DOTTORATO DI RICERCA
Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXVIII
TITOLO TESI
ALLE ORIGINI DELLE PROBLEMATICHE SUL FORMALISMO CONVENZIONALE: UNA NUOVA RIFLESSIONE INTORNO A C. 4. 21.17
Settori scientifico disciplinari di afferenza IUS 18 – IUS 01
Presentata da: Xxxxxxx Xx Xxxxxxxxx Coordinatore Dottorato Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxxxx Tutor Xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxxx
Esame finale anno accademico 2015 – 2016
Xxxx discussa nella sessione d’esame marzo – aprile 2017
ALLE ORIGINI DELLE PROBLEMATICHE SUL FORMALISMO CONVENZIONALE:
UNA NUOVA RIFLESSIONE INTORNO A C. 4. 21.17
CAPITOLO PRIMO
CONVENZIONI INTORNO ALLA FORMA DEI NEGOZI GIURIDICI: UN QUADRO D’INSIEME.
SOMMARIO: 1. I PATTI SULLA FORMA E GLI INTERESSI DELLE PARTI: EMERSIONE NELLA PRASSI. – 2. LE FIGURE CONTIGUE. – 3. LE OPINIONI DOTTRINALI CIRCA LA STRUTTURA DELLE CONVENZIONI SULLA FORMA. – 4. LE OPINIONI DOTTRINALI A PROPOSITO DELLA FUNZIONE, IN GENERE, DEI PATTI SULLA FORMA E DELLE CONSEGUENZE, IN PARTICOLARE, DELL’INOSSERVANZA DELLA FORMA CONVENUTA. – 5. DALLA VARIETÀ DELLE OPINIONI ODIERNE ALLE ORIGINI DEL PROBLEMA.
1. I patti sulla forma e gli interessi delle parti: emersione nella prassi.
Xxxxx Xxxxx merita senza dubbio una lode per aver riscoperto e tradotto uno studio, quasi dimenticato, sul tema delle forme convenzionali, riproponendo il pensiero di X. Xxxxxx all’attenzione degli studiosi, in particolare italiani, del diritto civile.
La lettura dell’opera, risalente alla seconda metà dell’Ottocento1, ha suscitato il mio interesse verso l’origine storica del problema che concerne i patti sulla forma dei negozi giuridici, intorno al quale ancora oggi la dottrina dibatte vivamente.
Infatti il Xxxxxx individua l’oggetto della sua ricerca nella controversa questione
«ob bei der allgemeinen Verabredung der Schriftlichen Abfassung eines Vertrages die
1 X. XXXXXX, Abhandlungen aus dem Civilrecht, I, Ueber die Xxxxxxxxxxx xxx Xxxxxxx, xxxxxxxxxxxx xxx xxx x. 00 xxx. xx fide instrumentorum, Bremen, 1860.
Schrift Erforderniß der Perfektion sei, oder nur die Bedeutung eines Beweismittels habe»2.
Il tentativo di risolvere la questione porta il giurista tedesco, che scrive prima della promulgazione del Bürgerliches Gesetzbuch, a cimentarsi con l’esegesi della costituzione 17, posta dai compilatori del Codex sotto il titolo 21 del libro 4, alla quale dedica gran parte dell’opera poiché essa concerne i contractus […] quos in scriptis fieri placuit3.
La figura del Xxxxxx «è avvolta nel mistero, al punto, che, fatta eccezione per la lettera iniziale, ignoto è anche il suo nome di battesimo: null’altro è dato sapere se non che egli stesso si qualifica come “Dr. jur.”»4; eppure la sua forse5 unica opera, «rimasta
nell’ombra per più di un secolo»6 e verosimilmente «di non facile reperibilità già
all’epoca in cui vide la luce»7, è degna di considerazione sia per il valore intrinseco che per l’argomento trattato, aderentissimo al momento presente nonostante siano trascorsi più di centocinquant’anni dalla pubblicazione e quasi millecinquecento dalla emanazione8 della costituzione giustinianea citata nel titolo.
2 X. XXXXXX, Abhandlungen, cit., 3.
3 C. 4.21.17 pr. Si precisa che si cita dalla edizione curata da X. XXXXXX, Codex Iustinianus, Berolini, 1877, 328, alla base delle moderne traduzioni; X. XXXXXX, tuttavia, si serviva della versione corrispondente a quella posta a base della Glossa, nella quale si legge quas in scriptis fieri placuit, riferendosi il femminile ai genitivi che precedono e indicano i singoli tipi contrattuali (cfr. ID., Abhandlungen, cit., 13 s.).
4 F. ADDIS, Contractus in scriptis fieri placuit. Xxxxxx e il formalismo convenzionale, in X. XXXXXX, Sulla pattuizione dello scritto, in particolare della l. 17 cod. de fide instrumentorum (Bremen, 1860), traduzione e cura di F. Addis, Napoli, 2005, 7; altrove lo studioso italiano ha persino dubitato che Xxxxxx fosse il vero nome dell’autore e non piuttosto uno pseudonimo usato da un civilista tedesco di una certa levatura; il dubbio ha tratto alimento non solo dal
«significato, nella lingua tedesca, del sostantivo che cristallizza l’azione verbale “setzen” ma [dal]la stessa qualità e profondità di uno studio che, seppur citato da tutti i più grandi Pandettisti, non è possibile ricondurre ad una figura di studioso storicamente attestata sotto il profilo accademico, professionale o, più genericamente, biografico», ID., Il paradosso delle forme convenzionali, in Studi in onore di Xxxxxx Xxxxxx, I, Milano, 2008, 3.
5 «A quanto mi consta, è autore di un’unica opera», F. ADDIS, Contractus, cit. 7.
6 X. XXXXXX, sub voce Forme convenzionali, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. civile, VIII aggiornamento, Torino, 2013, 278, nt. 10.
7 Così F. ADDIS, Contractus, cit. 7.
8 Precisamente la legge 17 posta dai compilatori del Codex sotto il titolo 21 De fide instrumentorum et amissione eorum et antapochis faciendis et de his quae sine scriptura fieri possunt del libro 4 venne emanata il 1° giugno del 528 d.C..
La pratica, infatti, ora come allora, è inquieta9 intorno al tema delle convenzioni che regolano la forma dei negozi giuridici10, accadendo di continuo che trattando un affare ci si accordi circa una determinata forma pur non imposta dalla legge per la sua conclusione: «l’ordinamento giuridico prevede […] che le parti possano stabilire che un futuro assetto d’interessi, da conchiudersi fra loro, debba avvenire in una forma determinata»11.
Gli interessi che le parti intendono soddisfare per mezzo di tali convenzioni hanno un comune carattere strumentale rispetto agli interessi sostanziali perseguiti con il negozio oggetto della convenzione, ma possono essere diversi e comporsi in vario modo tra loro.
I paciscenti potrebbero essere mossi dalla preoccupazione di determinare precisamente il contenuto del contratto, di individuare in modo chiaro il momento della conclusione delle trattative e tutelarsi contro il rischio che siano intese come impegnative dichiarazioni precipitose e non sorrette dalla volontà di obbligarsi12, assegnando alla forma convenuta l’ufficio di segno dell’animus obligandi.
9 Così già la qualificava X. XXXXXXXXXX, Documento e negozio giuridico, in Riv. dir. proc. civ., 1926, I, 181.
10 La dottrina italiana si è occupata direttamente del formalismo convenzionale in tre monografie: X. XXXXXXXX, Le forme volontarie nella teoria dei contratti, Padova, 1949, X. XXXXXX, Forme “extralegali” e autonomia negoziale, Camerino-Napoli, 1994, e X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie ed accordo contrattuale, Napoli, 2002, il quale a tal proposito rileva che «molti degli autori che si sono pronunciati sul tema in esame lo hanno fatto non già nell’ambito di approfondite indagini ad esso dedicate ex professo, bensì in modo, per dir così, estemporaneo», 256. Al momento di consegnare per gli adempimenti amministrativi questo scritto, ho appreso della recentissima pubblicazione di una nuova monografia di X. XXXXX, Forme convenzionali. Art. 1352, in Il codice civile. Commentario, fondato e già diretto da Xxxxx Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx, Milano, 2016, della quale, purtroppo, non ho potuto tenere conto nella presente ricerca.
11 X. XXXXXXXXX, sub voce Forma degli atti, in Enciclopedia forense, III, Milano, 1958, 813 s..
12 Cfr., per entrambi gli aspetti, X. XXXXXXXX, Forme volontarie nei contratti, in Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxx pubblicati per il XLII anno del suo insegnamento, Messina, 1931: «Oltre il beneficio che indirettamente, ma principalmente, viene alle parti dalla facile accertabilità del se e del che cosa si è voluto contrattare, con l’elezione di forma esse si assicurano di non poter incorrere in una obbligazione senza la volontà, la matura volontà, di assumerla», 203.
13 «La concezione secondo cui i privati potrebbero imporre solo forme note al legislatore […] è arbitraria; le parti possono subordinare l’efficacia del patto all’adozione delle forme più strane: adozione della lingua basca; apposizione dell’impronta digitale accanto alla sottoscrizione; controfirma dei testimoni in calce alla scrittura privata», X. XXXXX, La forma, in SACCO E DE NOVA, Il contratto3, I, Torino, 2004, 717; richiama l’attenzione sul concetto di Sprachrisiko X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 201, nt. 72 e 313, nt. 99 con bibliografia. Sull’ampiezza della facoltà delle parti in materia di elezione della forma del contratto cfr. A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Torino, 2002, per il quale i privati potrebbero scegliere «una forma che coincida con varianti delle forme legali; o con forme del tutto nuove allo stato neppure ipotizzabili, ma che gli sviluppi della tecnica potrebbero in futuro mettere a disposizione», 342 s.; cfr. anche X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale. Disposizioni preliminari. Dei requisiti del contratto. Art. 1321-1352, in Commentario del codice civile, a cura di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxx, Bologna-Roma, 1970, secondo cui «il patto in questione deve contenere, poi, elementi sufficienti a identificare la forma che si è prescelta; che sarà nella gran maggioranza dei casi […] una delle forme tipiche previste dalla legge (scrittura privata, atto pubblico), ma potrebbe anche essere una forma diversa, purché ammissibile ed attuabile nel contesto del traffico giuridico», 455.
Ancora, non si può escludere in astratto che, pattuendo una certa forma, s’intenda individuare il modo di assolvere in giudizio l’onere della prova poiché si diffida delle deposizioni dei testimoni e si temono le lungaggini processuali che la loro assunzione comporta.
È stato tuttavia osservato a questo proposito che un interesse puramente processuale appare normale in fonti eteronome, ma innaturale in fonti autonome 14 poiché il privato «quando si decide a stipulare un contratto, pur prevedendo, da uomo esperto, la possibilità di future contestazioni giudiziarie (fortunatamente molto poche rispetto alla grande massa dei contratti conclusi), crede che il contratto avrà buon fine e che la controparte farà onore alla sua firma. Nel momento della conclusione, la eventualità di liti future è remota dall’animo dei paciscenti, mentre molto più prossima è la convinzione che l’esecuzione avverrà senza coazione e spontaneamente. Ma anche la buona volontà va aiutata: ed ecco che il documento, rappresentando durevolmente e in modo preciso i termini della pattuizione, si rivela uno strumento prezioso di sicurezza e tranquillità. Pertanto agli occhi del privato (a differenza di quelli del legislatore), la funzione extraprocessuale della prova assume un rilievo maggiore, poiché, se la prova in giudizio salva il diritto, la prova stessa, prima del processo, salva il privato dalle liti, che, anche quando sono vittoriose, si risolvono sempre in danni di tempo e di denaro»15.
È dunque più probabile che chi stringe tali patti sia mosso semplicemente dal fine di procurarsi «un mezzo di prova sottratto alle vicende della vita fisica, della capacità mnemonica e intellettiva, della probità morale degli individui; una prova che, sottraendo gli strumenti di dimostrazione di un rapporto all’azione negativa del tempo e di possibili
accidenti, assicura nel più alto grado i soggetti»16 contro il rischio della cattiva
memoria, ma anche della slealtà o di innocenti malintesi17, così dando soddisfazione a un naturale bisogno di certezza giuridica: «precostituirsi una prova vuol dire preparare un mezzo per ottenere, al momento opportuno, la certezza»18.
Il precipuo intento pratico dei contraenti, inoltre, potrebbe essere quello di predisporre una forma atta a costituire titolo esecutivo (art. 474, co. 2, n. 3 cod. proc.
14 Così X. XXXXX, La forma, cit., 719 con riferimento all’effetto della clausola non scritta poiché osserva che «mentre il legislatore può ritenere inadeguata la prova testimoniale, e non avere ragioni per escludere la prova per confessione […] il privato, per autoimporsi la forma ad probationem, dovrebbe diffidare dei testi deducendi e indicandi dalla controparte, e confidare invece nella possibilità di provare la convenzione mediante la confessione o il giuramento della controparte: il che è non solo improbabile ma logicamente assurdo, perché la parte che teme la prova testimoniale sconta già di non poter confidare nella confessione (cioè: in una spontanea narrazione veridica dei fatti) ad opera della controparte (la quale, se prestata, renderebbe superflui i testi)».
15 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 71 s..
16 X. XXXXXXX, Nozioni istituzionali di diritto privato, Milano, 1946, 154.
17 Cfr. X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 69 s, con ampi riferimenti alla bibliografia tedesca.
18 X. XXXXXXXXXX, Documento e negozio giuridico, cit., 186, in cui si chiarisce che prova e certezza sono in rapporto di mezzo a fine.
civ.)19 oppure idonea alla trascrizione (art. 2644 cod. civ.)20 in modo da assicurare ai terzi la conoscibilità del trapasso del diritto, ma potrebbe anche essere quello di assicurare a una delle parti la conoscibilità della dichiarazione dell’altra, idonea a incidere unilateralmente sul rapporto giuridico già sorto tra loro.
Può anche accadere che attraverso il patto della forma s’intenda salvaguardare non soltanto interessi delle parti contraenti, «ma anche di altri di natura superindividuale (rectius: collettiva)», ciò che avviene normalmente allorché «il patto con cui si convengono determinate modalità per il futuro contratto è redatto in sede di stipulazione del contratto collettivo nazionale di categoria»21.
Garanzia di maggiore ponderazione, segno della volontà di obbligarsi, rimedio contro potenziali malintesi e incomprensioni (anche linguistiche), individuazione certa del tempo e del luogo di conclusione del contratto o del modo per assolvere l’onere di provarlo, fonte di sicurezza per i diritti di colui che si munisce del mezzo convenuto, conoscibilità da parte dei terzi o di una delle stesse parti: gli interessi di cui si è fatta menzione sono soltanto i più ricorrenti nella pratica degli affari, ma mostrano a sufficienza come il bisogno di certezza giuridica che s’intende soddisfare attraverso le convenzioni in esame assuma forme varie.
Per poggiare le astratte considerazioni fin qui svolte su una più solida base occorre volgere lo sguardo all’esperienza.
Il fenomeno dei patti intorno alla forma con cui rivestire un certo affare, infatti, si manifesta in varie guise e in distinti settori dell’economia.
In ambito finanziario a proposito di futuri investimenti spesso le parti stabiliscono che «Gli ordini sono impartiti per iscritto. Gli ordini impartiti telefonicamente o a
19 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., nt. 99, 314; l’autore, al fine di vagliare la sua tesi sulla natura non negoziale del patto di forma (per cui cfr. infra nel testo, § 3, 19 ss.), sofferma in generale l’attenzione alle pp. 312 ss. sulle ipotesi in cui la forma volontaria, oltre che come segno della definitività e vincolatività delle dichiarazioni, sia
«voluta proprio per le sue prerogative, per così dire, naturali, ossia per la sua specifica attitudine a soddisfare interessi, che le parti intendono vedere necessariamente realizzati già contestualmente alla nascita del contratto», 312,
«costituendo […] parte integrante ed imprescindibile della complessiva convenienza che si prefiggono di trarre dal futuro contratto», 313 per concludere che «anche in quest’ultimo caso, nel quale la forma è voluta per l’utilità diretta che è in grado di fornire, il patto […] “funziona” comunque […] come riserva di volontà», 314 s..
20 Cfr. X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico2, Camerino-Napoli, 2002 (ristampa della seconda edizione del 1960), 289 s., nt. 28 in cui si critica la tesi del GENOVESE (Le forme volontarie, cit., 72) secondo cui lo scopo di protezione e sicurezza possa considerarsi raggiunto solo con una forma probatoria contestuale considerata costitutiva. Sulla tesi del Genovese cfr. infra nel testo, § 3, 18 ss..
21 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 212 s..
mezzo telefax saranno validi solo se l’utilizzo di tali forme sia stato espressamente consentito»22.
«L’assunzione del lavoratore sarà effettuata secondo le leggi in vigore.
Essa dovrà risultare da atto scritto»24.
Altrettanto spesso i contratti collettivi nazionali disciplinano la forma del recesso:
«Le dimissioni devono essere rassegnate in ogni caso per iscritto con lettera raccomandata o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento»25.
Clausole analoghe sono contenute nei «contratti bancari-tipo predisposti dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI), nonché [nel]le polizze di assicurazione» 26 che, soprattutto sotto l’impero del codice del 1865, attirarono l’attenzione della dottrina e occuparono intensamente la giurisprudenza27.
Quanto ai contratti che hanno a oggetto beni di grande importanza sociale, quali, anzitutto, gli immobili, l’impiego della scrittura è un’inveterata consuetudine che risale a parecchi secoli prima della sua ricezione nella legislazione: sebbene concerna primariamente i negozi che mirano al trasferimento, il costume di redigere uno scritto
22 L’esempio è tratto da Cass. civ., sez. I, 02/08/2016, n. 16053. Le forme convenzionali convengono alla materia di cui trattasi poiché la Corte di Cassazione «ha enunciato il principio che la prescrizione dell’art. 23 del t.u.f., secondo cui i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento debbono essere redatti per iscritto a pena di nullità del contratto, deducibile solo dal cliente, attiene al contratto-quadro, che disciplina lo svolgimento successivo del rapporto volto alla prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari, e non ai singoli ordini di investimento (o disinvestimento) che vengano poi impartiti dal cliente all’intermediario, la cui validità non è soggetta a requisiti di forma (x. Xxxx. n. 28432 del 2011 e n. 384 del 2012)», Cass. civ., sez. I, 19/10/2012, n. 18039. Cfr., in proposito, I. DELLA VEDOVA, Xxxxx forma degli ordini di borsa, in. Riv. dir. civ., 2010, II, 161 ss.; è pur vero che una disposizione regolamentare prevede che il contratto-quadro «indica le modalità attraverso cui il cliente può impartire ordini e istruzioni» (art. 37, co.2, lett. c), reg. Consob 29/10/2007, n. 16190).
23 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 109.
24 Art. 36, co. 1 (di cui si rileva l’inutilità) e 2 del contratto collettivo nazionale di lavoro metalmeccanico industria/ artigianato stipulato il 29 luglio 2016.
25 Art. 241, co. 2 del contratto collettivo nazionale di lavoro del commercio per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi del 30 marzo 2015. Sul punto, cfr. la costante giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui «il rapporto di lavoro a tempo indeterminato può essere risolto dal lavoratore stesso con una dichiarazione di volontà, unilaterale e recettizia (dimissioni), per la quale vige il principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto nel contratto collettivo od individuale di lavoro una particolare forma convenzionale, quale la forma scritta», Cass. civ., sez. lav., 13/07/2001, n. 9554.
26 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 297.
27 Cfr. X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 59 ss..
contenente i termini dell’accordo è diffuso fin dai tempi antichi anche quando lo scopo è la concessione in godimento temporaneo28.
A tal proposito la prassi degli affari offre un enorme numero di esempi che, nonostante la scrittura sia imposta ormai per molti contratti da speciali previsioni di legge, continuano ad avere rilevanza rispetto al tema dei patti sulla forma dei negozi giuridici perché molto spesso gl’interessati rafforzano d’accordo i requisiti di forma che la legge pone per il contratto. Ciò avviene soprattutto nelle compravendite con riferimento all’atto pubblico (idoneo alla trascrizione), mentre nelle locazioni, come negli altri contratti a esecuzione continuata citati in precedenza, altrettanto spesso le parti convengono una forma determinata non richiesta dalla legge per i negozi destinati a incidere sul rapporto giuridico già sorto29 (pur non potendosi escludere nemmeno in tal caso che il patto abbia a oggetto la redazione fatta per la prima volta del contratto30):
«così per es. Xxxxx, nel locare a Xxxx un suo fondo a tempo indeterminato, può impegnarlo a non disdire la locazione che per lettera raccomandata con ricevuta di ritorno»31 oppure «fra due soggetti si stipula quanto segue: “Caio dichiara di vendere (o vende) a Mevio la sua casa di Venezia per la somma tot. Il contratto definitivo dovrà essere stipulato per atto notarile.” Le parti sottoscrivono l’atto»32.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare quasi all’infinito, ma quel che interessa porre in evidenza è che la concreta individuazione degli interessi che le parti mirano a soddisfare, anche congiuntamente, per mezzo di siffatte convenzioni dipende dalle circostanze del caso.
2. Le figure contigue.
28 Cfr. infra, cap. VI, § 3-4, in particolare 180 ss. e 193 ss..
29 Cfr. infra, cap. VI, § 3, 180 ss..
30 Tale ipotesi si verifica in modo più limitato rispetto al passato a causa dell’intervento nella materia in questione di specifiche disposizioni di legge che a tutela, anzitutto, dell’interesse fiscale (imponendosi la registrazione del contratto) prevedono la forma scritta della locazione, come ad esempio il co. 4, art. 1, l. 431 del 9 dicembre 1998 secondo cui «a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta» se l’oggetto è un immobile adibito ad uso abitativo. Si osserva, incidentalmente, che sull’interpretazione di questo comma e sulla natura della sanzione si è di recente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole, cfr. Cass., sez. un., 17 settembre 2015 n. 18214.
00 X. XXXXX, Xxxxxx generale, cit., 287.
32 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 125.
Se è vero che un medesimo interesse economico può spesso essere realizzato in modi giuridici differenti, non può stupire, data la diversità e spesso anche la molteplicità degli interessi perseguiti per mezzo dei patti sulla forma, che l’opera dell’interprete in questo campo frequentemente si riveli ardua e che, anche in astratto, la dottrina dibatta ancora oggi sulla loro natura giuridica, accostandoli a varie figure di carattere generale.
A tal proposito, anzitutto, al fine di tracciare i confini della presente indagine giova distinguere l’ipotesi in esame da altre per certi versi contigue che possono confondersi con ciò che s’intende prendere in considerazione: ci si riferisce (anche se la terminologia è talvolta oscillante) alla ripetizione, alla riproduzione (ammettendo che si distingua dalla prima), alla rinnovazione e alla ricognizione.
Si pensi al seguente caso33: «con scrittura privata 5 luglio 1975 Xxxxx e Xxxx acquistarono da Sempronio un’area edificabile di circa metri quadrati 1400 in Porotto, convenendone lo stralcio dalla particella 152-A foglio 128 dello stesso venditore; si stabilì che l’atto notarile sarebbe stato stipulato appena approvata la variante al piano regolatore generale. Ma, approvata detta variante il 25 ottobre 1977, Sempronio, benché sollecitato, non procedette né al frazionamento dei lotti né alla stipula del rogito».
A causa dell’identità dello scopo pratico che le determina, la clausola nella quale si conviene la stipula dell’atto notarile, a una fugace lettura, si presta a essere confusa con quella citata in precedenza secondo cui «il contratto definitivo dovrà essere stipulato per atto notarile», ma la differenza sostanziale consiste nel fatto che, contrariamente all’ipotesi formulata sopra, nel caso in esame «l’effetto reale della compravendita immobiliare, ossia il trasferimento immediato del diritto di proprietà sulla cosa venduta, venne correttamente riconosciuto, alla stregua dell’art. 1376 c.c., sulla base del solo consenso manifestato dalle parti con la scrittura privata 5 luglio 1975, non valendo ad escludere tale effetto e a trasformare perciò il contratto con effetti reali in contratto con effetti obbligatori, il convenuto rinvio della stipula dell’atto pubblico ad approvazione avvenuta della variante al piano regolatore generale»34.
Tanto in questo caso come nell’ipotesi in cui si ripeta per scrittura privata un contratto concluso a voce quale, ad esempio, una compravendita di un bene mobile registrato o una locazione infranovennale (per cui lo scritto non sia imposto dalla legge35), l’interesse a trasfondere l’atto in una scrittura privata può essere il medesimo che muove chi stringe un patto sulla forma, ossia dare precisione e certezza al contenuto del contratto o consentirne la registrazione (con la conseguenza di renderne la data opponibile ai terzi) oppure la trascrizione, al punto che talvolta la formulazione infelice della clausola rende difficile chiarire l’intenzione delle parti.
33 Tratto da Cass. civ., sez. II, 16/05/1991, n. 5480; a parte la sostituzione dei nomi la citazione è letterale.
34 Cass. civ., sez. II, 16/05/1991, n. 5480.
35 Cfr. supra, 8, nt. 30.
In astratto, tuttavia, il fatto esposto e vicende analoghe esulano dalla materia del formalismo convenzionale presupponendo la conclusione di un precedente contratto.
Supponiamo, invece, che «Tizio e Xxxx, persone per bene, volendo concludere una vendita immobiliare, redigano una scrittura in unico esemplare. La scrittura - non c’è dubbio in proposito - trasferisce la proprietà. Supponiamo ora che i contraenti per sottolineare la buona riuscita della negoziazione, si rechino al bar, dove abbandoneranno la scrittura, infilata tra le pagine del quotidiano già letto, sulla terza sedia del tavolino. La scrittura va perduta, per colpa di entrambi. Sul momento i contraenti non la cercano, e ognuno pensa che l’abbia conservata l’altro. Due giorni dopo, appreso che il gestore del bar ha distrutto, con l’altra cartaccia ritrovata nel locale, la preziosa scrittura, Xxxxx e Xxxx, persone per bene, redigono un secondo documento identico al primo»36.
Taluni distinguono quest’ipotesi dalla precedente, parlando nell’un caso di ripetizione e di riproduzione nell’altro in cui «le parti riproducono integralmente il testo di un contratto già concluso al fine di sostituire il documento andato smarrito ovvero al fine di disporre di altre copie originali da poter utilizzare, ad esempio, per la registrazione del contratto o per depositarlo presso una banca qualora si intenda richiedere un mutuo collegato all’operazione contrattuale»37.
A ogni modo, a prescindere dalla distinzione dalla ripetizione, neppure la redazione riproduttiva di un contratto già concluso è oggetto della presente indagine poiché anch’essa suppone che il titolo sia già in essere riferendosi a una pluralità di documenti rappresentativi, contrariamente al patto di costituire fin dal principio il titolo in una data forma.
Per motivi simili si tralascerà la rinnovazione, «esplicazione susseguente dell’autonomia delle parti, concorrente con quella prima spiegata sul medesimo oggetto
36 X. XXXXX, La preparazione del contratto, in SACCO E DE NOVA, Il contratto3, II, Torino, 2004, 359 s..
37 X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato17, Napoli, 2015, 935, per il quale appunto «la ripetizione si distingue dalla riproduzione»; anche secondo C.M. BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto2, Milano, 2000, 293 «la ripetizione del contratto deve anzitutto essere tenuta distinta rispetto al contratto definitivo, mediante il quale le parti non rinnovano il consenso già manifestato bensì pongono in essere il rapporto contrattuale finale in adempimento del contratto preliminare» e poi anche deve distinguersi «rispetto all’atto di ricognizione in senso proprio, col quale le parti attestano l’avvenuta stipulazione del contratto, e rispetto alla rinnovazione del documento, quale operazione materiale di ricostituzione del documento contrattuale» (che parrebbe identificarsi, nel pensiero dell’insigne studioso catanese, nel concetto da altri espresso col termine “riproduzione”) poiché mentre «la ricognizione e la rinnovazione del documento hanno efficacia meramente probatoria in relazione al contratto quale fatto già storicamente avvenuto (2720 cc)», invece,
«con la ripetizione le parti stipulano nuovamente il contratto anche se col medesimo oggetto». Si osserva per un verso che la distinguibilità non è pacifica e, comunque, la terminologia è oscillante [cfr., ad esempio, X. XXXXX, La preparazione, cit. «questo comportamento viene chiamato ripetizione, o riproduzione, del negozio», 361, o X. XXXXX, Xx
xxxxxxxxx0, Xxxxxx, 0000, per il quale «riproduzione (o ripetizione) del contratto è il fenomeno per cui, concluso un
contratto, le parti successivamente lo rifanno in forma diversa», 239] e, per altro verso, che, a prescindere dalla distinguibilità dalla ripetizione, l’inquadramento dogmatico della (ripetizione o) riproduzione è materia di discussione in sede dottrinale: secondo X. XXXXXXXXXX trattasi di «un negozio solo con due forme; e qui perfettamente identiche, documentali, l’una e l’altra, da servire o l’una o l’altra, oppure l’una quando non serva l’altra» Documento e negozio giuridico, cit., 196; secondo X. XXXXX, La riproduzione del negozio giuridico, Padova, 1933 (che critica l’opinione del CARNELUTTI alle pagine 37 ss.), è una dichiarazione che mira a sostituire un atto di volontà con un altro come fonte del rapporto; v’è poi chi parla di un negozio unico rispetto al quale si moltiplica la documentazione.
[…], destinata però ad assorbirne il contenuto precettivo e a sostituirla per l’avvenire. […] L’interesse alla rinnovazione può nascere da una invalidità del precedente negozio non eliminabile con semplice conferma […], o da una sua inefficacia non riparabile in altro modo. Si pensi a un negozio affetto da nullità relativa […], o a un negozio al quale sia opponibile una circostanza impeditiva o modificativa, che reagisce su di esso in quanto sia compiuto in una data situazione o in un dato momento di tempo»38. Chi rinnova un precedente negozio, dunque, non intende meramente ripeterne o riprodurne la dichiarazione, ma intende porre un vero e proprio regolamento d’interessi, confermando il precedente o innovandolo, a ogni modo volendo effetti negoziali: «È pacifico infatti, stante l’autonomia riconosciuta alle parti dal nostro ordinamento, che nulla si oppone perché una volta stipulato, come si è verificato nella specie, un contratto “nullo” per mancanza nell’oggetto di uno dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 c.c. - o per qualsiasi altra causa - le parti, consapevoli della nullità, diano vita, expressis o con un comportamento concludente, ad un nuovo contratto, perfettamente valido, che si sostituisca al precedente e che produca quegli effetti che il precedente non era in grado di produrre (cfr., Cass., 9 agosto 1990, n. 8106, nonché Cass., 13 novembre 1986, n.
6673; Cass., 19 novembre 1983, n. 6896 e Cass., 28 maggio 1979, n. 3088). […] Le parti con il loro comportamento successivo alla stipulazione del contratto “hanno dato luogo ad un nuovo contratto, sempre di locazione e sempre allo stesso corrispettivo (rivalutabile)”»39.
Anche la rinnovazione dunque, come la ripetizione o riproduzione, presuppone l’avvenuta conclusione di un contratto e si discosta, quindi, dal fine della presente ricerca secondo quanto si chiarirà a breve.
Per un’analoga ragione non sarà presa in considerazione neppure la ricognizione, che svolge una funzione meramente probatoria dell’esistenza e del contenuto di un (precedente) contratto.
3. Le vedute dottrinali circa la struttura delle convenzioni sulla forma.
Così tracciati i confini del campo d’indagine, dovrebbe essere chiaro che l’oggetto della presente ricerca si pone al di qua del perfezionamento del contratto o, al più, in un momento concomitante, ma non successivo, poiché «die L 17 C IV 21 hat nichts mit ihr
00 X. XXXXX, Xxxxxx generale, cit., 248.
39 Cass. civ., sez. III, 26/05/1999, n. 5103.
zu thun, sondern nur mit der Erstvollziehung des schriftlichen Vertrags und ihrer Abscheidung von den vorhergehenden Traktaten»40.
Tuttavia, anche ristretta in tal modo la questione, non può certo dirsi che sull’argomento ci sia unanimità di vedute: i problemi posti dall’intenzione delle parti di redigere un futuro negozio in una certa forma che non sia imposta dall’ordinamento sono tanto di ordine strutturale quanto di ordine funzionale e si tengono avvinti tra loro.
Non a caso la dottrina dibatte ancora oggi sulla natura giuridica dei patti sulla forma, accostandoli a varie figure di carattere generale.
Alcuni hanno configurato il patto come un elemento accidentale del negozio cui si riferisce, ma si dividono rispetto alla determinazione specifica.
V’è, infatti, chi ha concepito la forma volontaria come onere, applicando a essa il medesimo schema logico della forma legale: «l’articolo in questione [1352 cod. civ.41] - stabilendo una presunzione iuris tantum - rimanda a quella che è stata la volontà effettiva delle parti; onde, ricorrendo all’interpretazione di essa volontà, sarà possibile stabilire se le parti abbiano voluto l’osservanza della forma a scopo costituivo, ovvero a scopo limitativo della prova.
In tal modo, la legge rispetta il principio della libertà contrattuale e inoltre non conferisce all’elemento “forma” una funzione diversa da quella di onere: soltanto che, in questo caso, è onere imposto a se stesse dalle parti, anzi che dalla legge (come di regola accade)»42.
Si è obiettato, tuttavia, che «la tesi che vi ravvisa l’imposizione di un onere è sostenibile, ovviamente, soltanto in relazione ad un patto che determini la forma di un successivo atto unilaterale, che una delle parti è abilitata a compiere»43; si è, infatti, osservato che la concezione in esame poggia sull’analogia tra forma legale e forma volontaria la quale è fondata soltanto se sussistono certi presupposti: «affinché la relazione di identità sussista, occorre però la presenza di un elemento, e cioè che la forma volontaria, al pari di quella legale, si presenti all’onerato come voluta da una volontà diversa ed esterna, come imposta da un eterocomando. La presenza di queste condizioni si verifica quando la forma volontaria è pattuita da entrambi i contraenti e viene prevista per il futuro negozio unilaterale, col quale l’agente modifica o estingue il rapporto giuridico, costituito per contratto: ad es. le parti stipulano un contratto di
40 X. XXXXXXXXX, Die Vertragsvollziehung als Vertragsreproduktion, 1887, in Archiv für die civilistische praxis, 71, 218 in cui la proposizione «die L 17 C IV 21 hat nichts mit ihr zu thun» è riferita espressamente alla redazione riproduttiva di un contratto; aderisce all’opinione citata X. XXXXX, Sulla posteriore documentazione di un contratto, in Riv. di dir. comm., 1920, II, nt. a), 199.
41 «Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto,
si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo».
42 X. XXXXXXXX, Dottrina generale del contratto2, Milano, 1948, 106.
43 X. XXXXXXXXX, Dei contratti in generale3, in Commentario del Codice civile, IV, 2, Torino, 1980, 219.
locazione, nel quale è stabilito che la disdetta dovrà venir per mezzo di comunicazione scritta, altrimenti il termine sarà prorogato per un certo tempo. Nell’esempio ora fatto la scrittura è imposta dalla volontà comune, che si presenta come giuridicamente esterna e diversa da quella del contraente disdettante.
Ma non è possibile dire altrettanto quando il negozio futuro è posto in essere dagli stessi contraenti che debbono fondere le loro volontà in un’unica volontà negoziale, cioè, nell’esempio più semplice, quando la modifica o l’estinzione del rapporto dev’essere fatta anch’essa per contratto»44.
V’è poi chi ha affermato che «per un corretto inquadramento della forma stabilita negozialmente occorre muovere da un rilievo di fondo, e cioè che essa costituisce un requisito volontario, cioè un requisito che le parti stabiliscono per il loro contratto. Ora, la rilevanza in ordine al contratto che le parti possono attribuire a determinati requisiti è la rilevanza propria della condizione»45.
Per giunta, quanti concepiscono il patto sulla forma come una condizione non costituiscono neppure un fronte unitario.
Alcuni si interrogano intorno al modo di operare sul contenuto precettivo del negozio: «quando è indubitato che le parti hanno voluto far dipendere la vendita dalla formazione di un atto scritto […] di quale specie è la condizione, sospensiva o risolutiva?»46; altri si dividono rispetto all’indole dell’evento preveduto poiché, assumendo tale criterio, taluno l’ha definita condizione meramente potestativa («la quale è nulla»47), talaltro condizione potestativa semplice48.
A prescindere dalle articolazioni interne alla teoria, si è criticata la qualificazione in genere del patto sulla forma come condizione poiché è difficilmente concepibile un elemento accidentale che sarebbe apposto «non al negozio, ma… al non negozio»; «la condizione è, infatti, una modalità del negozio, che ne limita l’efficacia, ma, appunto
44 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 109 s..
45 C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., 298 s; è d’uopo precisare che l’autore accosta la figura alla condizione descrivendone il meccanismo di efficacia, ma sotto l’aspetto strutturale afferma che «il patto di forma rientra nella categoria dei negozi normativi», op.ult.cit., 296.
46 C.B.M. XXXXXXXX, per cura di X.X. XXXXXXXXX, Il dritto civile francese secondo l’ordine del codice, opera nella
quale si è procurato di unire la teoria alla pratica (trad. it.), Palermo, 1856, n. 167, 77.
47 C.B.M. XXXXXXXX, per cura di X.X. XXXXXXXXX, Il dritto civile, cit., dove in senso critico rispetto alla configurazione
come condizione sospensiva e potestativa semplice, oltre all’argomento che «la formazione dell’atto non è un avvenimento futuro e incerto; essa dipende dalla volontà delle parti», si afferma, inoltre, «io non posso piegarmi a questa opinione perché la incertezza della proprietà presenta gravi inconvenienti, e perché la frode potrebbe con molta facilità far valere l’effetto retroattivo alla condizione» e si conclude, dunque, per la nullità del patto di forma in quanto configurerebbe una condizione meramente potestativa, n. 167, 77. Cfr. anche X. XXXXXXXX XX., sub voce Contratto preliminare, in Enciclopedia giuridica italiana, III, Milano, 1902, n. 17, 84.
48 X. XXXXX, Sulla posteriore documentazione, cit., 204 e 198 dove, criticando il Xxxxxxxx, afferma che la condizione «a
torto» è qualificata meramente potestativa «perché non si tratta di una condizione rimessa alla mera volontà dell’obbligato»; cfr. anche X. XXXXXXX, Documento e negozio giuridico, Xxxxx, 0000, 33, a cui pare «fuori di ogni possibile discussione» «che le parti abbiano la facoltà di porre come condizione della esistenza di un contratto - per legge non formale - l’adozione di una determinata forma».
perciò, la suppone; è qualcosa insomma che nasce dal negozio, non da cui nasce il negozio. In altri termini, non si può parlare di condizione posta dalle parti se negozio non v’è. Che, dunque, le parti possano far dipendere la efficacia delle loro dichiarazioni da una data forma non si spiega punto col principio per cui possono limitare, mediante la condizione, l’efficacia del negozio formato»49.
Inoltre, si è anche aggiunto che «la condizione è opponibile senza limiti ai terzi, mentre non è affatto detto che alla stessa conclusione possa pervenirsi con riguardo al patto sulla forma, in quanto la dissomiglianza tra le due figure potrebbe giustificare una
disciplina diversa»50 e, con specifico riferimento alla lettera della disposizione del
codice civile italiano, si è pure osservato che tale teoria «supera il tenore dell’art. 1352 c.c., ove si fa riferimento al concetto di validità e non di efficacia»51.
Non manca poi chi riconosce al patto di forma natura di autonomo negozio giuridico.
Più specificamente è opinione diffusa in dottrina che esso appartenga al genere dei negozi di configurazione52; addirittura ne sarebbe «l’esempio più significativo»53.
La tesi poggia sulla circostanza che il patto sulla forma, come la proposta ferma disciplinata dall’art. 1329 cod. civ., «opera su una situazione giuridica strumentale rispetto a quella che deriva dal contratto: foggiandola in maniera determinata, ne
49 X. XXXXXXXXXX, Documento e negozio giuridico, cit., 218; cfr. anche X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., secondo il quale «mentre la condizione sospende l’efficacia di un patto esistente, il patto sulla forma impedisce la perfezione di un contratto ancora inesistente», 104; F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma e accordi sulla “documentazione” del futuro negozio, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Napoli, 1988, «la forma convenzionale (e in genere la forma intesa come `esternazione´) non è altro rispetto all’atto considerato nel suo paradigma giuridico, e dunque non può essere un requisito (ulteriore) di efficacia in senso stretto. Invero, allorché si prenda in considerazione un certo requisito (volontario) di efficacia, dovrebbe sempre rimanere possibile la demarcazione analitica tra l’atto `in sé´ ed il fatto che ne determina l’efficacia, e dunque tra il momento ed il luogo in cui l’atto viene ad esistere e si presta ad essere riconosciuto all’esterno ed il momento o il luogo in cui esso acquista o perde efficacia: ora, una simile demarcazione non è mai possibile ove si prenda in considerazione quel particolare
`requisito´ che è la forma dell’atto (legale o convenzionale che sia), giacché quest’ultima non è distinguibile dall’atto
`in sé´, costituendone comunque l’`esternazione´», 107 (e ID., La forma, in I contratti in generale, a cura di X. Xxxxxxxxx, II, in Trattato dei contratti, diretto da Xxxxxx Xxxxxxxx ed Xxxxxx Xxxxxxxxx, Torino, 2006, 920).
50 X. XXXXXXXX XXXXXXXXXXX, Questioni irrisolte intorno ai patti sulla forma di futuri contratti, in Riv. dir. civ., 2004, I, 251 s., in cui l’autrice prosegue il discorso notando che «la condizione infatti, a differenza del patto sulla forma, risulta dal contratto stesso cui si riferisce e per essa è previsto un regime di pubblicità […], mentre un eventuale precedente patto sulla forma che incidesse sull’efficacia resterebbe ignoto al terzo», 252.
00 X. XXXXXXX, Xxxxx riduttiva considerazione della forma convenzionale ex art. 1352 c.c., in Giust. civ., 1999, II, 177.
52 Cfr., nella manualistica, X. XXXXXXX, Manuale17, cit., 878: «si ammette da taluni il potere dei privati di raggiungere un accordo in ordine al modo in cui dovrebbero concludersi tra di loro gli eventuali, futuri contratti, ferma restando la libertà di contrarre. Si parla al riguardo di negozi o accordi configurativi […]. La legge prevede, del resto, talune ipotesi di configurazione del procedimento, pattizia, come nel caso di forma volontaria (là dove ci si accorda solo sulla forma che dovranno avere i futuri contratti (art. 1352) […])» e ancora, più specificamente, «il patto [intorno alla forma per la futura conclusione di un contratto] ha carattere configurativo […]. Si è dunque bensì in presenza di un accordo, ma non di un contratto in senso tecnico, quale definito dall’art. 1321», 934.
53 X. XXXXXXX, Il contratto preliminare, Padova, 1991, 119; analogamente, secondo A.M. XXXXXXXXX, Autonomia privata procedimentale, cit., è «un esempio, forse il più significativo, di negozio configurativo tipico», 345.
appresta, in certo senso, lo stampo»54; attraverso il patto in esame dunque le parti determinano «i parametri tecnico-giuridici alla cui stregua il procedimento contrattuale è destinato a svolgersi» in modo da escludere «la riconducibilità del procedimento stesso a parametri diversi»55: «il procedimento di formazione del contratto trova di conseguenza le sue regole nel negozio configurativo e non più nelle norme di legge derogate, ciò per soddisfare interessi particolari delle parti»56. E proprio nella fissazione delle condizioni di rilevanza formale del futuro accordo consisterebbe l’efficacia
dispositiva del patto e, dunque, la sua natura negoziale57 poiché i paciscenti
esprimerebbero una «irretrattabilità di giudizio, che, per avvenuta consumazione del potere di autonomia nel momento stesso in cui quest’ultimo è esercitato, implica di necessità lo stare decisis»58.
La teoria del negozio configurativo, tuttavia, è stata ritenuta «una mera variante verbale»59 di quella che guarda al patto sulla forma «come l’indice che consente di enucleare il negozio “in sé”, selezionando le dichiarazioni che assumono valore
conclusivo all’interno degli svariati contegni delle parti»60 di modo che la forma
54 X. XXXXXXXXX, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 149, dove l’autore trattando della proposta ferma la accomuna al patto sulla forma riconducendo e l’una e l’altro alla categoria dei negozi di configurazione. Sulla figura del negozio configurativo, cfr. XXXXXXXXX XXXXXX, Introduzione allo studio del procedimento giuridico nel diritto privato, Milano, 1961, 77 ss. e, più di recente, A.M. XXXXXXXXX, Autonomia privata procedimentale, cit., 237 ss. e X. XXXXXXXXXX, Il negozio configurativo: dall’intuizione alla categoria (Storia di un pensiero), in Studi in onore di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, II, Napoli, 2008, 1155 ss..
55 X. XXXXXXX, Il contratto preliminare, cit., 116.
56 X. XXXXXX, sub voce Forme convenzionali, cit., 294.
57 Secondo X. XXXXXXX, Il contratto preliminare, cit., 115 «sul piano dell’efficacia, la categoria del negozio
configurativo non può essere disgiunta da quella che […] è la fondamentale caratteristica dell’atto negoziale: la sua naturale dispositività, e cioè l’attitudine ad incidere sulle contrapposte sfere dei paciscenti, dettando una nuova disciplina degli interessi in gioco, ovvero foggiando i peculiari parametri di rilevanza formale o di valutazione sostanziale, alla cui stregua l’operazione è destinata a realizzarsi attraverso corrispondenti comportamenti».
58 X. XXXXXXX, Il contratto preliminare, cit., 116.
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 255; d’altronde non c’è unanimità intorno al termine “negozio configurativo”, essendovi anche chi parla di “patto” o “accordo procedimentale”, cfr. A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale, cit., 338, nt. 245, 343.
60 F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 107 (e ID., La forma, cit., 920).
61 X. XX XXXXXXXX, Xxxxxxx sulla forma, cit., 111; (e cfr. ID., La forma, cit., 923, dove discorre di «ben definita ed univoca funzione del patto sulla forma che la norma [art. 1352 cod. civ.] considera e disciplina: la funzione di attribuire convenzionalmente valore conclusivo (e dunque `validità´) alle sole dichiarazioni rese nella forma pattuita»); cfr., in senso sostanzialmente analogo, X. XXXXX, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, I, Berlin, 1926, 272 s., per il quale in particolare, il patto sulla forma è «una convenzione sul significato dell’imminente contegno allo scopo di prevenire un dubbio» per mezzo della quale si dà «un chiarimento secondo cui le dichiarazioni (future) prive di forma non sono da riguardare come dichiarazioni contrattuali definitive».
Le critiche rivolte alle due tesi sono state dunque accomunate62 e consistono, per un verso, nell’affermata impossibilità alla luce di queste teorie di spiegare come il patto sulla forma concluso anteriormente possa rendere irrilevante un contratto successivo: avendo infatti la medesima forza, la volontà prossima espressa nel contratto dovrebbe prevalere sulla volontà remota manifestata nel patto; per altro verso, nella circostanza che, sebbene ciò sia negato dai suoi sostenitori63, di fatto si finisce per affermare che le parti abbiano un potere di disporre della rilevanza giuridica delle fattispecie64.
Con riferimento specifico al negozio configurativo si è poi aggiunto che «tale figura sembra - a tacer d’altro - non avere ancóra contorni sufficientemente definiti» e che «essa appare del tutto superflua (se non fuorviante) quando la si voglia impiegare per dare conto del meccanismo operativo della clausola di cui al comma 4 dell’art. 1326
c.c. o del patto di cui all’art.1352 c.c.»65.
Altri, dunque, aderisce a una differente opinione affermando che «la convenzione di forma, quale componente preparatoria, si può qualificare negozio regolamentare la cui funzione è quella di disciplinare in via preventiva il “vestimentum” di futuri eventuali atti negoziali conclusi fra le parti medesime»66.
Tuttavia, nel pensiero dell’autore, il negozio regolamentare67 appartiene «ad un
unico genus»68 insieme con il contratto normativo, pertanto si può dubitare
dell’autonomia della tesi del negozio regolamentare rispetto a quella del contratto normativo.
62 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 249 ss., 254 ss. che si rifà in parte alle osservazioni di F. VENOSTA, La forma dei negozi preparatori e revocatori, Milano, 1997, 303 s. e X. XXXXXXXX, Intese prenegoziali a struttura
«normativa» e profili di responsabilità precontrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1995, 72 s..
63 Cfr. F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 100 (e ID., La forma, cit., 914) il quale afferma che «se la forma volontaria e le forme alle quali fa riferimento l’art. 1325 n. 4 cod. civ. fossero collocate sul medesimo piano, si finirebbe per ammettere ciò che, alla luce della moderna concezione dell’autonomia negoziale, pare inammissibile: cioè che le parti possano ingerirsi nella conformazione del paradigma alla stregua del quale si opera la valutazione o qualificazione giuridica dell’atto, ed in relazione al quale l’atto acquista rilevanza per il diritto. Una siffatta conformazione spetta, invece, com’è ovvio, all’ordinamento, onde la materia della forma come elemento della fattispecie negoziale è sempre sottratta alla disponibilità delle parti, alle quali non è consentito di modificare il paradigma dell’atto».
64 Esplicitamente in tal senso cfr. X. XXXXXX, La teoria generale del contratto2, Torino, 1955, 37 e 281, per il quale il patto sulla forma è un negozio volto «a togliere il valore di fattispecie ad un contratto stipulato con una forma diversa da quella convenuta», seguito da X. XXXXXXXXXXX, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, 147, che lo cita espressamente.
65 X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., nt. 83, 299.
66 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 254.
67 Sul negozio regolamentare cfr. F. RUSCELLO, I regolamenti di condominio, Camerino-Napoli, 1980, 179 ss., secondo il quale la funzione consiste «nella modificazione della disciplina di un rapporto preesistente o nella creazione della disciplina di un rapporto futuro che per la sua particolare natura richiede una preventiva regolamentazione», 195.
68 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 255; cfr., appena prima, la spiegazione della denominazione “negozi
regolamentari in senso lato” nella quale «si vogliono far rientrare le figure del contratto normativo, del contratto tipo e dei contratti regolamentari in senso stretto, aventi in comune la funzione di “orientare” le parti nel momento in cui decidono di instaurare un regolamento concreto», nt. 593, 254.
C’è infatti anche chi vede nel patto sulla forma un vero e proprio contratto, pur dividendosi circa la sua specificazione: «di per sé, dato che esso regola una attività futura nel caso che essa avvenga, determinando il come di essa, ma lasciando il se nell’arbitrio delle parti, può riconoscersi un contratto? Si, riteniamo, se si ammette la categoria del contratto normativo»69.
Quest’ultima specifica tesi accosta le due figure del patto sulla forma e del contratto normativo a causa dell’assenza di effetti obbligatori perché «entrambe non pongono l’obbligo di stipulare un successivo contratto - e con ciò si distinguono dal contratto preliminare -, ma richiedono una ulteriore manifestazione di volontà diretta a porre in essere il contratto sostanziale o i singoli contratti particolari»70.
Anche rispetto alla concezione del patto sulla forma come contratto normativo, però, sono state formulate critiche. In particolare, poiché la convenzione in esame, «di regola, riguarda un solo contratto futuro», «la ragione più valida che può essere avanzata contro la costruzione del patto sulla forma (art. 1352 cod. civ.) come contratto normativo» riposa nel fatto che «la peculiarità del contratto normativo consiste proprio nella sua possibile utilizzazione per una serie di rapporti: lo scopo stesso che le parti perseguono, di stabilire una disciplina diretta ad accelerare e rendere più agevoli le trattative di altri negozi, ha un significato soltanto se riferito ad una pluralità di
negozi»71 giacché l’interesse che di massima s’intende soddisfare per mezzo dei
contratti in questione è il risparmio dei costi che sono detti “di transazione” e assumono grande importanza nell’organizzazione economica dell’impresa xxxxxxx00.
Si è anche osservato che «se il contratto preliminare considera la volontà contrattuale sotto l’aspetto dell’an sit e del quomodo sit, e il contratto normativo invece sotto il solo aspetto del quomodo sit (ed anche parzialmente, perché il contratto normativo non prestabilisce tutte le clausole del contratto successivo, ma solo alcune), il patto di documentazione disciplina la volontà contrattuale sotto l’aspetto ulteriore del quomodo fiat, ossia del modo con cui la volontà (e il contratto) si perfeziona»73.
69 X. XXXXXXXX, Forme volontarie, cit. 210; tra gli altri, più di recente, si esprimono in modo analogo X. XXXXX, Il contratto2, cit., 237, per il quale «il patto sulla forma ha natura di contratto normativo, perché regola un futuro contratto»; C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., 296, citato supra, nt. 45, 13; X. XXXXXXXX, Forme complementari e atto recettizio, in Riv. dir. comm., 1976, I, 206 secondo cui «trattasi di un patto normativo bilaterale».
70 X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, in Commentario del codice civile diretto da X. Xxxxxxxxx, Dei contratti in generale, Torino, 2011, 190, ove, peraltro, si afferma che «le discrepanze sembrano tuttavia prevalenti».
71 X. XXXXXXXXXXXX, I contratti normativi, Padova, 1969, 33 s.; analogamente secondo X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit. «la tesi che vede nel patto sulla forma un contratto normativo (v. comm. art. 1321, n. 5) può essere accolta nelle ipotesi in cui sia prevista una forma per una serie di futuri contratti, che le parti prevedano di stipulare, ma non quando il patto si riferisce ad un solo contratto od atto», 219.
72 La riflessione sui “costi di transazione” è stata motivo di attribuzione di due recenti premi Nobel per l’economia: nel
2009 a Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxx e nel 1991 a Xxxxxx Xxxxx Xxxxx.
73 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 113 s..
Principalmente per queste ragioni certuni hanno rifiutato la qualificazione come contratto normativo e hanno, invece, configurato il patto sulla forma come un preliminare, attribuendo a esso «la massima forza vincolativa»74.
Il più vigoroso sostenitore75 della tesi in esame concentra i suoi sforzi nel
tentativo di sciogliere principalmente due obiezioni: l’una «mette in rilievo una presunta contraddizione tra lo scopo della forma essenziale, che, fra l’altro, sarebbe quello di provocare la maturazione del volere negoziale, e l’assunzione immediata di un vincolo definitivo nel suo genere, in forza del quale le parti assumerebbero un’obbligazione su per giù equivalente a quella del vero contratto definitivo»76; l’altra «concerne l’asserita necessità di distinguere l’obbligo di prestare il consenso per la conclusione del negozio futuro dall’obbligo di costituire la forma negoziale prestabilita»77.
Alla prima risponde, tra l’altro, notando che l’elezione di una forma più grave di quella imposta dalla legge è segno di una consapevolezza delle parti intorno all’importanza dell’atto che si accingono a compiere; alla seconda, invece, affermando l’inscindibilità tra forma e volontà poiché osserva «come la forma, nella concreta realtà dell’atto volitivo, non sia che un aspetto dell’atto stesso: anche la forma è volontà»78 e, dunque, «l’enunciazione esatta dell’obbligo sulla forma è la seguente: non, obbligo di costituire la forma negoziale; ma, obbligo di prestare il consenso nella forma negoziale prestabilita»79.
Quanto a quest’ultimo punto, tuttavia, è stato rilevato che «allorché il patto in questione è stato inteso, in dottrina, nel senso di comprendere non solo la forma pattuita, ma implicitamente anche l’obbligo ad una ulteriore prestazione del definitivo consenso contrattuale in quella forma, si è argomentato a torto dalla inscindibilità fra contenuto e forma in quanto costitutiva del negozio, senza riflettere che inscindibilità non significa identità»80, pertanto la tesi in esame continua a essere criticabile perché «non possiamo immaginare un contratto preliminare che abbia per oggetto la sola forma di un negozio
giuridico»81 e incontra, quindi, pur sempre «un ostacolo insormontabile nella
considerazione che in quest’altra ipotesi le parti si vincolano a stipulare il contratto
74 Così si esprime X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 240 esponendo la concezione in esame prima di sottoporla a critica.
75 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 116 ss., 127 ss.; sulla configurabilità di un preliminare cfr. anche, tra gli altri,
X. XXXXXXXX XX., sub voce Contratto preliminare, cit., 85 e 88; X. XXXXX, Sulla posteriore documentazione, cit., 201. Per più ampi riferimenti bibliografici cfr. X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 240 s., nt. 564.
76 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 118 s.. 77 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 120. 78 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 120. 79 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 121. 80 X. XXXXX, Teoria generale, cit., 289.
81 X. XXXXX, La documentazione del contenuto contrattuale, in Riv. di dir. comm., 1919, I, 432.
definitivo (e non soltanto a rivestirlo di una certa forma)»82 e a non essere sostenibile
«nel caso che il contratto non sia affatto sufficientemente determinato o che dal contenuto del patto debba escludersi un impegno sostanziale»83.
D’altronde, a tale ultimo proposito, lo stesso autore criticato osserva che «la convenzione sulla forma precisa il suo oggetto, quando il contratto a cui si riferisce è determinato in tutti gli elementi del suo contenuto; se qualche cosa è ancora in sospeso, bisogna dire che l’oggetto a cui si richiama l’obbligo di documentazione è ancora in fieri»84 ed è proprio con specifico riferimento alla formazione progressiva del consenso che si è di xxxxxxx00 riproposto86, in sostanza, di inquadrare il fenomeno del patto sulla forma sotto la figura del punto riservato a un ulteriore accordo, negandone la natura negoziale87.
Si è, infatti, notato che l’esigenza di chiarire quali dichiarazioni si debbano intendere come vincolanti può sorgere principalmente, oltre che con riferimento ai negozi idonei a incidere su un rapporto contrattuale già sorto, «laddove tra le parti siano state instaurate o stiano per instaurarsi delle trattative, soprattutto nel caso in cui esse
82 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 456.
83 X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit., 219; analogamente già, X. XXXXX, La documentazione, cit., a tal proposito affermava che «la natura contrattuale può essere riconosciuta all’accordo solo se esso sia parte di un vero e proprio contratto preliminare su contratti ben determinati», 432.
84 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 123. Come nota X. XXXXXX, sub voce Forme convenzionali, cit., 295, nt. 159, il Genovese distingue fra le diverse ipotesi secondo che il patto sia stretto durante le trattative oppure con autonomi contratti preparatori ovvero all’atto della stipula del contratto principale o ancora per mezzo di clausole di accordi preparatori o, infine, nello stesso negozio definitivo con riferimento ai successivi negozi (tanto unilaterali, come la disdetta o il recesso, quanto bilaterali, come i contratti modificativi) atti a incidere sul rapporto appena formato e circoscrive la qualificazione come contratto preliminare all’ipotesi in cui l’accordo sia completo. A tal proposito, tuttavia si è negato che «la clausola inserita in un contratto preliminare (generalmente di compravendita immobiliare), con la quale le parti si obbligano a concludere in una data forma (generalmente per atto pubblico) il contratto definitivo, rientri nell’àmbito dell’estensione concettuale del patto sulla forma (in funzione costitutiva): in quest’ultimo caso, infatti, le parti […] non si onerano di alcun impegno e, quindi, non assumono alcun obbligo; nel primo, invece, si resta nell’àmbito del normale sviluppo della sequenza preliminare-definitivo, con la sola particolarità (se di particolarità può parlarsi) che le parti si obbligano non solo a concludere quest’ultimo, ma, altresì, a farlo in una determinata forma», X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., nt. 81, 297 s..
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 255 ss., in particolare 292 ss..
86 Lo stesso autore afferma di «avvalorare l’intuizione, più volte richiamata, della dottrina meno recente» la quale
«riteneva che il patto sulla forma impedisse il raggiungimento dell’accordo contrattuale», X. XXXXXXXXXX, op. ult. cit., 258 e cita espressamente X. XXXXX, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, cit. 272; X. XXXXX, Teoria generale, cit., 287 e X. XXXXXXXXXX, Documento e negozio giuridico, cit., 219. Cfr. anche X. XXXXXXXXXX, Forma volontaria e forma della procura, nota a Xxxx. 8 febbraio 1974, n. 363 in Giur. it., 1975, I, secondo il quale «la previsione pattizia di una forma costitutiva […] pone […] un problema in ordine alla definitività o meno del consenso manifestato […] e, poiché i contraenti subordinano il perfezionarsi dell’accordo al rispetto della forma preventivamente stabilita, il contratto privo di tale forma […] deve considerarsi non concluso perché il consenso manifestato non è considerato dalle parti l’ultimo o definitivo», c. 1158 s..
87 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 294. L’affermazione della «natura non negoziale» del patto sulla forma è circoscritta dall’autore all’ipotesi in cui sia considerato «con riferimento alla funzione costitutiva che questa è destinata a svolgere», ibidem; cfr. anche, 301 ss., più specificamente sulla negazione del carattere negoziale conseguente alla qualificazione del patto come «riserva bilaterale di volontà relativa a tutte le dichiarazioni prive del vestimentum convenuto», 301 la quale, «se può essere considerata un atto di esercizio dell’autonomia privata, non è per questo un negozio giuridico», 302.
mettano capo alla c.d. formazione progressiva del contratto»88, poiché in tale ipotesi,
«realizzandosi l’accordo in pratica per gradi e punti successivi, non riesce agevole identificare la fase della proposta e l’altra successiva dell’accettazione; quali risultano del resto […] ad una schematizzazione formale, e come dire ideale, della formazione, che non trova sempre riscontro nella realtà pratica. Xxxxxx si intende da sè che, qualora non possa contarsi in linea immediata e sicura su siffatti elementi, l’ombra dell’incertezza venga a gravare sulla stessa conclusione del contratto, ed a farsi anche più fitta man mano che l’intesa si estende ai diversi punti del contenuto contrattuale»89.
Dopo aver negato che il patto sulla forma possa produrre un effetto, «per dir così, reale»90, rendendo invalido o privo di rilevanza giuridica il contratto informe, o anche solo un effetto obbligatorio91, si è dunque ritenuto di poter «arguire per esclusione»92 la natura non negoziale del patto sulla forma ed affermare che «allorché le parti convengono che il futuro contratto dovrà venire in essere in una determinata forma - in ciò consiste la funzione “costitutiva” di quest’ultima […] - esse stanno, in realtà, reciprocamente chiarendosi che non intendono vincolarsi senza quel vestimentum […].
È chiaro allora che, finché si appunta l’attenzione sulla funzione costitutiva che il vestimentum da esso richiesto deve svolgere, il c.d. patto sulla forma in null’altro può consistere che in una riserva bilaterale - ossia proveniente da entrambe le parti in trattativa - in ordine alla vincolatività delle intese (non importa se già raggiunte o ancóra da raggiungere) prive della forma prescelta»93.
Si è anche, implicitamente, negato che il principio di economia delle
dichiarazioni94 osterebbe all’accoglimento della tesi poiché «la conclusione qui
raggiunta consente […] di ritagliare un suo esclusivo campo d’azione alla forma volontaria nascente da una riserva di volontà - e, quindi, all’art. 1352 c.c. […] -, riconoscendole, dunque, una peculiare funzione pratica, distinta ed autonoma rispetto a quella assolta dalla clausola di cui al comma 4 dell’art. 1326 c.c.»95; infatti l’ultimo articolo citato si riferirebbe all’ipotesi in cui un soggetto «già deciso a concludere un
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 267.
89 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 82 s..
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 294.
91 Secondo X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., infatti, sia «l’obbligazione di adottare una determinata forma per la conclusione di un contratto futuro» sia «l’obbligazione di non far valere il contratto concluso informalmente (ancorché esso sia perfettamente valido)», sarebbero «inadeguate ad individuare ed esprimere la funzione costitutiva che la forma volontaria deve invece esplicare» oltre a essere «affatto inconfigurabili sul piano logico-sistematico» 295 e 296.
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 299.
00 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 292, cfr. anche 301 ss..
94 Argomento impiegato contro chi opina che il patto sulla forma produca l’effetto di privare il contratto informe del valore di fattispecie. Cfr. X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 107 s. e anche X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 238 che criticano espressamente la tesi dell’Allara.
95 X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 293.
contratto» abbia interesse a una determinata forma o modo di conclusione, mentre, invece, il primo si riferirebbe al caso in cui due soggetti «non ancóra senz’altro decisi a concludere un contratto, intendono semplicemente “discutere” un affare» senza correre il rischio di restare vincolati da dichiarazioni potenzialmente già impegnative, quale è una vera e propria proposta96.
Neppure tale concezione, definita curiosa97, è andata esente da critiche, dirette o indirette.
Si è affermato, anzitutto98, che «appare artificiosa e non rispondente alla realtà l’idea che con il patto sulla forma le parti intendano attribuire preventivamente carattere definitivo al solo consenso prestato in quella forma: con il patto le parti intendono semplicemente porre un requisito di forma per il loro futuro contratto, non invece stabilire un criterio di valutazione intorno alla definitività del consenso»99.
Si è anche rilevato che «l’assenza della forma pattuita di per sé non esclude affatto che le parti in quel momento intendano comunque emettere una dichiarazione definitiva» poiché «si tratterà di interpretare la volontà delle parti e […] a tal fine il patto […] andrà comunque valutato insieme agli altri elementi»100.
Concernendo specificamente il meccanismo di funzionamento del patto saranno esposte più avanti le censure mosse direttamente contro la premessa negativa del discorso con la quale l’autore esclude l’efficacia del patto tanto reale (secondo la qualificazione da egli stesso proposta) quanto obbligatoria e conclude per la natura di atto non negoziale di esercizio dell’autonomia privata.
Ma c’è anche chi ha posto il patto sulla forma addirittura al di fuori dell’autonomia privata.
Secondo una recente dottrina infatti «non può […] accogliersi la veduta che costruisce il formalismo volontario come esercizio di autonomia privata»101.
Quest’ultima tesi muove dall’assunto per cui «i privati non hanno la potestà di disegnare la fattispecie negoziale, ma soltanto di determinarne il contenuto (art. 1322, I
96 Cfr.X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 293 s.
97 Così X. XXXXX, La forma, cit., 717.
98 La critica è direttamente riferita alla formulazione di X. XXXXXXXXXX, Forma volontaria, cit., c. 1158 s. (per cui cfr.
sopra nt. 80, 16), ma può essere estesa anche alla ricostruzione da ultimo esposta.
99 G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 249.
100 G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 250.
101 X. XXXX, La rinascita del formalismo ed altri temi, in ID., Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico,
Milano, 1985, nt. 41, 23, ove la veduta sul formalismo convenzionale come esercizio di autonomia è attribuita espressamente ad X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 15 ss..
xxxxx, cod. civ.)»102 e spiega il formalismo convenzionale alla luce dell’affermazione che gli artt. 1326, co. 4 , e 1352 cod. civ. «delegano, a una parte o alle parti, il potere di costruire la fattispecie, e, così, di rendere forte una fattispecie debole mercé l’aggiunta del requisito di forma»103.
In tale prospettiva, dunque, le forme imposte dalla legge e le forme imposte dalla volontà delle parti sarebbero sullo stesso piano: «il legislatore delega alle parti il potere di composizione della fattispecie, così come egli stesso lo detiene ed esercita. Sarebbe singolare che la forma, voluta dal legislatore, fosse di rango diverso da quello della forma, stabilita dalle parti nell’esercizio del potere delegato. Il legislatore e le parti - l’uno, per un potere originario; le altre, per un potere delegato - descrivono la fattispecie, e decidono, di volta in volta, circa l’elemento della forma»104.
Le convezioni sulla forma sarebbero, quindi, atti di esercizio di una delega legislativa della cui natura (parrebbe) dovrebbero partecipare: «così come, infatti, il legislatore può inserire nella fattispecie il requisito della forma scritta, allo stesso modo può delegare altri a farlo; si tratta del medesimo potere, che il legislatore può esercitare direttamente ovvero per delega, senza che in ciò debba ravvisarsi una lesione dei principi»105.
La configurazione del patto sulla forma come atto delegato dal legislatore per questa via giunge, evidentemente, a una perfetta equiparazione tra formalismo legale e volontario.
Tuttavia «l’opinione appena riferita si pone in posizione totalmente alternativa rispetto ad una tradizione plurisecolare, pacificamente condivisa dall’unanime dottrina, non solo italiana»106.
Le obiezioni fondamentali che sono state proposte contro questa tesi si riferiscono alla base su cui poggia: il concetto, invero un poco oscuro, di delega legislativa.
Anzitutto, è opportuno dar risalto al fatto che un atto volto a disciplinare gli interessi particolari e concreti dei paciscenti costituirebbe esercizio del potere legislativo partecipando, dunque, della natura di legge, la quale (almeno ordinariamente, se non essenzialmente) introduce norme che producono nell’ordinamento giuridico effetti generali e astratti.
102 X. XXXX, La rinascita del formalismo ed altri temi, in ID., Idola libertatis, cit., nt. 41, 23.
103 X. XXXX, La rinascita del formalismo ed altri temi, in ID., Idola libertatis, cit., 23.
104 N. IRTI, Strutture forti e strutture deboli (Del falso principio di libertà delle forme), in ID., Idola libertatis, cit., 89
(anche in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, cit., 456 s.).
000 X. XXXXXXX, Xx forma dei negozi, cit., 308; la tesi dell’Irti, oltre che dal Venosta, è seguita anche da X. XXXXXXX,
Autonomia privata, formalismo volontario e nullità del contratto, in Contratti, 1996, 420.
000 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 44.
Inoltre, si è rilevato che107 la teoria è aporetica perché i possibili significati della nozione di esercizio privato della delega legislativa sono soltanto due: o l’atto di esercizio, consistente nell’elezione di forma, è svolgimento della funzione legislativa in senso proprio oppure la scelta della forma da parte dei privati riempie di contenuto le disposizioni di legge (artt. 1326, co. 4 e 1352 cod. civ.) le quali rinviano preventivamente ad essa per assumere concretamente un valore precettivo, perciò più che di legge di delega dovrebbe parlarsi di norma in bianco.
La prima ipotesi è in stridente contrasto con l’ordinamento della Repubblica italiana nel quale «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70 Cost.) e le eccezioni alla regola sono espressamente disciplinate dalla Costituzione (artt. 75-78, che prevedono il referendum abrogativo delle leggi, il decreto legislativo delegato, il decreto-legge e i decreti del Governo in caso di guerra, a cui «le leggi costituzionali che hanno approvato gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale ne hanno aggiunto un altro: il decreto di attuazione dello Statuto»108), né potrebbero essere ampliate dal legislatore ordinario stante il carattere rigido della gerarchia delle fonti.
4. Le opinioni dottrinali a proposito della funzione, in genere, dei patti sulla forma e delle conseguenze, in particolare, dell’inosservanza della forma convenuta.
107 Per le considerazioni che seguono cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 48 ss..
108 X. XXX - X. XXXXXXXXXXX, Diritto costituzionale5, Torino, 2004, 318.
109 Si prescinde ora dal modo e dalle forme dell’atto con cui ciò avviene.
Com’è ovvio, alla grande diversità di vedute intorno alla struttura delle convenzioni sulla forma di futuri negozi corrisponde una varietà altrettanto estesa di opinioni (in parte già esposte, per l’inestricabile nesso che le avvince a quelle sulla struttura) rispetto alla funzione dei patti in esame e, in particolare, circa le conseguenze prodotte dalla inosservanza della forma convenuta.
Quanto alla funzione in genere, il problema tradizionalmente è impostato domandandosi se la redazione scritta sia pattuita ad substantiam actus oppure ad probationem tantum: «la importanza della distinzione sta nel fatto che, nel secondo caso, il consenso manifestato anche non nella forma prescritta vale a costituire il negozio e si potrà quindi poi chiedere l’adempimento della forma, ma anche senz’altro l’esecuzione del contratto, mentre nel primo, come ben s’intende, senza il compimento della forma non si può contrarre alcun vincolo giuridico»110.
Si afferma generalmente in dottrina che la soluzione passa per l’indagine intorno alla concreta volontà delle parti, trattandosi di una mera quaestio voluntatis.
Si è, tuttavia, ribattuto che «questa dottrina non fa che evitare in tal modo la difficoltà della questione; e in verità se ci fossero elementi sufficienti per dedurre, in seguito all’indagine della volontà privata, che si è voluto attribuire l’uno piuttosto che l’altro significato all’adozione della forma, sarebbe superflua ed artificiosa una costruzione della dottrina. Questa ha il compito di costruire solo là dove non esiste l’edificio costruito dai privati e quando manca una decisa volontà in uno dei due sensi esaminati bisogna bene che la dottrina si decida per uno d’essi»111; né può dirsi che la dottrina prima e il legislatore poi si siano del tutto sottratti a tale compito tanto più che è difficile contestare che «normalmente le parti non pensano a dare uno od un altro significato al loro accordo; esse non si pongono il problema se la forma servirà loro per l’uno invece che per l’altro scopo»112.
Infatti, ben prima di nuovi (rispetto a C. 4.21.17) interventi legislativi sul punto (come l’art. 1352 cod. civ.), «l’intera tradizione dottrinale del diritto comune, a partir dai primi dottori bolognesi, appare diretta a interpretare in senso restrittivo la norma giustinianea, limitandone l’applicabilità ai soli casi in cui la scrittura sia stata espressamente voluta ad substantiam, ed ammettendo invece nel dubbio la presunzione opposta a quella sancita dal nostro legislatore»113; e tale era l’orientamento prevalente
110 X. XXXXXXXX, Forme volontarie, cit. 204. 111 X. XXXXX, La documentazione, cit., 432. 112 X. XXXXX, La documentazione, cit., 433.
113 X. XXXXXX, La documentazione dei negozi giuridici come forma convenzionale o volontaria nella dottrina del diritto comune, in Arch. Giur., CXXXII, 1945, 12, saggio già edito nel volume Studi giuridici dedicati dai discepoli alla memoria di Xxxx Xxxxx, in Temi em., 1943, 59 e ristampato in ragione della distruzione delle copie a causa di guerra, ora anche in ID., Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, a cura di X. Xxxxxx, II, Napoli, 1984, 977.
nella dottrina italiana sotto l’impero dei vecchi codici114 espressamente la materia.
che non disciplinavano
Certo, c’erano anche «autorevoli e importanti manifestazioni di dissenso»115 poiché c’era chi affermava che «nel diritto odierno codesta presunzione iuris non si può certamente statuire»116. C’era poi anche chi affermava che «per la via naturale e limpida dell’interpretazione della volontà delle parti si può giungere alla conclusione che le parti di regola adottano la forma come necessaria per l’esistenza giuridica dell’atto e solo nel caso in cui vi siano elementi concreti per riconoscere che la forma siasi voluta come mezzo di prova si possa deviare da quella presunzione»117. E non mancava nemmeno chi, sebbene riconoscesse che, de iure condito, la dottrina la considerava questione d’apprezzamento e la giurisprudenza inclinava verso una presunzione di forma ad probationem, auspicava, tuttavia, che «in una riforma della legge sarebbe più conforme alla volontà dei contraenti, alla sicurezza del diritto, il ritorno alla dottrina romanistica per cui l’accordo sulla forma si presumeva condizione per l’esistenza del contratto»118, interpretando dunque la costituzione 17 recepita in Cod. 4, 21 come se ponesse una presunzione di forma ad substantiam actus.
Leggendo la Relazione al codice del Ministro Guardasigilli il desiderio manifestato dall’ultimo autore citato parrebbe essere stato esaudito con la promulgazione del codice civile del 1942 poiché vi si afferma (invero in modo un po’ acritico, come se il diritto romano fosse «archetipo, scontato e univoco, della funzione costitutiva»119) che «nel dubbio si è considerato l’accordo come diretto a scopo costitutivo (art. 1352), contrariamente a buona parte della dottrina, ma riprendendo una conforme soluzione del diritto romano»120.
114 Per riferimenti bibliografici si rinvia a F. ADDIS, Contractus, cit. nt. 45, 27.
115 G. ASTUTI, La documentazione, cit., 6 (ora anche in ID., Tradizione romanistica, cit. 972).
116 C. F. XXXXX, Contributo alla dottrina della promessa bilaterale di contratto, in Giur. it., 1903, IV, c. 58; si precisa che l’autore aderisce a un’opinione affatto diversa da quella della dottrina del diritto intermedio giacché scrive che la «l. 17, C. de fide instr., […] sembra escludere altre interpretazione del patto della scrittura che quella della necessità di questa per la validità del contratto», pertanto la negazione dell’esistenza di una presunzione «nel diritto odierno» si riferisce espressamente alla presunzione della forma ad substantiam actus. In senso analogo circa l’interpretazione di C.
4.21.17 cfr. anche, tra gli altri, X. XXXXXX, Nuove osservazioni sulla promessa di vendita, in Foro it., 1903, I, secondo cui «Giustiniano […] faceva […] violenza alla volontà delle parti […] con l’introdurre la presunzione legale assoluta che la scrittura fosse stata pattuita ad solemnitatem actus, mentre le parti avrebbero dovuto esser libere, come lo erano sempre state, di richiederla ad probationem tantum», c. 799. Per ulteriori riferimenti bibliografici a proposito della negazione dell’esistenza di presunzioni nella dottrina italiana a cavaliere tra il XIX e il XX secolo si rinvia a F. ADDIS, Contractus, cit. nt. 44, 27. Cfr., anche, infra, cap. VI, § 3, 174 s. testo e nt. 699.
117 X. XXXXX, La documentazione, cit., 432 s..
118 C. VIVANTE, Le obbligazioni (contratti e prescrizione)5, IV, in Trattato di diritto commerciale, Milano, 1926, 75, con espresso riferimento nella nota 126 alla «legge 17 de fide instrumentorum Cod. IV, 16 [recte 21]»; prescindendo dalla valutazione de iure condendo, in realtà l’autore ha una posizione analoga al Gabba, citato alla nota precedente, poiché anch’egli interpreta C. 4.21.17 come se ponesse una presunzione di forma per la validità e la ritiene inapplicabile al diritto del suo tempo.
119 F. ADDIS, Contractus, cit., 28.
120 Rel. Min., n. 617.
Circa i patti sulla forma, dunque, il codice civile vigente, innovando rispetto al codice del 1865, detta una specifica disposizione all’art. 1352: «Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo».
Questo articolo e il co. 4 dell’art. 1326 cod. civ. risolvono in senso positivo una questione di principio che ebbe ragione di porsi sotto l’impero del codice previgente concernente l’ammissibilità o la legittimità della forma convenzionale del negozio.
«anzitutto inadeguato allo scopo, in quanto, introducendo quella presunzione solo per la ipotesi di convenzione scritta sulla forma, lascia aperta ed insoluta la questione, per tutti i casi in cui la redazione di un documento, o in generale l’adozione di una forma, sia stata predisposta o riservata oralmente, prima o contemporaneamente all’accordo sugli elementi essenziali del contratto; casi che probabilmente sono proprio i più delicati, per le ovvie difficoltà della determinazione dell’effettivo intento attraverso l’accertamento e l’interpretazione di semplici dichiarazioni verbali. L’ambito d’applicazione della norma appare inoltre ulteriormente limitato, se si consideri il tenore dell’ipotesi prevista, di accordo di adottare una determinata forma, per la futura conclusione di un contratto: formula, a mio vedere, poco felice ed equivoca, e mal corrispondente allo scopo che il legislatore si era prefisso. Poco felice, perché ove sia stato convenuto di adottare una forma per la conclusione d’un contratto, non mi sembra che possa esser luogo a dubbio sulla essenzialità di questa forma, voluta evidentemente e sicuramente ad substantiam, e non c’è bisogno di alcuna presunzione, la quale può essere desiderata solo quando siavi incertezza sull’intento, come nell’ipotesi in cui sia convenuto di `stendere il contratto in iscritto´, di `fare una scrittura´o `un atto notarile´, e non mai nel caso di convenzione di
`contrattare, o celebrare il contratto per iscritto´; equivoca, perché l’espresso riferimento
ad un contratto futuro parrebbe inoltre comportare a priori l’esclusione dell’applicabilità della norma a tutti quei casi nei quali appunto sia dubbio, o controverso, se già debba ritenersi o non perfetto il contratto, prima, o anche in difetto
121 Così X. XXXXX, La forma, cit., 718 con riferimento soprattutto a «la validità e l’effetto di una clausola non scritta; il valore preciso della presunzione, di cui la lettera non dice se sia relativa o assoluta». A tal proposito si osserva che la stessa natura di presunzione in senso tecnico è dubbia, poiché si è sostenuto che si tratti di una regola di interpretazione oggettiva: cfr. X. XXXXXXXX, Forme complementari, cit. per il quale «l’art. 1352 c.c. anche alla luce della Relazione Ministeriale (n. 617), pare fissare una regola di interpretazione oggettiva più che una presunzione legale», 207; cfr. anche, in modo più netto, X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 31 ss. a cui «sembra indubitabile», 33 che la funzione dell’articolo 1352 cod. civ. sia meramente interpretativa e non probatoria; ancora, cfr. X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit., 215 per cui «si tratta […] di una presunzione interpretativa; l’art. 1352 è da considerare, cioè come una norma interpretativa»; X. XXXXXXXXXX, Forma volontaria, cit., secondo il quale «è stato, in primo luogo, criticato il ricorso da parte del legislatore al mezzo tecnico della presunzione, e si è invece sostenuta, giustamente, la natura interpretativa della norma», c. 1156 s.; C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., per il quale «qui non si tratta tanto di una presunzione in senso proprio […], quanto piuttosto di una regola legale interpretativa», 297; in senso parzialmente diverso, cfr. X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 452 ss. secondo cui, in ogni caso, «l’espressione normativa `si presume´ appare un po’ impropria», 452.
della redazione del documento, cioè proprio a quelli che in pratica hanno fatto sorgere la esigenza di un criterio presuntivo»122.
Oltre a ciò, si è anche sostenuto che l’alternativa tra forma ad substantiam actus oppure ad probationem tantum è generica poiché, per un verso, la dottrina, pur argomentando a favore dell’una o dell’altra, «ben poca attenzione […] ha posto alla natura della prima, limitandosi a riconoscerne genericamente la validità, tanto che i quesiti che per essa vien fatto di porsi - come avvenga che la elezione di forma renda nullo il negozio futuro non formale che senza di quello sarebbe valido; se, oltre all’effetto di condizione per l’esistenza dei futuri negozi, abbia effetti obbligatori e quali
- si può ben affermare che non trovano nella letteratura giuridica risposta adeguata e soddisfacente»123; per altro verso, rispetto alla seconda, si è notato che le parti convenendo di redigere un negozio per iscritto astrattamente potrebbero intendere tanto di restringere i mezzi di prova ammissibili in giudizio, quanto, più semplicemente, di procurarsi una prova più agevole124, traducendosi in tal caso l’intento in un obbligo di costituire il mezzo di prova.
Ancor più in radice altri ha ritenuto che la stessa impostazione tradizionale del problema nei termini di un dilemma tra forma richiesta per la validità e forma imposta al fine della prova «è il risultato di un equivoco fuorviante»125 poiché si tratterebbe «di categorie che attengono al problema della previsione di una particolare forma come quid pluris necessario in alcuni negozi, non al problema della forma come modo di manifestarsi del contratto attraverso una figura sensibile»126 che sarebbe proprio delle forme volontarie.
Per quel che concerne poi, in particolare, le conseguenze dell’inosservanza della forma pattuita (supposto che sia ad substantiam actus), la diversità di opinioni in dottrina è, se possibile, ancora maggiore.
Ciò, peraltro, non desta alcuna meraviglia perché proprio con riferimento al contratto informe, poiché si rende necessario applicare una specifica disciplina normativa e individuare una determinata legittimazione attiva, si fanno palesi i problemi che riguardano i limiti dell’autonomia privata. Essi concernono, in particolare, il fondamento della libertà delle forme negoziali, il rapporto con la disciplina delle forme
122 X. XXXXXX, La documentazione, cit., 9 s. (ora anche in ID., Tradizione romanistica, cit. 974 s.).
123 X. XXXXXXXX, Forme volontarie, cit. 207.
124 Così X. XXXXX, La forma, cit., 719, cfr., supra, § 1, 5, nt. 14.
125 F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 111; cfr. anche op. ult. cit., 107 s. in cui, a proposito del termine “validità” impiegato nell’art. 1352 cod. civ., scrive «si deve […] notare che la terminologia usata nella formulazione letterale della norma è in nesso diretto con l’impostazione della questione delle forme convenzionali secondo uno schema omologo a quello utile a inquadrare le prescrizioni legali di forma (nell’ottica, cioè, dell’alternativa tra forma ad substantiam e ad probationem), la quale impostazione […] appare equivoca e fuorviante» (e in ID., La forma, cit., 921).
126 X. XX XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 96 (e ID., La forma, cit., 912).
imposte dalla legge127, l’esistenza di un potere di disposizione delle fattispecie giuridiche, di poteri sul procedimento di formazione del contratto e, in ispecie, del potere di porre requisiti formali e di creare nuove cause di nullità, tenuto anche conto della relatività del contratto (art. 1372 cod. civ.) e dei potenziali interessi dei terzi128.
Inoltre l’individuazione del vizio che inficia il contratto amorfo presuppone sul piano applicativo che si sia risolta negativamente la questione se le parti con la sua conclusione (o altrimenti) abbiano inteso porre nel nulla il precedente accordo di forma, ciò che, secondo quanto già esposto a proposito delle opinioni dottrinali sulla struttura dei patti, deve ritenersi ammissibile, trattandosi pur sempre di interessi disponibili. Ora, se questo problema preliminare si risolve facilmente laddove concluda il contratto successivo un procuratore privo del potere di risolvere il patto precedente, si complica non poco, invece, nelle ipotesi normali in cui paciscenti e contraenti coincidono, tanto più se si pensa alla possibilità che ciò avvenga tacitamente o per comportamenti concludenti.
Infatti se è comunemente ammesso che «diejenigen, die rechtsgeschäftlich eine Form bestimmen, sind dagegen ihrer Bestimmung nicht unterworfen, sondern sie bleiben gegenüber ihrer eigen Bestimmung souverän»129 è discussa invece la forma di esercizio di tale Souveränität; si dibatte insomma intorno al modo in cui le parti possono abbandonare130 la regola sulla forma che si sono date.
La soluzione del problema oscilla tra due opposti estremi: da una parte, l’attribuzione al contratto informe in quanto tale del valore di una (anche inconsapevole) abolizione; dall’altra, l’applicazione rigorosa del principio di simmetria delle forme.
Se la prima ipotesi priverebbe di significato qualunque convenzione sulla forma, confondendo «il nuovo accordo […] con l’inadempimento dell’obbligo preesistente»131, la seconda parrebbe disconoscere il fondamento del formalismo convenzionale, costringendo l’autonomia privata entro schemi troppo rigidi che potrebbero, peraltro, dar luogo ad abusi132.
Le soluzioni proposte dalla dottrina (e dalla giurisprudenza) si approssimano variamente all’uno o all’altro estremo, anche secondo la forma in cui si è stretto il patto,
127 Esplicitamente in tal senso cfr. X. XXXXXXXXXXX, Forma dei negozi, cit., 137.
128 Sui quali richiama l’attenzione, in particolare, X. XXXXXXXX XXXXXXXXXXX, Questioni irrisolte, cit., 241 s., quasi costituiscano «un banco di prova della scelta operata», 242.
129 W. FLUME, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, II, Das Rechtsgeschäft3, Berlin - Heidelberg - New York, 1979, 264.
130 Così X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 39 il quale precisa di adottare «volontariamente un termine molto generale per ricoprire tutte le ipotesi nelle quali le modalità costituite non assolvono, per qualsiasi motivo, la funzione loro attribuita», ibidem, nt. 61.
131 X. XXXXXXX, Documento e negozio, cit., 135.
132 In senso analogo cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 214.
considerato che la fattispecie dell’art. 1352 cod. civ. s’integra soltanto «se le parti hanno convenuto per iscritto» di redigere il futuro negozio in una data forma.
Si è, infatti, espressamente proposto di assumere la scrittura quale «fattore discriminante circa la tutela delle parti a fronte dell’eventuale revoca tacita del comando di forma nell’ipotesi che l’operazione negoziale definitiva assuma una veste diversa da quella precedentemente determinata»133, dovendosi distinguere «due diversi tipi di patti […] a seconda che sia o meno realizzata la forma scritta»134: da una parte, «i patti “forti” di forma (ossia redatti con una scrittura)»135 per i quali la «piena validità ed efficacia del contratto `difforme´ può trovare adeguato fondamento»136 nell’esecuzione volontaria «o in un negozio di revoca stipulata in forma scritta»137; dall’altra, «i patti “deboli” sulla forma (ossia non redatti con una scrittura)»138 con i quali «il singolo contraente si addossa il rischio della revoca tacita nel caso di conclusione difforme del contratto definitivo»139.
È stato anche osservato che se si consentisse di abrogare implicitamente il patto di forma ad substantiam concludendo un contratto amorfo, l’accertamento della volontà abolitrice avrebbe come conseguenza di «risottoporre ognuna delle parti all’alea delle prove meno qualificate (specialmente: della prova per testi), ch’esse avevano voluto allontanare da sé con la clausola. Pare giusto, perciò, ritenere che le parti, quando statuiscono che un futuro (eventuale) contratto avrà bisogno di una certa forma, intendono sottoporre alla stessa forma il patto abrogativo di questa statuizione»140.
Altri, tuttavia, ha obiettato che «facendo capo, qui, la ragione giustificatrice della solennità della forma del primo negozio alla libera valutazione degli interessati, è evidente che nella stipulazione del mutuo dissenso senza l’adozione di quelle stesse
133 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 340.
134 X. XXXXXX, op. loc. cit..
135 X. XXXXXX, op. loc. cit..
136 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 341.
137 X. XXXXXX, op. loc. cit..
138 X. XXXXXX, op. loc. cit..
139 X. XXXXXX, op. loc. cit..; in senso sostanzialmente conforme, cfr. X. XXXXX, Il contratto2, cit. per il quale nel caso di patto in forma scritta «è eccessiva la tesi che dà valore di comportamento concludente indicativo della volontà di revocare il patto (e quindi forza di sanare il contratto difforme) alla mera conclusione di quest’ultimo: la volontà di revocare il patto - in quanto contraria al contenuto di un documento anteriore - richiede in linea di principio prova documentale, e può essere provata per testimoni solo nei limiti dell’art. 2723; oppure la sanatoria può risultare da un comportamento concludente `forte´ quale l’esecuzione del contratto difforme», 238.
140 Così X. XXXXX, La forma, cit., 720.
forme trova espressione un giudizio dei soggetti, altrettanto libero ed insindacabile, circa la non ricorrenza di una particolare esigenza formale per il contrarius actus»141.
Anche chi intende «evitare gli aberranti risultati cui condurrebbe una rigorosa applicazione del principio di simmetria formale»142 può, però, ritenere «essenziale […] in ogni caso che conoscano il vincolo di forma da abolire»143, giudicando decisivo «il comportamento complessivo»144 delle parti «inquadrato nelle circostanze»145.
Ma sul punto, come si è premesso, non c’è concordia: infatti, si è anche sostenuto a chiare lettere che «come è praticamente difficile riscontrare codesta coscienza e volontà (comuni alle parti) di rimuovere l’accordo formale, altrettanto ci sembra non necessario; non si può immaginare che le parti non mirino a rimuovere l’accordo una volta che contrattano seriamente; nel semplice e puro fatto del loro contrattare è da riconoscere, quindi, l’abolizione del precedente accordo»146 intendendo, dunque, il patto sulla forma di un futuro negozio come un telum imbelle sine ictu, non potendo le parti
«ipotecare la loro volontà»147.
A proposito del requisito della consapevolezza si è affermato, nello stesso ordine di idee che misconosce la rilevanza procedimentale della convenzione sulla forma, che
«l’effetto revocatorio del nuovo contratto sul patto di documentazione non ha bisogno del requisito indicato, ma piuttosto esso deve considerarsi come uno dei suoi effetti, che si concreta nel distruggere la situazione giuridica precedente. E tale effetto segue perchè ora le parti contraenti stimano conveniente dare ai loro interessi un regolamento divergente e incompatibile con la precedente disciplina […]. Perciò credo giusta quell’opinione che dichiara prevalente la volontà comune, prossima nel tempo, a
141 X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, 332; si precisa che la premessa del discorso è riferita al mutuo dissenso del contratto concluso nel rispetto del vincolo di forma pattuito, ma l’autore prosegue affermando che la conclusione «giustifica altresì la soluzione dottrinale favorevole (tendenzialmente) alla validità del contratto che sia stato concluso consapevolmente senza l’osservanza della forma scritta precedentemente convenuta, dato che tale soluzione suppone risolta in senso affermativo, innanzi tutto, la questione della validità dello stesso mutuo dissenso implicito (non formale) del patto solenne (art. 1352) sulla forma», ibidem.
142 X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, cit., 331.
143 X. XXXXXXX FERRARA, La forma dei contratti ed i contratti sulle forme, in, Riv. notariato, 1948, 22; lo stesso autore citato nella nota precedente si riferisce, d’altronde, al contratto concluso «consapevolmente senza l’osservanza della forma scritta precedentemente convenuta», X. XXXXXXXX, Il mutuo dissenso, cit., 332.
144 X. XXXXXXX FERRARA, op. loc. cit..
145 X. XXXXXXX FERRARA, op. loc. cit..
146 X. XXXXX, La documentazione, cit., 435.
147 X. XXXXX, La documentazione, cit., 436.
discapito di quella remota»148. Pur muovendo da siffatta premessa, tuttavia, il rigore di una perfetta corrispondenza tra contratto amorfo e caducazione della convenzione sulla forma è attenuato se si ritiene che la reale volontà di concludere un negozio informe si desuma «non solo dall’esecuzione bilaterale, ma anche dall’adempimento di una sola prestazione, accettata senza riserve dalla controparte»149: considerando l’esecuzione del contratto come indice della volontà di dissolvere il vincolo di forma, infatti, s’intende soddisfare esigenze analoghe a quelle che inducono altri ad applicare il principio di simmetria formale o a richiedere, almeno, la consapevolezza nelle parti dell’abolizione del patto precedente.
In effetti si tratta pur sempre di individuare un criterio ragionevole per stabilire se debba prevalere l’affidamento intorno all’efficacia della convezione impositiva della regola procedurale oppure l’affidamento circa l’efficacia del contratto amorfo, tenuto conto, per un verso, del fatto che «uno degli scopi principali di quella convenzione è d’impedire che le parti cadano nell’obbligazione senza accorgersene, senza che la loro volontà d’assumerla sia pienamente matura e non mera intenzione, e tale scopo è così conforme agli interessi sociale che il diritto può bene assecondarlo»150; per altro verso del fatto che l’accordo sulla forma non si sottrae alla regola generale dell’esecuzione di buona fede (art. 1375 cod. civ.) di cui è espressione il divieto di venire contra factum proprium e che, pertanto, non pare meritevole di tutela chi, dopo aver generato un serio affidamento nella controparte riguardo alla vincolatività del negozio amorfo, pretenda di avvalersi, opportunisticamente, della convezione di forma151.
Supposto che le parti non abbiano inteso porre nel nulla il patto sulla forma, in via applicativa sorge poi, come si accennava152, il problema di individuare il regime del negozio informe che, implicandone altri di carattere fondamentale, è risolto variamente secondo la soluzione che a questi è data dai diversi interpreti.
Chi, muovendo dalla premessa di una radicale e irriducibile eterogeneità tra forme volontarie e forme legali153, nega che le parti abbiano il potere di disporre della configurazione delle fattispecie giuridiche e afferma che «soltanto la legge, e non certo
148 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 162. Si osserva che, sebbene a proposito dell’opinione del Mossa parli di
«erroneità […] manifesta» (X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 155), anche tale dottrina omette di considerare che, in ipotesi, la volontà prossima si riferisce ai soli interessi sostanziali, mentre la volontà remota a interessi puramente strumentali, alla fissazione di una regola procedurale che è (quantomeno) dubbio possa essere posta nel nulla da una manifestazione di volontà che non la tiene in conto. Per un’analoga censura, cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 212; critica apertamente il Genovese, applicando il principio di simmetria formale, anche X. XXXXX, Teoria generale, cit., 246, testo e nt. 11.
149 X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 163.
150 X. XXXXXXXX, Forme volontarie, cit. 213.
151 Cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 214 ss., con espresso riferimento ai Principles of European Contract Law.
152 Cfr. supra, 28.
153 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 169 ss. e 316 ss..
l’autonomia delle parti, può sancire la nullità (come l’annullabilità) del negozio contrastante alle sue statuizioni»154, conclude che il negozio privo della forma volontaria, in realtà, non si perfeziona e discorre di inesistenza di esso, sia pure, secondo quanto si chiarirà a breve, con accezioni diverse nei vari autori.
Il discorso che conduce all’inesistenza passa per un’interpretazione contraria alla lettera della disposizione dell’art. 1352 in cui espressamente «si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo»: infatti, si afferma a tal proposito che «il linguaggio adoperato dal legislatore in materia di invalidità e di inefficacia [..] non può certo dirsi rigoroso»155 e si cita ad esempio di «accezione generalissima»156 del termine e del suo carattere «estremamente generico»157 l’art. 1398 cod. civ., dove è opinione diffusa in dottrina che il riferimento alla validità deve declinarsi nel senso dell’efficacia, ma anche, sempre con riferimento all’efficacia, l’art. 1361 cod. civ. e con riferimento, invece, all’annullabilità (categoria d’altronde compresa nel concetto di invalidità insieme alla nullità) l’art. 2113 cod. civ.158.
Inoltre, chi nega l’applicabilità della categoria dell’invalidità in senso proprio, in particolare sotto la specie della nullità che è «il rimedio generalmente applicabile ai difetti strutturali del contratto»159, oltre al dato letterale, deve anche svalutare quello topografico, poiché l’art. 1352 cod. civ. è posto sotto la sezione IV “Della forma del contratto” (del capo II dedicato ai “Requisiti del contratto”, del titolo II del libro IV); anche questo dato, tuttavia, dovrebbe essere tenuto in non cale perché «è da ritenere […] che l’art. 1352 c.c. sia trapassato nella sezione IV […] del tutto inconsapevolmente
154 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 457, al quale sembra «un punto incontestabile», ibidem; in modo altrettanto netto poco prima l’autore afferma «che alla volontà delle parti non può certo, e non ci pare che questo si voglia, attribuirsi la forza di togliere rilevanza giuridica ad un atto che per legge lo possiede», ibidem. Cfr., in senso analogo, X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 68-164, pagine nella quali l’autore ritiene di dimostrare
«l’infondatezza dogmatico-sistematica delle opinioni volte a far gravitare il formalismo volontario nell’area d’incidenza dell’invalidità negoziale», 246; cfr, anche, X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit., 220 s., secondo cui «non di atto nullo si può parlare, non essendo esso in contrasto con alcun principio dell’ordinamento né essendo ad esso applicabile alcuno degli istituti propri della fattispecie dell’atto nullo», 220.
155 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 458; considerazioni analoghe, sia pure nella prospettiva
dell’inefficacia in senso stretto, in C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., il quale afferma che «la distinzione terminologica tra invalidità e inefficacia non è […] rigorosa nel linguaggio legislativo», 299. A riprova dell’imprecisione dei termini legislativi si cita anche l’art. 1234 cod. civ., in cui, a dispetto della rubrica, s’intende riferirsi a un’ipotesi di nullità: cfr. G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 251 e 256, testo e nt. 41.
156 F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 108 (e in ID., La forma, cit., 921). Si precisa che l’autore, pur muovendo dalla premessa che la scelta del termine “validità” sarebbe conseguenza dell’«equivoca e fuorviante» «impostazione della questione delle forme convenzionali secondo uno schema omologo a quello utile ad inquadrare le prescrizioni legali di forma» (ID., Accordi sulla forma, cit., 000-000 [x xx XX., La forma, cit., 921]) afferma che «questa peculiare
`invalidità´ assume l’aspetto di una irrilevanza convenzionale» e non di inesistenza «del negozio concluso in forma diversa da quella pattuita», ibidem.
157 G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 244. Si noti che l’autrice cita questi articoli per dimostrare
che non se ne possono trarre indici univoci a sostegno della tesi della nullità, ma non per affermare l’inesistenza del negozio privo della forma convenuta, inclinando piuttosto per un inquadramento di esso sotto la categoria dell’annullabilità.
158 G. CERDONIO CHIAROMONTE, loc. op. cit., cit..
159 Cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 200.
e per la mera forza inerziale esercitata dalla tradizione romanistica, così come filtrata dalla Pandettistica tedesca del secolo decimonono»160.
Viceversa, «una volta scartate come infondate le suggestioni interpretative indotte dall’ubicazione topografica e dalla lettera dell’art. 1352 c.c.»161, i sostenitori dell’inesistenza danno risalto al collegamento sistematico tra l’art. 1326 co. 4 e l’art. 1352 cod. civ., disposizioni che sarebbero affini perché entrambe inciderebbero sulla formazione dell’accordo162 e ne impedirebbero la conclusione in caso di inosservanza della forma liberamente scelta.
Nell’ambito della qualificazione del contratto informe come inesistente, peraltro, si deve distinguere chi lo intende come «giuridicamente inesistente»163 da chi lo intende come materialmente inesistente, concetto questo che farebbe «tutt’uno col mancato completamento del ciclo formativo del contratto»164.
Solo ai primi (ai quali potrebbero essere equiparati, sotto quest’aspetto, anche coloro che, muovendo da differenti premesse, discorrono di effetti privativi del valore di fattispecie prodotti dalla convenzione sulla forma165), potrebbe essere mossa l’obiezione che «la figura della inesistenza (se ha rilievo autonomo) appartiene al genus dell’invalidità ed è conseguenza ben più grave della nullità. Quindi si addiviene alla illogica conclusione per cui la forma volontaria riceverebbe un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello riservato al formalismo legale»166.
000 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., 153.
161 X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 169.
162 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 262 ss..
163 X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit., 220.
164 X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 339; per la distinzione tra inesistenza giuridica e materiale, cfr., in
particolare, 326 ss. Sull’inesistenza materiale cfr. anche X. XXXXXXXXXX, Forma volontaria, cit. secondo il quale «poiché i contraenti subordinano il perfezionarsi dell’accordo al rispetto della forma preventivamente stabilita, il contratto privo di tale forma […] deve considerarsi non concluso perché il consenso manifestato non è considerato dalle parti l’ultimo o definitivo» , c.1158 s..
165 Cfr. X. XXXXXX, La teoria generale2, cit., 37 e 181.
166 X. XXXXXXX, Brevi note sugli effetti della forma convenzionale, nota a Cass. civ. sez. lav., 06.05.1996, n. 4167, in Corr. giur., 1997, IV, 452. Analoga censura muovono X. XXXXXXXXXXX, Forma dei negozi, cit., rilevando che si giungerebbe «ad applicare una sanzione più grave di quella prevista per la forma legale», 146 e già X. XXXXXXXX, Il contratto in genere, I, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da X. Xxxx - X. Xxxxxxxx, Milano, 1968, il quale, riferendosi alla formulazione di X. XXXXXXXXX, Dei contratti, cit., 220 (per cui cfr. supra, 32, nt. 154 e, ivi, testo e nt.
163), ritiene ingiustificabile «l’evidente disarmonia per cui - mentre, dall’inosservanza della forma legale, prescritta inderogabilmente dalla legge, è certo che (art. 1418 comma 2 c.c.) deriva la nullità - dall’inosservanza della forma, stabilita per patto dalle parti, e sempre derogabile per accordo fra le stesse, discenderebbe un plus: cioè, l’inesistenza» 154 s.. Altri appunti in F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 104 ss. (e ID., La forma, cit., 917 ss.). In senso critico rispetto all’inesistenza giuridica (discorrendo l’autore di «inesistenza o se si vuole di inefficacia convenzionale», 459), cfr. anche X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., per il quale, «([…] a prescindere dubbi che tormentano la dottrina circa l’autonomia di quest’altra nozione) […] non può dubitarsi che il contratto possegga il minimo di requisiti per esistere (ed essere considerato tale sul piano della realtà sociale e giuridica)», 458 s..
Nonostante questo si è obiettato che anche «discorrere di mancato completamento della fattispecie […] non risolve concretamente il problema della legittimazione ad impugnare e della normativa da applicare»167.
In effetti autori che muovono dalla premessa di un «mancato perfezionamento del contratto secondo l’intesa delle parti»168 concludono per un regime in cui «il difetto di forma non potrà essere rilevato d’ufficio nè fatto valere da un terzo […]. Si intende poi , ed alla stessa stregua, che ciascuna delle parti possa rinunziare, o esplicitamente o per implicito […], ad eccepire la mancata realizzazione della volontà contrattuale»169, mentre altri ha rilevato che se si ritiene che l’ordinamento «attribuisca al patto gli effetti che si assumono voluti dalle parti, qualificando come non definitivo il consenso e quindi come non concluso il contratto mancante della forma pattuita […] allora si dovrà conseguentemente dedurre che la mancata conclusione del contratto è rilevabile d’ufficio, opponibile ai terzi (nonostante l’apparenza di un contratto perfetto) e non è sanabile»170.
A tal proposito si è anche osservato che la tendenza giurisprudenziale ad applicare nella materia delle forme convenzionali alcuni principi del regime della nullità, e in ispecie la rilevabilità d’ufficio, si concilia «con la tesi della irrilevanza del contratto
amorfo perché `non concluso´»171 poiché di solito si fonda «sul potere-dovere del
giudice di verificare ex officio la completezza dell’atto alla stregua della disciplina negoziale pattuita»172 il quale difetterebbe, appunto, dell’accordo, ovvero di un requisito essenziale secondo l’art. 1325 cod. civ..
Se, invece, si nega che col patto le parti possano sancire «la nullità (come l’annullabilità) del negozio contrastante alle sue statuizioni»173, ma si discorre di inesistenza convenzionale intendendosi che nonostante «il contratto possegga il minimo di requisiti per esistere»174 esso, «altrimenti esistente ed efficace, tale qui non diviene in
167 X. XXXXXXXXXXX, Forma dei negozi, cit., 147; la critica è riferita espressamente alla formulazione di X.
XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., secondo il quale, trattandosi di regole con cui le parti stesse disciplinano la propria attività negoziale, «si deve discutere […] del mancato perfezionamento del contratto secondo l’intesa delle parti; e prospettarsi semmai una ipotesi di inesistenza o se si vuole di inefficacia convenzionale», 459.
168 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 459.
169 X. XXXXXXXXXXXX, op. loc. cit..
170 G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 248.
171 F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., nt. 32, 102 (e in ID., La forma, cit., nt. 73, 916).
172 F. DI XXXXXXXX, Accordi sulla forma, cit., 102 (e in ID., La forma, cit., 916). L’autore probabilmente si riferisce a Xxxx. civ., sez. III, 09.02.1980, n. 909, in Foro it., 1980, 1, 503-506 e in Giust. civ. 1980, 1, 2236-2240 (da cui si cita) dove si legge che «il giudice ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’incompletezza dell’atto, giacché è ragionevole e coerente ritenere che la seria valutazione degli interessi privati risultante dalla scrittura contenente il patto sulla forma del negozio abbia prevalenza sul comportamento tenuto in giudizio da chi si astenga dall’eccepire il difetto della forma convenzionale», 2238.
173 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 457.
174 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 458 s..
forza e nei limiti di rilevanza di un precedente patto (intercorso tra gli stessi stipulanti)»175, il problema si dovrebbe spostare sul piano dell’inefficacia.
Né può dirsi che predicare l’inefficacia176 del contratto informe porti maggiori
lumi sulla disciplina applicabile, sia che la si intenda in senso lato, sia che la si accosti specificamente a quella conseguente al non avverarsi di un evento dedotto in condizione: il carattere generico della prima non consente di tracciare i confini del suo regime giuridico (giacché «tale `inefficacia´ può ben concepirsi come effetto indiretto e derivato della nullità del contratto: il contratto nullo è anche, e necessariamente, inefficace»177), la seconda, a tacer d’altro, è difficilmente concepibile perché postula una distinzione, che in questo caso farebbe difetto, tra il momento perfezionativo del contratto e il momento dell’accadimento a cui è subordinato il prodursi degli effetti ponendo anche dubbi sulla retroattività del suo operare e sull’opponibilità ai terzi178.
Oltre a ciò si è anche negato che «la rilevanza in ordine al contratto che le parti possono attribuire a determinati requisiti è la rilevanza propria della condizione: subordinare il contratto a un determinato requisito volontario significa appunto subordinarlo a un requisito di efficacia»179. Contro tale premessa della tesi dell’inefficacia si è osservato che talvolta l’ordinamento giuridico riconosce ai privati il potere di fissare regole idonee a determinare l’invalidità (e non l’inefficacia) degli atti da esse difformi: «il riferimento è agli artt. 23, 1137 e 2377 c.c. in cui la legge prevede l’annullabilità delle deliberazioni assembleari adottate in violazione, rispettivamente dell’atto costitutivo o dello statuto delle associazioni, del regolamento di condominio e dell’atto costitutivo delle società per azioni»180.
La tesi (minoritaria) dell’annullabilità181 trae un argomento, dunque, dall’analogia con le regole sul procedimento di formazione della volontà dei gruppi in vario modo organizzati. L’elemento di somiglianza consiste nel fatto che anche nel caso della
175 X. XXXXXXXXXXXX, Dei contratti in generale, cit., 459.
176 Cfr. X. XXXXXXXX, Le forme volontarie, cit., 194 s. che intende il concetto come indicativo della «mancata
produzione degli effetti giuridici voluti, in seguito alla mancata formazione di quella fattispecie che unicamente poteva produrli»; in senso differente parla di inefficacia C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., 298 s, il quale accosta, sotto l’aspetto funzionale, il patto sulla forma alla condizione.
177 X. XXXXXXXX, Il contratto in genere, cit. 155.
178 Cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 206; cfr., anche, X. XXXXXXXX CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 251 s., su cui x. xxxxx, § 0, 00, xxxxx x xx. 00.
179 C.M. XXXXXX, Diritto civile, III, Il contratto2, cit., 298 s.
180 G. CERDONIO CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 252.
181 Cfr. X. XXXXXXXX, Forme complementari, cit., 208 secondo cui «la inosservanza delle forme volontarie dovrebbe essere ritenuta causa di annullamento piuttosto che di nullità (neppure nella meno rigida regolamentazione, autorevolmente suggerita [X. XXXXXXXXXX, Forma degli atti (diritto privato), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, 1003], in difformità dal generale paradigma legislativo), poiché la relativa azione spetta soltanto al pascente interessato, che vi può espressamente o tacitamente rinunziare, eseguendo il contratto pur viziato nella forma», 208; e anche X. XXXXXXXX CHIAROMONTE, Questioni irrisolte, cit., 252 ss., la quale riconosce che la tesi in questione «è rimasta pressoché isolata», 252.
convenzione che regola la forma di un futuro contratto i privati pongono a sé stessi regole sul procedimento di formazione e manifestazione della volontà (nonostante non sussista in tal caso la medesima necessità logica, trattandosi di persone fisiche e non di altri soggetti di diritto).
Oltre a quest’argomento analogico si è anche osservato che le forme convenzionali sono volute dalle parti per soddisfare interessi particolari, a differenza delle forme legali le quali sono imposte per motivi di interesse pubblico e pertanto sarebbe conforme alla diversa natura degli interessi perseguiti l’applicazione di distinti regimi giuridici: l’annullabilità, appunto, per l’inosservanza delle prime (con la conseguente efficacia provvisoria, impugnabilità ad istanza di parte, costitutività della sentenza giudiziale, convalidabilità e limitata opponibilità ai terzi, giusta quando
dispone l’art. 1445 cod. civ.) la nullità per la violazione delle seconde182 (con la
conseguente inefficacia fin dall’origine, rilevabilità d’ufficio, insanabilità e opponibilità ai terzi).
Si è, tuttavia, notato che «ha un valore puramente statistico, e non già costruttivo, affermare che l’annullamento è figura d’invalidità vòlta a proteggere interessi privati» 183 poiché «è la discrezionalità del legislatore - orientata dai mutevoli e transeunti indirizzi di politica legislativa -, e non già la presunta qualità ontologica degli interessi presi in considerazione, a determinare la nullità o, piuttosto, l’annullabilità del negozio»184.
182 Così X. XXXXXXXX, Forme complementari, cit., 208; similmente X. XXXXXXXX CHIAROMONTE, Questioni irrisolte,
cit., 257.
183 X. XXXXXXXXXX, Forme volontarie, cit., 130 s..
000 X. XXXXXXXXXX, Xxxxx volontarie, cit., nt. 129, 130.
D’altronde, xxxxxxx si può sostenere che seguire la «spontanea tesi della nullità»185 del contratto amorfo risolva di per sé i problemi che concernono il regime del negozio viziato; dietro il comune nome di “nullità” si celano sostenitori di tesi diverse in particolare per ciò che riguarda la legittimazione attiva, la rilevabilità d’ufficio e la possibilità di sanatoria.
Quanto a quest’ultimo punto, a fronte di quelli a cui «la tesi della nullità assoluta pare eccessiva», mentre sembra «più ragionevole quella di una nullità relativa, e sanabile»186, stanno quelli che si domandando «perché si dovrebbe riconoscere alle parti il potere di confermare un negozio viziato per difetto di un elemento che quelle stesse parti hanno aggiunto e che le medesime possono in qualsiasi momento rimuovere. Che revochino il patto se ritengono che il requisito di forma non sia più conforme ai loro interessi»187.
Per quel che concerne il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità e la legittimazione attiva in capo ai terzi (art. 1421 cod. civ.) c’è chi, dopo aver negato che la stipulazione del negozio informe possa «essere interpretata, sempre ed astrattamente, come implicita volontà di scioglimento del vincolo di forma che gravava sulle parti» 188 e posto il problema dell’individuazione del vizio del contratto amorfo, aderisce all’orientamento giurisprudenziale che «identifica il vizio e ritiene che il contratto è
185 X. XXXXXXXX, Il contratto in genere, cit. 155. Propende per la qualificazione in termine di nullità la dottrina maggioritaria, pur divergendo circa taluni punti del concreto regime applicabile. Oltre al Messineo, cfr., tra gli altri, X. XXXXXXX FERRARA, La forma dei contratti, cit., il quale discorre di «nullità dei negozi o degli atti compiuti poi con forma diversa», 20; X. XXXXX, Teoria generale, cit., 471 che annovera il caso della inosservanza delle forme pattuite ad substantiam actus tra quelli di nullità relativa, come anche X. XXXXX, Il contratto2, cit., 238 che definisce la tesi della nullità relativa e sanabile «più ragionevole» di quella della nullità assoluta; X. XXXXX, Sulla rilevabilità d’ufficio del difetto di forma convenzionale, nota a Cass. civ., sez. III, 09.02.1980, n. 909, in Giust. civ., 1980, I, 2241 s., che la ritiene soluzione idonea «a contemperare esigenze diverse», 2241; A.M. XXXXXXXXX, Autonomia privata procedimentale, cit., 348 che a “relativa” aggiunge l’aggettivo “procedimentale”; in senso sostanzialmente analogo a questi ultimi autori si pronuncia X. XXXXXXXXXX, Forma degli atti, cit., secondo il quale si tratta «di una `invalidità´ del negozio, la quale tuttavia non appartiene al tipo di `nullità´ disegnato dal legislatore, in quanto essa può essere fatta valere solo dalla parte interessata, la quale perciò può rinunziarvi, come può dare esecuzione al contratto», 1003 (a cui parrebbe aderire, nella manualistica, X. XXXXXXX, Manuale17, cit., 935); è favorevole all’applicazione del regime ordinario della nullità X. XXXXXXX, Autonomia privata, cit. 418 ss., in particolare 419 circa la rilevabilità d’ufficio e 420
s. circa la legittimazione attiva in capo ai terzi interessati; X. XXXXX, La forma, cit., 720, il quale, però, precisa che «una dottrina suggerisce di non consentire il rilevamento d’ufficio del vizio, e di permettere alle parti la convalida ex post dell’atto informale» [riferendosi espressamente nella nt. 17 ad X. XXXXXXX, voce Forma degli atti (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, Roma, aggiornamento XVI, 2007 secondo il quale «la mancata conclusione del contratto potrà essere sempre eccepita (soltanto) da ciascun contraente, che sarà libero, peraltro e invece, di rinunciarvi espressamente o implicitamente (dando esecuzione all’accordo pur nella consapevolezza del suo vizio di forma)», § 5, 7 e a X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 288 (recte 289, giacché nella pagina citata si legge soltanto che «la legittimazione a far valere il vizio di forma non è ristretta alle sole parti contraenti»), per il quale «ad una estensione, oltre le parti, della legittimazione non corrisponde la rilevabilità d’ufficio del vizio da parte del giudice»]; aderisce alla «tesi rigorosa di SACCO» anche M. DI XXXXX, La forma del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 1991, II, 181; F. VENOSTA, La forma dei negozi, cit., 310, al quale «sembra doversi riconoscere che tale negozio è nullo, visto che la nullità è il predicato tipico della fattispecie negoziale difettosa»; X. XXXXXXX, Brevi note, cit. per cui «l’opinione che qui si ritiene di dovere sostenere è che coerenza logica e giuridica impongono che il trattamento riservato al contratto concluso in forma diversa da quella voluta sia il medesimo previsto dalla legge per la mancanza di uno degli elementi essenziali della fattispecie: la nullità», 451.
186 X. XXXXX, Il contratto2, cit., 238.
187 X. XXXXXXX, Brevi note, cit., 452.
188 X. XXXXXXX, Autonomia privata, cit. 418.
nullo»189 traendone la conseguenza della «rilevabilità d’ufficio del vizio»190 e
concludendo che «il riconoscimento al terzo della legittimazione a far valere la mancanza della forma volontaria non scalfisce l’autonomia privata, ed invece, in piena conformità con la ragione sottesa alla regola di cui all’art. 1421 cod. civ., impedisce all’autonomia privata di creare indici contrastanti con la certezza dei rapporti giuridici»191; altri, invece, pur ammettendo che sia assolutamente prevalente in dottrina la tesi che nega ai terzi la legittimazione attiva e al giudice il potere di rilevare la nullità d’ufficio, ritiene che le due questioni debbano essere tenute distinte e, mentre afferma
«sulla carenza di legittimazione dei terzi» avanza «forti perplessità»193.
Quando si tratta di tracciare i precisi confini del regime giuridico dell’atto viziato tale è la varietà di opinioni anche solo tra quanti predicano la nullità del contratto amorfo che non è mancato chi ha ritenuto che «la disposizione dell’art. 1352 cod. civ., al lume dell’interno sistema, consente un riferimento immediato alla figura dell’`invalidità convenzionale´, avente come fonte diretta l’ordinamento dei privati» 194 precisando che «nell’ottica degli ordinamenti dei privati è sufficiente discorrere di
`invalidità´ - come concetto opposto a quello di `validità´ - dell’atto senza che abbiano alcun fondamento le figure specifiche di inesistenza, nullità, annullabilità. Non avrebbe alcun senso duplicare le figure d’invalidità disciplinate dalla legge e trasportare all’interno dell’ordine dei privati»195.
È evidente che da quest’ultima opinione dottrinale non è possibile trarre in via immediata il regime giuridico applicabile al negozio informe poiché chi la sostiene, in sostanza, considera il vizio atipico; pur non potendo risolvere il problema per mezzo della corrispondenza a una ben precisa disciplina normativa (ciò che, peraltro, non riesce neppure ai sostenitori delle altre tesi), tuttavia, essa ha il pregio di indicare un metodo196 chiarendo che «il problema va risolto mediante il criterio della compatibilità
alla particolarità degli interessi disposti perché disponibili dalle parti»197 dovendosi
189 X. XXXXXXX, op. loc. cit..
190 X. XXXXXXX, op. loc. cit..
191 X. XXXXXXX, Autonomia privata, cit. 421.
192 F. VENOSTA, La forma dei negozi, cit., 311 s..
000 X. XXXXXXX, Xx forma dei negozi, cit., 312; l’autore muove dal presupposto che non sia vero (contrariamente a quanto ritengono coloro che negano la legittimazione ai terzi) che il contratto sia «invalido solo fra le parti, e valido invece nei riguardi dei terzi», ibidem.
194 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 286.
195 X. XXXXXX, Forme “extralegali”, cit., 288.
196 Cfr. X. XXXXXXXXX, Art. 1352 – Forme convenzionali, cit., 206.
197 X. XXXXXXXXXXX, Forma dei negozi, cit., 147.
ricondurre «la ricerca di ogni specifica soluzione al criterio meglio rispondente alla tutela degli interessi particolari dei contraenti. Si acquisisce così una ulteriore, preziosa, conferma della irriducibilità del dibattito intorno alla forma degli atti ad ogni suggestiva, ma fuorviante, generalizzazione»198.
5. Dalla varietà delle opinioni odierne alle origini del problema.
Finora si è esposto per sommi capi il variegato panorama dottrinale che, al presente, riguarda le convenzioni intorno alla forma di futuri negozi giuridici.
Si tratta di tentativi (talvolta arditi) di concettualizzare una realtà che s’impone all’interprete anzitutto nel mondo dell’esperienza, della quale le diverse teorie spesso privilegiano un aspetto rispetto a un altro.
Una delle idee comuni che regge, a volte in modo implicito, altre volte espressamente, la gran parte delle varie opinioni che in sintesi si sono sopra presentate è quella di una Souveränität dei privati i quali limitano sé stessi nell’esercizio della loro autonomia.
Mi pare si sottragga all’unificazione sotto questo elemento soltanto la tesi (assai difficilmente sostenibile con riferimento al diritto vigente) che discorre di esercizio di delega legislativa da parte dei soggetti privati199.
Quest’impressione mi ha indotto a interrogarmi sulla misura in cui le odierne vedute dottrinali siano conformi all’impostazione originaria del problema.
198 X. XXXXXXX, voce Forma degli atti, cit., § 5, 8.
199 Cfr. supra, § 3, 21 ss..
200 F. ADDIS, Contractus, cit. 12.
La legge 17 posta dai compilatori del Codex sotto il titolo 21 del libro 4 è tra le più disputate dell’intero Corpus iuris civilis.
Pur potendosi indicare come l’origine del problema delle forme convenzionali, essa, tuttavia, ha attirato l’attenzione degli studiosi del diritto romano in quanto
«relativa alla confezione degli strumenti di alienazione»201.
Xxxx, essa è stata considerata soprattutto come riferita alla vendita al punto che
alcuni studiosi202 hanno pensato che fossero conseguenza di interpolazioni dei
compilatori del Codex i riferimenti ai contratti diversi dalla vendita (i quali, comunque, anche da quanti hanno negato una così ampia interpolazione, sono stati ritenuti accomunati alla vendita in ragione della loro prossima o remota ordinazione al trasferimento dei diritti203) giacché «Justinian mit seiner Xxxxxxxxxxxx von 528 ausschliesslich eine Regelung für den Kauf, und zwar den Kauf `cum scriptura´ gegeben hat»204.
Ancora più specificamente si è affermato che «non v’è dubbio, né ci sembra possa venir seriamente contestato, che la venditio in scriptis disciplinata in C. 4, 21, 17 è una vendita con effetti traslativi»205, poiché si tratta del «contratto greco, che ha esclusivi effetti reali, cioè ha per causa il trasferimento della proprietà del venditore al compratore, contro il pagamento del prezzo»206.
Si rende, dunque, necessario, prima di compiere l’esegesi della legge 17, inquadrarla entro gli sviluppi del contratto di vendita nel corso del tardo Impero. Gli studi monografici sull’argomento sono poco numerosi e, spesso, di vecchia data. Tutti, però, sono concordi nel rilevare un fatto: l’affievolirsi della netta distinzione, tipica dell’età classica, fra il contratto di vendita, produttivo di sole obbligazioni, e gli atti volti a determinare il trapasso della proprietà. Secondo l’opinione della maggior parte degli autori che si sono occupati attivamente della compravendita tardoantica, nel basso Impero la separazione risoluta del contratto dai negozi traslativi si fa impercettibile fino a sparire.
201 X. XXXXXXXXX, `Traditio ficta´, in ZSS, XXXIII, 1912, 296.
202 Mi riferisco, in particolare, a X. XXXXXXXXXX, Zu dem Titel C. 8, 36, de litigiosis und einigen anderen Gesetzen Justinians, in ZSS, LIII, 1933, 420 e X. XXXXXXXX, Die funktion der `arrha´ bei Xxxxxxxxx, in Labeo, Milano, V, 1959, 52 ss., 66.
203 Così X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita in diritto romano2, Napoli, 1954, secondo cui il testo della costituzione
«non riguarda soltanto la vendita, ma anche la permuta, la donazione, la transazione, evidentemente unite insieme in quanto mirano, almeno in ultima analisi, al trasferimento di beni», 98.
204 X. XXXXXXXX, Die funktion, cit., 55.
205 X. XXXXXXXXX, sub voce Vendita (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto, Milano, XLVI/1993, 469.
206 X. XXXXXXXXX, L’arra della compravendita in diritto greco e in diritto romano, Milano, 1953, 82 e, similmente, in contrapposizione però al significato del termine in Inst. 3, 23 pr., «nella C. 4, 21, 17 la emptio-venditio è la compravendita greca, ossia il sinallagma con effetti reali tra prezzo e cosa», 84.
Le indagini dei non molti studiosi che hanno affrontato il problema della sorte dell’emptio et venditio nell’epoca postclassica costituiscono il punto di partenza di questa ricerca con la quale ho inteso passare al vaglio i risultati raggiunti dalla dottrina in questo campo per capire se siano ancora oggi degni di fede oppure debbano essere forse stemperati per renderli perfettamente consonanti ai dati delle fonti e, soprattutto, se siano pertinenti al problema affrontato da Giustiniano nel 528 d.C. con C. 4, 21, 17.
CAPITOLO SECONDO
LA COMPRAVENDITA COME FATTO ECONOMICO E LE POSSIBILI FORMALIZZAZIONI GIURIDICHE.
SOMMARIO: 1. LA COMPRAVENDITA COME FATTO ECONOMICO NEL COMUNE SENTIMENTO GIURIDICO. – 2. LA TESTIMONIANZA DEL DIRITTO COMPARATO: L’ANTICA ESPERIENZA GIURIDICA GRECA. – 3. I TRATTI ESSENZIALI DELL’`EMPTIO ET VENDITIO´ ROMANA DI EPOCA CLASSICA. – 4. LE APPARENTI DIVERGENZE NELLA PRASSI.
1. La compravendita come fatto economico nel comune sentimento giuridico.
Il sostantivo compravendita designa nell’uso comune piuttosto un fatto economico che un atto (o negozio) giuridico. Dal punto di vista economico, la compravendita è uno dei principali mezzi attraverso i quali si attua lo scambio. Lo scambio può concernere beni o servizi: la compravendita si riferisce solo allo scambio di beni e, in particolare, allo scambio tra la definitiva disponibilità di una cosa e il suo valore espresso in denaro. Essenziale della compravendita è, pertanto, il fine dello scambio che scaturisce di necessità dalla sua stessa natura e la rende il più importante dei contratti e anche il più frequente nella vita pratica. Non altrettanto necessitati sono i mezzi ordinati al conseguimento di quel fine, i quali, invece, possono essere (e di fatto furono e sono) diversi secondo i tempi e i luoghi. Come osserva acutamente l’Arangio-Ruiz: «quel fatto economico può essere realizzato nei modi giuridici più svariati, ora riducendosi nella sfera degli atti di trasferimento delle cose (in proprietà od in possesso), ora contemperando tale struttura con l’intervento – in funzione accessoria – di questo o quel contratto obbligatorio, ora distaccando nettamente una prima fase contrattuale da un’altra di esecuzione del contratto, ora frammischiando variamente le due fasi; mentre il contratto stesso, nei limiti entro i quali può per sua natura contribuire a realizzare i fini economici delle parti, può avere carattere consensuale ma all’occasione anche reale,
o solenne, e può essere sufficiente a dar vita a tutte le obbligazioni che le parti vogliono far nascere ma può anche esigere l’intervento complementare di altri contratti»207.
Dinanzi alla ricchezza e alla complessità del sostrato economico che s’intende disciplinare diverse sono le formalizzazioni giuridiche e vari gli atteggiamenti possibili. Rispetto al mandato, che è tutto un impegno per l’avvenire, o alla locazione conduzione e alla società, che sono contratti di durata, la compravendita si presenta essenzialmente differente, perché la mera obbligatorietà è solo uno degli assetti giuridici che possono convenire al fine economico perseguito. Riservare alla fase dell’accordo, economicamente preparatoria, o alla fase del trasferimento, in cui il risultato economico è raggiunto, il nome di compravendita è, pertanto, rimesso all’arbitrio del legislatore e della giurisprudenza; è, insomma, nulla più che «un atto d’impero»208.
Dato bando alla dogmatica e volta l’attenzione all’esperienza, si troverà una più solida base su cui poggiare le considerazioni sin qui svolte. Il comune sentimento giuridico, il diritto comparato e la storia del diritto offrono esempi copiosi del proteiforme significato della parola compravendita.
Poiché la maggior parte degli scambi avviene attraverso due tradizioni simultanee209, è del tutto naturale che all’occhio del profano il comprare e il vendere coincidano con l’effettivo scambio di cosa contro denaro. È altresì ovvio che lo scambio presupponga sempre una precedente fase in cui le parti si siano accordate sulla cosa e sul prezzo, ma, nonostante l’imperio del principio del consenso traslativo, anche adesso l’efficacia dell’accordo non è univoca e in certi casi sarebbe affatto irrealistico sussumere l’accordo in questione sotto l’art. 1376 c.c.210. Il gioielliere offre la sua merce al pubblico: se un potenziale acquirente, entrato in gioielleria, mostra interesse verso un determinato monile e, conosciutone il prezzo, fa esplicita dichiarazione di volerlo comprare, ma poi, approfittando di un momento di distrazione del venditore (d’altronde l’opinione comune avverte chiaramente il pericolo che sorge dall’occasione), afferra il prezioso oggetto e fugge a gambe levate, costui, nel comune sentimento giuridico, è un ladro. Sarebbe una finzione giuridica ritenerlo colpevole soltanto dell’inadempimento dell’obbligazione di versare il prezzo essendo divenuto proprietario «per effetto del
000 X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita2, cit., 1.
208 Così X. XXXXXXX-XXXX La compravendita2, cit., 2 e 85.
209 La grande e crescente diffusione delle vendite via internet, sebbene possa inficiare molto presto la verità
dell’asserzione, potrebbe, ciononostante, rafforzare la comune convinzione che il momento perfezionatore della vendita sia il pagamento del prezzo, perché nella struttura più frequente di esse l’accettazione coincide con la compilazione di un cosiddetto form in cui si indicano, fra gli altri dati, i numeri della carta di credito o di un codice relativo ad altri strumenti di pagamento.
210 Sul principio del consenso traslativo e sul problema della sua derogabilità cfr., inter alios, G. B. PORTALE, Principio consensualistico e conferimento di beni in società, in Riv. Soc., Milano, XV/1970, 913 ss.; X. XXXXXXX, Principio consensualistico e Abstraktionprinzip: un’indagine comparativa, in Contratto e impresa, Padova, 1992, I, 889 ss.; C.
M. XXXXXX, Il principio del consenso traslativo, in Diritto privato, I, Il trasferimento in proprietà, Padova, 1995, 5 ss.;
X. XXXXXXXXX, Il contratto con effetti reali fra procedimento e fattispecie complessa: prime osservazioni, ibidem, 83 ss.;
X. XXXXXXXX, Appunti sui negozi traslativi atipici, Milano, 2007, 7 ss. Tutti tendenzialmente favorevoli alla derogabilità della regola consensualistica.
consenso delle parti legittimamente manifestato». Il principio del consenso traslativo, in un caso come questo, mal si adatta alla percezione sociale211 e la sua applicazione al caso di specie negligerebbe interamente il senso comune che in tale ipotesi, sia pure in forma irriflessa e spontanea, riconosce senza ombra di dubbio una condotta tanto grave da trascendere la mera illiceità civile212. A ogni modo, anche prescindendo dal problema specifico del prodursi o no di effetti reali in ragione della sola manifestazione del consenso, vi sono numerosi casi in cui è assai dubbio che all’accordo delle parti possa ricondursi un qualche effetto giuridico in genere. Xxxxx, ancora una volta, riportare le chiare parole dell’Arangio-Ruiz: «dove si presuppone che la vendita debba farsi a contanti, se pure preceda una fase di trattative conclusa con un accordo, rimane tuttavia nel sentimento comune la persuasione che, entro il breve periodo occorrente per l’esecuzione, ci si possa disdire quanto si voglia. Molte volte ci accade (come tutti sanno, accade di preferenza alle signore) di fermarci a lungo in una bottega o magazzino, sia per scegliere accuratamente la merce che ci convenga acquistare sia per discuterne il prezzo; e un momento viene in cui sembra finalmente stabilito che prenderemo la tal merce al tal prezzo. Sennonché, di veramente stabilito c’è, sempre per comune sentimento, soltanto questo, che sulla convenienza di quel prezzo a quella merce non sia più ammessa la discussione. Ma se, prima che la merce sia ritirata e sborsato il denaro, ci accada di preferire altro oggetto o di rinunciare ad ogni acquisto, il negoziante protesterà sì contro la nostra inconseguenza, imprecherà (se questo è il costume locale) contro chi gli fa perdere il tempo, ma non pretenderà che la merce sia presa e il prezzo pagato. Xxxxx sarà il suo atteggiamento se, dopo aver pagato e ritirato la merce, gli chiediamo di riprenderla, sia pure per l’ottima ragione che nel negozio vicino l’abbiamo vista esposta a prezzo molto inferiore: allora, specie in certi ambienti popolari ove la verità sale facilmente a fior di pelle, sarà anche capace di dirci che se ci
211 Potrebbe corrispondere meno imperfettamente alla percezione sociale dei fatti (ma l’approfondimento della
questione non rientra nel fine della ricerca) un’interpretazione che riconosca un uso negoziale per cui le vendite effettuate nei pubblici esercizi si debbano intendere concluse a contanti o, per lo meno, un’interpretazione che riconosca un uso negoziale per cui il prodursi dell’effetto traslativo in vendite siffatte sia posto sotto la condizione sospensiva del pagamento del prezzo. Il fondamento normativo dell’ipotesi, identico nei due casi, riposerebbe sugli articoli 1322 e 1340 del codice civile: per il primo le parti possono «concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare», mentre per il secondo s’intendono inserite nel negozio le cosiddette clausole d’uso, se non risulti una diversa volontà la quale però, secondo l’opinione dominante (per cui cfr. X. XXXXXXX, Manuale17, cit., 921; X. XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto civile6, Napoli, 2007, 476; X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto civile44, Padova, 2009, 201, nt. 1; X. XXXXXXXX, sub voce Usi negoziali e interpretativi (dir. priv.), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, XXXVII/1994 con ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza), non può essere espressa da una norma meramente dispositiva come quella contenuta (secondo la dottrina maggioritaria, per cui cfr. supra, 43, nt. 210) nell’art. 1376 c.c. a causa dell’asserita natura negoziale delle clausole in esame. La seconda forma dell’ipotesi implica complessi problemi di dogmatica giuridica riguardo alla possibilità che un avvenimento futuro e incerto, ma attinente alla realizzazione del negozio, costituisca oggetto di una condizione (in senso negativo si pronunciava la dottrina meno recente per cui cfr. X. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli, 2002).
212 Sull’importanza della percezione della coscienza sociale soprattutto ai fini penali, cfr. X. XXXXXXXX, L’altruità della cosa nei delitti contro il patrimonio, in Riv. it. diritto e procedura penale, VIII/1965, 699, ora in Il diritto penale fra norma e società: scritti 1956-2008, IV, Milano, 2009, 365 s.; si precisa che l’autore, pur riconoscendo che la coscienza sociale «deve essere tenuta sempre nella dovuta considerazione nelle trattazioni giuridiche e soprattutto in quelle penalistiche», ammette che essa non abbia, dato il suo carattere pregiuridico e spesso grossolano, forza tale da dirimere la questione, la cui soluzione va ricercata nell’autonomia delle nozioni penalistiche.
siamo lasciati corbellare ben ci sta»213. In conclusione la compravendita nel senso socialmente più diffuso della parola consiste in due tradizioni simultanee, ciascuna delle quali è causa dell’altra214.
2. La testimonianza del diritto comparato: l’antica esperienza giuridica greca.
Se poi estendiamo l’indagine al diritto comparato e volgiamo la nostra attenzione all’antica esperienza giuridica greca215, troviamo persino esempi di fonti autoritative per le quali l’accordo delle parti sullo scambio della cosa contro il prezzo rimane fuori dalla fenomenologia propriamente giuridica, poichè «sale is for the Greeks identical with exchange of money against goods. They cannot imagine sale without payment of the price […] Transfer depended on payment, not on delivery»216. In diritto greco217 vigeva insomma il cosiddetto Surrogationsprinzip218 per il quale si ha compravendita (ἡ ὠνὴ καὶ ἡ πρᾶσις secondo la terminologia del noto frammento del Περὶ τῶν νόµων di Teofrasto219) solamente quando nel patrimonio del venditore il prezzo prende il posto della merce, e viceversa in quello del compratore. In altre parole è il pagamento (che, nel caso di merci di particolare pregio, deve essere accompagnato dal compimento di
000 X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita2, cit., 15.
214 Per la sensibile influenza che il dilagare del cosiddetto e-commerce potrebbe avere (e già in larga parte ha) sulla portata dell’affermazione, cfr. supra, § 1, 43, nt. 209.
215 Per la quale cfr., per tutti, X. XXXXXXXXXX, The Greek Law of Sale, Weimar, 1950: si tratta di un’opera compatta e ordinata, presto divenuta fondamentale, in cui è trasfuso un impegno di ricerca sul tema durato per tutta la vita (e iniziato con la tesi di dottorato Der Kauf mit fremdem Geld. Studien über die Bedeutung der Preiszahlung für den Eigentumserwerb nach griechischem und römischem Recht, Leipzig, 1916) e in cui l’Autore, servendosi di un apparato di prove pressoché irrefragabile, riprende e precisa le tesi fondamentali in tema di compravendita alle quali era pervenuto il XXXXXXX in varie ma rapide prese di posizione (dapprima nella recensione di un libro del PAPPOULIAS sull’arra, ora in Aus nachgelassenen und kleineren verstreuten Schriften, Berlin, 1931, 262 ss.; poi nelle Mitteilungen aus der Xxxxxxxxxx Papyrussammlung, Heidelberg, 1916, 15 ss.; e specialmente in Festschrift Lenel, Freiburg, 1923, 77 ss.).
000 X. XXXXXXXXXX, Xxx Xxxxx Law, cit. 90 s..
217 Adopero l’impropria espressione «diritto greco»; è sottinteso però, nonostante vi siano, innegabilmente, motivi generali di fondo che traversano i vari ordinamenti greci, che più esattamente si dovrebbe dire «diritti greci».
218 Identico principio operava anche nell’antico diritto babilonese, giacchè «der altbabylonische Kauf ist grundsätzlich Barkauf gewesen, bei dem also urrechtlich der Austausch der Leistungen Zug um Zug vor sich gegangen ist und die Zahlung des Preises immer die Voraussetzung des Eigentumsüberganges bildete». Sul punto cfr. X. XXX XXXXXX Die Schlussklauseln der altbabylonischen Kauf- und Tauschverträge: ein Beitrage zur Xxxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxx0, Xxxxxxx, 0000, 7. Ma una ricerca comparatistica rivelerebbe certo altri casi analoghi.
219 Il frammento è riportato, con la speciale intitolazione Περὶ συµβολαίων, nel Florilegium di Xxxxxx, XLIV, 22, p.129, lin.19-p.130, lin. 26 (ed. XXXXX). Poiché al di fuori del frammento teofrasteo è conosciuto solamente l’uso dei due termini separati, non è irragionevole pensare che la terminologia ἡ ὠνὴ καὶ ἡ πρᾶσις sia stata coniata dall’allievo di Xxxxxxxxxx a fini espositivi.
determinate formalità) a rendere perfetta la compravendita la quale produce i suoi effetti nel solo campo dei diritti reali e non già in quello delle obbligazioni. Dalla compravendita non poteva dunque sorgere alcuna azione volta a ottenere l’adempimento di obbligazioni contrattuali, perché, fin quando il prezzo non fosse stato pagato, essa non esisteva e al venditore che avesse trasferito il possesso, spettava una διαδικασία attraverso la quale poteva far valere la sua pretesa reale; inversamente avveniva nella sfera giuridico-patrimoniale del compratore che avesse pagato il prezzo (e acquistato quindi la proprietà) senza aver ottenuto la disponibilità materiale della merce. Non c’era spazio per obbligazioni di sorta. L’idea di un vincolo obbligatorio, tuttavia, poteva sorgere quando determinate esigenze imponevano di rinviare la consegna della merce a un prossimo futuro (come per esempio in tutti in casi in cui al momento della conclusione dell’accordo l’oggetto non fosse ancora venuto a esistenza) o di accreditare il prezzo di una merce attualmente consegnata. Nella prima ipotesi, poiché il diritto greco non riconosceva alcun valore all’accordo delle parti su una compravendita da eseguirsi in futuro, il (futuro) compratore per preordinare una qualche forma di coazione alla consegna poteva ricorrere al versamento di una caparra (ἀρραβών). La dazione dell’arra220, configurata quale anticipo sul prezzo, creava in capo al futuro venditore un indiretto vincolo (allo scambio in generale e quindi) alla consegna, poiché se si fosse rifiutato di addivenire alla conclusione della compravendita sarebbe stato tenuto alla restituzione del doppio dell’arra ricevuta (mentre, invece, se la mancata esecuzione del cosiddetto contratto arrale fosse dipesa dal datore dell’arra, costui l’avrebbe persa)221. In nessuna delle due parti del contratto arrale sorgeva però, in senso proprio, un diritto, munito di azione, alla (conclusione e simultanea) esecuzione del contratto di compravendita e la responsabilità della parte inadempiente era nei limiti dell’arra che era stata consegnata (secondo la diversa misura prima indicata) e non, come nell’emptio et venditio consensuale e obbligatoria romana, nel limite dell’id quod interest. Nella seconda ipotesi invece, quando cioè si voleva vendere a credito, nel mondo greco si fingeva l’esistenza di un distinto contratto causale di mutuo (δάνειον), legato economicamente alla compravendita, ma non nella struttura giuridica222. Nel caso
220 Per l’arra nell’esperienza giuridica greca, cfr. X. XXXXXXXXXX, The Greek Law, cit., 333 ss. e X. XXXXXXXXX L’arra, cit., 3 ss. e 21 ss..
221 La ragione della diversa penalità è evidente: in ogni caso la merce restava nel patrimonio del venditore.
222 D’altronde, nonostante la profonda diversità della fattispecie e la ricchezza dell’arsenale giuridico a disposizione, ancora secondo le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione in un’ipotesi di contratto preliminare a effetti anticipati vanno nondimeno «ravvisati, quanto alla concessione dell’utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito» (Cass., sez. un., 27 marzo 2008 n. 7930, in Nuova giur. Civ. comm., 2008, I, 1046). La Suprema Corte ritiene insomma «meritevole di essere condivisa» l’opinione dottrinaria espressa da F. M. XXXXXXX in Deve essere autorizzato il preliminare di vendita di un bene del minore? Il promissario acquirente cui sia stata consegnata la cosa è detentore o possessore?, nota a Xxxx. 28 giugno 2000, n. 8796 e Cass. 3 novembre 2000, n. 13258, in Riv. notariato, 2001, II, 731; tuttavia la sussunzione sotto la fattispecie del mutuo proposta dal Supremo Collegio presta il fianco a diverse critiche: a tacer d’altro, basti la considerazione (per cui cfr. X. XXXXXX, Quia vendidit, dare promisit, Cagliari, 2009, 130, nt. 36) che in un’ipotesi di questo genere, a differenza del supposto δάνειον della vendita a credito greca, l’effetto restitutorio non è fisiologico, ma è quello che potrebbe derivare dall’inadempimento.
d’inadempimento il venditore avrebbe agito non come tale, bensì come creditore da mutuo.
3. I tratti essenziali dell’`emptio et venditio´ romana di epoca classica.
I Romani, invece, pur partendo da una situazione – almeno per la mancipatio –
«analoga a quella in cui sono, in pratica, rimasti gli altri ordinamenti dell’antichità, e non soltanto classica, da noi conosciuti»223 hanno battuto una strada diversa. È vero che, fin dai tempi più antichi, se si fossero trovati in una situazione analoga a quella che spingeva i cittadini greci a fingere di aver concluso un contratto con causa di mutuo, i cives Romani sarebbero stati in una posizione di vantaggio, perché avrebbero avuto a disposizione «una promessa astratta, la sponsio, esclusiva di qualsiasi ricerca relativa alla causa»224. Tuttavia dalla struttura della mancipatio com’è descritta da Xxxx nelle
Institutiones225 appare evidente che quando sorse essa doveva consistere in una
compravendita reale, scambio di cosa verso prezzo226. Ed è probabile che, anche prima del sorgere della mancipatio, fosse «nell’uso del mercato lo scambio puro e semplice (naturale o monetario), fondato sulla consegna manuale»227. Soltanto in un momento successivo, probabilmente con l’emersione dei bonae fidei iudicia228 nel III secolo a.C., i Romani giunsero a una diversa formalizzazione giuridica della funzione economico- sociale della compravendita. L’origine dell’emptio et venditio consensuale e obbligatoria di epoca classica e, più in generale, l’origine dei quattro contratti consensuali (compravendita, locazione-conduzione, società e mandato) è assai discussa
223 Così X. XXXXXXXXX sub voce Vendita, cit., 304.
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xx compravendita2, cit., 44. Tale è l’importanza che l’insigne Autore riconosce a questa
caratteristica del diritto romano da essere indotto ad aderire alla tesi «che nell’evoluzione conducente dalla vendita a contanti al contratto consensuale attribuisce una funzione essenziale alla verborum obligatio, o stipulazione che dir si voglia», op. ult. cit., 58.
225 Gai Institutiones, 1, 119-120.
226 A tal proposito, tuttavia, si deve segnalare che l’opinione sopra riportata sull’originaria funzione della mancipatio è stata messa in dubbio da X. XXXXXXX, Il formalismo negoziale nell’esperienza romana2, Torino, 2006, 21 ss., il quale dedica alla questione il settimo paragrafo del primo capitolo concludendo che «se nonostante tutte le riserve possibili, si dovesse ritenere fondata l’opinione tradizionale, resterebbe pur sempre sicuro che la trasformazione della mancipatio da atto sostanzialmente e formalmente causale in atto causale solo nella sua apparenza - e dunque di fatto per così dire astratto - si sarebbe verificata […] sufficientemente presto […] perché la nostra analisi possa proseguire assumendo la mancipatio (mancipium nella sua denominazione più risalente) come una forma negoziale caratterizzata dall’assenza di riferimenti causali», 29.
227 Così X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxx00, Xxxxxx, 0000, 337.
228 Può considerarsi un punto fermo della complessa ricostruzione storica sull’origine delle obligationes consensu contractae il fatto che esse non potessero trovare tutela nel sistema delle legis actiones.
in dottrina. Nonostante si dubiti fortemente della possibilità di individuare uno sviluppo omogeneo per tutti i contratti che appartengono al gruppo229 e non si possano addurre testimonianze categoriche a favore di nessuna cronologia determinata, la meno improbabile delle ipotesi, almeno avuto riguardo alla compravendita, è che la tutela di quella che sarebbe divenuta l’emptio et venditio consensuale trovasse origine nella iurisdictio peregrina. Il fatto che i giuristi attribuiscano le quattro figure contrattuali 230 allo ius gentium e la circostanza che le necessità dei traffici commerciali dovettero manifestarsi soprattutto nei rapporti fra commercianti romani e stranieri ai quali ultimi era preclusa la possibilità di servirsi dei negozi solenni dello ius civile sono elementi che fanno propendere per la tesi che individua nel tribunale del praetor peregrinus la prima forma di tutela giuridica accordata alle convenzioni in esame dalle quali scaturiva un obbligo (inizialmente) non riconosciuto dal diritto della città, ma fondato sulla parola data, sulla (bona) fides, in altre parole sulle esigenze di lealtà senza le quali non possono sussistere relazioni commerciali fra uomini di popoli diversi. In ogni caso, quale che sia l’origine storica dell’istituto, è certo che la compravendita in epoca classica si presenta come «un contratto consensuale e bilaterale in virtù del quale una delle parti si obbliga a
trasmettere all’altra il pacifico godimento231 di qualcosa, detta merce, mentre l’altra
parte si obbliga a trasferire alla prima la proprietà di una somma di danaro, detta prezzo»232. Il primo carattere a venire in rilievo è la consensualità che è il fondamento su cui si realizza l’unità di genere dei quattro contratti in precedenza citati. Scrive Gaio:
Consensu fiunt obligationes in emptionibus et venditionibus, locationibus conductionibus, societatibus, mandatis. Ideo autem istis modis consensu dicimus
229 In senso negativo, cfr. X. XXXXXXXXX, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 580.
230 A dire il vero non esiste alcun testo che affermi la natura iuris gentium del mandato, ma sull’appartenenza dell’istituto al diritto delle genti cfr. X. XXXXXXX-XXXX, Il mandato in diritto romano, Napoli, 1949, 44 ss..
231 Che l’obbligazione del venditore, sorvolando sull’ob evictionem se obligare e sul purgari dolo malo, si riducesse al trasferimento del pacifico godimento (habere licere) è detto da Xxxxx in un celebre passo: Xxxx. 32 ad ed., D. 19. 4. 1 pr. Sicut aliud est vendere, aliud emere, alius emptor, alius venditor, ita pretium aliud, aliud merx. at in permutatione discerni non potest, uter emptor vel uter venditor sit, multumque differunt praestationes. emptor enim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare possessionem tradere et purgari dolo malo, itaque, si evicta res non sit, nihil debet: in permutatione vero si utrumque pretium est, utriusque rem fieri oportet, si merx, neutrius. sed cum debeat et res et pretium esse, non potest permutatio emptio venditio esse, quoniam non potest inveniri, quid eorum merx et quid pretium sit, nec ratio patitur, ut una eademque res et veneat et pretium sit emptionis. Mi corre, tuttavia, l’obbligo di precisare che su questo specifico punto buona parte della dottrina, sulla scia di un finissimo studio di X. XXXXXXXX, Der Kauf nach gemeinem Recht, I, Geschichte des Kaufs im römischen Recht, Erlangen, 1876, 546 ss. (di poco preceduto da un’intuizione di E. ECK, Die Verpflichtung des Verkäufers zur Gewährung des Eigentums nach Römischem und gemeinem Deutschen Recht, in Festschrift X. Xxxxx, Halle, 1874, estr. 25 e ntt. 3-4) e in forza, soprattutto, di Gai 4, 131a, ritiene ormai che il venditore fosse obbligato alla mancipatio se i contraenti fossero entrambi cives Romani e la merx fosse una res mancipi (così, per la dottrina italiana, X. XXXXXXXX, Compravendita e trasferimento della proprietà in diritto romano, in Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del convegno internazionale Pisa-Viareggio_Lucca 17-21 aprile 1990, a cura di
X. Xxxxx, I, Milano, 1991, 38 ss.; sul problema cfr., per tutti, la letteratura cit. in X. XXXXX, Das römische Privatrecht2,
München, I, 1971, 551, nt. 53, cui xxxx gli autori citt. da X. XXXXXXXXX sub voce Vendita, cit. 382 ss.), mentre è soprattutto l’Xxxxxxx-Xxxx a ritenere che l’obbligo in questione discendesse generalmente da un pactum adiectum alla compravendita. Sia che fosse un effetto essenziale o, eventualmente, naturale del negozio, sia che fosse un elemento accidentale dello stesso, in ogni caso l’obbligo di compiere la mancipatio non deve essere confuso con quello di trasferire la proprietà della cosa, secondo la distinzione felicemente espressa da Xxxxx. 27 quaest., D. 22, 1, 4 pr. contrapponendo il factum rei promittenti all’effectus per [traditionem] <mancipationem> dominii transferendi.
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xx compravendita2, cit., 88.
obligationes contrahi, quod neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos, qui negotium gerunt, consensisse. Unde inter absentes quoque talia negotia contrahuntur, veluti per epistulam aut per internuntium: cum alioquin verborum obligatio inter absentes fieri non possit233.
La parola consensus esprime l’accordo delle volontà in qualunque modo manifestato. Per il sorgere delle obbligazioni che consensu contrahuntur è esclusa quindi la necessità di parole solenni o di scrittura (neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur): nei contratti consensuali sufficit eos, qui negotium gerunt, consensisse, le obbligazioni sorgono, cioè, consensu nudo. Sono numerosi i luoghi del Digesto in cui si esemplificano i modi di manifestazione del consenso e più volte è ripetuta la massima che bastino quaecumque verba; al perfezionamento dei contratti consensuali, tuttavia, può bastare anche un cenno (nutus) di sicura interpretazione234. Rilevando la completa libertà di forma Gaio contrappone i contratti consensuali a quelli formali, verbis e litteris, dei quali si era occupato da ultimo (§§ 92-134).
Ciò non significa che i cives romani in epoca classica non facessero talvolta ricorso a forme determinate per la conclusione di contratti che pure sarebbero stati liberi di conchiudere attraverso la semplice manifestazione del consenso. Tuttavia, data la scarsa importanza dell’expensilatio per le caratteristiche della sua operatività, l’unica forma che poteva porre problemi per certi versi analoghi a quelli dei rapporti tra forma scritta concretamente adibita e contratti con essa rivestiti, affrontati dalla costituzione di Xxxxxxxxxxx accolta in C. 4.21.17, era non già la forma scritta, per le ragioni che si esporranno più avanti235, bensì la forma verbale propria della stipulatio, nella quale il sistema contrattuale romano classico trova la massima espressione di tipicità formale (contrapposta alla tipicità causale dei contratti consensuali).
Dato il fine che mi muove, non sarà, dunque, inutile, prima di riprendere l’analisi del passo delle istituzioni gaiane, soffermare brevemente l’attenzione su due passi del Digesto in cui i prudentes esaminano il problema della relazione tra una conventio, di per sé integrativa di un contratto causalmente tipico, e di una stipulatio che l’assume completamente in sé.
Il primo è un frammento in tema di società:
Dig. 17.2.71 pr. Xxxxxx 3 epit. alf. Dig. Duo societatem coierunt, ut grammaticam docerent et quod ex eo artificio quaestus fecissent, commune eorum esset: de ea re quae voluerunt fieri in pacto convento societatis proscripserunt, deinde inter se his verbis stipulati sunt: “haec, quae supra scripta sunt, ea ita dari fieri neque adversus ea fieri? si ea ita data facta non erunt, tum viginti milia dari?” quaesitum est, an, si quid contra
233 Gai Institutiones, 3, 135-136.
234 A essi, infatti, si riferisce la regula di Xxxxxxxxx (l. 2) in D. 44, 7, 52, 10: «Sed et nutu solo pleraque consistunt».
235 Cfr. infra, cap. III, § 2, 70 ss..
factum esset, societatis actione agi posset. respondet, si quidem pacto convento inter eos de societate facto ita stipulati essent, “haec ita dari fieri spondes?”, futurum fuisse, ut, si novationis causa id fecissent, pro socio agi non possit, sed tota res in stipulationem translata videretur. sed quoniam non ita essent stipulati “ea ita dari fieri spondes?” sed “si ea ita facta non essent, decem dari?” non videri sibi rem in stipulationem pervenisse, sed dumtaxat poenam ( non enim utriusque rei promissorem obligari, ut ea daret faceret et, si non fecisset, poenam sufferret) et ideo societatis iudicio agi posse.
Non interessano in questa sede le questioni particolari oggetto del responso di Alfeno236 circa la stipulatio penae, ma preme soltanto rilevare che i due che intendevano insegnare privatamente la grammatica unendosi in società e mettendo in comune i compensi che avrebbero potuto trarre dall’insegnameno, superano i limiti dell’unilateralità della sponsio per mezzo del riferimento della conceptio verborum «ad un `capitolato negoziale´ redatto per iscritto»237, oggetto di una duplice stipulazione.
Ciò è segno del fatto che «l’abitudine di mettere per iscritto sia il contenuto dei contratti consensuali sia quello delle verborum obligationes, oltre che servire a fini probatorii altrimenti difficili da raggiungere, portava an[c]he a fissarne le clausole con quella puntualità che solo scrivendo si suole raggiungere»238 e la stesura per iscritto rappresentava la fine delle trattative.
Rispetto al fine della presente indagine ancora più interessante è il secondo passo (piuttosto enigmatico)239:
Xxxx. 12 ad Sab., D. 00.0.00.0: Si in locando conducendo, vendendo emendando ad interrogationem quis non responderit, si tamen consentitur in id, quod responsum est, valet quod actum est, quia hi contractus non tam verbis quam consensu confirmantur.
In questo frammento, non a torto, si è rinvenuto da parte di autorevole dottrina l’esempio di una conventio, nel caso di specie una locatio conductio, versata nella forma verbale della stipulatio, la cui fattispecie non è integrata a causa della non avvenuta responsio di una delle parti. Sebbene dal tenore letterale di esso non emerga se le parti avessero convenuto di assorbire totalmente la conventio nella forma verbale, l’interesse suscitato dal frammento in questione è dovuto alla soluzione individuata dal giurista
236 Per cui cfr. X. XXXXXXX-XXXX La compravendita2, cit., 65 ss..
237 X. XXXXXXXXX, `Conventio´ e `stipulatio´, in Le teorie contrattualistiche romane nella storiografia
contemporanea. Atti del convegno di diritto romano. Siena 14-15 aprile 1989, a cura di X. Xxxxxxxx, Napoli, 1991, 165; cfr. anche ID., `Conventio´ e `stipulatio´ nel sistema dei contratti romani, in Le droit romain et sa reception en Europe. Les actes du colloque organisé par la Faculté de Droit et d’Administration de l’Université de Varsovie en collaboration avec l’Accademia Nazionale dei Lincei le 8-10 octobre 1973, [in effetti il colloque si tenne nella prima metà del maggio successivo], Varsovie, 1978, 200 ss..
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xx compravendita2, cit., 65.
239 Così X. XXXXXXXXX, `Conventio´ e `stipulatio´, in Le teorie contrattualistiche, cit., 171.
classico: valet quod actum est, quia hi contractus non tam verbis quam consensu confirmantur.
L’affermazione della prevalenza dell’id quod actum est rispetto alla forma verbale che pure le parti concretamente avevano scelto di adibire costituisce un elemento non privo di interesse al fine della ricerca, giacché potrebbe raffrontarsi con la disposizione del 528 d.C. in cui, viceversa, l’imperatore Xxxxxxxxxxxx, con riferimento alla forma scritta, statuisce ut nulli liceat prius, quam haec ita processerint, vel a scheda conscripta, licet litteras unius partis vel ambarum habeat, vel ab ipso mundo, quod necdum est impletum et absolutum, aliquod ius sibi ex eodem contractu vel transactione vindicare240.
Concluso il brevissimo excursus sui rapporti tra l’efficacia di una conventio di per sé integrativa di un contratto consensuale e la stipulatio in cui le parti scelgono di versarla, si può riprendere l’analisi del passo delle istituzioni gaiane.
Il primo corollario del carattere consensuale di un contratto è agli occhi dei Romani la possibilità che esso sia concluso inter absentes, facendo portare la dichiarazione di volontà da un messaggero (internuntius) o inviando una lettera. Proseguendo la trattazione Gaio individua un altro carattere che pone i contratti consensuali in contrasto con i contratti verbali e con il nomen transcripticium: la bilateralità. Così egli si esprime:
Item in his contractibus alter alteri obligatur de eo, quod alterum alteri ex bono et aequo praestare oportet: cum alioquin in verborum obligationibus alius stipuletur, alius promittat, et in nominibus alius expensum ferendo obliget, alius obligetur241.
Mentre dai contratti verbali e da quelli letterali sorgono obbligazioni a carico di
una sola parte, i contratti consensuali creano di massima242 obbligazioni in capo a
entrambe le parti e sono quindi, almeno nel senso del sinallagma genetico, contratti
240 Per cui cfr. infra, cap. VI, § 3, 177 ss..
241 Gai Institutiones, 3, 137.
242 Il mandato in diritto romano è un contratto essenzialmente gratuito. Secondo la dottrina dominante, che adotta la terminologia delle scuole medievali, esso appartiene alla categoria dei contratti imperfettamente bilaterali, poiché
«l’obbligazione del mandante è soltanto eventuale, ed ha per oggetto le spese e i danni che il mandatario abbia subiti nell’espletamento dell’incarico». Per la dottrina dominante cfr., nella manualistica, X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 604 ss. ed X. XXXXXXX, Diritto privato romano12, Napoli, 2001 che parla di «corrispettività solo eventuale», 930; contra cfr. X. XXXXXXXX Istituzioni di diritto romano3, Torino, 1991, 577 s. il quale, citando Gai Institutiones, 3, 155, discorre di
«perfetta bilateralità del contratto», 577; e, amplius, cfr. X. XXXXXXXX, `Mandare´. Radici della doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato romano, Milano, 2005 in cui si sostiene che il mandato romano, pur difettando della sinallagmaticità fra le prestazioni, abbia il carattere della perfetta bilateralità, tenuto conto, in estrema sintesi, di Gai Institutiones, 3, 155, in cui si dice espressamente che, in forza del mandato, «invicem alter alteri tenebimur» e considerato che, in ogni caso, il mandante sarà tenuto quantomeno a ricevere gli effetti dell’attività svolta dal mandatario.
bilaterali. Le obligationes consensu contractae sono poi tendenzialmente243 legate fra
loro da un nesso di corrispettività244 per cui l’obbligazione di ciascuno è causa
dell’obbligazione dell’altro; ad esempio, la causa dell’obbligazione che il compratore assume di versare il prezzo di una cosa è nell’obbligazione di possessionem tradere assunta dal venditore. Fino a qui, forse perché d’immediata evidenza, l’antitesi fra i contratti consensuali e i contratti re è rimasta sullo sfondo dell’esposizione di Gaio. Quando però nelle Institutiones si passa alla specifica trattazione della compravendita, l’autore avverte l’esigenza di chiarire un punto dal quale risalta la diversità della concezione romana da quella delle altre esperienze giuridiche del mondo classico e in particolare, considerata la posizione del giurista nell’ambiente provinciale ellenistico, da quella greca:
Emptio et venditio contrahitur cum de pretio convenerit, quamvis nondum pretium numeratum sit, ac ne arrha quidem data fuerit; nam quod arrhae nomine datur argumentum est emptionis et venditionis contractae245.
L’antitesi, già implicita nei paragrafi sulle obligationes consensu contractae in generale, si fa chiara nel paragrafo sulla compravendita: il regime classico dell’emptio et venditio è in aperto contrasto con l’impostazione greca. A Roma, infatti, i giuristi si staccarono nettamente dall’immediata rappresentazione del negozio come scambio contestuale di cosa contro prezzo e giunsero a configurare il semplice consenso, identificato dall’accordo sul prezzo, come il fatto produttivo delle reciproche obbligazioni. L’area culturale greca non poteva essere più lontana. Alla struttura consensuale della compravendita romana, inoltre, mal si adattava l’istituto giuridico greco dell’arra che, infatti, una volta penetrato a Roma attraverso gli scambi commerciali fra cives e peregrini, cambiò la propria funzione246. Xxxx, forse preoccupato della confusione che poteva sorgere dall’uso, invalso anche in Roma, di consegnare una modesta somma di denaro a titolo di arra, si dà premura di sottolineare tale diversità di funzione: nell’ordinamento della civitas Romana l’arra svolge la funzione di provare la conclusione della compravendita (quod arrhae nomine datur argumentum est emptionis et venditionis contractae), né più né meno come una potente stretta di mano alla presenza del sensale e di testimoni attesta la conclusione di una vendita di bestiame al mercato boario o in fiera. Proprio perché serviva a comprovare il passaggio dalla fase delle trattative a quella dell’avvenuto scambio dei consensi, l’arra
243 Nei riguardi della compravendita in ispecie l’Xxxxxxx-Xxxx pone in evidenza l’impossibilità di riportarsi a una massima unica circa l’interdipendenza delle obbligazioni e delle relative azioni e, prudentemente, scrive: «essendo le obbligazioni assunte da ciascuna delle due parti causa di quelle assunte dall’altra, ed essendo le azioni in discorso iudicia bonae fidei, la tendenza a valutare insieme la posizione di entrambe le parti doveva necessariamente esprimersi; ma questa tendenza ha dovuto conciliarsi con esigenze proprie del sistema processuale, e con altre economiche od equitative, sicchè si può parlare sì, come abbiamo fatto di un criterio, di una tendenza, non mai di un principio assoluto», X. XXXXXXX-XXXX, La compravendita2, cit., 215.
244 Fatta eccezione per quelle scaturenti dal contratto di mandato, su cui cfr. supra, 51, nt. 242.
245 Gai, Institutiones, 3, 139.
246 Sull’arra in diritto romano, cfr. X. XXXXXXXXX L’arra, cit., 47 ss.
romana poteva consistere in un oggetto diverso da una somma di denaro, per esempio in un anello. Ma quando anche fosse consistita in una somma di denaro, essa non era giuridicamente considerata un anticipo sul prezzo, tanto è vero che Xxxxxxx in un’ipotesi del genere (32 ad ed., D. 19, 1, 11, 6) ammette che il contrarius consensus risolva la vendita, il che sarebbe impossibile quando l’esecuzione del negozio fosse cominciata. È, tuttavia, probabile che l’arra svolgesse in concreto anche una funzione di garanzia: è vero che essa è una prova (argumentum) che la fase delle trattative è terminata e l’accordo è in atto; è vero altresì che, contrariamente all’ἀρραβών di diritto greco, la responsabilità della parte inadempiente non è circoscritta nei limiti dell’arra, ma si estende all’id quod interest, potendo la controparte pretendere l’adempimento integrale delle obbligazioni sorte dall’accordo; ma è altrettanto evidente che chi si fa dare una caparra non mira soltanto a consacrare la definitività dell’accordo, ma intende anche garantirsi un minimo d’indennizzo nei confronti di compratori che potrebbero rendersi irreperibili. Non pare improbabile che, il più delle volte, il venditore si contentasse di incamerare l’arra, senza far ricerche del compratore inadempiente247.
Dal fin qui detto appare evidente il carattere consensuale della vendita romana e la sua contrapposizione ai contratti re; tuttavia il carattere più originale della compravendita romana, che la rende un fenomeno sostanzialmente isolato nell’antichità, non è tanto la consensualità, quanto la mera obbligatorietà. Non solo, infatti, l’emptio et venditio classica, inversamente alla ὠνὴ καί πρᾶσις di area ellenistica, è integrata al momento della conclusione dell’accordo, quand’anche non sia stato versato il prezzo (emptio et venditio contrahitur cum de pretio convenerit, quamvis nondum pretium numeratum sit), ma, inoltre, l’integrazione della fattispecie non produce i suoi effetti nel campo dei diritti reali, ma crea soltanto obbligazioni, in adempimento delle quali saranno trasmessi la merce e il prezzo. Nel periodo classico, insomma, vigeva a Roma il cosiddetto Trennungsprinzip ovvero il principio che ancora oggi assiste la circolazione dei diritti nell’esperienza giuridica tedesca e austriaca. Trennungsprinzip, cioè principio di separazione, è la parola tecnica che la dottrina tedesca adopera per esprimere la netta distinzione fra l’atto che crea le obbligazioni e quello che trasferisce i diritti. Dalla primitiva concezione materialistica di una vendita reale la giurisprudenza romana classica, anche sulla spinta del progresso delle condizioni economiche e sociali, giunse con geniale astrazione a una concezione che rappresentava un unicum nell’area mediterranea dove imperava (e ancora impera, quanto agli effetti, in parecchie legislazioni moderne) la diversa concezione della vendita (reale e) a effetti reali; la compravendita romana di epoca classica, al contrario, è (consensuale e) puramente obbligatoria: non trasferisce ex se la proprietà e neppure obbliga a farlo, consistendo la principale obbligazione del venditore non in un dare in senso tecnico, id est rem facere
247 Così X. XXXXXXX-XXXX La compravendita2, cit., 92, nt.1.
accipientis248, bensì nel possessionem tradere, nel mettere, cioè, la cosa nella materiale disponibilità del compratore. Il diritto romano classico, insomma, ha lasciato in eredità alla storia del diritto un istituto veramente singolare la cui struttura puramente obbligatoria poggiava sulla luminosa distinzione fra il contratto come fonte di obbligazione e l’atto a effetti reali (mancipatio, in iure cessio, traditio), traslativo cioè della proprietà o del possesso. E con quest’ultimo esempio mi pare sufficientemente provata l’iniziale affermazione della versatilità del nomen compravendita.
4. Le apparenti divergenze nella prassi.
La struttura della vendita classica, appena tratteggiata nelle sue linee essenziali, emerge in modo chiaro e inequivocabile dai citati passi del Digesto e delle Institutiones di Gaio. Tuttavia essa parrebbe non accordarsi a un fatto di cui mi corre l’obbligo dar conto: fra i non molti documenti contrattuali pervenutici in tavolette cerate o su papiro o su marmo, i più numerosi sono quelli che riguardano la compravendita, ma nessuno di essi attesta la conclusione della sola convenzione obbligatoria. Sia le tavolette cerate di Ercolano, degli anni immediatamente anteriori all’eruzione del 79 d.C., sia le tavolette cerate delle miniere d’oro di Transilvania, del tempo fra il 139 e il 160 d.C., ci hanno restituito un certo numero di documenti mancipatori, ma le mancipationes venditionis causa in essi contenute non si presentano mai come l’adempimento delle obbligazioni di un contratto consensuale delle quali nel formulario non resta la minima traccia. Xxxxx
formula usuale «Titius emit mancipioque accepit»249 infatti l’espressione «emit
248 Addirittura nel discusso passo riportato in D. 12, 4, 16, (lb. [3] <8> dig.) che comincia con le parole «Dedi tibi pecuniam ut mihi Stichum dares», secondo la celebre interpretazione di Xxxxx, è proprio l’assunzione da parte del “venditore” dell’obbligo di trasferire la proprietà dello schiavo Stico che induce Xxxxx, scolarca proculiano, a escludere la configurabilità non solo dell’emptio et venditio, ma anche di un negozio analogo alla compravendita. E ciò perché, come spiega la gl. proclivior a D. 12, 4, 16, l’obbligazione di dare è «contra naturam venditionis».
000 Xxx. X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx iuris Romani antejustiniani (FIRA), III2, Negotia, Firenze, 1972, 283 (a. 139); 285 (a. 142); 287 (a. 160); 289 (a. 159); 291 (a. 61 o 79). Cfr. anche K.G. XXXXX Fontes iuris Romani antiqui7, – cur. X. XXXXXXXXXX –, Xxxxxxxx, 0000, I, Leges et negotia, 120.
mancipioque accepit», come ha dimostrato l’Arangio-Ruiz250, lungi dall’attestare la conclusione di un contratto consensuale, è da intendersi come una «endiadi nella quale si rispecchiano, in ordine inverso, l’aio… meum esse e il mihi emptum esse» del cerimoniale della mancipatio. In altre parole i documenti della prassi attestano il negozio solutorio (sia esso mancipatio o traditio), ma in nessun caso ci consentono di distinguere l’atto di trasferimento da un contratto obbligatorio cronologicamente precedente. Questo fatto, congiunto ad altre osservazioni (soprattutto sul presunto valore costitutivo dei documenti mancipatori), ha indotto qualche autore251 a concludere che, già in piena epoca classica, si fosse aperto un contrasto fra la prassi, in cui sarebbe stato vigente il principio emptione dominium transfertur, e il diritto ufficiale, quale elaborato dalla giurisprudenza, che, come detto, riconosceva alla convenzione fra le parti efficacia meramente obbligatoria e rimetteva il trasferimento del diritto a un successivo negozio (mancipatio, traditio o, assai raramente252, in iure cessio). Tanto nella prassi del periodo classico, quanto in quella del periodo postclassico si sarebbe poi fatto ricorso alla convenzione obbligatoria soltanto quando si fosse avvertita «l’esigenza al cui soddisfacimento è oggi preordinato il contratto preliminare»253. L’originale tesi, che permette di ricostruire lo svolgimento storico del diritto romano in epoca postclassica in forma sommamente (e, forse, eccessivamente) lineare, merita una breve analisi254. È ben vero che in qualunque ordinamento i pratici si mostrano insofferenti verso il rigore di certi concetti giuridici e la complessità di alcuni sistemi soprattutto quando essi si distaccano sensibilmente dagli aspetti più usuali dei corrispondenti fenomeni economici255; è altrettanto innegabile che la giurisprudenza romana classica, riconducendo alla funzione economica e sociale della compravendita, in quanto tale, soltanto l’effetto obbligatorio, ha separato dal contratto quell’effetto che più gli è
000 X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita2, cit., 187 s. L’argomento addotto a sostegno dell’irrilevanza dell’emit consiste nel fatto che l’intera espressione indica sempre l’atto solenne della mancipatio, «anche quando questo non si trova in rapporto con nessuna vendita effettiva». A riprova l’autore cita il caso del testamento per aes et libram in cui «la mancipatio eseguita dal familiae emptor è sempre indicata, per fittizia che sia quella vendita del patrimonio, col verbo emit» e quello della Mancipatio Pompeiana (cit., supra, ivi, 54, nt. 249) datata dall’Xxxxxxx-Xxxx al 61 d.C. (ma per lo spostamento della datazione ai primissimi mesi del 79 d.C., cfr. L. MIGLIARDI XXXXXXX, In tema di `fiducia cum creditore´. I documenti della prassi, in Labeo 2000, XLVI, 453 s. e nt. 9) e consistente in due tavolette cerate che attestano la conclusione, oltre che di un contratto di mutuo fra Poppaea Note e Dicidia Margaris, di una mancipatio fiduciae causa che porta l’emit mancipioque accepit. Contra, a favore della tesi che legge l’emit come la documentazione di un contratto consensuale, cfr., inter alios, X. XXXXXX sub voce `Mancipatio´, in PAULY-WISSOWA, Real-encyclopädie der classichen Altertumswissenschaft, Stuttgart, XIV/1928, 1001 e PH. MEYLAN, La mancipation et la garantie d'éviction dans les actes de vente de Transylvanie et d'Herculanum, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für X. xxx Xxxxxx, Berlin, 1970, 417 s..
251 Cfr. X. XXXXX, Il principio `emptione dominium transfertur´ nel diritto pregiustinianeo, Milano, 1960; ma in senso sostanzialmente adesivo cfr. anche la recensione al libro del Gallo di XXXXXX XXXXXX, in IVRA, XII, 1961, 311-326, in particolare 317 ss..
252 Cfr. Gai Institutiones, 2, 25.
253 X. XXXXX, Il principio, cit. 45.
254 Tralascio la considerazione di innumerevoli aspetti della tesi che, pur denotando lo straordinario acume intellettuale dell’autore ed essendo del massimo interesse, sono estranei al limitato fine di questo scritto.
255 Cfr. quanto sostenuto supra, § 1, 44, nt. 211, a proposito delle vendite effettuate nei pubblici esercizi.
congiunto all’occhio del profano; tuttavia256 non paiono questi essere elementi
sufficienti a giustificare l’affermazione del persistere del principio emptione dominium transfertur nella prassi dell’epoca classica, né che «per questa l’accordo delle parti – che la giurisprudenza individuava invece come momento distinto – era fuso nella stessa mancipatio»257. Se queste parole, infatti, sono da intendersi nel senso (che mi pare l’unico possibile se non si vuole svuotare di significato le precedenti affermazioni) che il più delle volte nella prassi classica la mancipatio emptionis causa fosse considerata un «negozio autonomo di compravendita reale e a contanti»258 e cioè, parrebbe di capire, che essa producesse soltanto effetti traslativi, non si riesce a spiegare come quest’opinione possa convivere nell’animo dell’autore della tesi in esame con quella secondo la quale «per le res mancipi immobili, entro la cerchia dei cittadini, le esigenze alle quali soddisfaceva la convenzione obbligatoria potevano essere in gran parte soddisfatte anche celebrando la compravendita direttamente col rito librale»259, servendosi a tal fine dell’efficacia obbligatoria dell’assetto d’interessi sottostante alla mancipatio. Se, invece, con esse s’intende semplicemente affermare che la prassi il più delle volte faceva a meno di ricorrere alla precedente stipulazione di una distinta convenzione obbligatoria e si limitava, piuttosto, a sfruttare il momento obbligatorio inerente al sostrato consensuale della mancipatio, non si vede in cosa consista l’asserito contrasto fra la prassi e il diritto ufficiale il quale pure concepiva il contratto obbligatorio eseguito attraverso la mancipatio «come un prius logico rispetto a essa,
senza bisogno di ricorrere a presunzioni di priorità cronologica»260 e attribuiva il
trasferimento della proprietà all’adottata forma mancipatoria. Del resto, proprio riguardo alla totale mancanza di documenti attestanti emptiones et venditiones già l’Xxxxxxx-Xxxx notava che è probabile che non sempre si manifestassero esigenze tali da imporre il ricorso alla struttura meramente obbligatoria e che, anzi, «nella pratica il contratto consensuale, produttivo soltanto di reciproche obbligazioni, si presenta piuttosto come una forma-limite che come la sanzione di una pratica quotidiana»261. Certo la tesi ha il notevole pregio di presentarsi quasi nella forma di un compassato sillogismo, poichè, supposta in epoca precostantiniana una prassi consolidata in cui, come detto, vigeva il principio emptione dominium transfertur, inferisce la ragion d’essere di alcuni fenomeni caratteristici dell’epoca postclassica individuandola proprio nel presunto distacco fra la suddetta prassi e il diritto ufficiale la cui resistenza cesserebbe, però, già con Xxxxxxxxxx sotto il cui regno il principio emptione dominium
256 Per le considerazioni che seguono mi rifaccio ampiamente all’analisi critica dell’opera del Gallo svolta da X. XXXXXXXXX in Recensione a GALLO, Il principio `emptione dominium transfertur´ nel diritto pregiustinianeo, in Arch. Giur., 1961, CLX, 141-157 e ID., Ancora sul principio `emptione dominium transfertur´, in St. Cagliari, 1962-1963, 9-23.
257 X. XXXXX, Il principio, cit., 46, nt. 55. 258 Così X. XXXXX, Il principio, cit., 41. 259 X. XXXXX, Il principio, cit., 45.
260 Così X. XXXXXXXXX in Recensione a GALLO, cit., 143.
000 X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita2, cit. 86 e 190.
transfertur sarebbe accolto nella legislazione imperiale. Il fascino della chiarezza, tuttavia, non deve indurre a sostituirsi nel mestiere di Xxxxxxxxxx. Le poche e rapide obiezioni mosse sopra m’impediscono di abbracciare la sostanza della tesi la quale sembra imbrigliare in maglie troppo strette la realtà di un periodo storico il cui sviluppo si mostra forse meno lineare e più complesso di quanto non sia possibile vedere con gli occhi di quanti la sostengano: nonostante l’indubbio interesse, pare eccessivo ridurre a
un processo dialettico essenzialmente tutto interno al diritto romano262 l’apparire,
peraltro in controluce, di alcuni principi estranei al diritto classico sin da alcune costituzioni di Costantino263. Quel che, in conclusione, mi pare, invece, condivisibile è l’aspetto meno originale della tesi e cioè la considerazione che la perpetua tendenza del profanum vulgus a fuggire le concezioni artificiose e astratte costituisca una delle concause dello svolgimento storico di epoca postclassica e che essa, unitamente ad alcune altre forze alle quali mi contenterò, dati i limiti del presente lavoro, di fare qualche rapido cenno, abbia contribuito al progressivo oscurarsi, nella legislazione imperiale successiva a Xxxxxxxxxxx e anche nella dottrina, della luminosa distinzione fra contratto e atto traslativo tipica dell’epoca classica. Xxxx, avuto riguardo al trasferimento della proprietà in questo periodo, si può dire con le parole di uno dei massimi studiosi del diritto volgare che: «The fundamental fact which distinguishes this part of the vulgar law264 of property from the classical is a coalescence of acts of obligation and acts of disposal. […] We come across a merger of concepts. […] the transfer of ownership was no longer accurately kept apart from the causal transaction aimed at it. Even where the separation remained inevitable in practice, it was blurred in legal thought. It had always been foreign to Greek and Hellenistic doctrines265. Nor was it familiar to popular ideas anywhere, regardless of ethnographic boundaries»266. Memore dell’insegnamento della scolastica, non ho certo intenzione di revocare in dubbio i fatti: la difficoltà a tenere distinti il momento consensuale e obbligatorio da quello traslativo e la confusione concettuale fra essi cui fa riferimento l’autore sono fatti
262 A onor del vero il Gallo non neglige del tutto l’influenza sugli sviluppi postclassici della compravendita delle concezioni ellenistiche e di forze in genere estranee al diritto romano, tuttavia, sia pure in modo implicito, ne sminuisce eccessivamente l’importanza poiché attribuisce essenzialmente alla prassi precedente il passaggio dalla struttura e disciplina classica della compravendita «a quelle rispecchiate nel principio emptione dominium transfertur ». Cfr. X. XXXXX, Il principio, cit., 11 s..
263 Lo stesso Xxxxx riconosce che nelle fonti normative di carattere autoritativo il principio emptione dominium
transfertur «risulta enunciato in modo puramente incidentale», scorgendovi però un motivo in più per ritenerlo
«presupposto come già esistente» (X. XXXXX, Il principio, cit., 10).
264 Il termine vulgar law è adoperato dal Xxxx per esprimere positivamente un concetto che, in precedenza, era stato per lo più definito facendo ricorso a termini negativi, come quelli di diritto postclassico o di diritto pregiustinianeo. Tuttavia nell’accezione particolare che il Xxxx, sulla scia del Xxxxxxx e del Mitteis, dà all’espressione, essa si pone in rapporto col diritto classico o dottrinale in modo analogo (e, forse, non molto realistico) a quello in cui il latino volgare sta col latino letterario. A questo riguardo il Pugliese faceva notare che «il diritto volgare e il diritto dottrinale non sono due realtà, ma, se mai, due aspetti della realtà, due componenti dell’esperienza giuridica» e pertanto si può dubitare della configurabilità di un sistema di diritto volgare in questa particolare accezione (cfr. X. XXXXXXXX, Recensione a XXXX, Xxxx Xxxxx vulgar law: the law of property, in Arch. Xxxx., 1951, CXLI, 119 ss., in particolare 121 s.; X. XXXX, Xxxx Xxxxx vulgar law: the law of property, Buffalo2, 2003, 1 ss.).
265 Sul punto, cfr. supra, § 2, 45 s.
000 X. XXXX, Xxxx Xxxxx vulgar law, cit., 127.
provati da una gran copia di testi sia dottrinali sia autoritativi. Piuttosto, dato conto, nei limiti del possibile, della prassi e analizzati i testi che mostrano la torbidezza della decadente vita giuridica postclassica, il mio sforzo si volgerà verso l’individuazione delle tappe del tortuoso e incerto percorso storico che dalla constitutio Antoniniana porta alla celebre e disputatissima costituzione di Xxxxxxxxxxx sulla forma convenzionale (dei contratti in generale e quindi anche) della compravendita, di cui mi propongo di fare l’esegesi nell’ultimo capitolo.
CAPITOLO TERZO
forze centrifughe e forze centripete nella prassi dell’Impero.
SOMMARIO: 1. LA `CONSTITUTIO ANTONINIANA´ E I SUOI EFFETTI SULLE FORME GIURIDICHE DELLA VITA DI RELAZIONE. – 2. LA CANCELLERIA DI XXXXXXXXXXX DI FRONTE ALLE COSTUMANZE ELLENISTICHE. – 3. IL FANTASMA DELLA MANCIPATIO NELLE CARTE PIACENTINE. – 0.XX PROBLEMA DELLA NECESSITÀ DELLA `TRADITIO´ AI FINI DEL TRAPASSO DEL DOMINIO: LE TAVOLETTE XXXXXXXXX E I PAPIRI RAVENNATI.
1. La `Constitutio Antoniniana´ e i suoi effetti sulle forme giuridiche della vita di relazione.
Fecisti patriam diversis gentibus unam; profuit iniustis te dominante capi.
Xxxxxx offers victis proprii consortia iuris, urbem fecisti quod prius orbis erat.267
Con questi versi pieni di stupefatta ammirazione un poeta del V secolo d.C. esprime un esatto giudizio intorno alla realtà e al significato della storia di Roma268 e anche guardando a essa dall’angusta prospettiva dello storico giuspubblicista la verità del giudizio rimane immutata: urbem fecisti quod prius orbis erat: Roma ha fatto del mondo intero una sola città. Fin dal bellum italicum o guerra sociale del 91-89 a.C. (ma si può dire che facesse parte del programma della democrazia romana fin dall’età dei
267 XXXXXXX XXXXXXXXX, I, 63-66, De reditu suo, a cura di X. XXXXXXXXX, Xxxxxxx, 0000, 79 s.
268 Così X. XXXXXX, Xxxxx xx xxxxxx, X, Xxxxxx, 0000, 13.
Gracchi269) la politica romana verso le popolazioni vinte fu volta a raggiungere una progressiva integrazione in un organismo unitario attraverso un orientamento sempre più favorevole all’estensione della cittadinanza270 finchè nel 212 d.C. Xxxxxxxxx non dubitò di tradurre, per così dire, in formula giuridica quei mirabili versi: in orbe Romano qui sunt ex constitutione imperatoris Xxxxxxxx cives Romani effecti sunt271, per dirla con Xxxxxxx. Non è possibile accertare pienamente quali motivi indussero l’imperatore ad adottare tale provvedimento; il senatore Xxxxx Xxxxxx, animato da una profonda avversione verso la politica di Xxxxxxxxx, non certo favorevole alla classe senatoria, sostiene che egli fosse mosso soltanto dall’intento rapace di assoggettare anche i peregrini all’imposta sulle manomissioni e sulle successioni, la vicesima hereditatum, che prima di allora era pagata pressoché esclusivamente dai cittadini romani272. Se l’acrimonia che traspare dallo scritto spinge a dubitare della sua affidabilità storica, non si può escludere che il princeps fosse indotto a elargire la cittadinanza a tutti i cittadini dell’impero anche al fine di soddisfare interessi fiscali: le spese per l’apparato militare, cresciute già sotto l’impero del padre Xxxxxxxx Xxxxxx, continuarono a crescere sotto il regno di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, il quale proseguì la politica paterna di favore per l’esercito273 determinando un progressivo aumento della pressione fiscale. Le preoccupazioni di Xxxxxxxx Xxxxxx e dei figli per l’esercito e per il sistema di difesa erano, peraltro, in larga parte giustificate sia dal fatto che la pressione dei barbari (ma anche quella dei Parti che toccò proprio al fondatore della dinastia
269 Così X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 52.
270 In questo senso, cfr. X. XXXXXXXX Istituzioni, cit., 370 s..
271 Ulp. 22 ad ed., D. 1, 15, 17. Il testo della Constitutio Antoniniana de civitate peregrinis danda ci è stato trasmesso in lingua greca, insieme con altri editti dell’imperatore Xxxxxxxxx, attraverso un documento papiraceo, gravemente mutilo, appartenente alla collezione di Giessen (il X.Xxxx. 40, col. I), il cui contenuto fu pubblicato per la prima volta nel 1910 da P. M. MEYER, Griechische Papyri im Museum des oberhessischen Geschichtsvereins zu Giessen, I, 2, Leipzig, 1910, 25ss.; ID., Juristische Papyri. Erklärung von Urkunde zur Einführung in die juristische Papyruskunde, Berlin, 1920, n.1 e dopo, tra gli altri, da X. XXXXXXX, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, Leipzig-Berlin, 1912, Chrest., n. 377 e da X. XXXXXXXXX, FIRA, I2, n. 88.
272 XXXXX XXXXXX, Storia di Roma, 77, 9, 4-5.
273 Ancora da Xxxxx Xxxxxx apprendiamo la notizia che in punto di morte Xxxxxxxx Xxxxxx rivolse un’ultima esortazione ai figli: ὁµονοεῖτε, τοὺς στρατιώτας πλουτίζετε, τῶν ἄλλων πάντων καταφρονεῖτε (XXXXX XXXXXX, Storia di Roma, 77, 15, 2). Se l’ultima volontà paterna non valse a mantenere la concordia fra i figli (nel 211 infatti Xxxxxxxxx uccise il fratello Xxxx, gli inflisse la damnatio memoriae e pare, addirittura, che l’anno successivo abbia fatto uccidere il principe della giurisprudenza romana, Xxxxxx Xxxxxxxxx, proprio perché il giurista si era rifiutato di tessere l’apologia del fratricidio), essa fu tuttavia accolta con maggior favore dal figlio e successore Xxxxxxxxx nell’aspetto eminentemente politico; egli infatti perseguì il medesimo indirizzo politico del padre i cui tratti più significativi furono la grande attenzione rivolta al mondo provinciale (Xxxxxxxx Xxxxxx, fra l’altro, concesse a molte comunità locali la cittadinanza, oltre che numerosi privilegi e immunità, permise l’uso di qualsiasi lingua provinciale in alcuni importanti atti di diritto privato, come i fedecommessi, e reclutò la maggior parte dei più alti funzionari dalla Siria e dall’Africa), il carattere autoritario che impresse all’impero (Xxxxxx assunse il titolo di dominus anche di fronte a Romani e Italici ad imitazione della concezione monarchica orientale) che gli attirò le antipatie della classe senatoria e la, già citata, particolare cura dell’esercito di cui il fondatore della dinastia dei Severi migliorò le condizioni sia dal punto di vista economico aumentandone il soldo, che era rimasto immutato dai tempi di Xxxxxxxxx, in modo da reintegrare i militari nel loro reale potere d’acquisto che l’aumento dei prezzi dovuto alla diminuzione di valore del denaro aveva progressivamente eroso (cfr. ERODIANO, Storia, 3, 8, 4), sia dal punto di vista morale dando riconoscimento giuridico ai matrimoni contratti durante il servizio militare (cfr. ERODIANO, Storia, 3, 8, 5) e permettendo la creazione di città e villaggi attorno agli stanziamenti permanenti dei soldati con la logica conseguenza che essi divenissero la loro residenza definitiva all’atto del congedo.
affrontare e sconfiggere) aumentava sempre più, sia dalla circostanza che in mancanza di una legge di successione (cui si era cercato di porre rimedio nel I secolo con la successione quasi ereditaria e nel II secolo con la successione adottiva) per conquistare e mantenere il trono i contendenti dovevano appoggiarsi alla forza delle armi a cui, di conseguenza, la suprema autorità doveva il (momentaneo) successo e restava di fatto legata. Del resto, è vero che «in ogni processo storico i vari fattori agiscono e reagiscono tutti gli uni sugli altri, essendo insieme condizionatori e condizionati rispetto a quell’ambiente che, comprendendoli, li spiega e ne è spiegato»274; è vero anche che, pertanto, bisogna guardarsi dalla fallacia delle diagnosi causali nei fatti storici; tuttavia pare difficilmente contestabile il fatto che uno dei fattori più costanti e più potenti del processo, caratteristico della decadenza del mondo romano nella successiva epoca postclassica, di riduzione dell’organizzazione sociale a due sole classi (degli honestiores e degli humiliores) fu proprio il fiscalismo immane e spietato (ma anche necessario dato l’aumento delle spese dell’Impero, in particolare per l’apparato burocratico e militare) e che, conseguentemente, l’attenzione del legislatore postclassico fu attratta soprattutto dall’interesse fiscale, come cercherò di mostrare più xxxxxx000. L’osservazione di Xxxxx Xxxxxx potrebbe quindi non essere del tutto ingiustificata e l’editto di Xxxxxxxxx potrebbe leggersi, a un tempo, come una delle prime manifestazioni dei problemi che avrebbero angosciato il mondo romano nei secoli successivi e come uno dei primi (vani) tentativi di risolverli.
Sia quel che sia dei motivi della decisione di Xxxxxxxxx000, l’aspetto più interessante per lo storico del diritto è un altro e riguarda gli effetti giuridici del provvedimento277 per i quali esso può essere considerato il punto di partenza di una rivoluzione nel diritto romano: «mentre fino al 212 ciascuno dei popoli soggetti aveva continuato a vivere, per quanto concerne i rapporti familiari e patrimoniali, secondo il suo diritto, dal 212 in poi diveniva per tutti diritto vigente il diritto romano»278. La romanizzazione del mondo sembrava assicurata: lo stato-città moriva per far posto a una monarchia mondiale e il diritto privato romano da cittadino che era nelle origini e nella struttura sarebbe dovuto diventare universale279. Ma è facile intendere che neanche il più fedele dei sudditi avrebbe potuto, per ossequio alla volontà di un monarca, sradicare
274 X. XXXXXX, Xxxxx, cit., 17.
275 Cfr. infra, cap. V, 120 ss.
276 L’Arangio-Ruiz sostiene che, oltre che dalle necessità finanziarie, fosse anche «motivata forse da una tendenza verso il sincretismo religioso fra Roma e l’Oriente», X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 5. D’altronde lo stesso Xxxxxxxxx presenta il suo editto come un atto di ringraziamento agli dei che lo hanno protetto.
277 Sugli effetti giuridici dell’editto cfr., inter alios, X. XXXXXXX-XXXX, Storia del diritto romano7, Napoli, 2006, 338 ss.;
X. XXXXXXXXX, La `constitutio Antoniniana´, in Lineamenti di storia del diritto romano2 (Autori vari), Milano, 1989, 520 ss.; F. XXXXXXXX, Dal principato alla monarchia assoluta, in Storia del diritto romano e linee di diritto privato (Autori vari), Torino, 2005, 112 s. e, con particolare riguardo alla reazione della giurisprudenza dell’età dei Severi, La giurisprudenza dell’età dei Severi, ibidem, 201 ss.
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxxxxxxx00, cit., 5.
279 Così X. XXXXXXX-XXXX, Storia7, cit., 338.
ex abrupto la tendenza a persistere, nella vita di relazione, nelle forme giuridiche usate in precedenza. E proprio la, per così dire, brutalità della riforma è all’origine di amplissime e vivaci discussioni dottrinali sull’effettiva portata della stessa. A molti autori è sembrato insostenibile che l’editto, estendendo la cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero, modificasse di punto in bianco l’ordinamento in base al quale vivevano larghissimi strati della popolazione. Se la questione dei limiti soggettivi del provvedimento, molto controversa in passato, può considerarsi sopita e il suo carattere
generale280 è ormai pacificamente ammesso281, è ancora oggi oggetto di dibattito la
questione dei limiti oggettivi dello stesso, in particolare il problema più rivelante è costituito dall’individuazione del diritto applicabile ai novi cives.
All’impostazione dominante nell’800 secondo la quale ai peregrini ai quali l’imperatore Xxxxxxxxx aveva largito la civitas Romana dovesse di necessità applicarsi il diritto romano in ragione dell’ideologia, connaturata alla città-stato, dell’esclusività dell’ordinamento giuridico di appartenenza, già Xxxxxx Xxxxxxx mosse le prime obiezioni in un’opera fondamentale282 con la quale additò agli studi romanistici una nuova via da percorrere. L’autorevole studioso ebbe l’indiscutibile merito di farsi pioniere dello studio dei rapporti tra diritto romano (Reichsrecht) e diritti locali (da lui qualificati come Volksrechte) ponendo l’accento sulla persistenza dopo il 212 d.C. delle concezioni e delle pratiche precedenti alla promulgazione dell’editto attraverso le quali i provinciali continuavano a svolgere i loro traffici giuridici. Tuttavia, com’è naturale dopo oltre un secolo dalla sua pubblicazione, il geniale studio del Mitteis presenta limiti, da un lato, oggettivi, dovuti allo sviluppo allora soltanto embrionale della papirologia giuridica, di cui il grande romanista può dirsi l’iniziatore283 (per il periodo imperiale egli poté utilizzare quasi soltanto i papiri egizi, oltre ai testi di provenienza romana), dall’altro, soggettivi perchè l’insigne studioso non riuscì a liberarsi del tutto dagli schemi della dottrina allora dominante e ritenne che la sopravvivenza degli ordinamenti giuridici vigenti prima della constitutio Antoniniana fosse un fenomeno da collocarsi sul piano di fatto e non su quello di diritto.
La rigidità dell’opinione proposta dal Xxxxxxx per la quale i diritti locali sarebbero degradati a usanze formalmente illegali suscitò la reazione di chi giudicava assai improbabile sia il fatto che venisse imposto da un giorno all’altro a peregrini, magari con tradizioni giuridiche secolari alle spalle, di uti iure Romano sia il fatto che il
280 Ovviamente questo non significa che non vi fossero eccezioni, come per esempio nei confronti dei soggetti che avessero perso lo status civitatis in seguito a condanna penale.
281 Prova sicura del fatto che esso dispiegasse i suoi effetti anche riguardo ai peregrini nullius civitatis (contrariamente alla tesi del Mommsen) è data dalla documentazione proveniente dall’Egitto da cui risulta che dopo il 212 d.C. anche gli abitanti della χώρα egiziana, adottando almeno in parte il sistema onomastico romano, assunsero il gentilicium di Xxxxxxx, che era quello dell’imperatore Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, che aveva loro elargito la cittadinanza. Sul punto cfr. X. XXXXXXXXX, La `constitutio Antoniniana´, in Lineamenti2, cit. 520 s.
282 X. XXXXXXX, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Xxxxxxxxx xxx Xxxxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000.
283 Così X. XXXXXXXX, Reichsrecht, Volksrecht, Provinzialrecht. Vecchi problemi e nuovi documenti, in SDHI, LXV, 1999, 211.
persistere degli elementi tradizionalmente locali avvenisse contra ius, per disinteresse o per una certa tolleranza dell’autorità romana. In particolare secondo la tesi che fa capo allo Schönbauer284, la costituzione di Xxxxxxxxx avrebbe lasciato sussistere, accanto alla concessa civitas Romana, la cittadinanza originaria dei novi cives, in base al regime della doppia cittadinanza. Gli antichi ordinamenti autoctoni sarebbero pertanto rimasti in formale vigore e i nuovi cittadini avrebbero potuto continuare a servirsene di pieno diritto. Tuttavia si è fatto notare che è la stessa costituzione di Xxxxxxxxx a togliere il presupposto della tesi della doppia cittadinanza giacché con la generale concessione della cittadinanza quelle che prima del 212 d.C. erano civitates peregrinae (fossero esse liberae, sine foedere o foederatae, o autonome di fatto) erano divenute tutte città romane facendo quindi venir meno la base formale a cui ancorare la doppia cittadinanza che, d’altro lato, non avrebbe potuto spiegare la sopravvivenza degli ordinamenti dei peregrini nullius civitatis.
Più di recente si è quindi avanzata una tesi diversa285 secondo la quale a seguito della constitutio Antoniniana gli ordinamenti locali sarebbero stati sussunti nel più ampio ordinamento romano in quanto consuetudini vigenti nell’Impero e, in quanto tali, avrebbero mantenuto il loro formale vigore nei limiti in cui non fossero entrate in contrasto con norme romane inderogabili. Anche questa tesi presta il fianco a critiche fondate. Anzitutto dalle notizie che si possono ricavare dalle fonti appare di difficile contestazione il fatto che, persino negli ambienti ellenizzati della pars Orientis dell’Impero, si fosse radicata la convinzione che anche gli abitanti di quelle regioni fossero retti «dalle leggi comuni (a tutti) dei Romani», come scrive Menandro di Laodicea in un’opera retorica sul genere epidittico. La testimonianza del retore greco, inoltre, trova piena conferma nella documentazione papirologica proveniente dall’Egitto. Fin dalla conquista da parte di Xxxxxxxxxx Xxxxx nel 332 a.C. questa provincia era tutta permeata di cultura greca e il diritto dei paesi ellenistici era
284 Innumerevoli sono gli scritti dello Schönbauer sull’argomento, cfr., inter alios, X. XXXXXXXXXX, Reichsrecht gegen Volksrecht? Studien über die Bedeutung der `Constitutio Antoniniana´ für die römische Xxxxxxxxxxxxxxxxx , xx XXX, XX, 0000, 277 ss.; ID., Reichsrecht, Volksrecht und Provinzialrecht. Studien über die Bedeutung der `Constitutio Antoniniana´ für die römische Rechtsentwicklung, in ZSS, LVII, 1937, 309 ss.; ID., Rechtshistorische Urkundenstudien. Die Inschrift von Xxxxxx und die` Constitutio Antoniniana´, in Arch. Pap., XIII, 1939, 177 ss.; ID., Deditizier, Doppelbürgerschaft und Personalitäts-Prinzip, in JJP, 1951, 17 ss; ID., Untersuchungen über die Rechtsentwicklung in der Kaiserzeit, in JJP, 1956, 15 ss. È nota l’avversione dell’Xxxxxxx-Xxxx alla tesi che il giurista italiano, aderendo a una versione attenuata della tesi del Mitteis, non mancò di criticare in particolare nello studio Sul problema della doppia cittadinanza nella Repubblica e nell’Impero romano, in Scritti giuridici in onore di X. Xxxxxxxxxx, Padova, 1950, IV, 53 ss. I due si resero protagonisti di una serrata e duratura polemica che spinse un esasperato Arangio-Ruiz a scrivere dello Schönbauer che «della confutazione delle mie idee sembra fare lo scopo principale della sua esistenza» (X. XXXXXXX- XXXX, Storia7, cit., 425).
285 In particolare la tesi, prendendo le mosse dal diritto praticato in Egitto, è sostenuta da X. XXXXXX-XXXXXXXXXXXX, Diritto romano e diritti locali, in Storia di Xxxx, XXX/0, Xxxxxx, 0000, 997 ss. (saggio nel quale l’Autore riprende sue precedenti ricerche sul tema poi riunite in Droit impérial et traditions locales dans l’Égypte romaine, Aldershot, 1990). Anche questa tesi diede origine a una vivace contesa che vide il Talamanca contrapporsi al Xxxxxxxxxxxx soprattutto riguardo alla testimonianza di un retore greco della fine del III secolo d.C., Menandro di Laodicea, sulla consapevolezza diffusa della generale vigenza del diritto romano, il cui valore, agli occhi del Talamanca , era chiarissimo e «così inequivocabile che il tentativo, senz’altro prevenuto di Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx, di toglier valore a queste testimonianze s’è rivelato soltanto un esercizio d’elegante quanto inutile sofistica salottiera» (X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 116).
profondamente diverso dal diritto romano286. Non può quindi essere casuale la comparsa nei papiri egiziani della clausola stipulatoria proprio intorno al 220 d.C.287, poco dopo la promulgazione del celebre editto. Attraverso questa clausola, forse introdotta in Egitto da un’ordinanza prefettizia288, i provinciali intendevano porre sotto l’egida della stipulatio romana i negozi da loro compiuti secondo i diritti locali. Poiché, infatti, quel contratto formale e unilaterale tipico del diritto romano poteva obbligare a qualunque condotta, purchè lecita, possibile e determinata, i novi cives se ne servirono ampiamente e, se anche «dovettero generalmente astenersi dal pronunciare quella domanda e risposta solenni che la clausola in parola avrebbe dovuto documentare»289, assunsero l’abitudine di apporre a chiusura del contratto le parole et interrogatus spopondit (καὶ ἐπερωτηθεὶς ὡµολόγησεν). Versando il contenuto negoziale in una verborum obligatio, i provinciali assicuravano la coercibilità, secondo il diritto romano, a obbligazioni contrattuali assunte nelle forme, profondamente diverse e di notevole importanza per gli sviluppi successivi, previste dagli ordinamenti autoctoni, alle quali erano adusi. E questo sforzo volto a dar efficacia giuridica sul piano del diritto romano ai negozi compiuti sulla base dei diritti locali è, a un tempo, un’importante testimonianza della scarsa dimestichezza che anche coloro che redigevano i documenti avevano coi principi del diritto romano (la clausola compare spesso anche in quietanze di pagamenti, in negozi traslativi, in atti unilaterali, come il testamento, e in negozi non patrimoniali, come la manomissione) e una chiara manifestazione di consapevolezza che il diritto romano fosse divenuto il criterio ultimo di valutazione dei comportamenti giuridicamente rilevanti anche in provincia, che l’ordinamento della civitas Romana fosse, insomma, l’unico vigente nell’Impero.
Ciascuna delle teorie brevemente esposte aiuta a cogliere un aspetto del fenomeno giuridico nel mondo provinciale così come esso doveva presentarsi dopo il 212 d.C., tuttavia a tutte quante insieme può essere rivolta una medesima osservazione critica: esse tendono a ricercare una soluzione monistica al problema e «a dare valore assoluto a soluzioni astratte»290. Quest’atteggiamento, comprensibile dalla prospettiva del giurista, è meno giustificato dalla prospettiva dello storico agli occhi del quale è evidente la difficoltà del fatto che la portata della costituzione potesse essere intesa allo stesso modo a Narbona e ad Alessandria d’Egitto. A chi voglia tentare una ricostruzione storica
286 Per la compravendita, cfr. supra, cap. II, § 2, 45 ss..
287 A onor del vero già alcuni documenti contrattuali della metà del II secolo d.C. contengono la menzionata clausola, ma essi furono redatti in Asia Minore e finirono in Egitto soltanto in un secondo momento come per esempio nel caso del negozio attestato da X. Xxxxxx 22, una compravendita di schiavi del 142 d.C. confezionata a Side, una città della Panfilia (cfr. L. MIGLIARDI XXXXXXX, Diritto romano e diritti locali nei documenti del Vicino Oriente, in SDHI, LXV, 1999, 224, nt. 28).
288 Sul punto xxx. X. XXXXX, Xxxxxxx xxx Xxxxxx xxx Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 17 e 25.
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 341. Riprova ne è il fatto (per cui cfr. infra nel testo) che la clausola appare anche in negozi «dove non si saprebbe neppure immaginare da chi potesse essere fatta al disponente la domanda che è essenziale alla stipulazione» (X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 331), come per esempio «nei testamenti e nelle manomissioni, atti in cui la stipulatio non può svolgere alcun ruolo» (X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit. 566).
290 M. TALAMANCA, La `constitutio Antoniniana´, in Lineamenti2, cit. 524 s.
verosimile, s’impone innanzitutto una distinzione fra le province della pars Orientis e quelle della pars Occidentis dell’Impero: le prime ampiamente ellenizzate, le seconde di massima già romanizzate sotto tutti i profili, compreso quello giuridico. Ed è anche ovvio che si tratti di una distinzione per più ragioni insufficiente. Anzitutto si deve tener conto del fatto che la pars Orientis ricomprende anche aree, come quella che nel 106
d.C. sarebbe diventata la provincia d’Arabia291, che, prima della conquista romana, rimasero ai margini del mondo greco e in cui l’influenza dell’ellenismo fu, di conseguenza, soltanto formale. In secondo luogo capitava che la civitas Romana ancor prima del 212 d.C. fosse concessa a intere città dell’Oriente, normalmente con l’attribuzione dello status di colonia onoraria (come per esempio Tiro). Inoltre la cittadinanza romana era attribuita ai membri della classe dirigente delle città straniere al fine di legarli al governo romano (e alla casa regnante) nell’ideologia e negli interessi 292 ed è quindi chiaro che il problema dell’abrogazione degli ordinamenti locali, a seconda di quanto fosse andata avanti l’omologazione con il governo centrale e la classe che lo esprimeva, dovesse porsi in modo radicalmente diverso per un membro dell’élite di governo rispetto a un quivis de populo. D’altro canto le diverse condizioni economiche e sociali delle classi subalterne dovevano rendere il problema dell’individuazione del diritto da applicare di minore gravità293. Infine si dovrebbe anche distinguere fra l’atteggiamento del governatore provinciale e del suo apparato burocratico e l’atteggiamento della cancelleria imperiale sia in ragione della diversa preparazione giuridica sia in ragione della possibilità di una diversa linea politica294: non è improbabile che il primo fosse di massima più aperto alla recezione delle istanze dei provinciali di quanto non fosse la seconda che, essendo diretta emanazione dell’imperatore che proprio in quel tempo riusciva a imporre la massima quod principi placuit legis habet vigorem295, doveva essere più esigente nel pretendere l’ossequio alla volontà del monarca. Anche su quest’aspetto, tuttavia, le generalizzazioni potrebbero essere fuorvianti: raffigurarsi la politica imperiale come un monolito sempre identico a
291 Significativa al riguardo è la testimonianza dell’archivio di Babatha figlia di Xxxxx. Si tratta di una raccolta di 35 papiri di età adrianea (più precisamente i più antichi fra essi si collocano prima del regno di Xxxxxxx e sono databili al 93 d.C., mentre i più recenti al 132 d.C.) scoperta nel corso di due spedizioni fra il 1960 e il 1961 nella cosiddetta
`Grotta delle lettere´ durante gli scavi condotti da Xxxxxx Xxxxx. Questi documenti, in gran parte in lingua greca, ma con sottoscrizioni in aramaico e nabateo, appartenevano a una donna, Xxxxxxx, che aveva lasciato il villaggio nativo di Maoza in Arabia per rifugiarsi in Giudea al tempo della rivolta di Xxxxxx Xxx Xxxxxx (ossia il figlio della stella). La zona, pur avendo recepito la lingua greca per ragioni commerciali, aveva conservato sostanzialmente integre le tradizioni giuridiche nabatee ed è per questo motivo di grande interesse il fatto che in questi documenti attestanti compravendite, mutui ipotecari, depositi, donazioni e matrimoni si palesino chiaramente i segni del ius di Roma ben prima della constitutio Antoniniana. In particolare non può passare inosservata la presenza della clausola stipulatoria nella traduzione greca καὶ ἐπερωτηθεὶς ὡµολόγησεν, costantemente accompagnata dal riferimento alla πίστις invocata, con tutta probabilità, al fine di suggellare i negozi giuridici dei peregrini. Cfr. The Documents from the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters. Greek Papyri, a cura di X. XXXXX, Xxxxxxxxx, 0000.
292 Sul punto cfr. X. XXXXXXXXX, `Status civitatis´ ed ordinamento giuridico, in Lineamenti2, cit. 517 e, amplius, ID., I mutamenti della cittadinanza, in Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité, 1991, 703 ss.
293 Così X. XXXXXXXXX, La `constitutio Antoniniana´, in Lineamenti2, cit., 527 s.
294 Ancora cfr. X. XXXXXXXXX, La `constitutio Antoniniana´, in Lineamenti2, cit., 527.
295 Ulp. 1 Inst,. D, 1, 4, 1, pr.
se stesso significherebbe, per usare una splendida metafora di Xxxxx Xxxxxxxx000, guardare a essa con occhi eleatici che, come quelli della Xxxxxxx, impietrano tutto ciò su cui si posano. Ma il reale si ribella a quest’immobilizzazione medusea: di fronte agli usi locali una è la politica dei Severi297, «per lo più d’indifferenza o, se vogliamo, di tacito consenso»298, altra è la politica di Xxxxxxxxxxx, di profonda avversione e ferma opposizione, nel magnanimo sforzo volto a restaurare l’antico Impero romano e pagano. Gli usi poi non possono certo essere considerati indistintamente: è evidente, per esempio, che al popolo romano, al quale nessun altro è pari «nell’esecuzione semplice ma inesorabile dei rapporti giuridici imposti dalla natura stessa»299, non poteva non ripugnare la pratica, assai diffusa in Egitto, delle unioni endogamiche alla quale dopo il 212 d.C. fu concessa soltanto un’eccezionale transitoria prosecuzione300. Ma di fronte ad altre pratiche egualmente diffuse in ambiente provinciale l’atteggiamento imperiale poteva non essere lo stesso. Escluso che «la vigenza delle consuetudini locali si fermasse soltanto dinanzi a quelle norme sottese da particolari valori politici od etico- sociali»301, è proprio l’individuazione delle norme cogenti di diritto romano, alle quali le consuetudini locali non potevano derogare, il problema di maggiore interesse, ma anche di più grave difficoltà per lo storico del diritto. Fatta eccezione per l’Egitto, che presenta, pur con qualche lacuna, una straordinaria continuità, i ritrovamenti di materiale scritto sono del tutto casuali e anche per questo l’accostarsi al problema per tentare di seguire gli sviluppi storici dell’epoca successiva alla constitutio Antoniniana pare un incedere per ignes suppositos cineri doloso. Alla luce delle precedenti osservazioni sulla necessità di distinguere i vari contesti normativi e pragmatici e della parvità del materiale a disposizione che condanna purtroppo all’ignoranza della prassi di intere zone e di molti periodi, si potrebbe addirittura dubitare della reale possibilità di illuminare, anche soltanto avuto riguardo al tema della compravendita, uno dei poli della dialettica del tardo-antico, cioè la prassi e gli usi delle province, e, di conseguenza, della possibilità di conoscere gli sviluppi dell’istituto in questo periodo. E il dubbio potrebbe trovare nuovo alimento nella considerazione, valida soprattutto nei riguardi della tarda epoca postclassica e in misura maggiore nella pars Occidentis rispetto alla pars Orientis dell’Impero, che in quest’epoca «il diritto non si sviluppa secondo un processo lineare, dominato da un pensiero unitario, guidato e fissato dalla volontà del legislatore; ma, sopraffatto da tendenze locali e dalle forze sociali che si affermano quanto più si indebolisce il potere dello Stato, esso […] si spezza in tanti rivi
296 X. XXXXXXXX, Studi sull’eleatismo2, Firenze, 1977, 99 s.
297 Per le grandi linee della quale cfr. supra, 61, nt. 273.
298 X. XXXXXXXX, Reichsrecht, cit. 212.
299 X. XXXXXXX, Storia di Roma antica, trad. it., X/0, Xxxxxxx, 2001, 73.
300 Sul punto cfr. X. XXXXXXXXXXX, Endogamia e cittadinanza romana in Egitto, in Aegyptus, LIX, 1979, 137 ss.
301 X. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 115.
separati»302. Ma se, alla luce del sin qui detto, è indubbiamente vero che la ricerca storica sugli sviluppi della compravendita nel periodo postclassico sconta di necessità un grado assai maggiore d’indeterminatezza di quanto non avvenga con riguardo ad altre età della storia, è però anche vero che le tendenze particolaristiche, che assumono un’importanza crescente a mano a mano che l’Impero s’indebolisce303, convivono, nel caotico fluire storico di quest’epoca, con tendenze accentratrici promananti dall’autorità imperiale la quale proprio tra la fine dell’epoca classica e gli albori di quella postclassica andava affermando la sua assolutezza e sarebbe stata in avvenire l’unica forza capace di incidere sulla realtà con fonti normative di carattere autoritativo, dalle quali spesso si ricavano anche utili informazioni per definire in modo meno incerto i tratti della prassi e degli usi. Per questa ragione nella ricostruzione dello svolgimento postclassico della compravendita ho inteso prendere le mosse dall’editto di Xxxxxxxxx che in qualche modo costituisce l’emblema di una nuova epoca che si apriva nel segno di una latente contraddizione: da un lato, si affermava definitivamente l’«idea di un impero universale cosmopolitico, senza più un autentico centro, sull’altra di una supremazia di Roma come città-stato»304; dall’altro, il pricenps, che ormai si considerava legibus solutus, manifestava una volontà accentratrice305 e favoriva una tendenza verso l’unità che, nell’atto stesso di realizzarsi, cessava però di essere una romanizzazione pura e semplice, non potendo non risentire di una serie di elementi esterni, alcuni dei quali affatto estranei alla romanità, quali le concezioni imperanti nelle
302 P. DE FRANCISCI, Premesse storiche alla critica del Digesto, in Conferenze per il XIV centenario delle Pandette, Milano, 1931, 33.
303 Fino a scomparire del tutto in Occidente nel 476 d.C. col noto episodio del confino, a opera di Xxxxxxx, nella villa luculliana di Baia, presso Napoli, dell’ultimo imperatore, un giovinetto che, per ironia della sorte, portava i due nomi del primo re e del primo imperatore, Xxxxxx Xxxxxxxxx.
304 F. XXXXXXXX, La giurisprudenza, cit., in Storia, cit. 201.
305 Risale proprio a quest’epoca e, in particolare, all’imperatore Xxxxxxxxxx l’enunciazione del principio che la volontà del monarca espressa in una constitutio principis dovesse prevalere su qualunque altra fonte di diritto, compresa la consuetudine che, se contra legem, era quindi priva di efficacia giuridica (C. 8, 52, 2, a. 319). Il principio costantiniano è palesemente contrario a quello espresso quasi due secoli prima da Xxxxxx Xxxxxxxx (D. 1, 3, 32: il testo, sospettato di interpolazione, riflette in ogni caso una concezione classica) il quale ammette che una legge potesse cadere in desuetudine ed essere quindi abrogata da una consuetudine contraria. Non privo di interesse è il fatto che l’antinomia fra le due norme del Corpus iuris civilis fu oggetto di dibattito fra i giuristi vissuti nei secoli XII e XIII, quando infuriavano le lotte fra l’Impero e il papato e, soprattutto, per l’aspetto che qui viene in rilievo, fra l’Impero e i Comuni: dapprima essa fu risolta da Xxxxxxx con l’invocazione della lex regia de imperio con la quale, secondo il Theutonicus, il popolo avrebbe alienato ogni sua potestà al principe in via definitiva, irrevocabile e totale rendendo inammissibile la consuetudine contra legem (cfr. la gl. in D. 1. 3. 32; per l’attribuzione a Irnerio cfr. X. XXXXXXX, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, II, Roma, 1964, 126, nt. 56). Poco importa che l’applicazione del criterio cronologico da parte del giurista fosse sbagliata dato che egli collocava Xxxxxx Xxxxxxxx prima della lex regia; è notevole invece il fatto che l’invocazione della lex regia come criterio risolutivo dell’antinomia fosse fatta a sostegno della battaglia politica del recupero delle regalie. E in questo stesso senso non può passare inosservato nemmeno il fatto che la tesi irneriana, che aveva avuto larga eco presso i gosiani fino a Piacentino, venne sovvertita dall’interpretazione di Azzone, agli inizi del Duecento, quando ormai i Comuni vittoriosi a Legnano (1176) e conquistata la garanzia delle proprie autonomie con la pace di Costanza (1183), avevano preso a derogare alle leggi imperiali a proprio piacimento (cfr. la Lectura Codicis, di Azzone in C. 1. 14. 12, de legibus et const., Si imperialis, ed. Parisiis 1577=Torino 1966). Sulla vicenda cfr. X. XXXXXXX, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Xxxx, 0000, 258 s. e 311 ss.
province, soprattutto ellenistiche, e il Cristianesimo306, altri del tutto contingenti come il regresso sociale ed economico e altri ancora, come il fenomeno del volgarismo, che, sebbene presenti in ogni epoca storica e in qualunque ordinamento giuridico, manifestano spiccatamente la loro forza di penetrazione nel diritto ufficiale quando i bastioni eretti dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dalla legislazione si fanno meno solidi.
Questo è il quadro generale su cui s’innestano gli sviluppi per l’epoca successiva dell’emptio et venditio classica, consensuale e obbligatoria. Nell’impossibilità materiale di ricostruire le balenanti consuetudini locali, mi contenterò di lumeggiare, quel poco che conviene al fine del presente lavoro, la prassi greco-egizia, con particolare riguardo alla reazione della legislazione imperiale dinanzi a essa, alla cui documentazione «si contrappongono, come altri blocchi erratici, le cosiddette Tablettes Albertini»307 e, per quello che riguarda l’Italia, i papiri ravennati (almeno quelli di periodo pregiustinianeo) e le Carte Piacentine che, pur essendo dell’VIII secolo, contengono un formulario tralatizio strettamente affine a quello delle tavolette daciche del II secolo d.C. e, in certi limiti, possono costituire un argomento utile a congetturare quale fosse la prassi italica del periodo precedente.
2. La cancelleria di Xxxxxxxxxxx di fronte alle costumanze ellenistiche.
È fuor di dubbio che la prassi greco-egizia assuma un’importanza di primo piano rispetto al problema che qui interessa e ciò sia per l’ingente massa di documenti papiracei che è giunta fino a noi e che consente di avere una visione sufficientemente precisa e completa della vita giuridica di quella provincia, sia per l’influenza, seppure non di per sé determinante, che questa prassi, che si fondava su un ordinamento giuridico ormai stabilizzatosi, nei suoi tratti principali, da parecchi secoli, avrebbe avuto sui successivi sviluppi della compravendita. Cessata la separazione fra i diritti locali e il diritto romano con la celeberrima costituzione caracalliana del 212 d.C., la cancelleria imperiale fu assediata da richieste di provinciali che pretendevano che le norme che
306 L’influenza del Cristianesimo, la cui straordinaria potenza trova certamente una più facile occasione di manifestarsi nel campo del diritto delle persone e della famiglia o del diritto penale, non mancò di farsi sentire anche nel campo dei rapporti patrimoniali: una ripercussione vasta della nuova dottrina etica, per esempio, è probabilmente da riconoscersi
«nella introduzione, sì in Oriente che in Occidente, del principio che il prezzo nella compravendita deve essere il iustum pretium, e un equilibrio in generale deve sussistere tra prestazione e controprestazione nei negozi a titolo oneroso» (E. ALBERTARIO, Oriente e Occidente nel diritto romano del Basso Impero, in Scritti in onore di X. Xxxxxxx, XXX, Pavia, 1946, 127).
307 X. XXXXXXXXX sub voce Vendita, cit. 465. L’autore nel passo citato si riferisce al limitato problema della necessità della traditio per il trasferimento della proprietà emptionis causa.
erano state proprie degli ordinamenti autoctoni fossero riconosciute come vigenti e applicate ai casi loro; per conseguenza, soprattutto nel primo secolo dopo l’editto, imperatori come Xxxxxxxxxx Xxxxxx, i Xxxxxxxx e, col massimo vigore, Xxxxxxxxxxx, ripeterono a sazietà principi anche elementari di diritto romano affinché fossero rettamente applicati. In particolare, dato il fine della presente ricerca, viene in rilievo l’aspra battaglia che fu combattuta intorno alle forme dei contratti obbligatori e dei negozi traslativi della proprietà. Seguendo i risultati di una finissima indagine condotta dall’Archi308 e avuto uno speciale riguardo alla compravendita, si possono distinguere tre gruppi di rescritti imperiali.
Al primo gruppo appartengono quei rescritti in cui si fa questione di funzione probatoria dei quali un esempio309 è costituito da:
Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Chroniae C. 4, 19, 12 (a. 293) Cum res non instrumentis gerantur, sed in haec gestae rei testimonium conferatur, factam emptionem et in vacuam possessionem inductum patrem tuum pretiumque numeratum quibus potes iure proditis probationibus docere debes.
In diritto romano classico il documento, che pure conobbe fin dall’età repubblicana una notevole diffusione310, non aveva alcuna posizione di privilegio, ma, essendo l’ordinamento privo di un sistema di prova legale, era suscettibile di attacco con qualsiasi mezzo. Si può anzi dire che il documento più tipicamente romano, la
testatio, fondasse la propria forza probatoria sulla possibilità311 che, in caso di
contestazione sul suo contenuto, i testes i quali avevano apposto il proprio sigillo alla
308 G.G. ARCHI `Civiliter vel criminaliter agere´ in tema di falso documentale: (Contributo storico-dommatico al problema della efficacia della `scriptura´), in Scritti di Diritto romano in onore di Xxxxxxxx Xxxxxxx pubblicati in occasione della sua Beatificazione, Milano, 1947, 1 ss. e, sul punto in particolare, 20 ss.; ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Scritti di diritto penale. Scritti di diritto postclassico e giustinianeo, Milano, 1981, 1589 ss..
309 Per ciascun gruppo mi contenterò di fare un esempio che riguarda direttamente la compravendita, mentre per le altre fonti rimando a G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 20 ss. (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Xxxxxxx, cit., 1617 ss.).
310 Come fa notare il Voci, «Xxxxxxxx ‘leggeva’ le sue stipulazioni, Ad Att. XVI. 11. 7; la questione dei debiti, sul finire dell’età repubblicana, era una questione ‘de novis tabulis’, Cic. De off. II 23.84, ecc. (i particolari sono incerti, ma è certo che lo scritto c’entrava: XXXXXX, Atti II semin. rom. gardesano, Milano, 1980, 37). In età del principato, Scevola e Papiniano chiamavano emptiones i doc. di vendita, D. 32. 120 pr.; 33. 7. 12. 45. Xxxxxx era il negozio stipulatorio e il documento che ne riferiva. L’uso comune determinò le interpretazioni di volontà: x. xxx xx., X. 00. 59 Iul. 34 dig. (affermazione di principio); 30. 84. 7 Iul. 33 dig.; 30. 44. 5 Ulp. 22 Sab.; C. 8. 16. 2, a. 207 (qui emptio è il doc. di vendita); 8. 25. 7, a. 287. Né sono infrequenti espressioni come eam scripturam (il doc. dotale) ius successionis non mutasse constitit; o come ex istrumento habere actionem (D. 38. 16. 16; C. 8. 38. 4)», P. VOCI, Tradizione, donazione, vendita da Xxxxxxxxxx a Xxxxxxxxxxx, in IVRA, XXXVIII, 1987, 88, nt. 80.
311 In questo senso cfr. X. XXXXXXXXX, sub voce Documentazione e documento, in Enciclopedia del diritto, Milano, XIII/1964, 550 e 557, nt. 72.
chiusura della scriptura interior312, fossero chiamati a riconoscere l’integrità dei signa e a rendere testimonianza sui fatti che si erano svolti alla loro presenza. Interessante è al riguardo la testimonianza313 di Xxxxxxxxxxx, il più grande maestro di retorica a Roma, una fonte che, quindi, pur essendo extragiuridica, assume uno specifico rilievo sia in ragione del fatto che la materia dell’assunzione e discussione delle prove «era quasi un monopolio dei maestri di retorica e dei trattati da essi scritti»314 sia in ragione del fine didattico propostosi dall’autore dell’opera:
Inst. Orator. V. 5. 1 Contra tabulas quoque saepe dicendum est, cum eas non solum refelli sed etiam accusari sciamus usitatum esse. Cum sit autem in his aut scelus signatorum aut ignorantia, xxxxxx ac facilius id quod secundo loco diximus tractatur, quod pauciores rei fiunt. 2. Sed hoc ipsum argumenta ex causa trahit, si forte aut incredibile est id actum esse quod tabulae continent, aut, ut frequentius evenit, aliis probationibus aeque inartificialibus solvitur, si aut is in quem signatum est aut aliquis signator dicitur afuisse vel prius esse defunctus, si tempora non congruunt, si vel antecedentia vel insequentia tabulis repugnant. Inspectio etiam ipsa saepe falsum deprendit.315
Il retore afferma che contro i documenti scritti (contra tabulas316) non ci sono che due vie o refelli o accusari. Tralasciando la considerazione di quest’ultimo termine, che indubbiamente si riferisce alla via criminale tendente ad accertare lo scelus dei signatores e a punirli di conseguenza quali rei di falso, spicca il riferimento al refelli che consisteva nel dibattito che si svolgeva tra le parti per la formazione del giudizio di fatto nel corso della fase apud iudicem del processo formulare. Rispetto all’accusari altra è la meta cui tende chi elige questa via: incurante del contegno dei testi al documento, egli mira soltanto a impugnare la fides delle tabulae, facendo leva sull’ignorantia signatorum con tutte quelle possibilità che Xxxxxxxxxxx enumera (si aut is in quem signatum est aut aliquis signator dicitur afuisse vel prius esse defunctus, si tempora non congruunt, si vel antecedentia vel insequentia tabulis repugnant. Inspectio etiam ipsa saepe falsum deprendit). Ma sul punto un abisso separava le concezioni romane dalle costumanze delle province ellenistiche le quali, in certi casi, addirittura attribuivano alla
312 La testatio è un documento redatto in forma oggettiva in cui vengono descritte, in terza persona le attività svolte dalle parti. Per quanto riguarda la forma materiale, si deve dire che quasi tutti i documenti, sia quelli redatti in forma oggettiva, sia quelli redatti in forma soggettiva (chirographa, il cui nome rivela l’evidente origine ellenistica), si presentano, almeno sino alla fine del Principato, nella forma delle tabulae ceratae che venivano poi raggruppate in dittici, in trittici, o, più raramente, in polittici. Altra caratteristica costante dei documenti romani è la duplice scrittura: l’una aperta (scriptura exterior), che permette di consultare in ogni occasione il contenuto del documento; l’altra chiusa e sigillata dai testimoni (scriptura interior) che, aperta in caso di contestazioni, consente, come detto nel testo, il controllo dell’autenticità del contenuto della stessa. Sul documento cfr. X. XXXXXXXXX, sub voce Documentazione, cit. 548 ss..
313 Per la cui interpretazione cfr. G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 9 ss..
314 X. XXXXXXXX Istituzioni, cit., 324.
315 QUINTILIANO, V. 1-2, Institutio oratoria, I, a cura di X. XXXX ed E. D’INCERTI XXXXXX, Milano, 2007, 510.
316 Sul significato della parola cfr. supra, nt. 312.
parola scritta «la stessa efficacia oggettiva, quasi magica, che i romani riconoscevano alle solenni dichiarazioni orali: tant’è che, ad es., i documenti redatti sotto forma di mutuo (δάνειον) potevano essere prodotti, come rileva un tardo scrittore latino (Pseud.- Ascon, ad Cic. In Verr. 2, 1, 14, 36), anche contra fidem veritatis»317. E l’attribuzione allo scritto del valore di prova per eccellenza spiega l’imbarazzo nel quale doveva trovarsi un abitante dell’ellenizzata provincia d’Egitto cum res non instrumentis gerantur e la necessità che la cancelleria imperiale si assoggettasse alla fatica di ripetere il principio, ovvio dal suo punto di vista, che la prova potesse essere fornita con vari mezzi.
Nel secondo gruppo si possono collocare quei testi in cui il postulante assegna al documento un’efficacia costitutiva considerandolo un elemento necessario ad substantiam actus, per l’esistenza stessa del rapporto. Come esempio di questo secondo gruppo può citarsi il seguente passo:
Impp. Diocl. et Max. AA. et XX. Xxxxxxx Xxxxxxx X. 0. 00. 00 (x. incerto, comunque tra il 293 e il 305) pr. Non idcirco minus emptio perfecta est, quod emptor fideiussorem non accepit vel instrumentum testationis vacuae possessionis omissum est: nam secundum consensum auctoris in possessionem ingressus recte possidet.
1. Pretium sane, si eo nomine satisfactum non probetur, peti potest: nec enim licet in continenti facta paenitentiae contestatio consensu finita rescindit.
Qui la cancelleria imperiale prende di mira il documento nella sua tendenza, diffusa nelle aree ellenizzate, a porsi come requisito essenziale; in particolare si dice che l’omissione del documento di tradizione non può in alcun modo inficiare la vendita (Non idcirco minus emptio perfecta est, quod […] instrumentum testationis vacuae possessionis omissum est) e che colui, che in forza dell’autorizzazione del tradente, s’immette nel possesso, recte possidet e al venditore, avendo perduto la proprietà per l’avvenuta traditio, non resterà che l’azione contrattuale per ottenere il pagamento del prezzo (pretium sane, si eo nomine satisfactum non probetur, peti potest). Alle orecchie di un civis Romanus queste affermazioni sarebbero suonate due volte inutili: anzitutto perché il momento esecutivo del rapporto non avrebbe mai potuto incidere sulla perfezione genetica del vincolo contrattuale e in secondo luogo perché, anche a voler intendere l’instrumentum testationis vacuae possessionis come volto a documentare a un tempo il contratto e il negozio traslativo, l’emptio et venditio, appartenendo al genere dei contratti consensuali, non avrebbe comunque necessitato di alcuna forma particolare, bastando alla sua perfezione la manifestazione del consenso318. Ma sul punto la coscienza giuridica della comunità ellenistica era profondamente diversa. Prendendo le mosse da una concezione della compravendita319, analoga a quella della mancipatio romana, come scambio immediato di cosa contro prezzo, ma non giungendo mai a concepire la netta separazione, tipica del diritto romano classico, fra il contratto produttivo di sole obbligazioni e l’atto traslativo della proprietà, nelle province ellenistiche la compravendita più facilmente finì «per incorporarsi in un documento, col
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 337.
318 Cfr. supra, cap. II, § 3, 47 ss.
319 Per cui cfr. supra, cap. II, § 2, 45 ss..
quale il venditore riconosceva il passaggio della proprietà come un effetto immediato della ricezione del prezzo […]. Questa prevalenza della scrittura, per la quale la volontà in essa cristallizzata non aveva bisogno di estrinsecarsi in atti materiali»320 spiega la difficoltà del postulante a figurarsi una compravendita priva di un documento che, a un tempo, la attestasse e la costituisse e anche la difficoltà a tenere distinti il momento consensuale e obbligatorio da quello, successivo, esecutivo e produttivo degli effetti reali. Difficoltà, quest’ultima, all’origine, molto probabilmente, di un’altra celeberrima affermazione dioclezianea:
Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. Martiali C. 2. 3. 20 (a.293) Traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis transferuntur.
Per quanto s’ignori il contesto del passo e si debba andar quindi cauti nel trarre deduzioni321, pare difficilmente contestabile che la cancelleria imperiale, al di là dello strano accostamento dell’usucapio a transferre dovuto forse alla mano di un tardo maestro postclassico, intenda affermare la necessità della traditio al fine del trasferimento del dominium. E, peraltro, lo fa servendosi di una metafora, quella della nudità dell’atto che, se non è infrequente in riferimento all’assenza di funzione che rende svestito l’atto traslativo, è invece inusuale nella forma inversa. Quel che invece non è assolutamente possibile dedurre dalla concisione del rescritto imperiale è se nel caso concreto il prodursi dell’effetto traslativo fosse attribuito al nudum pactum dalla volontà delle parti o dalla volontà dell’ordinamento indigeno previgente. Xxxx, più in generale, si può dire che in nessun rescritto la cancelleria imperiale si curi di tenere distinte le due ipotesi; neppure, di conseguenza, si dà pensiero di distinguere la redazione scritta voluta dalle parti ad substantiam actus dalla redazione voluta dalle parti ad probationem322; e nemmeno si occupa, adusa com’era a pensare a un documento esclusivamente privato quale senz’altro era rimasto quello romano almeno sino alla fine del Principato, di specificare a quale tipo di documento fossero da attribuire gli effetti che sorprendevano i cives Romani, ma si limita a rispondere
«invariabilmente e senza riserve […] che il rapporto è per il diritto esistente anche se gli instrumenta o non sono stati redatti o sono andati distrutti»323. A questo punto è lecito domandarsi se la prospettiva della cancelleria xxxxxxxxx xxxxxxx finora non induca forse a distorcere il punto di vista dei richiedenti: gli imperatori parlano genericamente di scriptura, di instrumentum e di cautio; rifiutano al documento il valore di attestazione
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxxxxxxx00, cit., 205.
321 Così P. VOCI, Tradizione, cit. 90 s.
322 Per quanto non si dubiti che anche a Roma le parti di un contratto avrebbero potuto, con un esplicito accordo, pattuire la redazione del documento scritto sia ad substantiam actus che ad probationem non ci sono giunti testi che manifestino direttamente la conoscenza di questa distinzione da parte del mondo romano. Alla luce di questi fatti la circostanza a cui si è fatto cenno nel testo, se certo non porta a condividere l’opinione di quanti sostengono che i Romani nel periodo classico ricorressero scarsamente alla documentazione (sul punto cfr. supra, 70, nt. 310), né a escludere categoricamente la conoscenza del documento costitutivo, non è, però, senza significato di fronte a chi, come
X. XXXXXXXXXX, Die antiken Xxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 72 s., ritiene che il documento con efficacia dispositiva avesse grande diffusione in Roma, almeno per i negozi iuris gentium. Sul problema cfr. G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 21, nt. 3 (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Xxxxxxx, cit., 1618 s., nt. 53). Tuttavia, in senso, diverso con riferimento ai soli contratti consensuali cfr. X. XXXXXXXX, La simulazione nei negozi giuridici: studio di diritto romano, Padova, 1938, 168 (per cui xxx. xxxxx, xxx. XX, § 0, 000). Xxx. xxxxx, con particolare riferimento all’expensilatio, X. XXXXXXX-XXXX, Documenti probatorii e dispostivi in diritto romano, dapprima pubblicato in Atti del terzo Congresso di diritto comparato, Roma 1953, 353-359, ora in ID., Studi epigrafici e papirologici, a cura di Xxxxx Xxxx, Napoli, 1974, 425-430 (in particolare 427 sull’expensilatio).
323 G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 21 (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Scritti, cit., 1618 s.).
inconfutabile; per rispondere negativamente agli interessati secondo i quali la scrittura era a un tempo un elemento necessario al sorgere del negozio giuridico e l’unico
elemento di prova ammissibile324 applicano categorie dogmatiche quali quelle della
forma scritta ad substantiam e della forma scritta ad probationem. Ma non si deve dimenticare che la cancelleria imperiale era mossa dall’intento di riaffermare, anche in ambiente provinciale, i principi di diritto romano. Indicativo è, al riguardo, il terzo gruppo di rescritti in cui gli imperatori si trovano impegnati a combattere il principio secondo il quale lo scritto (considerato da essi una semplice dichiarazione di scienza) prevalga sulla rei veritas il che nient’altro significa che valutare i fatti sotto la scorza dei principi romani.
Impp. Diocl. et Max. AA. et CC. C. 4, 50, 6, 2 (a. 293) Quod si emisti quidem tu et tibi tradita possessio est, tantum autem nomen instrumento uxoris quondam tuae scriptum est, res gesta potior quam scriptura habetur.
Dal punto di vista romano è assurdo che l’indicazione del nome del compratore contenuta nel documento prevalga sull’effettiva partecipazione alla contrattazione (quod si emisti quidem tu) o sulla concreta traditio del bene (et tibi tradita possessio est). Ed è, quindi, comprensibile che la pugnace cancelleria di Xxxxxxxxxxx, tutta presa dalla battaglia contro le vedute provinciali, non distinguesse gli aspetti delle singole scripturae, ma si appagasse di affermare il principio generale di diritto romano secondo il quale res gesta potior quam scriptura habetur. Il contegno della cancelleria dioclezianea dinanzi alle costumanze ellenistiche non è del resto molto diverso da quello assunto poco più di un secolo prima da Gaio. Il giurista romano, infatti, nel suo commentario, dopo aver descritto il nomen transcripticium, ha anche qualche parola per un genere di obbligazioni proprio dei peregrini:
Nel commentario di Gaio, volto a esporre un sistema di diritto romano326 puro,
«queste parole non hanno altro valore che di curiosità erudita»327, tuttavia esse si rivelano preziose rispetto al problema che qui è trattato perché manifestano il medesimo disinteresse verso le forme dei documenti privati mostrato dagli imperatori nei loro rescritti: Xxxx pone sullo stesso piano συγγραφαί e χειρόγραϕα e così entra in contrasto con quanto dice il già citato328 Scolio dello Pseudo-Asconio (ad Cic. In Verr. II, 1, 36); inoltre nel passo gaiano non si fa alcun cenno a un intervento pubblico nella documentazione dei negozi. Nelle Institutiones il giureconsulto romano distingue
324 Cfr. l’esegesi svolta supra, 70 xx. xx X. 0, 00, 00 (x. 293).
325 Gai Institutiones, 3, 134.
326 Qui come altrove adopero l’improprio sintagma «sistema di diritto romano» in un senso atecnico. In senso proprio, dato il carattere topico della discussione casistica dei prudentes, non è possibile ricostruire un sistema di diritto romano. Sulle difficoltà linguistiche legate alla traduzione latina del termine greco σύστηµα e sulla pressoché totale assenza nelle fonti giuridiche romane di un termine come structura, cfr. M. G. XXXXXX, Sistema e struttura del diritto. I. Dalle origini alla scuola storica, Milano, 2002, 12 ss, in particolare 14 ss..
327 Così X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 329.
328 Cfr. supra, 72.
nettamente tra funzione costitutiva e funzione probatoria del documento329 e proprio dopo aver definito il concetto di obligatio litteris mediante la contrapposizione fra i nomina arcaria (che hanno valore di semplice ricordo di un’obbligazione preesistente che lasciano inalterata) e i transcripticia (che, invece, trasformano l’obbligazione preesistente in una nuova)330, si serve di questo concetto, così rigidamente determinato, per costruire quegli effetti che nella mentalità provinciale gli sembrava fossero da ricondursi allo scritto. Xxxxxx, può senz’altro dubitarsi del fatto che Xxxx, nello sforzo di intendere le vedute dei peregrini entro le categorie dogmatiche e gli schemi romani ai quali era avvezzo, rispecchiasse fedelmente le concezioni di questi in materia di valore del documento. E lo stesso può dirsi dei rescritti prima citati della cancelleria imperiale, la cui indifferenza rispetto alla questione, d’altronde, era in larga parte giustificata dal fatto che essa rifiutava in toto di accogliere le tendenze ellenistiche e, quindi, «anche se i richiedenti nel rivolgersi all’imperatore facevano distinzioni o comunque accennavano a esse, i rescriventi potevano dispensarsi dal fare richiami»331. La scienza non deve, però, lasciarsi trarre in inganno dal fatto che gli imperatori non avvertissero il bisogno di distinguere nell’ampio genus dei documenti o dal fatto che Xxxx interpretasse fattispecie d’impronta ellenistica alla luce di criteri tutti romani. È assai probabile332 che gli aspetti che erano tenuti ben distinti dalla cancelleria dell’imperatore nella valutazione della documentazione scritta, come quelli riguardanti la funzione costitutiva o probatoria del documento secondo i risultati dell’analisi dei tre gruppi di costituzioni svolta poc’anzi, non lo fossero affatto nella mente dei provinciali che all’imperatore si rivolgevano; e che, per converso, le distinzioni sulle quali poggiava l’edificio giuridico greco-egizio, come quelle fra i vari tipi di documenti, fossero tenute in non cale da imperatori che miravano, per quanto possibile, a porre in terra ellenica le fondamenta del diritto romano. In particolare i tre aspetti di valutazione della dichiarazione scritta distinti dalla cancelleria, considerati con la forma mentis ellenistica, dovevano apparire come il triplice riflesso di un unico principio fondamentale. Mentre i Romani, ai quali l’ordinamento giuridico consentiva di valicare i confini strettissimi e inderogabili in cui era costretta la manifestazione della volontà negoziale soltanto per taluni negozi di contenuto rigidamente determinato, si trovavano nella necessità di distinguere l’efficacia dello scritto riguardo ai diversi istituti e in relazione a questa o a quella funzione processuale, nei paesi ellenistici, invece, i provinciali, rivestite le parole della forma scritta che l’ordinamento prescriveva d’indossare, erano liberi di perseguire i più disparati fini individuali e, senza darsi pensiero di distinguere un istituto dall’altro e neppure gli effetti sostanziali da quelli processuali, restavano vincolati a quanto avevano disposto per iscritto. Attraverso questa concezione si rende ragione delle numerose e varie richieste dei cittadini delle aree ellenizzate volte sia a riconoscere al documento un’efficacia probatoria privilegiata sia a dichiarare l’impossibilità di costituire il rapporto giuridico se non a mezzo di esso o l’impossibilità di contestare i fatti o le dichiarazioni in esso contenute. Riguardate sotto questa luce assumono un chiaro
329 Cfr. Gai Institutiones, 3, 131-132.
330 Cfr. X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 328 s.
331 G.G. ARCHI, La prova nel diritto del Basso-Impero, in IVRA, XII, 1961, 17 (ora in ID., Scritti di diritto romano, III,
Scritti, cit., 1873).
332 Per le considerazioni che seguono mi appoggio, ancora una volta, all’autorità di G.G. ARCHI, `Civiliter vel
criminaliter agere´, cit., 23 ss. (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Xxxxxxx, cit., 1622 ss.).
significato espressioni come quelle contenute in C. 4, 50, 6, 2333 o quelle contenute in un’altra costituzione:
Impp. Valer. et Gallien. AA. Xxxxxx C. 4 .22. 1 (a. 259) In contractibus rei veritas potius quam scriptura prospici debet.
La ricostruzione del sistema ellenistico appena esposta trova conferma in un editto del 138 d.C. contenuto in P. Oxy. II, 237: il praefectus Aegypti Xxxxxxxx Xxxxxxxx, con una disposizione che ha tutta l’aria di rispecchiare la prassi locale innovandola soltanto per quanto concerne i termini e i modi della difesa, pone il debitore convenuto contro cui sia stato esibito un documento nell’alternativa di disconoscerlo, accusandolo di falsità per iscritto, o di sottostare alla sua efficacia probatoria e pagare l’ammontare del debito. Non si dà quindi possibilità di contestare in sede civile le attestazioni del documento; resta solo la possibilità di intentare un’azione penale di falso la quale non ha soltanto il fine specifico ed esclusivo di portare alla condanna del reo, ma anche e soprattutto quello dell’accertamento della fides scripturae, inteso come pronunzia sulla falsità o meno del documento. Quanto questo
sistema sia lontano da quello romano334 è evidente. Questa singolare efficacia, così
strana per un civis Romanus, probabilmente non era propria, tuttavia, di qualsiasi dichiarazione scritta, bensì soltanto di quelle rivestite di particolari formalità. Per quel
333 Cfr. supra, 74 s..
334 Per il quale cfr. l’analisi (fatta supra, 71) del passo, di pochi decenni precedente all’editto, dell’Institutio oratoria di Quintiliano.
che riguarda l’ὠνὴ καὶ πρᾶσις, già in Teofrasto335 si trovano notizie sui vari sistemi di pubblicità relativi ai trapassi immobiliari (ma nei diritti greci la pubblicità riguardava anche i trasferimenti di schiavi e, probabilmente, di navi) vigenti ai suoi tempi. Identici principi valevano in Egitto dove pure si richiedeva di καταγράφειν (o ἀναγράφειν) affinché la dichiarazione scritta potenziasse la sua efficacia e divenisse pressoché incontestabile. Il sistema di pubblicità del diritto greco-xxxxxx000, quello delle βιβλιοϑήκαι τῶν ἐγτήσεων, formatosi anche col concorso dei Romani, ha per noi una maggiore visibilità rispetto agli altri e il suo regime giuridico, seppure in più punti disputato, è sufficientemente sicuro nelle sue linee fondamentali. Nata come una sezione distaccata dell’archivio fiscale (la βιβλιοϑήκη τῶν δηµόσιων λόγων), la βιβλιοϑήκη τῶν ἐγτήσεων dall’ufficio centrale ad Alessandria presto si dislocò nei capoluoghi dei distretti, sempre destinata alla custodia e registrazione degli atti privati, fra i quali vengono in rilievo, soprattutto, le compravendite d’immobili, schiavi e, forse, navi. La procedura dell’iscrizione prevedeva una prima fase in cui l’alienante inviava
335 Florilegium di Xxxxxx, XLIV, 22: [1] Οἱ µὲν οὖν ὑπὸ κήρυκος κελεύουσι πωλεῖν καὶ προκηρύττειν ἐκ πλειόνων ἡµερῶν, οἱ δὲ παρ’ ἀρχῇ τινι, καθάπερ καὶ Πιτταχὸς παρὰ βασιλεῦσι καὶ πρυτάνει. ἔνιοι δὲ προγράφειν παρὰ τῇ ἀρχῇ πρὸ ἡµερῶν µὴ ἔλαττον ἢ ἑξήκοντα, καθάπερ Ἀθήνησι, καὶ τὸν πριάµενον ἑκατοστὴν τιθέναι τῆς τιµῆς, ὅπως διαµ- φισβητῆσαί τε ἐξῇ καὶ διαµαρτύρασθαι τῷ βουλοµένῳ καὶ ὁ δικαίως ἐωνηµένος φανερὸς ᾖ τῷ τέλει. παρὰ δέ τισι προκηρύττειν χελεύουσι πρὸ τοῦ κατακυρωθῆναι πένθ’ ἡµέρας συνεχῶς, εἴ τις ἐνίσταται ἢ ἀντιποιεῖται τοῦ κτήµατος ἢ τῆς οἰχίας· ὡσαύτως δὲ καὶ ἐπὶ τῶν ὑποθέσεων, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς Κυζικηνῶν. οἱ δὲ Θουριακοὶ τὰ µὲν τοιαῦτα πάντα ἀφαιροῦσιν, οὐδ’ ἐν ἀγορᾷ προστάττουσιν, ὥσπερ τἆλλα, διδόναι δὲ κελεύουσι κοινῇ τῶν γειτόνων τῶν ἐγγυτάτω τρισὶ νόµισµά τι βραχὺ µνήµης ἕνεκα καὶ µαρτυρίας. ἀναγκαῖον δῆλον, ὅτι τοῖς µὲν τὰς ἀρχὰς ὑπευθύνους ποιεῖν, τοῖς δὲ τοὺς γείτονας, ἐὰν µὴ λάβωσιν ἢ δὶς παρὰ τοῦ αὐτοῦ λάβωσιν ἢ ἔχοντες µὴ λέγωσι τὸν ἐωνηµένον.
[2] Οὐ χρὴ δ’ ἀγνοεῖν, ὅτι αἱ προγραφαὶ καὶ αἱ προκηρύξεις καὶ ὅλως ὅσα πρὸς τὰς ἀµφισβητήσεις ἐστὶ πάντ’ ἢ τὰ πλεῖστα δι’ ἔλλειψιν ἑτέρου νόµου τίθεται· παρ’ οἷς γὰρ ἀναγραφὴ τῶν κτηµάτων ἐστὶ καὶ τῶν συµβολαίων, ἐξ ἐκείνων ἔστι µαθεῖν εἰ ἐλεύθερα καὶ ἀνέπαφα καὶ τὰ αὑτοῦ πωλεῖ δικαίως· εὐθὺς γὰρ καὶ µετεγγράφει ἡ ἀρχὴ τὸν ἐωνηµένον.
[3] Ἐπεὶ δὲ καὶ προστασίαι τινὲς ὠνοῦνται καὶ πωλοῦσιν ἀπαλλοτριοῦν ἐθέλοντες, ὀρθῶς ἔχει καὶ πρὸς ταῦτα νοµοθετεῖν, ὅπερ καὶ ποιοῦσιν, ἅµα ταῦτά τε βουλόµενοι κωλύειν καὶ τὴν ἐµφανῆ ποιεῖν, ὥσπερ ἐν τοῖς Αἰνίων. κελεύουσι γάρ, ἐὰν µέν τις οἰκίαν πρίηται, θύνειν ἐπὶ τοῦ Ἀπόλλωνος τοῦ ἐπικωµαίου, ἐὰν δὲ χωρίον ἐπὶ τῆς κώµης, ᾖ αὐτὸς οἰκεῖ, καὶ ὀµνύειν ἐναντίον τῆς ἀρχῆς τῆς ἐγγραφούσης καὶ κωµητῶν τριῶν, ἦ µὴν ὠνεῖσθαι δικαίως, µηδὲν συγκακουργοῦντα µήτε τέχνῃ µήτε µηχανῇ µηδεµιᾷ· τὸν αὐτὸν δὲ τρόπον καὶ τὸν πωλοῦντα πωλεῖν ἀδόλως· τὸν δὲ µὴ οἰκοῦντα ἐν ἄστει θύειν τὸν ὅρκον ἐπὶ τοῦ Διὸς τοῦ ἀγοραίου, τὴν δὲ θυσίαν τῶν ἐλαττόνων εἶναι θυλήµασιν, ἄνευ δὲ τούτων µὴ ἐγγράφειν τὴν ἀρχήν· ἅµα καὶ ἐν τῷ ὅρκῳ προσορκίζειν αὐτήν, ἐὰν µὴ ὀµνύωσι, µηδὲ ἐγγράψειν τὴν ὠνήν· οὗτοι µὲν δὴ πρὸς ἀµφότερα, µᾶλλον δὲ πρὸς πάντα βούλονται πεφυλάχθαι, καθάπερ ἴσως καὶ δεῖ.
Diverse erano, insomma, le forme di pubblicità nel mondo greco, e non esclusive della compravendita. Nel passo si fa menzione della proclamazione per mezzo di un araldo (οἱ µὲν οὖν ὑπὸ κήρυκος κελεύουσι πωλεῖν καὶ προκηρύττειν ἐκ πλειόνων ἡµερῶν); della conclusione del negozio dinanzi alla pubblica autorità (οἱ δὲ παρ’ ἀρχῇ τινι, καθάπερ καὶ Πιτταχὸς παρὰ βασιλεῦσι καὶ πρυτάνει); del pubblico avviso della futura vendita, in un tempo non inferiore, nel caso degli Ateniesi, ai sessanta giorni che precedono il negozio, e col conseguente versamento della «centesima», un’imposta sul valore del bene (ἔνιοι δὲ προγράφειν παρὰ τῇ ἀρχῇ πρὸ ἡµερῶν µὴ ἔλαττον ἢ ἑξήκοντα, καθάπερ Ἀθήνησι, καὶ τὸν πριάµενον ἑκατοστὴν τιθέναι τῆς τιµῆς); dell’annuncio cinque giorni prima dell’assegnazione in proprietà (παρὰ δέ τισι προκηρύττειν χελεύουσι πρὸ τοῦ κατακυρωθῆναι πένθ’ ἡµέρας συνεχῶ); della dazione ai vicini, come nel caso dei Turii, di una moneta di piccolo conio (οἱ δὲ Θουριακοὶ τὰ µὲν τοιαῦτα πάντα ἀφαιροῦσιν, οὐδ’ ἐν ἀγορᾷ προστάττουσιν, ὥσπερ τἆλλα, διδόναι δὲ κελεύουσι κοινῇ τῶν γειτόνων τῶν ἐγγυτάτω τρισὶ νόµισµά τι βραχὺ µνήµης ἕνεκα καὶ µαρτυρίας); della registrazione del bene e del contratto di vendita con l’indicazione dell’acquirente (οὐ χρὴ δ’ ἀγνοεῖν, ὅτι αἱ προγραφαὶ καὶ αἱ προκηρύξεις καὶ ὅλως ὅσα πρὸς τὰς ἀµφισβητήσεις ἐστὶ πάντ’ ἢ τὰ πλεῖστα δι’ ἔλλειψιν ἑτέρου νόµου τίθεται· παρ' οἷς γὰρ ἀναγραφὴ τῶν κτηµάτων ἐστὶ καὶ τῶν συµβολαίων, ἐξ ἐκείνων ἔστι µαθεῖν εἰ ἐλεύθερα καὶ ἀνέπαφα καὶ τὰ αὑτοῦ πωλεῖ δικαίως· εὐθὺς γὰρ καὶ µετεγγράφει ἡ ἀρχὴ τὸν ἐωνηµένον); infine, nel terzo paragrafo, del giuramento prestato dinanzi all’ufficio dei registri che non ci fosse frode. Sul punto, cfr. X. XXXXXXXXXX, The Greek Law, cit., 134 ss..
336 Per cui cfr. X. XXXXX, sub voce Pubblicità (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto, XXXVII/1993, 971 s..
un’istanza (προσαγγελία) ai conservatori dei registri con la quale chiedeva che l’ufficio notarile fosse autorizzato a rogare l’atto; dipoi, ottenuta l’autorizzazione (ἐπίσταλµα) e stipulato l’atto in conformità di essa, il nuovo proprietario presentava la richiesta di registrazione (ἀπογραφή) in duplice esemplare affinché uno gli venisse restituito con l’annotazione dell’avvenuta registrazione; infine seguiva la vera e propria registrazione, la παραθέσις. È ovvio che un documento redatto nel rispetto di queste forme che avevano come fine la protezione degli interessi privati ( ἵνα οἱ συναλλάσσοντες µὴ κατ᾿ ἄγνοιαν ἐνεδρεύονται337, da correggere in ἐνεδρεύωνται) non potesse essere considerato alla stessa stregua di una testatio romana: la diversità è in rebus ipsis. Se mai, avuto riguardo alla compravendita, si potrebbe porre la questione338 se nello stadio di massima evoluzione del regime della pubblicità si sia giunti nei diritti greci a rinnegare il Surrogationsprinzip339. Ora se, seguendo il papiro di Halle §§ 3-4, si ritiene che il venditore che, prima di ricevere il prezzo, avesse proceduto alla καταγραφή avrebbe determinato il trapasso della proprietà, è vero, tuttavia, che, in primis, al di fuori dei beni catagrafabili, per i quali non si dava questa possibilità, si rimase saldamente ancorati all’arcaica costruzione giuridica della compravendita a contanti e, in secundis, il compratore che non avesse pagato il prezzo non avrebbe avuto alcun titolo a pretendere che il venditore avviasse la procedura. La questione è pertanto da risolversi negativamente e il passaggio della proprietà nel caso a cui si è fatto cenno è da considerarsi uno sviluppo connesso col principio di pubblicità.
Dal sin qui detto emerge in modo sufficientemente chiaro un punto: la differente valutazione del documento scritto non è che il fenomeno più appariscente e superficiale di un contrasto che, riguardando norme che rispondono alle esigenze elementari della vita sociale e nelle quali, per conseguente, si esprime il genio della stirpe, scuote le fondamenta stesse dei due ordinamenti. La divergenza del diritto ellenistico da quello romano in tema di forme dei negozi giuridici è profonda e conforme alla diversa coscienza giuridica dei due popoli. A Roma340 almeno fino al III-II secolo a.C., quando il riconoscimento dei contratti consensuali avrebbe rotto la rete dei negozi giuridici formali, il sistema esigeva che la volontà si manifestasse attraverso immutabili moduli orali, talvolta accompagnati da gesti altrettanto immutabili, costringendola nei limiti angusti dei vuoti che era chiamata a riempire «indicando – secondo i casi – il nome della controparte, la cosa della quale si acquistava il dominio, l’oggetto della prestazione a cui s’impegnava»341; e anche quando i negozi del diritto delle genti ruppero definitivamente gli argini del formalismo si continuò a fare ricorso al modulo verbale della stipulatio sia per rendere esigibile ogni prestazione che non rientrasse in
quegli schemi negoziali di contenuto rigidamente342 determinato sia anche, a causa
dell’attaccamento dei Romani alle tradizioni da cui derivava la preferenza
337 P. Oxy., 237, detto comunemente «petizione di Xxxxxxxx». Per il testo e la traduzione latina, cfr. X. XXXXXXXX in
BIDR, 1900, XIII, 41 ss..
338 Per la quale cfr. G.G. ARCHI, Il trasferimento della proprietà nella compravendita romana, Padova, 1934, 72 s..
339 Per cui cfr. supra, cap. II, § 2, 45 ss..
340 Per le considerazioni che seguono mi rifaccio alla nota distinzione tra forma-modulo e forma-veste, per la quale cfr.
X. XXXXXXX-XXXX, Istituzioni14, cit., 79 ss..
340 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 334.
342 Cfr. quanto detto supra, cap. II, § 3, 54, nt. 248 sulle perplessità di Xxxxx in D. 12, 4, 16, (lb. [3] <8> dig.) circa la possibilità di qualificare come compravendita un negozio in cui l’alienante assumesse l’obbligazione di dare.
spontaneamente riservata alle antiche forme del ius civile, per dare forma solenne a un accordo che sarebbe stato valido per il ius gentium anche se spoglio di quella forma. L’ordinamento delle province ellenistiche, invece, si contentava di imporre che la manifestazione della volontà fosse compiuta col mezzo della scrittura, lasciando poi che la libertà contrattuale, assunta questa veste capace di adattarsi a qualsiasi contenuto, si piegasse soltanto dinanzi ai bisogni delle parti. Il fatto che si solesse redigere per iscritto ogni negozio giuridico, al di fuori di quelli, come gli scambi sul mercato, che non lasciano strascichi di diritti o di obblighi, spiega anche il ricorso, frequente in quelle terre, al notariato, talvolta di carattere pubblico, una classe professionale di redattori di documenti «presente ovunque il commercio giuridico richieda il suo intervento e dotata di una sua tecnica»343. Per quel che riguarda la compravendita, è naturale che, da una parte, l’abitudine a considerare la scrittura come la fonte di ogni relazione giuridica e il particolare valore anche probatorio del documento, soprattutto quando confezionato dalle mani esperte di un notaio e assoggettato alle forme di pubblicità previste dall’ordinamento; dall’altra, l’imperante concezione, mai rinnegata interamente344, della vendita come scambio immediato di cosa verso prezzo che non conosceva separazione fra il contratto e l’atto di trasmissione della proprietà consumandosi l’intero atto negoziale nell’istante del pagamento, portassero nel mondo ellenistico ad attribuire ben presto l’effetto di trasferimento del diritto allo scritto che attestava l’avvenuto pagamento di quel prezzo. Nel mondo romano classico invece, dove pure era diffuso il ricorso allo scritto345, non si creò un notariato professionale perché, come detto, il documento serviva, di massima, soltanto a fissare il ricordo degli atti giuridici, a rendere più agevole la prova del negozio in esso attestato, non essendo possibile, dato l’intenso sviluppo dei traffici giuridici, affidarsi ciecamente alla memoria dei testimoni. Ma anche quando l’uso della documentazione scritta diventò consueto, a Roma rimase sempre la pronuncia dei verba sollemnia a produrre l’effetto giuridico vincolante della stipulatio ed era sempre la pronuncia di quella rude dichiarazione di volontà contenuta nel formulario della mancipatio «Hanc ego rem ex iure Quiritium meam esse aio, eaque mihi empta esto hoc aere aeneaque libra» così enfatica e combattiva alle nostre orecchie, a produrre il trasferimento del dominium sopra una res mancipi. Soltanto grazie all’opera immensa e geniale della giurisprudenza e al costante lavorio della legislazione e, soprattutto, delle magistrature queste formule, così legate al mondo arcaico e contadino che le aveva prodotte, si adattarono alle esigenze della complessa vita sociale dell’età classica.
Le riflessioni or fatte danno in larga parte ragione della fiera battaglia intrapresa dalla cancelleria di Dixxxxxxxxx xontro le vedute provinciali: nonostante non si trattasse di norme poste a tutela di alcun alto e nobile valore morale346, il ritrarsi della volontà dell’ordinamento su questo punto, lungi dall’essere un semplice cedere su norme arbitrarie e complementari, avrebbe minato uno dei pilastri su cui si reggeva l’intero edificio giuridico romano così come l’imperatore illirico lo aveva conosciuto. Tuttavia
343 Così X. XXXXXXXX, L’età romana, in X. XXXXXXXX x X. XXXXXXXXXX, Alle origini del notariato italiano, Milano, 1995, 15.
344 Cfr. supra, 78.
345 Cfr. supra, 70, nt. 310.
346 Cfr. quanto detto supra, § 1, 67 ss. riguardo al problema dell’individuazione delle norme di diritto romano alle quali le costumanze locali non avrebbero potuto derogare.
l’esito di questo grandioso duello fra Roma e il mondo greco era, almeno in parte, già segnato: Graecia capta ferum vixxxxxx xxxxx, per dirla con Orxxxx. E ciò non soltanto perché non «si sarebbe potuto trapiantare in Egitto o in Siria l’istituto del libripens, pesatore fittizio di un prezzo che da secoli non si pesava più ma si contava, o costringere quei provinciali a rinunciare nei contratti alla forma scritta»347, ma anche, e soprattutto, perché lo stesso diritto romano in quei tempi si veniva profondamente snaturando: «il poderoso sistema del diritto classico, imperniato su un complesso di negozi e di massime provenienti dalla più remota antichità e tuttavia adeguato di secolo in secolo ai bisogni mutevoli della pratica mediante la delicata costruzione di regole complementari ad opera della legislazione e delle magistrature, era, oltre e più che un complesso eccellente di norme di condotta, un’opera collettiva di pensiero; e, mentre non avrebbe potuto essere rettamente inteso se non da giuristi educati nel rispetto della tradizione e nella sensibilità verso le esigenze della vita sociale, richiedeva anche nel popolo che lo praticava un sentimento profondo della romanità e un rispetto delicato per il patrimonio d’idee ereditato dalle generazioni passate»348. Ai Romani dell’età di Dixxxxxxxxx xolte volte sarebbe mancata la stessa fede nell’eccellenza degli istituti che avrebbero dovuto imporre in terra d’Oriente349: l’asservimento a prìncipi forestieri, l’imbastardimento della stirpe dovuto al continuo afflusso d’ogni specie di barbari, soprattutto nei ranghi dell’esercito, aveva infiacchito la gente italica privandola della fiducia nelle tradizioni che sempre, fino ad allora, l’aveva contraddistinta. Lo stesso Dixxxxxxxxx xel maestoso tentativo di arrestare la crisi di civiltà che era in atto non poté fare a meno di apparecchiare rimedi da cui essa stessa traeva alimento.
3. Il fantasma della `mancipatio‘ nelle Carte Piacentine.
Per l’aspetto che qui interessa, non è privo di significato, ad esempio, l’assoggettamento dei fundi italici all’imposta fondiaria al fine di far fronte al gravissimo problema del continuo aumento delle spese dello Stato350. Omologati in tal modo i fondi siti in Italia a quelli provinciali, cessava l’originaria posizione di privilegio dei primi e cadeva anche, con la fine, per giunta, delle guerre di espansione e il conseguente esaurimento delle grandi fonti del mercato schiavile, la rilevanza pratica
della distinzione fra res mancipi e res nec mancipi351 e, con essa, l’importanza di
distinguere, come si soleva fare nel diritto classico, tra i vari modi di trasferimento della proprietà, dei quali l’unico a sopravvivere in epoca postclassica fu la traditio352, mentre
340 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 339.
340 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 342.
349 Per quel che segue cfr. quanto scritto supra, § 1, 61, nt. 273 sulla politica severiana di favore per il mondo provinciale che si riverberava in uno sfavore per la terra italica. Sul punto cfr. anche M. A. LEVI, L’Italia antica, Vicenza, 1974, 448 s..
350 Per cui cfr. supra, § 1, 61 s..
351 Formalmente abrogata, però, soltanto da Gixxxxxxxxx xon C. 7, 25, 1 (a. 530-531).
352 Così M. XXXXXXXXX xub voce Vendita, cit. 464.
della mancipatio si ha un ultimo ricordo legislativo in una costituzione di Arcadio353. A onor del vero la dottrina non è concorde circa il decadimento della mancipatio. C’è chi nega che essa sia scomparsa a seguito, fra l’altro, dell’omologazione del regime fondiario delle province e dell’Italia354, e afferma, invece, che la mancipatio si
mantenne viva in Italia almeno fino a un’epoca successiva a Giustiniano355 o, più
decisamente, fino al IX secolo356. Quest’ultima tesi si fonda sulla testimonianza delle
Carte Piacentine edite dallo Schiaparelli357 le quali, effettivamente, sembrerebbero
prima facie attestare la sopravvivenza dell’istituto. Ma, appoggiandomi ancora una volta all’autorità dell’Archi358, penso di poter affermare che tanto le Carte Piacentine, quanto i papiri ravennati editi dal Marini359 (che verranno in rilievo anche fra poco nei riguardi della traditio) non contengano «altro che formulari notarili tralatici per l’epoca in cui i documenti sono stati redatti: credo cioè che in essi non si tratti che di una parvenza di vita della mancipatio»360, insomma di una semplice reminiscenza terminologica. Certo il fatto che in questi tardi documenti, entrambi riconducibili all’Italia, compaia il riferimento alla mancipatio può significare che quest’istituto, anche in ragione dell’attaccamento alle tradizioni tipico del popolo italico al quale ho già avuto occasione di fare cenno, sia perdurato più a lungo in questa terra che nelle altre province occidentali, per non parlare di quelle orientali dove è assai probabile che esso
353 C. Th. 15, 14, 9. Anche l’in iure cessio scomparve, ma, data la sua scarsa diffusione, già in epoca classica, come atto traslativo della proprietà (per cui cfr. supra, cap. II, § 2, 55, nt. 252), ometterò di prenderla in considerazione.
354 Ma sul declino della mancipatio immobiliare, anche per le ragioni indicate nel testo cfr. X. XXXXX, Das römische Privatrecht2, cit., II, 274.
355 In questo senso X. XXXXXXXX, Il diritto privato dei popoli germanici con particolare riguardo all'Italia, Roma, III, 1909, 327.
356 Di questa opinione era X. XXXXXXXX, Études historiques sur le droit de Justinien, Paris, 1912, 249.
357 X. XXXXXXXXXXXX, Le carte longobarde dell'archivio capitolare di Piacenza, in Bullettino dell’Isxxxxxx Xxxxxxx
Xxxxxxxx, XXX, 0000, 00 xx. Xxxxxxx xn esemplare di queste carte, il documento X (a. 760), il più recente fra quelli pubblicati dallo Scxxxxxxxxxx, nel cui testo compare la formula mancipatoria: Regnante d(omi)n(i) n(ostri) Dexxxxxxxx xt Adxxxxxx xilius eius veri excell(entissimi) regi in Italia, anni pietatis eius in Dei nom(ine) tercio et primo, tercio decimo diae mensis marcii, indictione tercia decima; fel(iciter). Expensum predeis rustecis, id est terrol(a) araturia vel selvas intra finibus Castri Arquatense, loci ubi dicitur Xxxxx Xxxxx, peciol(e) nomiro tris… Eam emit mancipioq(ue) accepit Atxxxxxx x(xr) d(evotus) comparaturem de Aiarene v(iro) h(onesto) venditure auri sol(idus) nomiro uno fenitum precium pro suprascripta terrol(a), sicut sup(er) legitur. Petit idem suprascriptus Aiari v(ir) h(onestus) venditor, et om(ne) precium placitum et definitum in presenti accepit, sicut int(er) eos convenit. Et est sita in territurio suprascripti Castri Arquatense… Facta hanc mancipationem Atriani v(iro) d(evoto) contracturi et conparaturi. Dubla bonis condicionib(us) concesserunt, ut tunc quantum ea res re meliorata fuerit, sub iuxta extimancionem valuerit, tantum et alter(um) tantum dare <dari?> stipulatus est Atriani v(iro) d(evoto) contraturi et comparaturi, spopondedit se suprascriptus Aiari v(ir) h(onestus) venditor ad omnia suprascrita. Act(um) in Xxxxxx Xxxxx, ad casa empturi; fel(iciter).
Sig(num) X m(anus) Aiareni v(iri) h(onoesti) vendituri, qui hanc cartol(am) vindicionis fieri rog(avit). Sig(num) X m(anus) Ioventini fil(ii) q(uon)d(am) Vaxxxxxxx x(iri) d(evoti) exerc(italis) testis.
Sig(num) X m(anus) Luniberti fil(ii) q(uon)d(am) Faxxxxxx xe Ameniano v(iri) d(evoti) testis. Sig(num) X m(anus) Rodeberti fil(ii) Vuilicheni v(iri) d(evoti) exerc(italis) testis.
Ego q(ui) s(upra) Auropald v(ir) c(larissimus) scriptor huius cartol(e) vendic(ionis) pos tradita comp(lexx) et dedi.
358 Cfr. G.G. ARCHI, Il trasferimento, cit., 163 ss..
359 X. XXXXXX, I papiri diplomatici raccolti ed illustrati dall'abate Xxxxxxx Xxxxxx xrimo custode della Bibl. Vatic. e Prefetto degli Archivj secreti della Saxxx Xxxx, Xxxx, 0000. Come esempio di menzione della mancipatio in questi documenti si può citare la clausola de dolo contenuta nel papiro CXX: huic venditioni traditioni mancipationique rei suprascriptae dolum malum abesse afuturumque esse.
360 G.G. ARCHI, Il trasferimento, cit., 164.
non abbia mai realmente attecchito361. Ma quel che non mi pare di poter condividere è che ancora nel V o nel VI secolo in Italia si fosse soliti toccare la cosa che s’intendeva acquistare pronunciando quella vieta formula che ho riportato in precedenza alla presenza di cinque testimoni, cittadini e puberi, e di un libripens, portatore della stadera occorrente alla pesatura di un prezzo che forse già agli inizi del IV secolo a.C. era costituito dall’aes grave e non si doveva quindi pesare. Ritengo invece probabile che il riferimento alla mancipatio contenuto in questi documenti sia da intendersi come l’ultimo atto di un processo di sviluppo che aveva coinvolto l’istituto fin dall’epoca classica362. Il formalismo del gestum per aes et libram, espressione com’era di un antico mondo rurale, se aveva potuto conservarsi in un popolo, come quello romano, ligio alle sue costumanze, più difficilmente avrebbe trovato accoglienza in terre lontane dove sarebbe riuscito incomprensibile. Pertanto si può pensare che l’uso, invalso fin dall’età repubblicana, di redigere un documento scritto che attestava la pronuncia delle parole e il compimento dei gesti rituali e, parallelamente, la diffusione dell’istituto al di fuori delle mura cittadine, attestata per il II secolo d.C. dai documenti di Transilvania già citati363, abbiano lentamente prodotto una modificazione della mancipatio, le cui singole fasi, purtroppo, ci sfuggono. In un ambiente in cui la scrittura si diffondeva sempre più, è facile che fosse più credibile agli occhi di un giudice chi asseriva di aver compiuto i gesta per aes et libram secondo quanto dichiarato nel documento rispetto a chi negava contra tabulas il rispetto del formalismo verbale e gestuale. E questo doveva essere ancor più vero in ambiente provinciale dove, da un lato, sarebbe stato assai difficile capire e rispettare formulari che prescrivevano il compimento di atti intrisi di un simbolismo che talvolta doveva riuscire oscuro persino ai Romani; dall’altro, doveva esser facile che il preside, gravato dai suoi innumerevoli compiti e non sempre solerte nel rendere giustizia364, non avesse molto tempo per dare ascolto ai litiganti o per escutere testimoni e preferisse affidarsi alla più spiccia prova scritta. Che poi, col passare del tempo, si finisse in epoca postclassica per redigere lo scritto senza procedere alle formalità in esso attestate non appare inverosimile. Quello attestato dai documenti ravennati e piacentini è con buona probabilità l’esito ultimo di questo sviluppo che aveva portato pian piano a sostituire i gesta per aes et libram con una dichiarazione scritta la quale, alla fine del processo, non doveva avere che un legame puramente nominale con l’originaria mancipatio. Riguardata sotto questa luce, può assumere un certo rilievo anche «l’equiparazione, attestata da Corp. gloss. lat. 2, 126, 49; 3, 50, 53 tra καταγράφειν, καταγραφή e mancipare, mancipatio»365.
361 Cfr. supra, § 2, 72 s..
362 È, quello che vado spiegando, il limite entro il quale mi sento di accogliere la tesi, in precedenza confutata, di X. XXXXX, Il principio, cit.. Cfr. supra, cap. II, § 4, 54 ss..
363 Cfr. supra, cap. II, § 4, 54 ss...
364 Tanto è vero che Dixxxxxxxxx xitenne opportuno invitare i presidi a maggior diligenza nell’amministrazione della giustizia con un editto contenuto in C. 3, 3, 32 (a. 293). Certo si deve tener conto del fatto che l’istruzione probatoria non era compito del praeses provinciae, ma del giudice da lui assegnato, pertanto la rilevanza dell’editto rispetto alla questione potrebbe essere revocata in dubbio. Esso è comunque segno di una qualche deficienza dell’apparato giurisdizionale. Sulla rilevanza dell’editto rispetto al problema, in gran parte analogo, del valore del documento di tradizione, cfr. P. VOCI, Tradizione, cit. 88 s., nt. 82.
365 X. XXXXX, Il principio, cit., 70.
4. Il problema della necessità della `traditio´ ai fini del trapasso del dominio: le Tavolette Alxxxxxxx x i papiri ravennati.
Per quello che riguarda la traditio, invece, i dati testuali sono di più ardua interpretazione. In particolare è adhuc sub iudice la questione se essa fosse ancora necessaria al fine del prodursi dell’effetto traslativo. La documentazione della prassi negoziale non è unitaria, a riprova dell’impossibilità di tracciare schemi rigidi di sviluppi senza correre il rischio di essere portati fuori dalla realtà366.
Se, per la pars Orientis, i papiri egiziani, in ragione delle diverse concezioni ivi imperanti sul valore del documento367, escludono la necessità della traditio per il trasferimento della proprietà, per la pars Occidentis si deve distinguere fra le attestazioni delle Tablettes Alxxxxxxx x quelle dei papiri ravennati.
Per quel che riguarda le prime, rimando all’analisi del Gallo368 del quale mi sento di condividere l’opinione secondo la quale in esse la traditio non sia richiesta per il trasferimento della proprietà. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che questi documenti, redatti per lo più nella forma oggettiva propria della testatio classica, attestano compravendite concluse in Africa del Nord sotto la dominazione vandalica, cioè tra la metà del V e l’inizio del VI secolo d.C., un ambiente culturale sul quale le nostre conoscenze sono assai scarse. Peraltro mi corre l’obbligo di precisare che c’è chi, anche fra la più recente dottrina369, contesta apertamente l’interpretazione di questi documenti data dal Gallo e si mostra assai più accondiscendente di lui rispetto al fatto che, soprattutto a proposito del documento IV (a. 494)370 di cui il Gallo fa un’attenta esegesi nella sua opera, la clausola indicata con l’espressione translatio iuris si riferisca proprio alla traditio; c’è poi chi, addirittura, rifiuta in toto la rilevanza delle Tablettes Alxxxxxxx xispetto al problema in esame.
Scrive il Voci: «Il diritto trasferito è quello che gravava sulle culturae Mancianae e di cui erano titolari piccoli agricoltori: un diritto di godimento che continuava l’usus proprius delle età anteriori; tanto che vari documenti fanno anche il nome del proprietario, che è sempre lo stesso (Fl. Gexxxx Xxxxxxxxx). Nessun documento menziona la traditio; donde la supposizione, certo esatta, che non era richiesta. Non esatta, però, è la successiva deduzione: cioè che la traditio non ci sia in applicazione della regola generale che attribuisce al contratto effetto traslativo. Le cose stanno diversamente. I diritti reali, ormai dappertutto, si costituivano per patto: e necessariamente per patto dovevano trasferirsi quelli che, a differenza dalle servitù e dall’usufrutto, erano trasferibili. Così, già in età del principato, il diritto concesso ai coloni dalla lex Hadriana; e, in età del tardo impero, lo ius enfyteuticum e lo ius
366 In questo senso, cfr. M. XXXXXXXXX xn Recensione a GALLO, cit., 157 e ID. Ancora sul principio, cit., 20, nt. 36. Analogamente, ma nei riguardi degli sviluppi occidentali della compravendita in genere, cfr. G.G. ARCHI, Il trasferimento, cit., 185. Cfr. anche supra, § 1, 67 ss. per la difficoltà di ricostruire le diverse prassi negoziali.
367 Per cui cfr. supra, § 2, 71 ss..
368 X. XXXXX, Il principio, cit., 85 ss..
369 Il riferimento è a X. XXxXX, Xxx Xxxxx xxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 146 ss., ma, soprattutto, 151 s..
370 Per il testo cfr. X. XXXXX, Il principio, cit., 85 s..
privatum gravanti sui fondi imperiali; nonché l’enfiteusi privata. Il diritto degli agricoltori africani, in età tarda, seguiva lo stesso regime: il patto di trasferimento si identificava con la vendita. L’argomento di analogia è quindi da rifiutare»371.
Ora, probabilmente è vero che l’atteggiamento sbrigativo372 del Voci non è da accogliere nella sua interezza, poiché, sebbene il ius Mancianum sia «una particolare situazione dominicale, forse più vicina all’enfiteusi che alla proprietà vera e propria»373, attribuire la mancanza della traditio a questa sua particolare struttura significa omettere di considerare che la traditio, in epoca postclassica, fosse tendenzialmente applicata anche alle res incorporales374; è, però, anche vero che la concludenza dell’argomento rispetto al problema in questione non può che essere accolta con riserva, soprattutto se non venga ben circoscritta375.
Per quanto concerne, invece, i secondi non credo di poter seguire il Gallo376 che pretende di togliere valore alla menzione della traditio, sempre presente nei papiri editi dall’abate Maxxxx, a proposito del problema della sua necessità per il trapasso della proprietà. Nell’epistula CXIII (a. 504), l’unico documento ravennate che possa ricondursi al periodo pregiustinianeo, si legge:
Verum quia ipsa instrumenta venditionum prae manibus gero, quaeso [Laud. v. ut a competenti] officio suscipi iubeatis legi et actis inseri, ipsum quoque ss. venditorem interrogare dignemini, si ipse eas mihi fecerit atque si Xxxxxx Xxxxxx x.h. Forensi conscribendas dictaverit vel si subter suscripserit et testes, ut suscriberent, conrogaverit, pretium placiti omne perceperit aut si traditionem mihi sollemniter caelebraverit…
Il riferimento alla sollemnis traditio, qui come altrove, è interpretato dal Gaxxx xel senso di una semplice presa di possesso da parte del compratore «di tutto ciò che già era suo per effetto del contratto precedentemente stipulato»377. Egli, dunque, interpreta anche i papiri di Ravenna alla luce dell’assunto per cui l’effetto traslativo sarebbe stato ricondotto fin da Xxxxxxxxxx xl contratto stesso di vendita. Bisogna riconoscere che l’interpretazione del Gallo è aderente in più punti alla lettera dei documenti di vendita la cui formulazione si presenta spesso come diretta a produrre l’effetto del trasferimento del diritto. Tuttavia l’argomento non è di per sé sufficiente. Sia perché, sotto quest’aspetto, potrebbe pensarsi a un’influenza dei formulari greco-egizi il cui schema, come si venne formando dal III secolo in poi, è stato dimostrato dal Kircher378 essere in
371 P. VOCI, Tradizione, cit., 146.
372 Parla di «atteggiamento indebitamente semplicizzante» M. XXXXXXXXX xub voce Vendita, cit., 465, nt. 1660.
373 M. XXXXXXXXX, Istituzioni, cit., 440.
374 Sul ius Mancianum in genere e su questa tendenza in ispecie cfr. X. XXXXX, Das römische Privatrecht2, cit., II, 250 nt. 29; 300 s.; 304 s.
375 Punto sul quale dissento dall’interpretazione del Gallo il quale, genericamente, scrive che: «i documenti della pratica confermano, secondo noi, che la traditio non era più richiesta, nel periodo postclassico, per il trasferimento della proprietà nella compravendita immobiliare», X. XXXXX, Il principio, cit., 85.
376 X. XXXXX, Il principio, cit., 91 ss., ivi sono riportati anche ampi stralci di altri papiri che io ometto di considerare perché esulano in buona parte dal fine di questa ricerca.
377 X. XXXXX, Il principio, cit., 102.
000 X. XXXXXXX, Xxx Xxxxxxxxxx des ravennatischen Kaufvertrags, in ZSS, XXXII, 1911, 100 ss..
larga parte analogo a quello dei documenti di Ravenna, città in cui, del resto, l’influenza orientale aveva una ragion d’essere nelle particolari vicende politiche del territorio. Xxx perché le formule che suggeriscono l’idea di una vendita immediatamente traslativa potrebbero anche essere intese come l’espressione di una concezione unitaria della fattispecie traslativa. Del resto un segno di questo modo di pensare potrebbe leggersi già in C. 2, 3, 20 (a. 293)379, dove veniva definito nudum il pactum volto a produrre il trasferimento del diritto, ancorché munito di causa, e la spiegazione del ricorso a quest’insolita metafora potrebbe forse scorgersi proprio nell’idea sottostante di un’unica sequenza procedimentale. Ma non è tanto questa la ragione che non mi consente di condividere l’opinione del Gallo, quanto, piuttosto, la considerazione che se fosse vero che espressioni quali ut (sc. emptor) agnoscat ad se deinceps omnia pertinere380 riferite al compimento della sollemnis traditio dovessero intendersi puramente come il «riflesso psicologico dell’azione materiale di presa di possesso del fondo»381 non si spiegherebbe perché mai si ritenesse necessario accompagnare la semplice materiale immissione nella disponibilità del bene da formalità quali l’«effettiva e solenne introductio nel fondo, pel tramite della curia»382 alla quale allude appunto l’espressione sollemnem traditionem celebrari. Di più, se l’epistula traditionis e il diploma vacuale fossero serviti soltanto al trasferimento della disponibilità materiale dell’immobile rimarrebbe senza spiegazione anche il fatto che, dopo che Xxxxxxxxxxx permise il ricorso indiscriminato alla retentio ususfructus che, chiaramente, dispiegava i propri effetti esclusivamente nei riguardi del trapasso del diritto, non certo del possesso, questa clausola si sostituì ai due documenti dei quali scomparvero le xxxxxx000. Pertanto, seguendo il Talamanca, mi pare invece di poter concludere che «per dare un senso plausibile a ciò, si deve ritenere che le formalità che accompagnano la traditio, non possono che essere in relazione al fatto che essa è elemento necessario per il trasferimento della proprietà»384. Certo, nel verbale di insinuatio sopra riportato la sollemnis traditio si afferma già compiuta, pertanto l’epistula in questione si potrebbe anche «porre in connessione con la norma stabilita da Nov. Val. 15 del 444 o 445 (v. anche Nov. Val. 32 pr.) che richiedeva l’insinuatio per le vendite immobiliari»385. Ma i papiri CXV, CXVI, e CXVII dimostrano in modo sufficientemente chiaro che l’epistula traditionis aveva il fine di ottenere la sollemnis traditio, non l’insinuatio; ancora, se l’epistula traditionis fosse da porsi in relazione all’insinuatio apud acta essa dovrebbe comparire anche laddove ci si limitasse a redigere un documento che attestasse l’avvenuta traditio, il cosiddetto diploma vacuale. Ciò che non accade386.
L’accenno or ora fatto all’insinuatio mi consente di introdurre un ultimo aspetto dell’evoluzione della prassi in epoca postclassica che ha un qualche rilievo rispetto allo
379 Cfr. supra, § 2, 73 s..
380 Pap. Marini CXV.
381 X. XXXXX, Il principio, cit., 102.
382 X. XXXXX, Il principio, cit., 102.
383 Così X. XXXXXXXXX in Recensione a GALLO, cit., 156.
384 M. TALAMANCA in Recensione a GALLO, cit., 155.
385 XXXXXX XXXXXX, Recensione a GALLO, cit. 320.
386 In questo senso cfr. X. XXXXXXXXX, Ancora sul principio, cit., 19.
scopo di questo scritto. Esso attiene a un’interessante trasformazione che in quel tempo avveniva nel campo dei documenti privati e delle forme di pubblicità. Come ho detto in precedenza387, nei sistemi ellenistici vigevano concezioni profondamente diverse circa il valore dei documenti scritti che poggiavano su sistemi diffusi di pubblicità come quello della βιβλιοϑήκη τῶν ἐγτήσεων dell’Egitto romano. La comunità era chiamata a intervenire nella documentazione dei negozi privati attribuendole in tal modo una particolare efficacia. Nel III-IV secolo, tuttavia, anche questo sistema andava subendo intense modificazioni388. La penetrazione romana nella vita economica, giuridica e politica delle πόλεις aveva determinato alcuni cambiamenti in questa consuetudine. I cittadini greci ed ellenistici, che prima solevano rivolgersi agli organi cittadini affinché con il loro superiore intervento proteggessero gli scambi dei beni e assicurassero certezza al commercio giuridico, per soddisfare le medesime esigenze cominciarono a guardare, piuttosto che alle tradizionali magistrature, ai funzionari del potere centrale la cui influenza, sotto lo stimolo delle imperanti concezioni assolutistiche389, era a quei tempi in piena espansione. Risalgono a questo periodo alcuni rescritti imperiali390 che testimoniano che non era la sola legislazione imperiale a perseguire quest’accentramento, ma che i cittadini di quelle terre anche di loro libera iniziativa preferivano rivolgersi al praeses provinciae più che agli antichi magistrati cittadini. Parallelamente, nelle abitudini della pars Occidentis dell’Impero avvenivano importanti trasformazioni. Come detto, di sistemi di pubblicità analoghi a quelli operanti nelle province ellenistiche per il tempo precedente «non si ha notizia in Occidente, né in queste regioni risulta – nelle fonti giuridiche e letterarie – attestato l’uso del verbo
transcribere391 in relazione ai trasferimenti di proprietà»392. Ma è chiaro che il
progressivo decadere delle antiche forme di ius civile che ho cercato di spiegare prima non poteva rimanere senza effetto nella prassi e nella legislazione.
Tralasciando quest’ultima di cui intendo occuparmi più avanti, a questo punto mi preme porre l’accento su una pratica invalsa proprio in concomitanza con il venir meno delle antiche forme solenni a cui la prassi si appoggiava in epoca classica: non solo si solevano redigere per iscritto i documenti, soprattutto se avevano per oggetto la trasmissione d’immobili, ma, talvolta, essi, su iniziativa delle parti, quand’anche cioè l’insinuatio non fosse prescritta, erano insinuati nei gesta. «Erano questi dei processi verbali redatti nelle cancellerie dei tribunali, che dalla funzione originaria di documentare lo svolgimento dei processi avevano tratto anche quella di dar forma
387 Cfr. supra, § 2, 71 ss. e 77 ss..
388 Per le riflessioni che seguono cfr. G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 29 s., nt. 1 (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Scritti, cit., 1629 s., nt. 75).
389 Cfr. quanto detto supra, § 1, 68 s., in particolare nt. 305.
390 Per l’indicazione dei testi giuridici in questione rimando a G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 31 s., nt. 4 (ora in ID., Scritti di diritto romano, III, Xxxxxxx, cit., 1633 s., nt. 79).
391 Oltre a Scaev. 22 dig., D. 32, 41, 9 che riguarda un trasferimento a titolo di legato di fondi che si trovavano, se non in Egitto, sicuramente in un’altra provincia orientale, soltanto Proc. 11, epist., D. 19, 5, 12 usando il termine transcribere, che sembra senz’altro rendere il greco καταγράφειν, «mette in relazione un caso di vendita, con pactum de retrovendendo, con strutture di tipo greco relative alle vendite immobiliari: nel caso, il giurista sembra valutare – rispetto all’obligatio consensu contracta – la transcriptio-katagraphé alla stessa stregua della traditio o della mancipatio», X. XXXXXXXXX sub voce Vendita, cit. 462, nt. 1640.
392 X. XXXXXXXXX, I clienti di Q. Cervidio Scevola, in BIDR, 2000-2001, CIII-CIV, 584.
solenne alle dichiarazioni dei privati»393. Come detto nei riguardi delle città greche ed ellenistiche, nel III-IV secolo tale registrazione avveniva al cospetto di funzionari del potere centrale; nei secoli successivi il potere imperiale andò indebolendosi e un po’ in tutto l’Impero fu sostituito nella stessa attività dagli organi cittadini. Ora, se dai dati fornitici dalle fonti non è lecito dedurre, soprattutto per gli inizi dell’epoca postclassica, un’enorme diffusione del ricorso all’instrumentum publicum, dove, invece, si registrò una vera e propria rivoluzione fu nel campo degli instrumenta privata. Anche sotto l’influenza delle province ellenizzate, una nuova figura emerse nel corso del III secolo e s’impose in tutto l’Impero, quella del tabellio394. I tabelliones sono privati cittadini sulla cui attività professionale di redazione di documenti negoziali l’autorità pubblica svolge un controllo. Una figura, insomma, non molto lontana da quella del nostro notaio alla quale si ricorse sempre più di frequente nell’età postclassica, tanto da determinare un mutamento dell’atteggiamento degli imperatori nella considerazione, fino allora generica e indeterminata, dei documenti redatti per iscritto395.
Volendo tirare le somme di questo breve esame della prassi dell’epoca postclassica, si può concludere che quando Xxxxxxxxxxx credette di restaurare (o, forse, sarebbe meglio dire instaurare, nei riguardi di quelle terre dall’antica e profonda cultura) l’Impero dando aspra battaglia alle vedute delle province ellenizzate commise un errore, comprensibile in un animo «alacre, ma troppo teorico»396 come il suo, analogo a quello che commise con la persecuzione contro i cristiani.
Bisogna tuttavia riconoscere una certa magnanimità allo sforzo profuso dall’imperatore dalmata nel tentativo grandioso di combattere e arrestare la crisi alla quale assisteva, ma la sua buona riuscita era cosa superiore alle possibilità di un uomo e i mezzi scelti erano connotati da un gelido e anacronistico classicismo. La scarsa capacità diagnostica dell’imperatore apparirà ancor più chiara nel prossimo paragrafo nel quale tratterò uno dei sintomi398 più evidenti delle alterazioni che andava subendo il
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxxxxxxx00, cit., 207.
394 «Il vocabolo risulta usato per la prima volta in un testo di Xxxxxxx e resterà quasi esclusivo delle fonti giuridiche, il che peraltro ne assicura il persistente valore tecnico». X. XXXXXXXX, L’età romana, in X. XXXXXXXX e X. XXXXXXXXXX, Alle origini, cit., 15.
395 Sul punto cfr. G.G. ARCHI, `Civiliter vel criminaliter agere´, cit., 30 ss. (ora in ID., Scritti di diritto romano, III,
Xxxxxxx, cit., 1632 ss.).
396 Così lo definisce, avuto riguardo alla scelta del sistema della tetrarchia che «richiedeva nei capi dello Stato un’abnegazione che né allora né mai è stata nelle consuetudini umane» per la soluzione del grave problema della successione (su cui cfr., supra, § 1, 62), X. XXXXXXX-XXXX, Storia7, cit., 320; 321.
397 Così X. XXXXXX, Xxxxx, cit., 22.
398 Qui più che mai vale la premessa di ordine generale fatta in precedenza (cfr. supra, § 1, 62) sull’imperfezione delle diagnosi causali nei processi storici: è chiaro che il collasso della dottrina giuridica, prima che un sintomo, era una concausa dell’instabilità dell’edificio giuridico classico. Sul silenzio della giurisprudenza cfr. X. XXXXXXX-XXXX, Storia7, cit., 342 ss..
sistema del diritto classico: l’improvviso silenzio nel quale era caduta la giurisprudenza dopo i primi decenni del III secolo.
CAPITOLO QUARTO
LA DECADENZA DELLA GIURISPRUDENZA NEL BASSO IMPERO
SOMMARIO: 1. LA FIGURA DELLA COMPRAVENDITA NELL’`EPITOME GAI´. – 2. LE LIEVI TRACCE DELL’`EMPTIO ET XXXXXXXX´ CLASSICA NELLE `PAULI SENTENTIAE´. – 3. L’ OSCURAMENTO DEL `TRENNUNGSPRINZIP´ NELL’`INTERPRETATIO´.
1. La figura della compravendita nell’`Xxxxxxx Xxx´.
Il sistema classico del diritto romano si era potuto reggere e aveva potuto prosperare grazie all’opera geniale di giuristi della levatura di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx o Xxxxxx Xxxxxxxxx i quali seppero porre i nuovi problemi e inquadrare le nuove esperienze giuridiche, che si sprigionavano spontanee dal fervidissimo mondo repubblicano e del Principato, sotto il manto antico e venerabile di formule di un lontano mondo agreste o entro le maglie strette del diritto pretorio o gli schemi degl’istituti del diritto delle genti. Cessato quel fervore con la crisi che nel Dominato attraversava tutto l’Impero e spentasi l’ultima voce di quella gloriosa tradizione di giureconsulti con la morte di Xxxxxxx Xxxxxxxxx, è chiaro che il sistema dovesse vacillare nel corso dei secoli che vanno dal terzo al quinto. L’anonima giurisprudenza dell’età postclassica399 che, incapace di rendersi autrice di opere originali, si accosta timidamente alle opere dei grandi giuristi del passato non può essere considerata, al pari di quella classica, una fonte di produzione del diritto. Piuttosto la sua attività si ridusse a glosse, crestomazie o epitomi di opere classiche che quei tardi maestri piegavano ai bisogni dei nuovi tempi senza mai rinnegare apertamente i principi in esse contenute, ma sottacendoli, al massimo, o storcendoli, più o meno consapevolmente, al fine di soddisfare le esigenze, innanzitutto di semplificazione, tipiche della loro forma mentis. Proprio in queste pudiche surrezioni e in questi rabberciamenti, compiuti «con la riverenza un po’ supina che i capolavori dell’ingegno riscuotono presso chi si sente irremissibilmente confinato nella posizione di epigone»400, s’indovinano gli sviluppi degli istituti giuridici nell’epoca postclassica. È naturale poi che questi sviluppi sentissero direttamente la forte influenza dell’urgere dei concreti problemi della vita del
399 Per le osservazioni che seguono cfr. X. XXXXXXXXX, L’attività della giurisprudenza, in Lineamenti2, cit., 604 ss; X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 353 ss.
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 348.
risentisse e dell’influenza delle province ellenistiche403 e dell’influenza della prassi
volgare404, le quali entrambe spingevano verso la concezione «di un comprare e di un vendere coincidenti con l’effettivo scambio di cosa contro denaro»405. A questo proposito vengono in speciale risalto alcune opere tramandateci per la gran parte dalla lex Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx. Innanzitutto l’Epitome Gai, una tarda riduzione in due libri
dei primi tre libri406 delle Gai Institutiones, com’è evidente sia dal titolo, sia dal
confronto fra i testi. Di datazione incerta, è stata ritenuta in passato opera degli stessi compilatori della lex Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx in cui ci è stata tramandata; l’opinione prevalente allo stato attuale degli studi la colloca in epoca previsigotica. In particolare
l’Archi ha dedicato una vasta fatica407 allo studio di quest’opera ritenendola
un’interpretatio delle istituzioni gaiane a uso della prassi redatta in conformità a un’elaborazione parafrastica delle Institutiones fatta a scopi scolastici. Da collocarsi nell’ambiente delle scuole occidentali, l’Epitome Gai è oggi ritenuta per lo più un’opera della seconda metà del V secolo408 ed è di un certo interesse riguardo all’oggetto della presente ricerca: in ispecie due passi s’impongono all’attenzione di chi si accosti al problema dell’evoluzione (o involuzione) della compravendita409 nel periodo in esame.
401 Nei riguardi della naturale tendenza alla semplificazione e popolarizzazione del diritto scrive il Xxxx: «Forces of this kind had always been at work. But they had been held down and prevented from spreading freely so long as a creative jurisprudence stood guard over the orderly growth of the accepted legal institutions», X. XXXX, Xxxx Xxxxx vulgar law, cit., 6.
402 Così G.G. ARCHI, Il trasferimento, cit., 178.
403 Per la compravendita nel mondo greco, cfr. supra, cap. II, § 2, 45 ss..
404 Per la tendenza dei profani di ogni tempo e luogo a concepire la vendita come scambio immediato di cosa verso prezzo, cfr. supra, cap. II, § 1, 43 ss..
000 X. XXXXXXX-XXXX Xx compravendita2, cit., 93.
406 A differenza dell’autore dei Fragmenta Augustodunensia (un’altra parafrasi gaiana, peraltro inutile ai fini della ricostruzione della disciplina postclassica della compravendita, giacchè dell’esegesi al commentarius tertius nulla di essa ci è pervenuto), l’anonimo epitomatore di Xxxx trascura del tutto il IV libro che concerneva il processo formulare, ai suoi tempi certamente superato.
407 G. G. ARCHI, L’ `Epitome Gai´. Studio sul tardo diritto romano in Occidente, Milano, 1937 (rist. con una nota di lettura di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx, Napoli, 1991).
408 Ma per l’assegnazione alla fine del IV secolo, cfr. H. F. HITZIG, Beiträge zur Kenntnis und Würdigung des sogenannten westgothischen Xxxxx, in ZSS, XIV, 1893, 214 ss. (peraltro a pag. 220 l’autore identifica l’epitomatore di Xxxx con lo scrittore dell’Interpretatio alle Pauli Sententiae). Per la dottrina prevalente, cfr. X. XXXXXXXXX, Le opere che rielaborano o commentano testi classici, in Lineamenti2, cit., 619.
409 L’espressione «evoluzione (o involuzione) della compravendita» potrebbe essere fuorviante suggerendo l’idea di un fenomeno unitario che involga l’istituto lungo tutto il periodo tardoantico, ma spero che l’impressione sia attenuata dalla funzione logica di complemento di specificazione del sostantivo «problema» che essa svolge nella proposizione: è quantomeno opinabile che si possa pensare a uno sviluppo coerente del contratto di vendita in un arco di tempo che da Xxxxxxxxxx a Giustiniano si estende per oltre due secoli e che, persino nella sincronia, presenta differenze notevoli. Xxxxxxx, mutatis mutandis, anche nel campo dottrinale le considerazioni svolte a proposito delle difficoltà che lo studioso dell’età tardoantica incontra nella ricostruzione della prassi (per cui cfr. supra, cap. III, § 1, 67 ss.) e l’osservazione critica (per cui cfr. supra, cap. III, § 1, 65 s.) rivolta alle tre teorie sulla portata oggettiva della constitutio Antoniniana circa l’atteggiamento sistematizzante che lo storico del diritto, in quanto giurista, è portato anche inconsapevolmente ad assumere correndo il rischio di falsare la realtà.
Anzitutto, com’è ovvio, il passo in cui l’epitomatore individua il momento perfezionatore del contratto:
Epitome II, 9, 14. Emptio igitur et venditio contrahitur, cum de pretio inter emptorem et venditorem fuerit definitum, etiamsi pretium non fuerit numeratum nec pars pretii aut arra data fuerit.
A un primo sguardo esso appare una resa fedele di Gai Institutiones III, 139410 ed è innegabile che la definizione resti nell’orbita gaiana. Tuttavia un’omissione spicca per l’importanza che la precisazione aveva nella mente di Xxxx. Ho già spiegato, nei suoi tratti essenziali, la concezione dell’ἀρραβών411 di diritto greco e in quale grado essa divergesse dalla concezione romana dell’arrha; ho anche già avuto modo di mettere in
mostra una legittima preoccupazione di Gaio412 circa la confusione che, sul tema,
sarebbe potuta sorgere in Roma dalla pratica che si era diffusa di consegnare una somma di denaro a titolo di arra. Ma a questo punto della trattazione potrebbe essere di giovamento dare maggiore risalto all’attenzione del giurista classico verso le profonde differenze dei due omonimi istituti attraverso la lettura del quarto paragrafo, nel quale la dottrina greca della compravendita e dell’arra è contenuta in nuce tutta quanta, del frammento di Xxxxxxxxx di cui più volte ho fatto menzione:
Se si pone mente al passo istituzionale, è evidente la corrispondenza (e contrapposizione) fra i due. Appare evidente che il giurista romano polemizzasse contro la concezione greca della compravendita e dell’arra. Per quanto riguarda la prima, Xxxx, e con lui il suo passivo epitomatore, afferma che essa, scevra da qualsivoglia formalità, s’intende conclusa al momento del perfezionamento dell’accordo sul prezzo, quand’anche quest’ultimo non sia stato versato (emptio et venditio contrahitur cum de pretio convenerit, quamvis nondum pretium numeratum sit e, del tutto analogamente, nell’epitome emptio igitur et venditio contrahitur, cum de pretio inter emptorem et venditorem fuerit definitum, etiamsi pretium non fuerit numeratum); al contrario Xxxxxxxxx dichiara apertamente che essa è integrata ὅταν ἡ τιµὴ δοθῇ καὶ τἀκ τῶν νόµων ποιήσωσιν414, οἷον ἀναγραφὴν415 ἢ ὅρκον ἢ τοῖς γείτοσι τὸ γιγνόµενον. Di più, l’allievo di Xxxxxxxxxx rileva che la compravendita dispiega i propri effetti nel solo campo dei diritti reali (κυρία δὲ ἡ ὠνὴ καὶ ἡ πρᾶσις εἰς µὲν κτῆσιν, dovendosi intendere, col
410 Per la cui esegesi cfr. supra, cap. II, § 3, 52 ss..
411 Cfr. supra, cap. II, § 2, 45 ss...
412 Cfr. supra, cap. II, § 3, 52 s..
413 Florilegium di Xxxxxx, XLIV, 22, 4.
414 S’intende ai fini della pubblicità, per cui cfr. supra, cap. III, § 2, 77, nt. 335.
415 Per la quale, in relazione al diritto greco-egizio, cfr. supra, cap. III, § 2, 77 s..
Pringsheim416 e la migliore dottrina, il termine κτῆσις nel significato di `acquisto´);
mentre uno dei caratteri fondamentali dell’emptio et venditio classica precedentemente notati era proprio la mera obbligatorietà per raggiungere un surrogato della quale (εἰς δὲ τὴν παράδοσιν καὶ εἰς αὐτὸ τὸ πωλεῖν417) nel mondo greco si era costretti a ricorrere alla dazione di un’arra (ὅταν ἀρραβῶνα λάβῃ). È proprio la differenza sostanziale sul valore dell’accordo, un semplice atteggiamento della volontà rispetto a risultati giuridici da
raggiungere in futuro418 per i Xxxxx, un vero e proprio contratto immediatamente
produttivo di sole obbligazioni per i Romani, a indurre Xxxx a segnalare che, conseguentemente, anche la dazione di un’arra aveva una diversa efficacia nel mondo romano rispetto a quello greco. L’importanza che il punto aveva agli occhi di Xxxx è confermata dal fatto che egli si curi di chiarirlo anche al di fuori del manuale istituzionale:
l. 10 ad Ed. prov., D. 18, 1, 35, pr.: Quod saepe arrae nomine pro emptione datur, non eo pertinet, quasi sine arra conventio nihil proficiat, sed ut evidentius probari possit convenisse de pretio.
Nella polemica avverso il sistema greco spicca l’inciso quasi sine arra conventio nihil proficiat: è chiara la volontà gaiana di ribadire l’efficacia obbligatoria dell’accordo puro e semplice a differenza di quanto avveniva nelle province ellenizzate. Né si può dimenticare che quest’efficacia si riconnetteva nella mente del giurista classico alla risoluta separazione fra le obbligazioni prodotte dall’accordo e gli effetti di trasmissione della proprietà che sarebbero scaturiti dai negozi attuati in adempimento di quelle obbligazioni. Alla luce delle considerazioni appena svolte non è privo d’interesse il fatto che l’epitomatore di Xxxx, che pure nel paragrafo precedente aveva enumerato la compravendita fra le obligationes consensu contractae419, ometta di dare la definizione dell’arra come argumentum emptionis et venditionis contractae. Ancor più se si tiene conto del significato che, spesso, questo genere di rispettosi silenzi ha nelle opere dei tardi maestri postclassici, i quali sacrificarono l’insegnamento dei classici soltanto di fronte a necessità pratiche e alle esigenze della loro diversa forma mentis, ma, anche quando astretti da simili circostanze, essi compirono quei sacrifici dei classici
416 «ʿH ὠνὴ καὶ ἡ πρᾶσις is the agreement on buying and selling. […] This agreement is κυρία εἰς κτῆσιν. It is not “valid”, but efficient, or a legal foundation, a “causa”, for the acquisition of ownership. Without it ownership cannot pass because it impresses on the payment of the money, perhaps combined with the delivery of the goods because an agreement preceded and characterised it. Κτῆσις means originally and principally the acquisition of ownership.», X. XXXXXXXXXX, The Greek Law, cit.,138 s.
417 L’interpretazione di questo inciso ha dato qualche difficoltà agli studiosi. Di fronte alla tesi di chi (come X. XXXXXXX, Besprechung über PAPPOULIAS: Geschichtliche Entwicklung der Arrha im Obligationenrechte, in GGA, 1911, 716 ss.; e, in un primo momento, anche X. XXXXXXX-XXXX, in X. XXXXXXX-XXXX e X. XXXXXXXX, Inscriptiones Grecae Siciliae et infimae Italiae ad jus pertinentes, Milano, 1925, 246) sostiene che l’espressione εἰς δὲ τὴν παράδοσιν καὶ εἰς αὐτὸ τὸ πωλεῖν debba essere intesa come un’endiadi volta a raffigurare la compravendita a contanti della quale il contratto arrale sarebbe stato garanzia, sono degni di considerazione due passi di lessicografi (HARPOKRATION [ed. Xxxxxx], 44, 14; Lessico di Séguier, 220, 3) che riguardano la δίκη βεβαιώσεως, una particolare azione a tutela del possesso. Alla luce della speciale natura di quest’azione, la quale presupponeva di necessità l’avvenuta trasmissione del possesso o della proprietà, altri autori (X. XXXXXXX, Geschichte und Wesen des Arrhabons und der Arrha im griechischen und römischen Rechte bis zum Procheiros Nomos, Gernsbach, 1925, 23 ss.; X. XXXXXXX, Juristische Miniaturen, Leipzig, 1929, 100 ss.; X. XXXXXXXXXX, The Greek Law, cit., 354 ss.; e, in un secondo momento, anche X. XXXXXXX-XXXX, Recensione a PRINGSHEIM, The Greek law of Sale, in IVRA, 1951, 290) sono giunti, in maniera più convincente, «alla conclusione che il contratto arrale era justa causa per il trasferimento del possesso al futuro acquirente, cui questo possesso veniva garantito attraverso la δίκη βεβαιώσεως», X. XXXXXXXXX L’arra, cit., 17.
418 Così X. XXXXXXX-XXXX, Recensione a PRINGSHEIM, cit., 290.
419 Cfr. infra, § 2, 99, nt. 438.
ammaestramenti «timidamente, e quasi contro voglia, cercando di convincere per primi se stessi della fedeltà di ogni loro riserva e distinzione allo spirito degli autori che riassumevano o commentavano»420. Ora, se, forse, la mancanza della definizione dell’arra non è argomento sufficiente per attribuire all’epitomatore un diverso pensiero sul valore dell’istituto in età postclassica421, non credo, tuttavia, di essere portato del tutto fuori dalla realtà leggendolo come il segno di un minore interesse, rispetto al giurista classico, verso il proporre all’attenzione dei lettori le differenze connaturate alle diverse concezioni dell’arrha romana e dell’ἀρραβών greco. Neppure ritengo inverosimile, dato l’intrecciarsi delle concezioni dell’arra e della compravendita, che l’affievolirsi di quest’interesse nell’animo dell’epitomatore fosse causato anche da una certa confusione che regnava ormai circa gli effetti da attribuirsi all’accordo. E la congettura potrebbe trovare conferma in un altro passo422 dell’epitome:
Epitome II, 1, 7. Quia quidquid his a qualibet persona donatum vel venditum fuerit, aut heredes fuerint instituti, id patribus et dominis sine aliqua dubitatione conquiritur.
Il confronto col modello gaiano renderà ancora più chiara l’inversione dei punti di vista fra Xxxx e il suo tardo epitomatore:
Igitur (quod) liberi nostri, quos in potestate habemus, item quod servi nostri mancipio accipiunt vel ex traditione nanciscuntur, sive quid stipulentur, vel ex aliqualibet causa adquirunt, id nobis adquiritur.423
In entrambi i passi si tratta il problema degli acquisti per opera delle persone in potestate, ma, laddove Gaio individuava chiaramente nella traditio o nella mancipatio i negozi produttivi dell’acquisto (igitur (quod) liberi nostri […] item quod servi nostri mancipio accipiunt vel ex traditione nanciscuntur […],id nobis adquiritur), l’epitomatore, invece, fa derivare l’effetto reale direttamente dalla compravendita come tale (quia quidquid his a qualibet persona […] venditum fuerit […], id patribus et dominis sine aliqua dubitatione conquiritur). Sorvolando sul problema della rappresentanza, dal confronto fra i due testi affiora con tutta evidenza quella «merger of concepts» di cui parlava il Xxxx nel passo citato alla fine del secondo capitolo424: il maestro postclassico non distingue più nettamente tra titulus e modus adquirendi, secondo la terminologia impostasi nel diritto comune; sia che risenta dell’influenza ellenistica, sia che, più plausibilmente data la sua probabile collocazione in Gallia425, risenta dell’influenza barbarica e delle mutate condizioni economiche, egli tende a concepire la compravendita, in maniera meno raffinata del giurista classico, come uno scambio immediato di cosa verso prezzo in cui è assai difficile, oltre che non molto utile, scindere il momento obbligatorio da quello traslativo. Nei riguardi delle
000 X. XXXXXXX-XXXX, Xxxxxx0, cit., 348.
421 A questo proposito scrive il Talamanca: «benché il rilevo appaia suggestivo, è difficile imputare codesto fatto alla differente valenza che l’arra andava assumendo in questo periodo», X. XXXXXXXXX sub voce Vendita, cit., 467, nt. 1676.
422 Sul quale cfr. X. XXXXXXX-XXXX La compravendita2, cit., 94 e, del tutto similmente, X. XXXXX, Il principio, cit., 106 s..
423 Gai Institutiones, 2, 87.
424 Cfr. supra, cap. II, § 4, 57.
425 Per cui cfr. X. XXXXXXXXX, Le opere che rielaborano, cit., in Lineamenti2, cit., 619.
condizioni economiche e sociali non è privo di significato «the rising use of `comparare
´ for `emere´»426 nel periodo in esame: questa sostituzione, che si verifica spesso, anche nei testi delle Pauli Sententiae e dell’Interpretatio che esaminerò fra poco, è un indice della crisi in atto la quale spingeva a preferire l’uso di un termine realistico e immediatamente rappresentativo dello scambio, a quello di un termine evocativo di un assetto giuridico che, il più delle volte, sarebbe stato oltre che di difficile comprensione anche di scarsa rilevanza pratica. Nei riguardi, invece, della possibile influenza barbarica, è ricco di spunti pieni d’interesse (e di problemi) un passo della lex Romana Burgundionum, una fonte di epoca non di molto successiva all’Epitome Gai, giacchè il re Xxxxxxxxx la dovette emanare negli ultimi anni del secolo V, comunque non dopo il 501427. Pur provenendo dal di fuori dei confini dell’Impero, la lex Gundobada riflette condizioni economiche e culturali in gran parte analoghe a quelle di molte province all’interno dello stesso e, soprattutto, può rivelarsi di una certa utilità al fine dell’individuazione delle possibili influenze che pochi anni prima doveva subire l’epitomatore di Xxxx (come anche lo pseudo-Paolo428 di cui mi occuperò a breve) in un’area non molto distante da quella del regno borgognone:
Tit. XXXV § 1. De vindendis et emendis contractibus hic ordo servandus est, ut quisque rem iuris sui vindiderit, repetendi eam postea non habeat potestatem.
§ 2. Vinditionem vero ex hoc maxime ius firmitatis accipere, si traditione celebrata possessio fuerit subsecuta.
Nel primo paragrafo429 si nega l’azione di rivendicazione al venditore (quisque rem iuris sui vindiderit, repetendi eam postea non habeat potestatem). Difficile stabilire quali motivi inducessero il venditore a rivendicare; non appare improbabile, tuttavia, che fra questi vi fosse anche il mancato pagamento del prezzo. Di grande interesse, anche al fine dell’interpretazione del passo dell’Epitome Xxx citato in precedenza, è il paragrafo seguente in cui si spiega la ragione del diniego e si afferma che col compimento della traditio (si traditione celebrata possessio fuerit subsecuta) il contratto ha acquistato maxime ius firmitatis. Per quanto l’indeterminatezza delle conoscenze che riguardano il contesto culturale costringa a muoversi sul piano delle congetture e suggerisca prudenza nel farlo, fra le diverse ipotesi interpretative non mi pare la più probabile quella che vede nel passo in esame la fedele e genuina trasposizione del principio romanistico per cui, compiuta la traditio, la proprietà è passata in seguito a essa dal venditore al compratore e al primo, pertanto, non spetta l’azione di rivendicazione (ma, al massimo, spetterebbe l’actio venditi per ottenere il versamento del prezzo dal compratore, sempreché fosse questo il motivo che lo aveva spinto a rivendicare). Mi sembra, piuttosto, preferibile un’interpretazione che, tenendo conto delle mutate condizioni economiche e culturali rispetto alla Roma classica, legga il paragrafo in esame come un’ibrida fusione di principi romanistici e di principi barbarici. In particolare ritengo la meno improbabile delle ipotesi ermeneutiche quella
000 X. XXXX, Xxxx Xxxxx vulgar law, cit., 127, nt. 6 in cui l’Autore rimanda a ID., Zum Wesen des weströmischen Vulgarrechtes, in Atti del congresso internazionale di diritto romano, Roma, II, 39 ss..
427 Così, X. XXXXXXX, Le grandi linee, cit. 49.
428 Sul termine, cfr. infra, § 2, 100, nt. 444.
429 Per l’interpretazione della legge mi rifaccio ampiamente a G.G. ARCHI, Il trasferimento, cit., 184 s.