetto escluso”. Questa condizione, per così dire, “intermedia” tra lo status di ‘cittadino’ e quello di ‘straniero’ ha portato la letteratura alla creazione dell’istituto della denizenship, che spiega concettualmente la fruizione dei diritti in base al principio di territorialità (ossia di presenza attiva sul territorio dello stato) piuttosto che di entitlement. Una titolarità di diritti, dunque, quella per gli stranieri, provvisoria, perché legata alla propria attività ‘produttiva’ – come forza lavoro – all’interno dei confini dello stato-nazione, che potrà diventare definitiva solo a seguito dell’acquisizione della cittadinanza formale.
È importante sottolineare però il richiamo di Mezzadra121 al fatto che la maggioranza degli immigrati sia evidentemente interessata all’acquisizione dei diritti connessi allo status di cittadino, ma non ambisca, come ha puntualizzato anche la Sassen, ad ottenere lo status di cittadino, e ad essere, dunque “naturalizzata”. Ossia, vi è una domanda, che lo Stato fatica ad ascoltare, di diritti di cittadinanza ma non necessariamente di acquisizione della cittadinanza da parte dei migranti.
121 X. Xxxxxxxx, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Verona, 2006, p. 62-63.
Il ‘peso’ che gli stranieri, godendo di tali diritti, potrebbero esercitare sul welfare state è uno degli argomenti centrali delle discrasie in merito a come rendere più includente la società di accoglienza; come spiega Xxxxxxxx, “si può capire perché il rapporto tra immigrati e welfare rappresenti uno dei temi cruciali per la convivenza. Al punto che i conflitti interetnici, così come lo stesso fenomeno del razzismo contemporaneo, sono spesso alimentati proprio dal risentimento che la cittadinanza nutre verso coloro che usufruiscono “illegittimamente” della protezione offerta dagli apparati pubblici, rappresentati come usurpatori che sottraggono risorse ai legittimi “proprietari” dello Stato”122. E così, in epoca di “crisi dell’abbondanza”, e di disgregazione del tradizionale modello di stato sociale nei confronti degli stessi cittadini, la tentazione di ridurne l’accessibilità secondo criteri formalistici di cittadinanza appare sempre più forte. Poco importa se proprio le crisi di welfare dello stato italiano i cittadini le risolvano parzialmente, come abbiamo visto nel presente studio, attraverso quella fascia di residenti - le donne migranti – impiegate nei tradizionali lavori di cura ed assistenza.
Ma se l’esclusione dello straniero dai diritti socio-economici è andatasi parzialmente attenuando nei riguardi dei migranti in possesso, come si è già evidenziato, di regolare permesso di soggiorno (almeno fintanto essi sono in grado di mantenerlo), lo stesso non può dirsi per quanto riguarda i diritti politici, tuttora – sebbene il tema sia oggetto di dibattito – ancorati allo status civitatis. I migranti, a certe condizioni ammessi al welfare state, sono invece totalmente esclusi dall’esercizio del proprio voto, delle proprie preferenze politiche, dal diritto e dal dovere di partecipazione politica. La ‘teoria democratica’, spiega Xxxxxxxx, non può spiegare le ragioni del perché e del come coinvolgere i
122 X. Xxxxxxxx, (2007), op. cit., p. 25.
migranti nelle elezioni o in altre attività analoghe, perché essa presuppone un “bounded demos”123.
Ancora una volta, dunque, il vincolo è ricollegato ai criteri formalistici su cui è fondato lo stato-nazione: la sovranità è elemento essenziale e costitutivo dello Stato ma la sua titolarità non spetta allo Stato stesso, bensì al popolo – ergo i cittadini - che la esercitano nei limiti della Costituzione124. La stessa carta costituzionale, poi, circoscrive ai ‘cittadini’ l’elettorato (art. 48 Cost.), e ad essi pensa nel definire l’accesso alle cariche politiche e agli uffici pubblici (art. 51 Cost.).
In ambito internazionale comunque, vi sono pressioni da parte del Parlamento Europeo verso i paesi membri dell’Unione Europa affinché questi attuino le norme della Convenzione di Strasburgo e riconoscano pienamente l’esercizio del diritto di voto amministrativo anche agli stranieri stabilmente residenti in uno dei paesi dell’Unione, convenzione che l’Italia ha ratificato solo in parte, omettendo proprio il capitolo sull’estensione del diritto di voto attivo e passivo agli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello stato.
Nonostante gli apparenti conflitti tra la normativa internazionale e le previsioni costituzionali in materia125, da dirimere nelle apposite sedi, il problema appare,
123 X. Xxxxxxxxx, International Migration and the Globalization of Domestic Politics: A Conceptual Framework, London, Routledge, 2006, citato nella sua versione provvisoria in X. Xxxxxxxx, Transnational Challenges to the ‘New’ Multiculturalism, Paper presentato alla Conferenza ASA, University of Sussex, 30 Marzo-2 Aprile 2001, disponibile on line al sito xxxx://xxx.xxxxxxxxx.xx.xx.xx, p. 15.
124 L’articolo 1, comma 2, della Costituzione testualmente recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
125 Per un approfondimento degli aspetti di diritto costituzionale rilevanti in merito all’estensione dei diritti politici agli stranieri, e le discrasie tra gli atti di diritto internazionale che ne prevedono l’estensione e le norme di rango costituzionale che ne circoscrivono la titolarità, si veda in particolare: X. Xxxxxxx, Cittadini e stranieri come titolari dei diritti fondamentali.L’esperienza italiana, in Rivista critica del Diritto privato, 1992, 203 ss.; X. Xxxxxxxxx, La cittadinanza.Libertà dell’uomo e del cittadino nella Costituzione italiana, Padova, 1997; X. Xxxxxxxxxx, Xxxx: (diritto di; dir.pubbl.), in enciclopedia del diritto, XLVI, Milano, 1993, p. 1123; X. Xxxxxxxxx, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e del cittadino nella Costituzione italiana, Cedam, Padova, 1997; T.F. Xxxxxxxx, Il diritto di voto agli stranieri
a ben guardare, prima di tutto di ordine politico. Il “problema immigrazione” consiste più che altro nel “problema cittadinizzazione”, se non formale – in termini di acquisizione della cittadinanza italiana – almeno sostanziale – nel senso di equiparazione tra stranieri e cittadini nell’accesso ai diritti civili, politici, economici e sociali. Ancora una volta il migrante è una minaccia: da un lato se ne ricostruisce una “pericolosità” in termini culturali avvertita dalla comunità ‘ricevente’, dall’altro se ne evidenzia la paventata – a volte in termini meno espliciti - “pericolosità” politica e sociale, in quanto portatore di una “crisi della cittadinanza”126. È chiaro dunque come il concetto di ‘appartenenza nazionale’ e quello di ‘appartenenza culturale’ siano ideologicamente interconnessi nella costruzione delle ‘differenze’ tra cittadini e migranti.
L’impostazione universalistica dell’ordinamento giuridico pare dunque chiaramente scontrarsi, di fronte al fenomeno delle migrazioni, con la tendenza a vincolare l’accesso alle risorse a parametri giuridico-formali. Il modello del “gastarbeiter” è confermato da una legislazione alquanto restrittiva non solo nell’accesso alla cittadinanza, ma nelle ristrettezze sui ricongiungimenti familiari, nel contingentamento della concessione dell’asilo politico, nella esasperazione delle condizioni per mantenere la propria regolarità. L’unico vero ancoraggio al sistema dei diritti e delle garanzie dei “lavoratori ospiti” è un’occupazione formale, senza la quale il migrante è giuridicamente quasi inesistente, o per lo meno rilevante più che altro in termini di controllo ed eventuale repressione. Una puntualizzazione va fatta in merito al diverso trattamento che, a seguito dell’allargamento dell’Unione Europea, è concesso ai
extracomunitari. Profili problematici, in X. Xxxxxxxxxx (a cura di), Istituzioni e dinamiche del diritto. Multiculturalismo, comunicazione, federalismo, Torino, 2005, pp. 107 ss.
126 X. Xxxxxxx, op. cit., p. 172.
“neo-comunitari”, dotati di maggiori libertà rispetto ai non appartenenti l’area comunitaria, primi tra tutti il diritto di circolazione e il diritto di ingresso127.
L’importanza della libertà di movimento è tale da spingere Xxxxxx e definirla “il principale fattore di stratificazione”128 nelle società contemporanee, attorno al quale si definiscono le odierne gerarchie sociali.
La politicizzazione delle migrazioni internazionali, che l’Europa intera ha attivato attraverso il proprio potere di stabilire “del se, del dove e di quali migranti possano viaggiare”129, ha messo in luce alcune contraddizioni, che Xxxxxxxx definisce, utilizzando l’espressione di Xxxxxxxxxx “grand bargain strategy”130 e Xxxxxxxxx chiama la “politica del doppio binario”131, ossia una politica fatta di chiusura ai nuovi ingressi e integrazione degli stranieri residenti, nell’auspicio di un’armonizzazione di tutti i controlli in entrata e la creazione di uno status giuridico omogeneo per tutti gli stranieri residenti in Europa. Infatti, recentemente (ottobre 2007), la Commissione Europea ha adottato una proposta per una Direttiva in merito ad un sistema definito "one-stop-shop"132 per cittadini di paesi non comunitari che facciano richiesta di ingresso in un paese membro UE per motivi di lavoro. La proposta della Commissione disegna una
127 Si veda il D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 marzo 2007, n. 72. 128 Cfr. X. Xxxxxx, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, (trad. it.), Xxxx- Xxxx, Xxxxxxx, 0000. p. 4.
000 X. Xxxxxxxx, Immigrati di ieri e di oggi in Europa e fuori: insediamento e integrazione, in
X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxx, Migrazioni globali, integrazioni locali, Il Mulino, Bologna, p. 29.
130 Xxxxx Xxxxxxxxxx chiama così la strategia adottata dai governi socialisti francesi per il periodo 1988-1993, i quali tentavano “to depoliticize the whole issue and defuse the national identity crisis”. X. Xxxxxxxxxx, Ideas, Institutions, and Civil Society: On the Limits of Immigration Control in France, 1997, articolo pubblicato on-line al sito xxxx://xxxxxxxxx.xxxxxxx.xxx. La definizione dell’autore è richiamata in X. Xxxxxxxx, op. cit., p. 42.
131 X. Xxxxxxxxx, L’ambizione della Frontiera: le politiche del controllo migratorio in Europa, Milano, Xxxxxx Xxxxxx, 2000, p. 91.
132 Europe Press Releases, Simplified admission procedures and common set of rights for third- country workers, MEMO/07/422 del 23/10/2007, scaricabile dal sito internet: xxxx://xxxxxx.xx/xxxxx/xxxxxXxxxxxxxXxxxxx.xx?xxxxxxxxxxXXXX/00/000
procedura di richiesta unica per uniformare i sistemi di ‘acquisizione’ dei lavoratori extracomunitari ai mercati dei paesi membri UE, ma le condizioni in base alle quali lo straniero possa essere ammesso a lavorare nel territorio dello stato restano di esclusiva competenza di quest’ultimo.
La strategia comunitaria e nazionale pare dunque sempre più orientarsi verso una razionalizzazione della questione migratoria, attraverso tentativi il più possibile mirati da un lato ad arrestare l’immigrazione irregolare e ridimensionare quella non voluta133 (come i ricongiungimenti familiari) e, dall’altro, a filtrare e selezionare quella desiderata.
A conferma di tale orientamento, citiamo il recente video-spot, apparentemente finalizzato a disincentivare l’immigrazione clandestina, realizzato dal Governo Svizzero e dall’Unione europea, con la partecipazione dell’OIM, e mandato in onda nella televisione di vari stati dell’Africa occidentale durante l'intervallo della partita amichevole Svizzera-Nigeria. Nel video, il figlio africano emigrato in Svizzera telefona al padre in patria, e ricostruisce la propria esperienza migratoria in maniera profondamente diversa dalla realtà, in cui è invece inseguito dalla polizia e vive di elemosina, presentandosi, al contrario, come migrante di “successo”134. Il messaggio conclusivo del video “Don’t believe everything you hear. Leaving is not always living” spiega chiaramente il timore del Governo Svizzero – ma altri stati vanno in questa direzione - che le immagini distorte di successo dei migranti in patria possano spingere all’emulazione molte altre persone e diffondere la percezione tra la popolazione che il processo migratorio sia un chiaro e incontrovertibile strumento di profitto. Tale percezione sta iniziando a spingere anche i governi di altri paesi riceventi a diffondere una capillare “controinformazione” sui possibili effetti della
133 X. Xxxxxxxx (2004), op. cit., p. 114, citata in X. Xxxxx, op. cit., p. 51.
134 L’articolo di C. Xxxxxxx, intitolato Spot nell'intervallo della partita "Africani, la Svizzera è un inferno", è apparso su La Repubblica il 27 novembre 2007. Il video integrale dello spot trasmesso è on line sul sito xxx.xxxxxxxxxx.xx
migrazione, ma il fatto che il video, ed i suoi previsti xxxxxxx, siano pensati solo verso il continente africano fa pensare ad un tentativo di “selezione” dei migranti secondo caratteristiche di maggiori e minore utilità ed interesse.
Ad ulteriore conferma di tale orientamento citiamo, per il caso italiano, l’ultimo decreto flussi che stabilisce le quote di ingresso di cittadini stranieri non comunitari per motivo di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo: dei 170.000 ingressi previsti, il 27% è destinato a cittadini di paesi che hanno sottoscritto accordi di cooperazione con l’Italia. Se poi si aggiunge a questa percentuale quella dedicata esclusivamente a colf e badanti, resta appena il 34% delle quote per stranieri non comunitari in tutti gli altri settori produttivi. Una percentuale certamente modesta rispetto alla domanda proveniente dal mercato del lavoro e produttivo italiano.
Una volta stabilita la regola che definisce chi ‘sta dentro’ e chi ‘sta fuori’ dal sistema dei diritti e delle garanzie, attraverso il criterio della ‘regolarità’ della presenza attiva sul territorio, lo stato può continuare a perpetuare la politica del doppio binario: fornendo risposte includenti per i primi e predisponendo azioni escludenti per i secondi. In base a questa logica ogni paese dispone “della prerogativa di dare vita ad una propria stratificazione civica, modulando diritti e opportunità in base all’appartenenza, quasi sempre definita unilateralmente, di un soggetto a una certa categoria di migranti”135. Lo stato dunque selezione aprioristicamente a quali migranti aprire le sue porte e a quali chiuderle, a quali consentire inclusione e da quali “proteggersi” e “difendersi”, a dimostrazione di quanto lo Stato-nazione sia lontano dall’aver perso il proprio potere di controllo. L’universalismo dei diritti è rimasto in parte lettera morta, e ha ceduto il passo alla ricostruzione nazionalistica della cittadinanza escludente attraverso una politica della differenza136, che rischia di rovesciarsi, come avverte Xxxxxxxx, in
135 X. Xxxxxxxx, (2007), op. cit., p. 60.
136 X. Xxxxxx, Riflessioni sull’approccio transnazionale alle migrazioni, in “afriche e orienti”, II, n. 3/4, 2000, p. 14.
un “mero strumento di difesa dello status quo e di legittimazione del dominio”137.
Al di là del problema di ordine ‘etico’, i controlli e i criteri adottati dallo stato verso i migranti possono incidere fortemente sulle pratiche migratorie di questi soggetti, primo tra tutti la forma transnazionale di migrazione già anticipata. Come evidenziato da Xxxxxx, “Il controllo da parte dello stato e le pratiche migratorie transnazionali costituiscono parti interattive dello stesso quadro”138. Analizzeremo anche nel corso del presente lavoro come le singole strategie migratorie debbano essere necessariamente riadattate e come dipendano fortemente dalle concessioni di ‘status’ da parte dello stato di approdo: libertà di movimento, legalizzazione del proprio impiego, accesso alla formazione, accesso ai servizi, possibilità di ricongiungimento familiare, sono variabili che incidono fortemente sulle capacità del singolo migrante di definire il proprio modello migratorio o il proprio campo di integrazione nella società ospitante. Inclusione ed esclusione, accesso o marginalità nel godimento dei diritti e delle libertà, partecipazione alla redistribuzione delle risorse sono aspetti cruciali non solo per la qualità della vita dei migranti nel contesto di approdo, ma per la definizione e l’articolazione delle forme di ‘adattamento’ o di ‘resistenza’ attraverso le diverse strategie migratorie attuate ed attuabili dai migranti.
Non possiamo, infine, non fare menzione alle interessanti possibilità esistenti a livello ‘micro’, dimostrate in seno ad alcune istituzioni locali, di mitigare parzialmente gli effetti restrittivi della legislazione nazionale attraverso forme particolari di ampliamento delle possibilità di accesso ad alcuni diritti da parte dei migranti. Ci riferiamo in particolare al caso del contenzioso139 tra lo Stato e la Regione Xxxxxx Xxxxxxx in merito alla Legge Regionale n. 5 del 2004 -
137 X. Xxxxxxxx, op. cit., p. 76.
138 X. Xxxxxx, Migrazioni transnazionali: il declino dello stato nazionale, op. cit., p. 140.
139 Tale contenzioso è discusso in X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Transnational Migration, incorporation and rescaling processes: Some reflections from Xxxxxx Xxxxxxx (Italy), in X. Xxxxx Xxxxxxxx e X. Xxxxxx (eds.), Locating Migration, op. cit.
Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati: proprio su questa legge, lo Stato avevo sollevato questione di legittimità costituzionale adducendo che tale atto, contenendo disposizioni concernenti l'immigrazione, il diritto di asilo e la condizione giuridica di cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea, avrebbe violato l'art. 117 della Costituzione che riserva tali materie alla legislazione esclusiva statale.
La Corte Costituzionale, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale140, dimostra come, sebbene la cittadinanza giuridico-formale e la definizione dello status della popolazione straniera siano questioni di esclusiva prerogativa statale, a livello locale esistano margini di flessibilità sufficienti per gli enti locali per fornire garanzie di inclusione e partecipazione maggiori di quelle che, da un punto di vista legislativo, lo Stato preveda.
Si tratta di spazi importanti, che sebbene non sovvertano il principio esclusivistico della cittadinanza esaminato finora, consentono di ipotizzare a livello locale, come nel caso emiliano, aperture maggiormente universalistiche ai diritti sociali, economici e politici, contribuendo a definire il “locale”, come sottolineano Salih e Riccio, come “the most legitimate domain for handling migration, if not in terms of flows, than in terms of conceptualization of citizenship rights and a politics of incorporation”141.
Purché, chiaramente, le azioni intraprese a livello locale siano orientate all’ampliamento del novero dei diritti goduti dagli stranieri ed alla previsione di azioni volte al superamento delle iniquità nelle opportunità di integrazione ed inserimento sociale, e non, come si evidenzierà nel corso del presente studio nei casi esemplificativi - ma eclatanti - della Regione Lombardia e del Comune di Milano, in senso di diminuzione e di compressione di tali diritti.
140 Cfr. Sentenza n. 300, 2005, in Gazzetta Ufficiale 27/07/2005.
141 X. Xxxxxx e X. Xxxxx, op. cit..
CAPITOLO 1
LE ‘BADANTI TRANSNAZIONALI’: CAUSE, CONSEGUENZE E STRATEGIE MIGRATORIE
1.1 La scelta di emigrare: una decisione “altruista” o “egoista”?
Xxxxx, una donna di 52 anni di origine Ucraina, è arrivata in Italia otto anni fa, nella speranza di costruire per se e per i suoi figli un futuro che allora, e forse nemmeno oggi, il proprio paese sembra in grado di garantirle.
“Sono partita otto anni fa, avevo paura, non sapevo bene cosa potevo aspettarmi. Però sapevo che in Ucraina i miei figli non potevano fare molto, studiare, lavorare, avere una bella casa. I prezzi sono altissimi, gli stipendi bassissimi. Mio marito non voleva andare via, e allora ho pensato che potevo farlo io. Altre donne lo hanno fatto nella mia città, e coi soldi che mandano stanno bene tutti nella famiglia. Mi sono detta: perché non posso farlo io? Ma avevo tante paure, i figli anche se sono grandi, chi rimane, cosa faranno senza di me… però ho deciso, loro non volevano, ma è meglio così, adesso mio figlio fa il primo anno di università e mia figlia lavora da un avvocato. Stiamo meglio, ma è difficile, è difficile per tutti. Ma tra qualche anno torno a casa, e torna tutto come prima… speriamo...”
Anche Xxxxxx, di origina moldava, 47 anni, ricorda:
“Sono partita per l’Italia 7 anni fa lasciando due figli di 12 e 16 anni. Mio marito era morto due anni prima, io passavo da un lavoro all’altro ma si fa
troppa fatica in Moldavia a vivere… guarda che i prezzi non sono più bassi di quelli italiani!! Ma gli stipendi invece si… e come fai a vivere così? Xxxx andare in Moldavia e vedere quante donne lasciano la famiglia, magari restano a casa i mariti, perché si sa che come badante le donne trovano bene e mandano a casa molti soldi ai familiari. Fanno studiare i figli, gli fanno la casa, oppure poi partono anche loro, ma le donne spesso sono le prime della famiglia a partire. È dura lì, è dura anche qui, ma almeno sai che con i soldi che fai in Italia poi a casa stanno bene, non puoi fare altro…”
Le storie di Xxxxx e Xxxxxx sono solo due delle tante storie raccontate dalle donne migranti occupate come assistenti agli anziani nel territorio di Modena. Sono storie numerose e diverse tra loro, ma unite da molti tratti caratteristici comuni. In primo luogo la provenienza geografica delle intervistate: l’Ucraina è il bacino di provenienza di quasi il 42% delle intervistate, seguite dalla Moldavia (22,7%) e dalla Romania (12%). Al di fuori del contesto europeo – comunitario e non - è modesta la quota di lavoratrici di origine africana (9,2%) e filippina (1,3%). È chiaro da subito, per quanto riguarda il settore professionale dell’ “assistenza familiare”, il protagonismo delle donne migranti dell’Est europeo, con particolare riferimento ad alcune nazionalità142.
La maggior parte delle assistenti familiari intervistate è in età adulta: il 44% ha un’età ricompresa tra i 40 e i 54 anni, mentre il 20,7% dichiara tra i 55 e i 64 anni. E così, oltre i tre/quinti del campione ha più di 40 anni, a dimostrazione che si tratta di un fenomeno che riguarda in larga misura donne adulte, spesso con famiglie rimaste in patria e figli in un’età tale da rendere alquanto difficoltosa l’opzione del ricongiungimento familiare. Come osservato in
142 Sul fenomeno delle donne immigrate in Italia dall’Est Europa si veda: M. De Marco, Le donne dell’Est: una presenza crescente e significativa, in O. Forti, X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Europa. Allargamento e Est e immigrazione, Caritas/Idos, Nuova Anterem, Roma, 2004, pp. 277-290.
letteratura, “il reclutamento di donne provenienti dall’Europa orientale, negli ultimi anni, ha privilegiato donne di una certa età, con figli già grandi, magari da mantenere all’università o da aiutare a provvedere il necessario alla propria famiglia”143.
La matura età delle lavoratrici domestiche sembra essere dunque la “novità” del fenomeno migratorio femminile: come ha evidenziato la letteratura, le precedenti lavoratrici migranti erano soprattutto donne giovani; oggi il fenomeno della migrazione, in particolar modo quella rivolta al settore dell’assistenza agli anziani, mostra elevate percentuali di donne in una “fase avanzata del ciclo di vita familiare”144
Si tratta inoltre, in larga misura, di donne che partono da sole (74,6%), migranti pioniere del nucleo familiare, che non giungono in Italia dunque a seguito del marito, né sono seguite da quest’ultimo145.
Sono spesso i motivi economici e la ricerca di lavoro (82%) a spingere queste donne alla migrazione: come dimostrano i due racconti, ed altre storie raccolte, la crisi economica, l’aumento del costo dei beni di largo consumo, la diminuzione del potere d’acquisto della moneta e dei salari, sono tra i fattori maggiormente citati come causa scatenante il progetto migratorio.
Il fatto che tali donne siano le pioniere della famiglia nella migrazione, prendendo in mano le sorti del proprio futuro e di quello dei figli, oltre all’onere del riassetto economico del nucleo familiare, è confermato anche in altri studi:
143 X. Xxxxxxxxx, L’altro welfare. Famiglie in affanno e aiutanti domiciliari immigrate, in X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx (a cura di), Un’assistenza senza confini. Welfare ‘leggero’, famiglie in affanno, aiutanti domiciliari immigrate, Ismu-Regione Lombardia, 2005, Milano, p. 40.
144 X. Xxxxxxxxxx, X. Xxx, E. R. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Madri Migranti Le migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia: percorsi e impatto sui paesi di origine, CESPI, Working paper 34/2007, Roma, febbraio 2007, p. 8.
145 Tra le intervistate che, al contrario, non hanno effettuato in maniera autonoma la migrazione (25,3%), si evince come siano prevalentemente altri componenti della famiglia (marito e/o figli) i compagni del viaggio. Si tratta generalmente di donne che sono partite con il marito (42,1%) o con i figli (13,2%), per raggiungere il primo già stabile nel territorio italiano. In un 15,8% dei casi il nucleo familiare è partito per intero, ed il progetto migratorio è stato affrontato da tutti i componenti nello stesso momento.
“Le donne sono diventate nuove protagoniste delle migrazioni – sole o sposate, che lasciano la terra, la casa, i figli, il marito e partono per un paese straniero – con dei progetti migratori costruiti in base a disegni determinati”146.
Nel nostro caso, si tratta per oltre la metà del campione (54,1%) di donne sposate, ed in misura inferiore di vedove (17,3%) e di donne separate o divorziate (15,3%).
Xxxx donne su dieci hanno almeno un figlio ma, di queste, sei non hanno alcun figlio con se a Modena.
Sebbene non sia possibile incasellare in una categoria univoca tali motivazioni, la decisione di emigrare, anche quando per un periodo limitato nel tempo, è generalmente indicata nella necessità di farsi carico delle necessità insoddisfatte della famiglia, e viene descritta come l’unico rimedio per far fronte alle difficili condizioni in cui versa la famiglia, supportando l’esiguo reddito familiare.
Come racconta Xxxxx, 51 anni, di origine ucraina:
“In Ucraina ho tre figli, mio marito fa fatica a lavorare, non c’è lavoro, voglio che i miei figli studino e facciano un lavoro bello, anche se non è facile da noi. Io sono partita perché da soli non ce la facciamo, allora ho deciso di andare in Italia… potevo raggiungere mia cugina che lavora qui, e l’ho fatto. È un grande sacrificio, specie se sei grande, come me, e hai dei figli grandi. Ma per me non c’era soluzione…”
I racconti delle intervistate evidenziano dunque un contesto di partenza alquanto critico, in cui le difficoltà economiche si acutizzano in particolar modo in concomitanza di scelte cruciali, prima tra tutte l’istruzione dei figli, aumentando la percezione della via migratoria quale unica alternativa percorribile per
146 X. Xxxx, Donna e migrante: il genere tra vincolo e risorsa, in X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, (a cura di), op. cit., p. 105.
garantire un futuro stabile alla famiglia147. Come rileva Xxxxxxxxx, “Le donne più degli uomini tradizionalmente si sentono legate alla famiglia e sono educate a esserlo, e anche la decisione di partire esprime legami affettivi e obbligazioni morali persistenti: le migrazioni femminili sono più dipendenti da ragioni familiari di quelle maschili”148. In questo senso, le donne migranti diventano dunque il cardine delle strategie di mobilità sociale della famiglia nel contesto di origine.
I progetti delle donne intervistate sono, senza ombra di dubbio, fortemente rivolti e indirizzati ai figli, al loro percorso formativo, professionale o familiare, e la responsabilità per il loro futuro, anche quando maggiorenni, sembra ricadere sulle prime ancor più che sui secondi. Inoltre, sono rivolti ai soggetti anziani della famiglia, e compensano l’assenza del marito o la sua difficile collocabilità sul mondo del lavoro.
Ciò dimostra, in linea con quanto viene descritto come la nuova economia delle migrazioni149, che la strategia migratoria non è autonomamente definita dal singolo individuo, nel nostro caso la donna migrante, ma dal nucleo familiare, per compensare la carenza di servizi e di strumenti di sostegno in campi come l’istruzione (per i figli, ad esempio), il sostegno alle fasce vulnerabili della popolazione (i nonni anziani), la precarietà del lavoro (il marito). La strategia della donna migrante coincide dunque con la strategia della propria famiglia per contrastare il deterioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e per
147 La scelta di emigrare originatasi in concomitanza con la necessità di garantire il percorso educativo dei propri figli non è una realtà unicamente afferente le donne migranti dell’Est Europa, come dimostrano altri studi in proposito. X. Xxxxxxx, ad esempio, attraverso uno studio condotto a Bologna e Barcellona, sottolinea la stessa motivazione alla base delle scelta migratoria delle donne intervistate provenienti dalle Filippine. Cfr. X. Xxxxxxx, Towards a comparative study of female migrants in Southern Europe: Filippino and Moroccan women in Bologna and Barcelona, in Studi Emigrazione, XXXIX, n. 145, 2002, p. 113.
148 X. Xxxxxxxxx, L’altro welfare. Famiglie in affanno e aiutanti domiciliari immigrate, in X. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, op. cit., p. 40.
149 X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx e J.E. Xxxxxx, Theories of International Migration: A Review and Appraisal, in Population and Development Review, vol. 19, n. 3, 1993, pp. 431-466.
sostituirsi, attraverso risorse private, all’inefficienza del sistema di welfare locale.
Sebbene i motivi economici emergano come fattore preponderante, si registra una certa quota di donne migranti, sebbene numericamente inferiore (6%), che ha progettato il proprio percorso migratorio in base ad un’esigenza personale più che familiare, come emerge dal racconto di Xxxxxxxx, 27 anni, rumena:
“Io sono partita da Bucarest per fare nuove esperienze, perché non volevo accettare solo quel poco che c’è lì. Volevo di più, vedere un altro paese, come funziona, come si vive, ho tutta la vita davanti per decidere di tornare a casa, adesso voglio imparare, un’altra lingua, altre culture… io sono laureata in legge, sai quanto mi hanno chiesto per lavorare in Tribunale? 30.000 dollari! Per lavorare per avvocati o al tribunale devi pagare tanti soldi, io non li ho, e che futuro offrirò ai miei figli, se li avrò, in Romania? In Romania se hai i soldi fai quello che vuoi, se no non sei nessuno. Certo, qui faccio la badante adesso, ma non farò questo lavoro per sempre. Dovevo imparare la lingua, avevo bisogno di soldi, ho trovato una casa dove stare. Ma poi cambierò, e se non trovo niente neanche in Italia, perché anche l’Italia è un paese difficile per trovare lavoro, vado da un’altra parte, chissà, in Canada magari, mi hanno detto che lì è più facile…”.
La scelta di emigrare non è dunque solo legata a motivi prettamente economici, ma può essere a sua volta dettata dalla curiosità, dalla volontà di emancipazione150, dalla necessità di costruire un futuro più solido rispetto a quello che il proprio paese di origine, in cui l’avvento dell’economia di mercato ha sconvolto gli equilibri sociali e di classe oltre che economici, prospetta. In
150 Sulle tensioni emancipative diffuse tra le donne primo-migranti di molti paesi, anche non- occidentali, si veda X. Xxxxxxxxx, Dentro il welfare invisibile: aiutanti domiciliari immigrate e assistenza agli anziani, in Studi emigrazione, n. 159, 2005, p. 588-593.
questi casi però, è necessario precisare, siamo di fronte a donne di età più giovane, senza figli, “padrone” del proprio presente e del proprio futuro. Si tratta comunque, come si è visto, di un esiguo numero di intervistate, probabilmente in virtù delle particolari e gravose condizioni che il lavoro di assistente familiare, come si evidenzierà nel corso del presente lavoro, presenta, che mal si conciliano con le esigenze “sociali” di una donna proiettata in senso costruttivo e dinamico verso il contesto di approdo.
Sia per le più giovani che per le più adulte, colpisce l’alto livello di istruzione che queste donne possono in gran misura vantare: la licenza media superiore è il titolo di studio più diffuso tra le intervistate (46%), e significativo è il numero di coloro che possiedono un titolo superiore professionale (12%) o universitario (16%). Sebbene sull’alto livello di istruzione registrato tra le intervistate giochi un ruolo importante la provenienza delle intervistate da regimi del socialismo di Stato dell'Europa centro-orientale, e dunque da sistemi altamente scolarizzati, l’elevata preparazione è un dato è confermato anche in studi effettuati su donne provenienti da altri contesti geografici151.
Si tratta, dunque, di donne istruite, che nel paese di provenienza non versavano in condizione di disoccupazione152, ed anzi svolgevano, in quasi un quarto dei casi, una professione nel settore impiegatizio.
Come raccontano alcune intervistate:
151 Un alto livello di istruzione è infatti confermato anche tra le lavoratrici domestiche filippine. In particolare si veda X. Xxxxxxx Xxxxxxxx, Migrant Filippina Domestic Workers and the International Division of Reproductive Labor, op. cit. pp. 48-64.
152 Xxxxx interviste realizzate emerge che solo il 3,3% del campione era disoccupato o si occupava esclusivamente dei lavoratori domestici e delle famiglie in data anteriore alla migrazione. Il restante 86% delle donne intervistate svolgeva una professione, oppure “arrotondava” il reddito familiare attraverso vari lavori. Molto spesso queste donne ricoprivano alcune mansioni nel settore “informale” dell’economia del proprio paese, e dunque non avevano una professione vera e propria. Cfr. Provincia di Modena, a cura di X. Xxxx e X. Xxxxx, Da Badanti ad Assistenti familiari,. op. cit., p. 56.
“In Ucraina lavoravo, ma mi pagavano molto poco… mi occupavo di amministrazione e di segreteria in un ufficio del Comune dove vivo, un paese non molto grande, a un’ora e mezzo da Kiev. Poi arrotondavo con altri lavoretti, perché la paga del comune non bastava mai..” (Marina, 45 anni, ucraina)
“Lavoravo da un dentista, prendevo gli appuntamenti, i soldi, tenevo dietro le spese, un po’ tutto… poi il dentista ha chiuso e io sono rimasta senza lavoro, ho trovato altri lavori ma prendevo pochissimo, prendevo 50/60 euro al mese… poi mia figlia era incinta e aveva molti problemi a lavorare… non ce la facciamo con gli stipendi in Moldavia, solo per fare la spesa non bastano, i prezzi sono aumentati molto in questi dieci anni… insomma, alla fine ho deciso di raggiungere mia sorella in Italia.” (Xxxxx, 49 anni, moldava)
È comprensibile, pertanto, come la ‘strategia migratoria’ non affondi le proprie radici nella totale assenza di opportunità lavorative in patria, quanto nella scarsa redditività degli impieghi rispetto al costo dei beni di consumo e dei servizi presenti sul mercato locale, confermando inoltre come siano spesso le classi medie ad intraprendere percorsi di migrazione piuttosto che i ceti di bassa estrazione economica e sociale153. Ecco allora che queste donne scelgono di investire alcuni anni della propria vita in un progetto migratorio che consenta il miglioramento delle condizioni economiche della propria famiglia rimasta in patria, nel tentativo, dunque, non tanto di uscire dall’indigenza, quanto di
153 Come osserva Xxxxxxxxx Xxxxx, “Questo in parte dipende dai costi che la migrazione può comportare, spesso fuori della portata dei ceti più bassi delle società di partenza. E si riflette nelle motivazioni del progetto migratorio, che in molti casi non mira tanto ad assicurare la sopravvivenza quanto piuttosto a contrastare i rischi di mobilità sociale discendente che minacciano la famiglia del(la) migrante nel paese d’origine, oppure a garantirne o migliorarne lo status”. Cfr. Sarti R., “Noi abbiamo visto tante città, abbiamo un’altra cultura”. Servizio domestico, migrazioni e identità di genere in Italia: uno sguardo di lungo periodo, in Polis, n. 1, 2004, p. 21.
evitare che i nuovi assetti economici internazionali facciano scivolare il nucleo familiare dal ceto medio a quello povero.
Questo tipo di migrazione, confermata anche dalla letteratura più recente, è stata definita “migrazione di scopo”, trattandosi di “progetti migratori finalizzati, attuati da individui in età adulta che maturano all’interno di contesti familiari consolidati (dal punto di vista generazionale), ma bisognosi di rilancio (rispetto alle risorse disponibili)”154.
Riflettendo su questo dato, è inoltre facilmente intuibile come per molte donne migranti dell’est europeo il lavoro domestico rappresenti, simultaneamente, un miglioramento ed un deterioramento del proprio status. Se da un lato, infatti, il lavoro di “badante” svolto a Modena rappresenta una retrocessione in termini professionali, dall’altro lato le risorse economiche che tale occupazione genera permettono loro di acquisire uno status sociale ed economico più elevato nel proprio paese155. Il declino dello status sociale indotto dalla migrazione provoca, secondo alcuni Autori, un fenomeno di “identità nazionali deterritorializzate”156, ossia la compensazione della retrocessione sociale nel paese di approdo attraverso processi di costruzione identitaria – e crescita della condizione sociale
– nel contesto di provenienza. Il processo di “ricostruzione” identitaria delle assistenti familiari modenesi si può desumere dalle consapevolezza che le stesse hanno in merito alla futura posizione sociale che la strategia migratoria consentirà loro:
“Certamente in Ucraina facevo un lavoro bello, lavoravo come pedagoga con i bambini nelle scuole, ma lo stipendio era bassissimo. Ora in Ucraina sto
000 XXXX- XXXX, Xx Welfare fatto in casa, Roma, 2007, p. 21.
155 Il fenomeno, comune a molti migranti, è descritto, tra gli altri, da X. Xxxxxxxx,
Immigrazione e prospettive di rientro nei paesi di origine, in Quaderno Ismu, n. 7, 1993.
156 Cfr. X. Xxxxx, X. XxxxxXxxxxxxxxxx C. Szanton Blac, Nations unbound: Transnational projects, post colonial predicaments and deterritorialized nation-states, Langhorne, PA, Xxxxxx and Beach, 1994, p. 234.
costruendo una casa più grande per i miei figli, e per me… non avrò problemi a fare la spesa, a comprare quello che mi serve. Preferisco fare la badante ancora qualche anno, e poi avere una vecchiaia felice, in una casa grande, e dare una bella vita ai miei figli. Magari loro potranno fare un bel lavoro a casa loro, come io non ho potuto fare”. (Vira, 51 anni, ucraina).
Ancora una volta il pensiero corre ai figli, e le intervistate dimostrano come, seppur sacrificando il proprio ruolo a quello di madri “a distanza”, la migrazione rappresenti l’unico strumento idoneo157 a garantire l’ascesa sociale e professionale dei propri figli.
Ma anche in questo caso, all’ascesa sociale potrebbe contrapporsi un altro “prezzo” da pagare: alcune intervistate infatti, nonostante attraverso la propria migrazione siano riuscite a migliorare lo status della famiglia rimasta in patria, ammettono di temere la reazione della “comunità” al loro rientro: una donna che “abbandona” la propria famiglia per molti anni non è sempre vista in maniera positiva, e può essere giudicata “incosciente”, “irresponsabile”, o addirittura “amorale”, anche quando i suoi sacrifici all’estero e i benefici della migrazione sono stati dedicati interamente al miglioramento delle condizioni di vita dei membri della propria famiglia. Come racconta Xxxxxxx, una donna moldava di 53 anni, la cui testimonianza è confermata però da altre intervistate:
“Non so cosa farò, se tornerò a casa tra alcuni anni, c’è una brutta situazione in Moldavia per chi viene dall’Italia, la gente ti guarda male, ti considerano una poco di buono”.
157 In tal senso Hochschild, richiamando il concetto di “globalizzazione dell’emigrazione” utilizzato da Xxxxxxx Xxxxxxx e Xxxx Xxxxxx (X. Xxxxxxx e M. J. Xxxxxx, The Age of Migration: International Population Movements in the Modern World, The Xxxxxxxx Press, New York e Londra, 1998), rileva come, a causa della crescente disuguaglianza e del richiamo esercitato dalla prosperità del Nord l’emigrazione sia diventata “la soluzione privata a un problema pubblico”. Cfr. A. R. Xxxxxxxxxx, Xxxxx e oro, in Xxxxxxxxxx B., Xxxxxxxxxx A. R. (a cura di), Donne globali. Xxxx, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 24.
L’immaginario stigmatizzante158 nei confronti delle donne che partono lasciando la famiglia alla cura di altri soggetti del nucleo è ancora forte, e non sempre la conquista di uno status economico sembra poter attutire il giudizio severo della comunità a fronte della scelta migratoria della donna, condanna invece assente nei confronti dell’uomo.
Sebbene, infatti, la famiglia “separata” non costituisca una novità delle migrazioni transnazionali, merita di essere evidenziata la differente reazione che il venir meno della figura materna ha sollevato a differenza di quella paterna.
La stessa letteratura sulle migrazioni ha affrontato con toni diversi il problema della separazione delle figure femminili dai nuclei familiari; come osserva Xxxxxxxxx:
“Finché però ad emigrare erano i membri maschili della famiglia – mariti, padri, figli –, gli studi sull’argomento non avevano individuato una forma familiare emergente come prodotto delle migrazioni, né in verità avevano tematizzato una particolare sofferenza dei soggetti coinvolti (…) Aspettative reciproche circa la temporaneità dell’emigrazione e ruoli sociali codificati, secondo i quali le cure familiari erano un compito tipicamente materno, mentre il sostentamento della famiglia competeva ai padri, inducevano a considerare tutto sommato socialmente accettabile il distacco dei
158 Leyla X. Xxxxxx spiega come le stesse campagne effettuate da ONG ed altre associazioni moldave in merito alle problematiche incontrate dai bambini di madri migranti finisca col produrre un immaginario stigmatizzante nei confronti delle donne che partono. Ne consegue che “Those mothers who decide to leave thus face considerable moral ambivalence from their communities”. L.K. Xxxxxx, Globalizing post-socialism: mobile mothers and neoliberalism on the margins of Europe”, Anthropological Quarterly, vol. 79, n. 3, 2006, citata in X. Xxxxxxxxxx, X. Xxx, E. R. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Madri Migranti Le migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia: percorsi e impatto sui paesi di origine, op. cit., p. 44, nota 91.