Contratto a tutele crescenti e altre forme contrattuali*
saggi
Xxxxxxx Xxxxxxx
Contratto a tutele crescenti e altre forme contrattuali*
Sommario: 1. A che serve il contratto di lavoro standard? 2. Come cambia il contratto di lavoro standard dopo il d.lgs. attuativo dell’art. 1.7 lett. c) della l. 183/2014: l’incorporazione della di- seguaglianza. 3. Funzionalità con l’obiettivo di aumentare l’occupazione e l’interferenza della
l. 190/2014: a parte la qualità del lavoro, una verifica su tempi medio-lunghi. 4. Funzionalità a superare le segmentazioni del mercato del lavoro: il lavoro a termine. 5. L’apprendistato. 6. Il lavoro a progetto. 7. Il lavoro autonomo. 8. Per le imprese meglio cumulare che scegliere nella totale incertezza (ovvero le imprese e il de-risking State): riordino o “sfrittellamento” delle forme contrattuali? 9. La difficile semplificazione e il contratto “momentaneamente” dominante: un ausilio possibile dalla contrattazione collettiva.
1. A che serve il contratto di lavoro standard?
Il contratto a tutele crescenti (in seguito catuc1) – ultimo parto della fervida fantasia semantica del legislatore italiano (al quale si devono pure i xx.xx.xxx. e i contratti di prossimità) – non ha incantato nessuno: ormai è infatti chiaro che ad un nomen promettente (ma fuorviante) corrisponde una limitata modifica delle regole vigenti.Tuttavia, visto il testo (quasi de- finitivo) del relativo decreto, il cambiamento c’è ed è di tutto rilievo. Ma cosa cambia? Essenzialmente le sanzioni e le regole processuali applicabili ai licenziamenti illegittimi riguardanti i contratti di lavoro stipulati a par- tire dall’entrata in vigore del primo dei decreti attuativi della l. 10 dicem-
* Il saggio è destinato agli Studi in onore di Xxxxxxxx De Xxxx Xxxxxx.
1 Acronimo (apprezzato da Xxxxxxx Xxxxxxxxx: v. La legge degli inganni, in Insightweb, 2015) di cui rivendico il copyright: v. Il decreto Xxxxxxx: una semplificazione che semplifica (e convince) poco, in CARINCI F. (a cura di), La politica del lavoro del governo Xxxxx. Atti del X seminario di Ber- tinoro-Bologna del 23/24 ottobre 2014, Adapt University press, 2015 ebook series, n. 40, p. 261.
Diritti Lavori Mercati, 2015, 1
bre 2014 n. 183 (7 marzo 2015: v. il d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, pubblicato in Gu serie generale n. 54 del 6 marzo). Nulla cambia invece per circa sette milioni di lavoratori, cioè per i contratti di lavoro stipulati prima di quella data da imprese con più di 60 dipendenti ai quali trovava applicazione quel che resta dell’art. 18 della l. 20 maggio 1970 n. 300 rivisto dalla l. 28 giugno 2012 n. 92 (salvo che quei contratti non siano stati stipulati in unità produttive con meno di 16 dipendenti che, con nuove assunzioni, vadano oltre tale soglia). Ciò vuol dire che il diritto del lavoro italiano da oggi in poi alleva nel seno della sua fattispecie tipica (il lavoro standard) una crea- tura con una doppia faccia. Una specie di malformazione grave, di cui potranno non accorgersi solo quei (presumibilmente pochi) fortunati la- voratori che da oggi in poi non cambieranno né datore di lavoro né tipo di contratto. Una situazione che, dunque, non reggerà a lungo: l’una o l’altra “faccia” finirà per prevalere, sanando la malformazione, ma alterando definitivamente delicati equilibri.
Prima di dare per scontati gli esiti finali di un percorso avviato, a pa- rere di molti studiosi, in modo non abbastanza ponderato e comunque poco convincente2, occorre rendersi conto fino in fondo di cosa cambia
2 CARINCI F. (a cura di), op. cit.; XXXXXXX-XXXXXXXXXX G. (a cura di), Jobs Act e contratto a tempo determinato (Atto I), Xxxxxxxxxxxx, 2014; CARINCI F., Il diritto del lavoro che verrà (in occasione del congedo accademico di un amico); XXXXXX, La flessibilità del lavoro a termine dopo il Jobs act; MA- RESCA, Il lavoro subordinato a termine “cambia verso”: il contratto a durata crescente: tutti in Diritto del lavoro e mercato globale.Atti del convegno in onore di Xxxxx Xxxx, Xxxxxxxxxxxx, 2014, risp. p. 23 ss., 135 ss. e 172 ss. XXXXXXX, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato: novità e implicazioni sistematiche; ZOPPOLI L., Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e fles- sibilizzazione funzionale; DE LUCA, Prospettive di politica e diritto del lavoro: di compromesso in com- promesso cresce la flessibilità, ma non solo (prime riflessioni su Jobs Act e dintorni); ZILIO GRANDI, SFERRAZZA, Legge n. 78/2014 e politiche del lavoro; XXXXXXX, Occupazione e diritto del lavoro. Le po- litiche del lavoro del Governo Xxxxx; SPEZIALE, Le politiche del lavoro del Governo Xxxxx: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro: tutti in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT, 2014, risp. ai nn. 212, 213, 217, 220, 226, 233; ALLEVA, I licenziamenti nel Jobs Act e l’emendamento governativo; ID., La delega in bianco è incostituzionale; BAVARO, Jobs act, salario minimo legale e relazioni industriali; XXXXXXXX, Mille frammenti per idee vecchie e nuove; XXXXXXXX, Contratto a tutele crescenti e disciplina dei licenziamenti: l’oscuro contenuto del d.d.l. delega n. 2600 del 2014: tutti in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx; ZOPPOLI L., La riforma del lavoro, in l’Annuario del lavoro 2014, Arti Grafiche la Moderna, 2014, p. 207 ss.; CARINCI F., Jobs Act atto II: la legge delega sul mercato del lavoro, in ADL (in corso di pubblicazione); TIRABOSCHI, Cosa manca nel Jobs Act; PELLACANI, Tra le pieghe del Jobs Act: l’importanza delle cose non dette: entrambi in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx; RU- SCIANO, X. XXXXXXX (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”. Collective Volumes - 3/2014.
nella funzione del contratto di lavoro standard con la riforma del Jobs Act. E quali riflessi può avere tale cambiamento su tutti gli altri contratti di la- voro oggi esistenti.
A svilupparla tutta, si tratterebbe di un’analisi complessa, da condurre approfonditamente con approccio interdisciplinare e diacronico. Qui si pro- cederà con grandi sintesi e schematizzazioni, dando la prevalenza al discorso sul precipitato giuridico di una struttura contrattuale destinata ad essere il crocevia di equilibri molteplici, che riflettono il rapporto tra Stato e mercato, tra produttori e cittadini, tra bisogni personali e obiettivi economici, met- tendo a confronto razionalità e progetti esistenziali anche diametralmente opposti. Non bisognerebbe mai dimenticare che, specie nei suoi snodi cru- ciali (come la disciplina di un contratto riguardante milioni di imprese e di lavoratori), la regolazione giuridica incrocia (e deve incrociare) una molte- plicità di mondi vitali (da quello quotidiano a quello della grande politica) e che modificarla produce effetti a raggiera non sempre prevedibili.
Il contratto di lavoro standard – ovvero il contratto di lavoro subor- dinato a tempo indeterminato e ad orario pieno destinato ad essere ese- guito all’interno di un’organizzazione di beni e persone di cui il prestatore di lavoro non condivide né proprietà né poteri decisionali – in Italia si assesta tardi e male, innestandosi sul tronco di una disciplina codicistica (v. l’art. 2094 c.c., entrato in vigore nel 1942 e mai testualmente novellato) nata in una fase turbolenta per la cultura politica e giuridica italiana, de- stinata ad essere profondamente modificata (modernizzata) nei trent’anni successivi per tenere il passo con un doppio progresso. Quello ordina- mentale, che – abbandonato un regime politico autoritario e provinciale (cioè autarchico) – puntava su uno Stato sociale pluriclasse, fondato sul lavoro, la libertà e il pluralismo politico e sindacale; e quello socio-eco- nomico, incentrato sullo sviluppo industriale della produzione di massa, consapevolmente diretta ad intaccare l’immobilismo di una società ancora legata a ritmi e culture di sonnolente aristocrazie agrarie e piccole-medie borghesie parassitarie. Proprio il neo-codificato contratto di lavoro sarà sottoposto in quegli anni ad uno stress-test micidiale, dovendo incorpo- rare al contempo i diritti dei lavoratori che divenivano (e si sentivano) sempre più cittadini liberi e padroni dei loro destini e l’esigenza delle im- prese di conservare i poteri necessari a far funzionare gli ingranaggi pro- duttivi in base ad una catena sempre più complessa e sofisticata che lega equilibri microaziendali e mutamenti dei mercati locali, nazionali, globali.
Il codice civile è stata una buona base di partenza per un aggiornamento delle regole affidato però in misura crescente ad altre fonti (o formanti): alla legislazione extracodicistica (in primis allo Statuto dei lavoratori), ad una contrattazione extra-ordinem, ad una giurisprudenza via via sempre più sostenuta e incoraggiata dalla Corte Costituzionale, ad una dottrina vivace, capace di coniugare rispetto della tradizione dogmatica e spregiu- dicate contaminazioni metodologiche. Il risultato finale è tutt’altro che esaltante. Ci ha però consegnato uno strumento prezioso, molto delicato ma profondamente radicato nella cultura dei teorici come degli operatori giuridici: appunto il contratto di lavoro subordinato. Nel quale nessuno mette in discussione la necessità di garantire i poteri di eterodirezione dell’imprenditore; ma rispetto al quale, finora, nessuno ha mai pensato nemmeno di negare al lavoratore la qualità di parte di un contratto carat- terizzato da un equilibrio paritario, nel quale, cioè, entrambi i contraenti devono in qualche modo essere in grado di badare ai propri interessi, in- nanzitutto negoziandoli e rinegoziandoli quando è necessario. Ciò è ac- caduto, dal lato dei lavoratori, sostenendone il “peso” contrattuale in due modi: a) ponendoli al riparo dall’arbitraria interruzione del contratto da parte del datore di lavoro (quindi allontanandosi radicalmente da un pi- lastro codicistico come l’art. 2118 c.c.); b) riconoscendo al sindacato un crescente ruolo, sostanziale ancor più che formale, nel negoziare le con- dizioni di lavoro.
Così strutturato – e tributando tutti i meriti a chi ha sempre messo in guardia sui rischi di astrazione dal contesto socio-economico italiano di tale costruzione giuridica (rassicurato peraltro con la costante esclusione dalle regole “paritarie” delle imprese minori che non si potevano per- mettere un “giocattolo” tanto prezioso) – il contratto di lavoro però non è servito solo ai lavoratori che ne sono parte diretta.Anche grazie a questa costruzione infatti l’Italia è diventata, prima, una grande potenza indu- striale, rimanendo, poi, tra le prime dell’era post-industriale. Certamente perché ha a lungo sostenuto i costi di un moderno contratto di lavoro producendo in modo, storto o morto, competitivo sui mercati globali. Ma anche perché, pur in una diseguaglianza crescente negli ultimi 20 anni, intorno al contratto di lavoro si è giocata una grande partita di redistri- buzione del reddito prodotto, ripartito in modo tale da non deprimere troppo la domanda interna di beni e servizi. Nella redistribuzione certo ha giocato un ruolo rilevante il legislatore (id est la politica), che, spalleg-
xxxxxx spesso i “produttori” dei settori forti, ha addossato alla fiscalità ge- nerale il sostegno diretto o indiretto alla domanda. Ma il contratto di la- voro standard non è servito solo a garantire diritti da cittadini liberi ai lavoratori; è servito anche a rendere i cittadini, in quanto lavoratori su- bordinati o pensionati, dei consumatori di beni materiali o immateriali senza i quali il sistema economico italiano sarebbe ancora più asfittico di quel che è.
Dunque il contratto di lavoro – come lo abbiamo sin qui conosciuto
– va considerato e maneggiato alla stregua del cuore pulsante di un sistema tanto politico-istituzionale (nel quale c’è il giuridico con valori e tecni- che) quanto socio-economico3. Può darsi che quel cuore non funzioni più al meglio già da qualche tempo (specie perché appaiono quasi pro- sciugati i due più potenti canali di alimentazione: il Welfare State e un si- stema di imprese con grandi capacità innovative)4. Ma nel toccarlo occorre sapere che si sta trattando un organo vitale del quale non si può fare a meno.
2. Come cambia il contratto di lavoro standard dopo il d.lgs. attuativo del- l’art. 1.7 lett. c) della l. 183/2014: l’incorporazione della diseguaglianza
Dopo svariati tentativi, già ultradecennali, di offrire alle imprese alter- native all’uso del contratto standard (la c.d. flessibilità ai margini), il Jobs Act, sulle orme della riforma Fornero, prova a ridisegnarne il profilo, mutandone, come si è detto, i connotati per il xxxxxx.Xx momento quel profilo è essen- zialmente alterato da una riforma delle sanzioni per il licenziamento ille- gittimo che, come dirà meglio Xxxxxxxx nel pomeriggio, marginalizza la reintegrazione e, pur senza reintrodurre il licenziamento arbitrario, lo col- pisce con l’obbligo di corrispondere un’indennità che solo dopo dodici
3 La metafora del cuore la devo all’efficace scritto di DE XXXX XXXXXX, La diversificazione della prestazione ai confini e nel cuore del lavoro subordinato, in PEDRAZZOLI (a cura di), Lavoro su- bordinato e dintorni, il Mulino, 1989, p. 113 ss.
4 O anche perché sono in atto trasformazioni tali nei modelli organizzativi del capitalismo dell’ultimo decennio da rendere l’area del lavoro subordinato oggettivamente più ridotta rispetto all’epoca della produzione di massa: v., di recente XXXX, XXXXXXX, The Future of Employment: how suscettibile are the jobs to computerisation?, 2013, paper; Commissione europea, Employment and social developments in Europe, Bruxelles, 2014; SEGHEZZI, La grande trasformazione del lavoro, un ten- tativo di periodizzazione, il Sole 24 ore dell’1.2.2015.
anni arriva ad un livello significativo (24 retribuzioni mensili), restando per i primi tre anni al di sotto delle sei mensilità (cifre dimezzate nelle imprese minori). In soldoni ciò vuol dire che per ben tre anni con una cifra media- mente compresa tra i 10/15.000 euro gli assunti dopo il febbraio/marzo 2015 possono essere licenziati anche a prescindere dai motivi.
Non è il ritorno al licenziamento arbitrario ex art. 2118 c.c., che era ben poco costoso (bastava pagare l’indennità di preavviso o aspettare il periodo di preavviso senza sostenere alcun costo); ma ad un nuovo licen- ziamento arbitrario sì, un po’ più caro per il datore di lavoro, ma non tanto da essere un deterrente dinanzi ad un lavoratore che non corrisponde più in tutto e per tutto alle esigenze dell’impresa. Quindi si è realizzato un intervento ad alto rischio sul cuore pulsante del diritto sindacale e del la- voro italiano. È d’obbligo chiedersi se il gioco valga la candela.
Gli obiettivi di questa riforma, per tabulas, sono due: promuovere più occupazione; promuovere assunzioni con contratti a tempo indeterminato per porre riparo alla crescente diseguaglianza tra insiders e outsiders.
Vedremo tra un attimo se e quanto sia prevedibile un raggiungimento dei due obiettivi.
Bisogna però qui sottolineare il prezzo certo che si paga subito: il contratto di lavoro standard viene fortemente sbilanciato, perché può es- sere estinto dal datore di lavoro in qualsiasi momento ad un prezzo molto basso per almeno tre anni. Questo ha un effetto su tutta la dinamica ese- cutiva dei rapporti di lavoro: chi si azzarderà a rifiutare prestazioni extra orario o extra mansioni? Chi protesterà se viene negato un permesso do- vuto o un aumento maturato? Chi si iscriverà ad un sindacato malvisto nell’impresa? O sciopererà sapendo bassa la soglia di tolleranza aziendale di un pur legittimo conflitto?
Certo questo non vuol dire che gli assunti con il contratto standard diventano precari a tutti gli effetti. Non lo sono formalmente. E non lo sono fuori dall’impresa (lo status sociale conta, specie per avere pensione, mutui e altri benefit consumeristici). Però vuol dire che il contratto di lavoro standard, invece di riequilibrare la relazione negoziale tra un contraente con mezzi e poteri (l’impresa) e un altro che accetta di (o, rectius, è costretto a) esserne “alle dipendenze”, mette il secondo alla mercé del primo. Perciò il prezzo che si paga è che il diritto del lavoro del futuro viene basato su un contratto intimamente sbilanciato, un contratto che registra e perpetua una diseguaglianza tra i contraenti. Né può dirsi che così si riporta il diritto
del lavoro nell’alveo del diritto civile: quest’ultimo infatti negli anni recenti è sempre più proteso a dar rilievo alla tutela dei contraenti che si trovano in condizioni di oggettiva debolezza (che siano consumatori, correntisti, utenti di servizi standard o subfornitori in condizioni di dipendenza).
Con il Jobs Act il contratto di lavoro standard diventa sempre meno contratto e sempre più strumento di governo unilaterale dell’impresa in mano al datore di lavoro. Può darsi che nessuno abbia a lagnarsene e che il bravo imprenditore conduca al successo e al benessere la propria impresa e tutti i suoi dipendenti. Ma chi pagherà il prezzo delle prime difficoltà vere o presunte? E chi e quando dovrà rinunciare a qualcosa ogni qual volta bilanci, profitti, prospettive non corrisponderanno alle previsioni pluriennali, annuali, trimestrali, settimanali? Il benessere collettivo pare af- fidato ad un’imprenditoria (qualcuno direbbe ad un padronato) capace, lungimirante ed illuminata. Una delega in bianco ad un potere per costi- tuzione – ma anche per esperienza (salvo le debite illuminate eccezioni)
– orientato a realizzare il massimo profitto nel tempo più breve, in modo autoritario e senza troppi condizionamenti di contesto, non appare una scelta né sensata né basata su dati di fatto. Perciò non si può dar torto a chi vi vede una scelta ideologica unilaterale e un po’ manichea (e quindi astratta al pari di altre sbilanciate in una diversa direzione). E comunque è una profonda alterazione degli equilibri di una società che si vorrebbe basata sui principi di eguaglianza formale e sostanziale. Il contratto di la- voro standard, pur faticosamente e malamente costruito in Italia nel qua- rantennio post-fascista, è uno strumento più sofisticato e moderno.Vale la pena rinunciarvi per un sedicente contratto a tutele crescenti?
3. Funzionalità con l’obiettivo di aumentare l’occupazione e l’interferenza della l. 190/2014: a parte la qualità del lavoro, una verifica su tempi medio- lunghi
Molti a questa domanda rispondono che è necessario e va fatto prima possibile: perché il contratto “della tradizione” è ormai al capolinea e, pur essendo un portatore di eguaglianza tra i contraenti, è causa di disegua- glianze crescenti nella società.Tra chi ha un lavoro protetto e chi non ne ha alcuno; tra chi ha un lavoro protetto e chi si deve accontentare di la- voretti sempre più precari e incerti. Questo è il vero obiettivo della ri-
forma denominata Jobs Act. Meglio un contratto più diseguale per tutti che la frammentazione dei mille contratti/rapporti di breve durata che stentano sempre più a tagliare il traguardo del contratto standard (assurto al rango, un po’ paradossale, del paradiso precluso ai più); o, ancora peggio, la palude del lavoro sommerso, sempre più in espansione.
Il discorso ha una sua validità innegabile: è da tempo un cavallo di battaglia degli economisti neo-liberisti; riecheggia nelle ricette della Troika e anche in quelle delle sue singole componenti (Bce e Commissione eu- ropea in primis); sembra avere dalla sua il senso comune secondo cui è me- glio essere alla mercé di un’impresa che ti assume regolarmente e senza un termine predefinito anziché disoccupato, clandestino o con un rap- porto a scadenza, come uno yogurt.
Ciononostante molte cose non tornano, molte scelte non comba- ciano. E inducono a dar credito a chi sostiene che le regole sul contratto di lavoro poco incidono sulle dinamiche del mercato del lavoro, mentre incidono di più sul modo in cui si distribuisce la ricchezza prodotta. E che troppo potere da una parte sola determina un eccesso di disegua- glianza che mina la libertà e la prosperità di tutti. E che in Italia, specie dopo la riforma Fornero, nel contratto standard già era incorporata una sufficiente libertà di licenziare. Secondo questi economisti e sociologi piuttosto le riforme dei contratti di lavoro così orientate, indebolendo il potere negoziale dei lavoratori, servono ad abbassare ancora i costi del la- voro, cioè i salari, nella speranza di competere con Paesi in cui le imprese pagano salari molto più bassi dei nostri e in una fase in cui le politiche di austerity non ci consentono di finanziare con la spesa pubblica la domanda interna. Ma se così è, abbassando i salari, si rischia di aumentare comunque tutte le diseguaglianze e peggiorare un Paese che già appare in declino, depresso, sfiduciato (tra l’altro per inseguire una competizione basata su salari al ribasso dove un paese come l’Italia difficilmente può spuntarla, visti i livelli delle retribuzioni di diritto e di fatto dei paesi dell’Est, nonché di molti paesi asiatici o africani).
Ciò che non torna e non combacia nelle riforme dell’ultimo periodo è innanzitutto che il rilancio del contratto a tempo indeterminato affidato a tutele (de)crescenti in materia di licenziamento è stato preceduto pro- prio dal rilancio del più agguerrito dei contratti-competitors, il principe della precarietà: il contratto a termine. Come si sa dopo il d.l. 20 marzo 2014 n. 34 – detto anche Jobs Act 1 – si può liberamente (cioè senza alcuna
motivazione oggettiva o soggettiva) stipulare un contratto a termine per ben 36 mesi, nell’ambito dei quali sono possibili ben 5 proroghe. C’è in- vero un limite residuo, non rigidissimo, che riguarda l’organico comples- sivo dell’impresa, che non può di regola essere costituito per più del 20% da lavoratori a termine. E, inoltre, il contratto a termine costa un po’ di più del vecchio contratto standard, perché la legge Fornero lo grava di una maggiorazione dell’1,4% destinata a finanziare i trattamenti di disoc- cupazione (su una retribuzione annua di 30.000 euro equivale a 420 euro).
Così stando le cose alle imprese, prima di assumere con il catuc (il
cui scioglimento dopo tre anni costerebbe circa 14.000 euro – 2300 men- sili x 6 – nell’ipotesi appena fatta), conviene sfruttare tutte le possibilità offerte dalle assunzioni a termine (che in tre anni costerebbero soltanto
1.200 euro in più), saturando almeno il 20% dell’organico. Così il contratto a tutele crescenti serve a poco: ovvero comincia ad essere di un qualche interesse quando non si può utilizzare il contratto a termine e per un pe- riodo comunque inferiore ai tre anni. Ciò vuol dire che, oltre ad essere meno appetibile per le imprese, è intrinsecamente meno duraturo e stabile di un contratto a termine di nuovo conio. Dunque il primo atto del Jobs Act avrebbe irrimediabilmente avviato la parte migliore del nostro mer- cato del lavoro verso una precarizzazione maggiore e non minore. E a nulla servirebbe la nuova disciplina dei licenziamenti, ancora troppo co- stosa per competere con la liberalizzazione dei contratti a termine.
Perché allora si sente dire che il Jobs Act produrrà un boom fatto so- prattutto di “buona” occupazione? Voci infondate? Insider trading menzo- gneri? Non credo. Le ragioni principali stanno però fuori dal Jobs Act vero e proprio. In parte stanno nelle recenti buone notizie di carattere macroeconomico (quantitative easing, basso prezzo del petrolio, apprezza- mento del dollaro e rilancio dell’export di area euro)5, che sosterranno la domanda di lavoro “a prescindere” (direbbe Totò). In parte stanno nella coeva legge di stabilità (l. 190/2014), che finanzia generosamente le assun- zioni a tempo indeterminato già da subito, che però, a far data dagli inizi di marzo 2015, avverranno in gran parte con il catuc6. Se saranno effettuate nel 2015 quelle assunzioni costeranno all’impresa, sempre nell’ipotesi prima fatta, circa 8.000 euro in meno all’anno per un triennio, consen-
5 V. Intervento del governatore della Banca d’Italia, Xxxxxxx Xxxxx, al 21° congresso AS- SIOM FOREX del 7.2.2015 (paper).
6 Milano, boom di contratti a tempo indeterminato:+23%, Corriere della sera del 15.2.2015.
tendo di compensare largamente i costi di un eventuale licenziamento poco fondato allo scadere del triennio. Così è certo che il catuc potrà competere con il contratto a termine dell’era Poletti7.
C’è dunque da capire bene cosa può accadere nei prossimi mesi: l’af- fermazione del catuc sarà imputabile essenzialmente per alcuni anni (al- meno tre) agli incentivi a carico del bilancio pubblico.Xxxxx da dimostrare sarà invece la funzionalità del nuovo equilibrio interno al xxxxxxxxx xxxx- dard ad assorbire le vecchie diseguaglianze senza produrne di nuove. Come pure, secondo una visuale opposta, la sua utilità in vista di obiettivi più strutturali e forse più importanti come la diminuzione del clup: che si può raggiungere sia riducendo il costo del lavoro vero e proprio (cioè senza oneri o mancati introiti a carico dei bilanci pubblici) sia aumentando la produttività del lavoro con più sfruttamento o più innovazione o con entrambi. Ma credo che occorrerà molto tempo per mettere a fuoco quel che accadrà su tutti questi versanti, tenendo adeguatamente conto di ogni altra variabile. Qualcuno, con efficace sintesi, parla di “disallineamento temporale”: il cumulo di modifiche realizzate più o meno contempora- neamente, ma destinate a produrre effetti in tempi diversi, costringe ad un monitoraggio complesso e diversificato che rende difficile verificare in modo plausibile nessi di causalità tra innovazioni normative o econo- mico-finanziarie e risultati occupazionali.
Proprio per questo si può però osservare sin da adesso che il Jobs Act, mentre sacrifica immediatamente strumenti di eguaglianza sostanziale in- terni alla struttura del contratto di lavoro, poco ci consente di dire sulla sua coerenza con obiettivi di superamento delle varie diseguaglianze so- ciali che affliggono il nostro paese. Brutalmente l’unico risultato per ora certo è la crescita delle diseguaglianze, seppure su piani diversi.
In definitiva con il nuovo contratto standard aumenta la soggezione del lavoratore e, forse, il suo sfruttamento. Non è sicuro che diminuisca il suo salario, ma una parte lo paga lo Stato. Diviene così plausibile che un maggior potere aziendale non si coniughi con una caduta dei salari e della
7 Con una retribuzione di 30.000 euro l’anno costerebbe comunque quasi 9.000 euro in meno, anche se il licenziamento fosse pressoché arbitrario: 24.000 incentivi – 15.000 indennità di licenziamento arbitrario dopo tre anni = + 9.000 euro.V. anche i più specifici calcoli proposti da ASNAGHI, RAUSEI,TIRABOSCHI, Il contratto a tutele crescenti nel prisma delle convenienze e dei costi d’impresa, in CARINCI F.,TIRABOSCHI (a cura di), I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e in- terpretazioni, Adapt University Press, 2015, p. 28 ss.
domanda interna. Inoltre contratti formalmente a tempo indeterminato danno una prospettiva di continuità contributiva a fini pensionistici e fanno ben sperare sulla propensione dei lavoratori a ricorrere al credito bancario (mutuo, leasing, finanziamenti vari, ecc.) e sulla benevolenza delle banche a concederli. Così lo Stato finanzia direttamente le imprese e le banche – a loro volta garantite in ultima istanza dallo Stato – finanziano il sostegno alla domanda interna di beni e servizi. Non è il mercato, ma può durare per qualche anno.
Nell’insieme il nuovo assetto dovrebbe comportare comunque una maggiore incertezza nella stabilità dell’occupazione e del reddito da bi- lanciare con interventi pubblici di social security. Il Jobs Act lo prevede, pre- figurando significative modifiche degli strumenti a sostegno del reddito in caso di mancanza di lavoro, sia per i lavoratori subordinati sia per i la- voratori autonomi. Pur essendovi qualche passo avanti rispetto alla l. 92/2012, non pare però che la maggiore flessibilità nella regolazione dei contratti di lavoro sia realmente bilanciata da una ampia estensione del si- stema di social security. La tematica sarà affrontata da altri e in particolare oggi da Xxxxxxxxx Xxxxx. Penso però di poter dire che gli equilibri siste- matici sin qui descritti non risultano granché intaccati dagli sviluppi del Jobs Act su quest’altro versante, pure di grande importanza.
4. Funzionalità a superare le segmentazioni del mercato del lavoro: il lavoro a termine
Il lavoro a termine a-causale, di freschissima rivisitazione, in questo nuovo quadro delineato con l’introduzione del catuc appare spiazzato. In- fatti non è lo strumento più conveniente in vista di un abbassamento del costo del lavoro. Lo rimane solo se il datore di lavoro vuole un rapporto da estinguere prima di tre anni senza costi e senza contenzioso. Può inte- ressare in certi contesti aziendali, consentendo variazioni e allungamenti della precarietà che, specie una volta tramontati gli incentivi, possono però inficiare il rilancio di un contratto standard meno costoso ma più pro- duttivo per il sistema nel suo complesso.
Questo è un punto importante da mettere in luce. Con il catuc a basso costo, il contratto a termine non conviene né alle parti né agli equi- libri di sistema. Il lavoratore a termine, pur guadagnando quanto un as-
sunto a tempo indeterminato8, costa di più all’impresa e non è in grado di assicurare un comportamento da consumatore pari a quello di un la- voratore a tempo indeterminato (non accede al credito bancario e non ha un orizzonte lungo per assumere impegni finanziari). Inoltre va ad in- grossare le fila del lavoro non standard, precario, impedendoci di realizzare gli obiettivi della Strategia europea dell’occupazione che consistono nel- l’elevare il lavoro di qualità, la coesione sociale e lo sviluppo economico. Conservare oggi il contratto a termine a-causale per un triennio non ri- sponde alle “attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo”, né è coerente “con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale ed internazionale” (art. 1, co. 7, l. 183/2014)9.
Per queste ragioni occorrerebbe tornare in modo robusto sul con- tratto a termine nel testo organico semplificato previsto dal Jobs Act da completare (come d’altronde già si faceva in una prima versione del de- creto sul catuc, riducendone la massima estensione temporale a 24 mesi).
Certo la situazione muta se ci si proietta al momento in cui il catuc non sarà più incentivato a carico dei bilanci pubblici (cioè, presumibilmente, tra un paio d’anni). A costi invariati, c’è da immaginare che il contratto a termine tornerebbe conveniente, fino al punto da licenziare i neo assunti con xxxxx, riassumendoli con contratti a termine a-causali fino a tre anni.
Senza escludere che, nel frattempo, vista la debolezza contrattuale dei lavoratori e il momento non certo felice dei loro sindacati, la riduzione salariale oggi garantita dallo Stato alle imprese possa essere in tutto o in parte incorporata stabilmente nelle condizioni contrattuali concretamente negoziabili, con una stagione di stagnazione salariale o addirittura di give- back finora mai vista in Italia. E, in questa prospettiva, mantenere una quota relativamente alta di precari a termine nelle imprese che se lo potessero permettere, avrebbe un senso, specie per le alte professionalità rispetto alle quali gli incentivi del catuc (fissati nel max di circa 8.000 euro annui) in- cidono meno in percentuale. Magari anche al fine di riassorbire gli assunti a termine con catuc divenuti strutturalmente meno costosi tra qualche anno anche senza incentivi statali.
8 Ma x. XXXXXXXXXX, LEONARDI, Xxxxxx instabiltà nei contratti a termine, in xxx.xxxxxx.xxxx del 22.1.2015, secondo cui il contratto a termine incorpora una “maggiore probabilità di avere periodi di disoccupazione o inoccupazione” e quindi rende “più incerta la traiettoria dei redditi nell’arco della vita lavorativa”.
9 V. anche le conclusioni dei due economisti citati in nota precedente.
Così catuc e contratto a termine a-causale triennale sono strumenti convergenti, seppure utilizzabili in diversa misura, per politiche del lavoro incentrate su una progressiva riduzione dei salari reali. Forse gli occupati cresceranno anche, ma i livelli salariali complessivi subiranno una drastica riduzione10. E, se le esportazioni non cresceranno a sufficienza, il livello della domanda interna potrà essere mantenuta solo attraverso la spesa pub- blica diretta (sussidi di disoccupazione, pensioni, ecc.) o un accesso al cre- dito facilitato per lavoratori sempre più indebitati che si troveranno tra l’incudine di un lavoro più faticoso e peggio pagato e il martello dell’in- debitamento per acquisto di beni primari (si pensi alla casa o, anche, alle spese sanitarie) o secondari (dall’auto ai vari prodotti tecnologici).
In questi termini però l’introduzione del catuc (inizialmente finanziato dallo Stato) e la permanenza della possibilità di assumere a termine per un triennio appaiono scelte non in contraddizione solo se si vuole finanziare una prospettiva di sviluppo basata su una progressiva ma generalizzata ridu- zione dei salari, decisa per di più senza alcuna negoziazione con i rappre- sentanti dei lavoratori. Quindi le diseguaglianze si superano essenzialmente attraverso un livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro.
Ove invece si adottasse una diversa prospettiva, che magari sconti nell’immediato una stagnazione salariale, ma che in prospettiva volesse prefigurare una differenziazione basata su scelte settoriali, aziendali, geo- grafiche, in considerazioni delle situazioni di specifici mercati o di scelte produttive, tecnologiche, qualitative da premiare, occorrerebbe predisporre un quadro normativo meno unilaterale e debilitante verso lavoratori e sindacati per mantenere risorse destinate a scelte di politiche industriali o economiche ancorate ad esigenze territoriali o congiunturali. Forse per- marrebbe qualche diseguaglianza in più. Ma, come si sa, una certa dise- guaglianza favorisce uno sviluppo evolutivo che non è invece garantito né da una generalizzata depressione né da un eccesso di diseguaglianze interne o esterne al mondo del lavoro dipendente11.
Lo strumento per introdurre un mix adeguato di positive differen-
10 V. peraltro già ora la notevole crescita dei working poor secondo un recente rapporto al Cnel di Xxxxxxx Xxxxxxxx: Quasi 4 milioni di working poor hanno il lavoro, ma non basta più, la Re- pubblica del 10.2.2015.V. anche XXXXXXXX, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, 2015.
11 V. da ultimo, in una ampia prospettiva storica, XXXXXXX, Il capitale nel XXI secolo, Bom- piani, 2014, spec. cap. 9 e 12.
ziazioni contenendo le eccessive diseguaglianze è un contratto di lavoro non troppo sbilanciato dove possa innestarsi anche una regolazione col- lettiva delle condizioni di lavoro. Questo contratto di lavoro non è né il contratto a termine a-causale del decreto Xxxxxxx né il catuc in via di in- troduzione. Com’è dimostrato dal fatto che in precedenti progetti (il co- dice Xxxxxx-Xxxxxxxxxx, ma anche il ddl sul catuc approdato per la prima volta in Consiglio dei Ministri e poi modificato) il contratto a termine doveva subire significative limitazioni.
Rimane a mio parere la necessità di limitare il ricorso al contratto a termine nel riordino da realizzare con il testo organico semplificato. E se non lo si vuole o può fare direttamente per ragioni politiche, lo si può affidare ad una contrattazione collettiva messa realmente in grado di ab- bracciare scelte basate su un bilanciamento dei diversi interessi (e non abi- litata solo ad aumentare la flessibilità, come sembra oggi essere nel pur precario equilibrio del d.l. 34/l. 78).
5. L’apprendistato
Da tutte le recenti modifiche anche il contratto di apprendistato, nelle sue varie espressioni (almeno tre tipologie), è messo in seria difficoltà. Com’è noto tale contratto, dopo aver raggiunto un illusorio12 assestamento con il t.u. 167/2011 è stato oggetto di significative modifiche ad opera della l. 92/2012 e del d.l. 28 giugno 2013 n. 76 conv. con l. 9 agosto 2013
n. 99: modifiche che non ne hanno in alcun modo rilanciato l’utilizza- zione. Ovvio che anche la riforma Xxxxxxx, nel momento in cui ha ancor più liberalizzato il contratto a termine, se ne dovesse preoccupare. Però anche il d.l. 34/2014, pure con le sensibili correzioni apportate in sede di conversione dalla l. 78/2014, ha totalmente sbagliato la mira, in quanto ha considerato la formazione, cui dovrebbe essere precipuamente finalizzato il contratto, come un onere per l’impresa anziché una risorsa. Il che, in una logica di breve periodo, è persino vero, ma finisce per rendere inutile affiancare contratti a termine liberalizzati e apprendistati dal ridotto con- tenuto formativo (salvo qualche disperato tentativo di animare quelli stret-
12 V. D’ONGHIA, L’ennesimo (inutile) intervento del legislatore sul contratto di apprendistato, in
RGL, 2014, I, p. 745.
tamente intrecciati a percorsi di istruzione alta o “bassa”). Ora l’introdu- zione del Catuc rischia di aggravare ancor più la situazione, in quanto l’apprendistato dovrà risultare non solo più appetibile di un contratto a termine liberalizzato ma anche di un contratto a tempo indeterminato più facilmente estinguibile e fornito di formidabili incentivi13. Solo un’im- presa davvero interessata a formare in modo specifico il giovane lavoratore per professionalità elevate può conservare un qualche interesse all’appren- distato, che, per quanto semplificato e a costi ridotti, porta con sé una serie di aggravi tanto nei contenuti quanto nello svolgimento: il piano forma- tivo (pure reso sintetico e indicato per relationem), la necessità di far svolgere la formazione extra-aziendale (almeno nelle Regioni virtuose che ne co- municano le modalità entro 45 giorni), controlli, obblighi di trasformarne una quota (anche se ridimensionata e prevista per legge solo nelle imprese con più di 50 dipendenti) in contratti a tempo indeterminato. Inoltre la circolare INPS 2015/17 rischia di assestare il colpo finale in quanto precisa che gli incentivi previsti dalla legge di stabilità 2015 non potranno essere utilizzati per le nuove assunzioni se in precedenza il lavoratore è stato as- sunto presso lo stesso datore di lavoro con contratto di apprendistato in quanto contratto a tempo indeterminato.Tale preclusione non vale invece per le assunzioni con contratti a termine.
Così stando le cose, davvero l’apprendistato rischia di essere solo un
omaggio alle belle speranze europee della società della conoscenza. Mai come oggi esso appare in Italia impossibilitato ad affermarsi, stretto com’è tra un sistema formativo assolutamente inadeguato e impreparato a soste- nere in concreto nuovi canali di collegamento con il mondo del lavoro e strumenti contrattuali volti a favorire un utilizzo del lavoro a costi bassi e con modalità ultraflessibili.
Il testo organico previsto dal Jobs Act dovrebbe tener conto di questa situazione, almeno nella misura in cui va analizzata la congruità della ti- pologia di contratti di lavoro esistenti alle esigenze di sviluppo del paese. Ma non nel senso di rendere ancora più flessibile l’apprendistato (ad esem- pio rendendo applicabili le minori tutele in materia di licenziamento, oggi per tabulas escluse)14 bensì nell’incoraggiare imprese e lavoratori a fare in-
13 V. i confronti di XXXXXXXXXX, Il contratto a tutele crescenti: spazi di applicabilità in caso di ap- prendistato e somministrazione di lavoro, in CARINCI F.,TIRABOSCHI, op. cit., p. 107 ss.
14 V. In tal senso MARAZZA, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act (un commento
vestimenti di medio-lungo periodo su contratti di lavoro ad alto conte- nuto formativo. Si potrebbe ad esempio pensare di potenziare il sostegno all’apprendistato per settori o produzioni ad alto contenuto innovativo (non solo le start up)15 e configurare uno specifico intervento pubblico, anche sub specie di finanziamenti per il progetto formativo, con fondi e re- gole ad hoc, dirette a stabilizzare gli apprendisti che abbiano effettivamente acquisito le nuove professionalità16.
Certo non ha senso mantenere in vita strumenti contrattuali con- correnti al solo fine di complicare il puzzle della precarietà o moltiplicare i canali di intervento pubblico per ridurre i costi di impresa senza otte- nerne alcun vantaggio per la collettività.
6. Il lavoro a progetto
Anche il lavoro a progetto, se inteso come mezzo per consentire una nuova forma di dipendenza a fini collaborativi senza gli effetti tecnico- giuridici della subordinazione17, viene nettamente spiazzato dal neo-con- tratto standard e dal contratto a termine a-causale che garantiscono subordinazione insieme ad una nuova accentuata dipendenza.
La progressiva rottura dell’unicità della fattispecie contrattuale giu- slavoristica ha in effetti preso le mosse da una norma che al suo apparire (1973) destò scarsa preoccupazione e, anzi, qualche speranza di ampliare
provvisorio, dallo schema al decreto), in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” 236/2015; secondo notizie di stampa, ci si orienterebbe in questa direzione: v. Apprendistato: una miniriforma per raf- forzare il link con la scuola, ne il Sole 24 ore del 16.2.2015. Non peregrina tra l’altro è l’osservazione secondo cui più si riduce il contenuto formativo del contratto di apprendistato meno appare giustificabile la sua estinzione al mero spirare del termine iniziale previsto per la formazione stessa (cosi XXX 2014, in un intervento al X seminario Bertinoro, non riportato negli atti ci- tati).
15 V. artt. 25, co. 2, lett. h) n. 2, e 27 bis del d.l. 179/2012, conv. con l. 221/2012, e art. 24 d.l.
83/2012 conv. con l. 134/2012.
16 Eventualmente prevenendo anche fenomeni di obsolescenza professionale come quello che sta interessando il settore bancario a causa dell’home banking, che richiederebbe la sostitu- zione di buona parte degli addetti al front-office tradizionale con consulenti finanziari o previ- denziali.
17 X. XXXXXXX X., in XXXXXXXX, XXXXX, XXXXXXXX,XXXXXXX, ZOPPOLI X., XXXXXXX L., Isti-
tuzioni di diritto del lavoro e sindacale, Xxxxxxxxxxxx, 2015, III, p. 65 ss.
l’area delle tutele oltre i confini della subordinazione in senso stretto. L’art. 409 c.p.c. novellato dalla l. 11 agosto 1973 n. 533 estendeva infatti le regole sull’allora nuovo processo del lavoro (unitamente all’art. 2113 c.c. sulle ri- nunce e transazioni) anche alle prestazioni lavorative rese in modo coor- dinato e continuativo senza vincolo di subordinazione. I poi notissimi “xx.xx.xx.” aprono la breccia della c.d. parasubordinazione, un’area grigia tra subordinazione vera e propria e lavoro autonomo, destinata a crescere, prima ancora che nella realtà, nel dibattito giuridico e nella feconda ela- borazione di nuove politiche del diritto. I requisiti perché si possa applicare l’art. 409 c.p.c. sono, secondo la giurisprudenza, i seguenti: a) continuità, che ricorre quando la prestazione non sia occasionale, ma perduri nel tempo ed importi un impegno costante del prestatore a favore del com- mittente; b) coordinazione, intesa come connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale; c) personalità, che si ha in caso di prevalenza del lavoro personale del contraente sul- l’opera svolta da eventuali collaboratori e sull’utilizzazione di una struttura materiale18.
In effetti i xx.xx.xx non sono portatori di nessuna rigidità legislativa e, anzi, sono anche meno costosi, perché, quanto meno, ad essi non si ap- plicano le sempre più elevate aliquote degli oneri previdenziali. Nel corso degli anni ’70 e ’80 il loro numero cresce, unitamente all’impiego sempre più sospetto di contratti di lavoro autonomo (c.d. partite IVA) raccordati ad organizzazioni di vario genere.Tutto ciò mentre modelli tecnologici e organizzativi favoriscono ridimensionamenti aziendali (c.d. downsizing) ed esternalizzazioni, insieme all’affermazione di nuove professionalità meno restie ad avvalersi delle forme contrattuali diverse dal lavoro subordinato o dei contratti c.d. xxxxxxx (a termine, part-time, formazione-lavoro), an- ch’essi in progressiva crescita a partire dal 1983.
È proprio negli anni ’90 che, sempre più insistentemente, si parla di fuga dalla subordinazione, una fuga ancora soprattutto “interna”– cioè con ricorso ai rapporti di lavoro meno costosi – spesso arginata abbastanza tempestivamente grazie ad un sistema giudiziario e sindacale assai sensibile ai rischi di erosione delle garanzie del lavoro subordinato, pienamente rag- giunte in fondo solo da pochi anni, ma culturalmente e socialmente ben radicate, con ovvi riflessi sugli equilibri politico-elettorali.
18 V., tra le tante, Xxxx. 5698/2002.
La reazione giuridico-sindacale alimenta però un nutrito dibattito sull’esigenza di flessibilizzare la legislazione in materia di lavoro subordi- nato e, per converso, adeguare regole e costi complessivi del c.d. lavoro atipico. Mentre si elevano, a partire dal 1995, i costi previdenziali dei co.co.co.19, fioriscono iniziative legislative volte ad introdurre un tertium genus di contratto, da collocare tra subordinazione ed autonomia, oppure a dar vita ad uno Statuto dei lavori, che contenga tutta la possibile gamma di contratti di utilizzazione organizzata del lavoro con graduazione delle tutele, legali e sindacali. Queste iniziative non approderanno a vere e pro- prie riforme organiche del diritto del lavoro, al di là della l. 196/1997, che comunque tentò una prima regolazione di quasi tutte le nuove flessibilità emerse nei precedenti vent’anni.
Tutto il nuovo dinamismo legislativo confluisce nella riforma Biagi del 2003, che già con gli artt. 61 ss. d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276 (poi modificato varie volte in seguito: v. d.lgs. 251/2004; l. 92/2012; d.l. 76/2013) introduce le collaborazioni coordinate a progetto, dette anche “xx.xx.xxx”, affiancandole alle xx.xx.xx. previste dall’art. 409 c.p.c., ridotte ad eccezioni per la maggioranza dei datori di lavoro privati20. La continuità regolativa tra le due fattispecie non coincide però con l’omogeneità della disciplina, perché, pur trattandosi in entrambi i casi di lavoro autonomo (v. artt. 61, co. 1; 62, lett. d); 69 d.lgs. 276), i requisiti per la stipulazione del contratto sono profondamente diversi, a cominciare dal fatto che è espressamente prevista la forma scritta ad substantiam (art. 62, come modif. dall’art. 7, co. 2, lett. d), d.l. 76/2013 conv. con l. 99/2013) e che il lavoro a progetto deve essere riconducibile a uno o più progetti specifici determinati dal com-
19 Saliti dal 10% circa del 1995 al 33% da raggiungere, secondo la l. 92/2012, nel 2018, con totale equiparazione al lavoro subordinato. Nel 2014 l’aumento però è stato congelato intorno al 28%, proprio perché determinava una progressiva estinzione di contratti di collaborazione. La legge di stabilità 2015 non ha confermato tale congelamento e ha anche aggravato il regime fiscale per le c.d. partite IVA di nuova attivazione. Ora sembra che si intervenga nuovamente con modifiche contenute nel c.d. decreto milleproroghe del 2015.
20 Si tratta essenzialmente di soggetti che svolgono attività sportive (v. art. 61, co. 3). Il contratto ex art. 409 c.p.c. può poi essere stipulato anche per le professioni intellettuali per le quali sussiste la necessità di iscrizione in albi, per i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società, per i partecipanti a collegi e commissioni e per i titolari di pensioni di vecchiaia. Anche le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa, ma con procedure molto formalizzate e solo per “esperti di partico- lare e comprovata specializzazione anche universitaria” (v. art. 7 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165).
mittente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61 cit.). Inoltre, soprattutto a seguito della riforma realizzata con la l. 92/2012 – c.d. ri- forma Fornero, che, dopo nemmeno una decina d’anni, ha ritenuto il la- voro a progetto espressione di una “cattiva flessibilità”21 – sono previste varie precauzioni per evitare l’abuso di questo contratto: il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale, non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi (art. 61, co. 1, come modificato da ultimo dall’art. 7, co. 2, lett. c), d.l. 76/2013 conv. con l. 99/2013), deve avere una durata predeterminata o comunque determinabile nel tempo (art. 62). Sin dal 2003 il d.lgs. 276 contempla poi alcune tutele per i xx.xx.xxx. in tema di: corrispettivo, che, sempre a seguito della l. 92/2012, non può essere inferiore, a parità di du- rata della prestazione, alle retribuzioni minime previste “dai contratti na- zionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza ed esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto” (art. 63, co. 2)22; sospensioni ed estin- zione del rapporto (artt. 66 e 67), xxx comprese le dimissioni (v. art. 7, co. 2, lett. e), d.l. 76/2013). Pur dopo i recenti irrigidimenti, si tratta comunque di tutele più blande rispetto a quelle previste per il lavoro subordinato; esse tuttavia valgono a identificare un nuovo tipo contrattuale che arric- chisce le modalità di raccordo tra organizzazioni e lavoro. Il contratto a progetto ha, come s’è detto, una naturale vocazione a fare concorrenza al lavoro subordinato: e infatti è lo stesso legislatore, con norma ambigua, a prevederne la conversione in contratto di lavoro subordinato sin dalla data di costituzione del rapporto in caso di mancanza originaria del progetto (v. art. 69, d.lgs. 276/2003, nell’interpretazione autentica di cui all’art. 1, co. 24, della l. 92/2012) e nel caso in cui si accerti dinanzi al giudice che “l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente”. In quest’ultimo caso la l. 92/2012 ha aggiunto la possibilità che la conversione non si applichi alle prestazioni di elevata professionalità “individuate dai contratti collettivi
21 Dal 2010 il numero di xx.xx.xxx si aggira intorno ai 700.000, in forte ridimensiona- mento dopo la riforma Fornero. Oggi sarebbero 000.000 (x. Avvenire dell’11.2.2015) o 000.000 (x. il Sole 24 ore del 16.2.2015).
22 Questa disposizione realizza una sorta di estensione ex lege dell’efficacia della parte eco- nomica dei contratti collettivi al di fuori dell’ambito del lavoro subordinato.
stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresen- tative sul piano nazionale” (art. 69, co. 2, inciso finale, d.lgs. 276/2003)23. Nell’insieme si tratta di un approdo, non del tutto lineare e sicura- mente semplificabile, ma abbastanza equilibrato. Certo con il contratto a termine a-causale l’interesse delle imprese per le xx.xx.xxx. non può che scemare ulteriormente quando dovesse essere rivolto a prestazioni da uti- lizzare il più possibile in modo analogo a quelle del lavoro subordinato. Come pure può servire meglio alla bisogna il catuc, meno appetibile a re- gime però per i costi legati all’estinzione arbitraria (in questo il xx.xx.xxx.
23 Strumenti di fuga dalla subordinazione possono essere anche il lavoro occasionale e il lavoro accessorio. Il primo, pure definito dal d.lgs. 276/2003, viene individuato con riguardo a parametri assai pragmatici, consistenti in una durata non superiore a trenta giorni nell’anno so- lare ovvero a 240 ore (circa un paio di mesi) nel solo ambito dei servizi di cura e assistenza alle persone, purché il committente sia unico e il compenso percepito nel medesimo anno solare non sia superiore a 5mila euro. Il lavoro occasionale (da distinguere da quello “meramente oc- casionale” che ora, dopo la modifica apportata con l’art. 7, co. 2, lett. e), d.l. 76/2013 conv. con modif. dalla l. 99/2013, è previsto solo con riguardo alle attività agricole per le prestazioni la- vorative svolte da parenti o affini fino al quarto grado a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale, attività che in ogni caso non integrano un rapporto di lavoro né autonomo né subor- dinato: v. art. 74, d.lgs. 276/2003) – soprattutto per la sua “marginalità” reddituale che ne fa un tipico rapporto precario e, si immagina, transitorio nella vita professionale del lavoratore (nel 2010 poco più di 20.000 rapporti) – può essere dedotto in contratti di collaborazione coordinata e continuativa non soggetti ai vincoli introdotti dal d.lgs. 276/2003 (v. art. 61, co. 2).Ancora più “marginale”, specie dopo le restrizioni apportate dalla l. 92/2012, dovrebbe essere il lavoro ac- cessorio, individuato dal legislatore (art. 70, d.lgs. 276/2003) esclusivamente con riguardo alle seguenti fasce di compenso: a) fino a 5.000 euro, rivalutabili annualmente secondo l’indice Istat dei prezzi al consumo, in caso di una pluralità di committenti; b) fino a 2.000 euro, sempre an- nualmente rivalutabili, per ciascun committente che sia imprenditore commerciale o profes- sionista (solo per il 2013 era prevista una fascia di 3.000 euro). Nel settore agricolo il lavoro accessorio è consentito per attività stagionali, purché riguardanti pensionati e studenti con meno di 25 anni, compatibilmente con “gli impegni scolastici”; oppure per attività svolte a favore di produttori agricoli che nel precedente anno solare non abbiano un volume d’affari superiore a 7.000 euro (sempreché non siano svolte da soggetti iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli). La peculiarità del lavoro accessorio è che viene compensato tramite “buoni orari” (c.d. voucher), dal valore nominale variabile fissato con decreto del Mi- nistero del lavoro, che possono essere acquistati presso rivendite autorizzate; il lavoratore, una volta riscosso il buono dal “beneficiario” della prestazione, può percepire il compenso presso il concessionario. Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato; ma il valore del buono comprende gli oneri previdenziali che il concessionario è tenuto a versare a INPS e INAIL. Il lavoro accessorio, secondo il Jobs Act, do- vrebbe avere una più ampia utilizzazione (v. art. 1.7, l. 183/2014). Non va però trascurato che già oggi interessa ben 614.991 lavoratori (v. il Sole 24 ore del 16.2.2015).
regge il confronto con il contratto a termine se contenuto nei 36 mesi). Eventualmente si potrebbe precisare la nozione di recesso per giusta causa e quantificarne il costo in caso di recesso arbitrario (id est senza giusta causa ex art. 67 d.lgs. 276/2003) anche dai xx.xx.xxx., sanzionandolo in modo anche più oneroso rispetto alle indennità previste per il licenzia- mento arbitrario dal catuc.
Anche a tal riguardo in ogni caso il problema principale è il rischio di un’elevata precarietà consentita oggi dal cumulo di tutte queste forme di contratti. Che è per converso, la ragione per cui le imprese possono es- sere interessate invece a conservarle il più possibile.
Probabilmente, proprio in considerazione della contiguità con il con- tratto a termine, andrebbe anche prevenuto l’abuso di contratti a progetto in specie se cumulati con i contratti a termine a-causali.
7. Il lavoro autonomo
Il lavoro autonomo come surrogato della subordinazione segue per molti versi la medesima sorte del lavoro a progetto. Secondo alcuni può sopravvivere come lavoro più produttivo24 e magari un po’ più pagato ri- spetto al prezzo calante del lavoro subordinato (ma sarebbe meglio dire dal costo affidato al libero mercato, vista l’assenza di una qualsivoglia regola simile a quella sul corrispettivo per le xx.xx.xxx.). C’è da valutare se in questo momento il lavoro autonomo non del tutto genuino possa essere al centro di una nuova stagione di tutele davvero crescenti. Per questo è utile anche in questo caso ripercorrerne brevemente gli sviluppi regola- tivi.
La disciplina è complessa, oltre che di recente evoluzione, perché di- retta a regolare minuziosamente il ricorso al contratto di lavoro autonomo in situazioni limitrofe a quelle in cui è possibile utilizzare lavoro subordi- nato. L’art. 69 bis, d.lgs. 276/2003 (introdotto dalla l. 92/2012 e subito mo- dificato dal d.l. 83/2012, conv. con mod. dalla l. 134/2012) prevede infatti una presunzione semplice in base alla quale il lavoratore titolare di posi- zione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) si considera xx.xx.xxx. qualora si verifichino almeno due dei seguenti presupposti: a)
24 Marazza, op. cit.
la collaborazione abbia una durata superiore ad 8 mesi annui per due anni consecutivi; b) il corrispettivo della collaborazione costituisca più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nel- l’arco di due anni solari consecutivi; c) il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente. Se opera questa presunzione semplice, al contratto a progetto del titolare di partita IVA dovrebbe poi normalmente applicarsi la disposizione sopra ricordata sulla conversione in contratto di lavoro subordinato nel caso di mancanza del progetto (art. 69, d.lgs. 276/2003). Poiché è altamente probabile che i contratti di lavoro autonomo vengano stipulati senza progetto, la suddetta presunzione potrebbe quasi sempre determinare una conversione dei con- tratti di lavoro autonomo in contratti di lavoro subordinato ex art. 69, d.lgs.
276. L’operatività della presunzione è tuttavia esclusa in tre ipotesi: a) quando la prestazione lavorativa sia connotata da competenze teoriche di grado elevato o da capacità tecnico-pratiche maturate nell’esercizio con- creto di attività; b) quando sia svolta da un soggetto che abbia un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore al livello minimo imponibile per il versamento dei contributi previdenziali di artigiani e commercianti maggiorato del 25% (cioè attualmente in totale circa 19.000 euro all’anno);
c) quando le attività lavorative siano svolte nell’esercizio di professioni per le quali l’ordinamento richieda l’iscrizione ad ordini professionali o in ap- positi registri, albi, ruoli, o elenchi professionali qualificati, e detta specifici requisiti e condizioni. Non sono ipotesi così difficili da verificarsi in con- creto. Per cui sembra in effetti di essere dinanzi al classico caso in cui le eccezioni alla regola sono tali e tante da far dubitare che la regola trovi mai un’effettiva applicazione25.
Su questa disciplina si potrebbe intervenire in vari modi, dettando regole più semplici e lineari, prevedendo tutele specifiche più o meno analoghe a quelle del lavoro a progetto (in definitiva quasi accorpando le due fattispecie), scegliendo un percorso anche più coerente con quello di altri paesi europei che hanno individuato la fattispecie del lavoro econo-
25 Da tener presente che a gennaio 2012 le c.d. partite IVA potenzialmente interessate da questa disciplina erano arrivate a circa 300.000, anche se dopo la riforma Fornero paiono in diminuzione (quelle “false” sarebbero circa 200.000: v. Avvenire dell’11.2.2015). In materia si leggono tuttavia dati molto diversificati, a partire dal numero complessivo di partite Iva, stimato in quattro milioni, per finire al numero di quelle false, stimate fino a 000.000 (x. da ultimo DE- IANA, Partite iva: il bancomat dello Stato, in newsletter di nuovi lavori, n. 147 del 18.2.2015).
micamente dipendente. Il tema è molto complesso, sia sotto il profilo con- cettuale sia sotto quello pratico e una riforma poco meditata di questa materia potrebbe provocare più danni che vantaggi, al di là della relativa esiguità del numero di lavoratori oggi interessati da queste forme con- trattuali. Come dimostra anche il fatto che si susseguono proposte di vario genere, non del tutto compatibili, che vanno dall’introdurre una presun- zione secca di lavoro subordinato in presenza di alcuni indicatori fino a quella di delineare una specifica fattispecie di lavoro economicamente di- pendente al quale estendere selettivamente tutele proprie del lavoro su- bordinato26. Abbastanza significativo è anche che al centro della nuova fattispecie si pone un indicatore come quello della monocommittenza prevalente, cioè del dato secondo cui il lavoratore trae una quota consi- stente del proprio reddito dall’attività prestata per un unico committente (la quota viene fissata in un importo secco o in una percentuale del reddito annuo, ad esempio il 75%). Tale indicatore viene però talora sovrapposto confusamente alla fattispecie della subordinazione27. O invece si collega, con opportune specificazioni, ad una prospettiva concettuale e regolativa secondo cui il lavoro economicamente dipendente non è lavoro subordi- nato e non deve essere a quest’area ricondotto28; ma poi si propongono tutele non così dissimili da quelle riguardanti il lavoro subordinato (ad esempio in materia di compensi o di recesso)29.
Forse, per andare davvero avanti in questa intricata materia ormai og- getto di dibattiti e interventi regolatori mal calibrati da oltre 15 anni, si dovrebbero fare scelte rigorose ma non drastiche, ispirate ad un’estrema chiarezza delle prospettive verso cui orientare i soggetti interessati con nuovi schemi contrattuali per i quali non basta ricorrere a formule eleganti e suggestive come quella di “fattispecie transtipica rappresentativa di un segmento non fraudolento del mercato del lavoro”30. Se davvero si parte
26 V., di recente, SPEZIALE, Le politiche del lavoro del Governo Xxxxx: il Jobs Act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”. IT - 233/2014. p. 24 ss.
27 V. nuovo art. 2094 proposto dal codice ICHINO-TIRABOSCHI rubricato “subordinazione e dipendenza”; successivamente si riferiscono tutele a mio parere tipiche della subordinazione (es.: art. 2103 in materia di mansioni) al “lavoratore dipendente”.
28 PERULLI, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza eco- nomica?, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT - 235/2015.
29 XXXXXXX, op. cit., p. 25-26.
30 PERULLI, op. cit., p. 30.
dal presupposto che il lavoro autonomo configura una “relazione personale di lavoro” con funzione positiva, fondamentale sarebbe allora, oltre a non favorirne una diffusione falsamente concorrenziale con altre forme con- trattuali (basata su trattamenti retributivi, previdenziali o sanzionatori ri- dotti), prevedere tutele di tipo diverso da quelle previste per il lavoro subordinato allo scopo di fare in modo che il lavoro dipendente solo eco- nomicamente possa esattamente affrancarsi da una dipendenza che lo in- debolisce nelle prospettive di sviluppo professionale specifico ed economico generale. In definitiva il lavoratore economicamente dipendente dovrebbe essere tutelato essenzialmente nella direzione di renderlo il più possibile un lavoratore autonomo genuino e solido, la cui professionalità ed il cui reddito possano svilupparsi su un mercato sempre più ampio e diversificato (quindi superando la monocommittenza anziché cristallizzarla).
8. Per le imprese meglio cumulare che scegliere nella totale incertezza (ovvero le imprese e il de-risking State): riordino o “sfrittellamento” delle forme contrattuali?
In conclusione può dirsi che la reazione legislativa alla c.d. “fuga dal lavoro subordinato” ha conosciuto già una complessa evoluzione, dando vita a una notevole frammentazione del mercato del lavoro. Cosicché la fattispecie contrattuale posta al centro del diritto del lavoro sviluppatosi fino ai primi anni del 2000 si è vista attorniata da molti altri rapporti ati- pici, talora anche numericamente significativi (come i contratti a termine o i xx.xx.xxx.), talaltra destinati a dar vita a poche migliaia di peculiari rapporti di lavoro. In tutti e due i casi si è ottenuto l’effetto di sminuzzare la tipologia contrattuale finalizzata all’utilizzazione di lavoro erogato da soggetti diversi dall’organizzatore, rendendo appunto più complesso il di- ritto del lavoro e più segmentato il mercato del lavoro e aggiungendo agli elementi che tradizionalmente tipizzano la fattispecie una nuova nozione di dipendenza che non è del tutto sovrapponibile a quella codicistica, per- ché basata su elementi diversi come la committenza unica o plurima e l’individuazione di fasce reddituali. Sotto un altro versante la collabora- zione senza subordinazione genera comunque dipendenza come dipen- denza dall’organizzazione cui la prestazione è raccordata e, con essa, la tendenza a riequilibrare, anche al di fuori della subordinazione, gli effetti
deleteri della dipendenza stessa. Ma la dipendenza “personale” dovrebbe distinguersi concettualmente dalla dipendenza “economica”31.
Una certa consapevolezza di questa esigenza di distinzione concettuale si avverte nelle recenti norme introdotte dalla riforma Fornero (e in qualche parte rivisitate dal successivo Governo Xxxxx), che tra l’altro, pur avendo ab- bandonato il primigenio obiettivo di realizzare il c.d. “contratto unico”32, aveva tra le sue finalità dichiarate quella di rendere di nuovo “dominante” (art. 1, lett. a), della l. 92/2012) il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, al pari del Jobs Act33. La loro corretta comprensione e valu- tazione non può però prescindere dalla consapevolezza del fatto che la re- lativa riduzione della dipendenza nei c.d. lavori atipici si accompagna al tentativo più incisivo mai fatto in Italia di intervenire sulla flessibilità in uscita, allentando i vincoli al licenziamento che sono in fondo il vero anti- doto ad una subordinazione che degeneri in dipendenza personale. Per que- sto si può parlare di un diritto del lavoro che, nonostante la relativa resipiscenza sulla frammentazione contrattuale, procede con la retromarcia, verso la centralità di una fattispecie contrattuale che coniuga la subordina- zione con lo sbilanciamento delle posizioni tra le due parti e, per di più, con il Jobs Act e il catuc lo fa sdoppiando anche il contratto standard.
In teoria ci sarebbe materia per semplificare e disboscare le altre forme contrattuali, facendo rifluire tutto, seppure gradualmente, nel catuc, con il ritorno ad un sistema “eliocentrico”. In pratica però questo ritorno ad un assetto normativo semplificato non è necessario né conveniente so- prattutto per le imprese, propense ad avvalersi tuttora delle forme con- trattuali precarie addirittura potenziate nella forma contrattuale precaria
31 X. XXXXXXX, op. cit.Vent’anni fa Xxxxxxx Xxxxxx (Proposta di un “Testo Unico” in tema di mercato del lavoro, in La disciplina del mercato del lavoro. Proposte per un Testo Unico, Ediesse, 1996, p.
35) già distingueva tra “subordinazione funzionale” e “subordinazione personale”; usare la no- zione di dipendenza forse aiuta, almeno per avere una maggiore chiarezza concettuale.
32 Da varie parti tra il 2008 e il 2012 si è chiesto a gran voce di eliminare tutti i contratti di lavoro atipici, introducendo un “contratto unico” di varia configurazione, ma il cui tratto comune era quello di consentire un’elevata flessibilità anche in uscita per i primi due/tre anni. Dalla fine del 2013 questa ipotesi – contenuta nell’originario Jobs Act, come nuovo progetto di riforma del mercato del lavoro sostenuta da Xxxxxx Xxxxx, neo-segretario del maggior partito al Governo, il PD – ha alimentato di nuovo il dibattito politico e giornalistico. Come però si è visto nella l. 183/2014 non è previsto il contratto unico, ma il contratto a tutele crescenti, che è tutt’altra cosa.
33 Di questa tendenza fa parte pure la disciplina limitativa dell’associazione in partecipa- zione (poco più di 40.000 lavoratori), che ora si vorrebbe del tutto eliminare.
per definizione, che è il contratto a termine. In questa nuova situazione è lo Stato che le garantisce dal rischio di assumere precari, magari accol- landosi anche i costi di una generalizzata riduzione salariale (v. incentivi della legge di stabilità 2015) inevitabilmente connessa ad una diffusa pre- carizzazione, ma che richiede un certo tempo per essere realizzata. Più che realizzare un riordino, si rischia uno “sfrittellamento”34 delle forme contrattuali, modellate su convenienze contingenti e destinato a confon- dere ancor più le traiettorie lavorative dei soggetti interessati.
Questo nuovo scenario va ben valutato perché non è più così sicuro che le maggiori tutele per il lavoro dipendente (che comincia ad abbrac- ciare una fascia più profonda e più ampia del lavoro subordinato vero e proprio) possano ripartire solo dalla fattispecie contrattuale “dominante”, specie ove questa fosse il catuc.
Nell’incertezza converrebbe ripartire avendo a disposizione più “piste”, considerando che nelle due grandi aree del lavoro subordinato (comprensivo di quello parasubordinato) e autonomo (comprensivo del lavoro c.d. economicamente dipendente) si potrebbero collocare ai rispet- tivi confini le professionalità più elevate, meno interessate alla precarietà insita nel catuc e alla ricerca di garanzie di continuità lavorativo/reddituale non riconducibili a quelle classiche del lavoro subordinato interno ad or- ganizzazioni eterodirette.
La delega della l. 183/2014 è poi pure formulata male e si rischia di produrre un decreto fragile costituzionalmente se si va oltre la mera rico- gnizione35. Il lavoro economicamente dipendente potrebbe però essere una plausibile filiazione di un lavoro a progetto rivisitato nella prospettiva di rendere comunque più appetibile il contratto a tempo indeterminato: tutte operazioni di riordino riconducibili abbastanza pianamente ai prin- cipi della delega.
34 Devo il termine al mio amico XXXXXXXX U.M., professore di Letteratura italiana alla Fe- derico II, che lo ha utilizzato presentando a Napoli il recente volume di BEVILACQUA P., Xxxxxxxx, l’insensata modernità, Jaca Book, 2014.
35 V., oltre gli scritti citati di XXXXXXX e SPEZIALE (che dissentono sulla possibilità di ri- comprendere nel testo organico semplificato anche il lavoro standard), GUAZZARROTTI, Riforme del mercato del lavoro e prescrittività delle regole costituzionali sulle fonti, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 3/2014; RUSSO R., La delega in bianco nella giurisprudenza costituzionale, in Associazione italiana dei costitu- zionalisti. Osservatorio costituzionale, gennaio 2015.
9. La difficile semplificazione e il contratto “momentaneamente” dominante: un ausilio possibile dalla contrattazione collettiva
Il Jobs Act ci consegna una situazione non assestata nella quale per un triennio il contratto dominante sarà il Catuc, ma coesistendo con il vecchio lavoro standard (pur fortemente indebolito dalla Fornero) e con contratti a termine molto liberalizzati. Altro che “eliocentrismo”; gravi- tiamo piuttosto nell’universo straniante di 1Q84, dove l’immaginazione di Xxxxxx Xxxxxxxx sottopone tutto all’influsso di due lune che brillano contemporanee nel cielo.
Non è detto però che, nell’arco di un triennio, i giochi non possano riaprirsi. E conviene a tutti lasciare più strade aperte, anche per un ritorno ad un contratto di lavoro standard con un maggiore equilibrio interno. Specie se nel frattempo Stato e imprese avranno imboccato la strada di una competizione basata sulla vera modernizzazione e sul sostegno a si- stemi economico-sociali capaci di perseguire una vera innovazione tec- nologico-produttiva e una più profonda giustizia sociale36.
Forse la via più saggia sarebbe affidare quanto più possibile il riordino dei contratti essenzialmente ad una contrattazione collettiva irrobustita, non solo aziendale, ma anche nazionale di categoria e territoriale37. E af- fiancata nelle singole imprese (almeno in quelle medie e grandi) da forme di reale partecipazione alla gestione di lavoratori e sindacati ormai dalla crisi resi più sensibili alle generali compatibilità economico-produttive.
Contratti collettivi rafforzati potrebbero:
1. individuare limiti più stringenti all’uso di contratti a termine;
2. individuare settori e/o imprese in cui concentrare interventi in- novativi sull’apprendistato genuino;
3. consentire eventualmente un utilizzo residuale di contratti a progetto, da autorizzare mediante contratti collettivi qualificati (in fondo si tratterebbe di potenziare un intervento della contrattazione collettiva già oggi previsto);
36 V., in questa prospettiva, le proposte di MAZZUCATO, Lo Stato innovatore, Laterza, 2014; e, più di recente, Building the Enterpreneurial State: a new framework for envisioning an evaluating a mission-oriented public sector, Xxxx Economic Institute,Workingpaper, n. 824, January 2015, p. 26, in xxx.xxxxxxxxxxxxx.xxx/xxxx/xx.
37 V. i ddl di DLM, in DLM, 2014, n. 1 e del gruppo di studiosi denominato Frecciarossa, di cui dà notizia il Corriere della sera dell’1.2.2015. Per qualche spunto ulteriore x. XXXXXXX L., Istituzioni e negoziazioni territoriali: un’analisi della strumentazione giuridica, in RGL, 1/2015 (in corso di pubblicazione).
4. rafforzare le regole a favore della stabilità dei rapporti di lavoro (ad esempio accelerando la progressiva crescita delle indennità previste per sanzionare i licenziamenti arbitrari).
Un maggiore coinvolgimento dei sindacati nella gestione delle im- prese potrebbe aiutare a tenere sotto controllo l’ingiustificato proliferare del ricorso a forme di lavoro economicamente dipendente o ad altre ti- pologie contrattuali minori (come i voucher) consentendo in caso di si- tuazioni patologiche l’attivazione di forme di controllo amministrativo e/o di regolazione specifica, contrattuale o regolamentare.
Abstract
L’autore analizza i riflessi sistematici del contratto a tutele crescenti introdotto dal d.lgs. 23/2015, rilevandone gli effetti di squilibrio sulla posizione delle parti, con accentuazione della debolezza negoziale del lavoratore nel nuovo contratto standard. Esso, destinato a diffondersi grazie agli incentivi previsti dalla legge di stabilità 190/2014, d’altronde non viene ritenuto neanche idoneo a ridurre le diseguaglianze sul mercato del lavoro, perché rimane intatta la possibilità di ricorrere ai contratti a termine liberalizzati dal d.l. 34/2014. Si affronta dunque quale potrebbe essere in que- sto nuovo scenario la disciplina migliore per riformare i contratti di lavoro non stan- dard senza indebolire ulteriormente le condizioni di lavoro e le diseguaglianze sociali.
The author analyses the systematic impact of the new pattern of employment contract, the so-called “increasing protection employment contract”, introduced by the legislative decree 23/2015 (the so-called Jobs Act), and points out the effects of imbalance between the contracting parties as long as the employee will be in a sig- nificantly weaker bargaining position than employer.This contract, that Finance Act 190/2014 tries to promote through tax incentives, is not considered to be an appro- priate instrument to reduce the inequalities in the labour market, as long as the free- dom to conclude fixed-term contracts, as guaranteed by the Act 34/2014, has not been restricted at all by the Jobs Act. Therefore, in such a new scenario, the article concludes by making a series of recommendations to reform non-standard contracts regulation without weakening even more employee’s position and increasing social inequalities.
Key words
Contratto di lavoro, tutele crescenti, diseguaglianze. Contract of employment, increasing protection, inequalities.