Numero 2 / 2019 (estratto)
Numero 2 / 2019 (estratto)
Xxxxxxx Xxxxxxxx
Il contratto di lavoro «a tutele crescenti» (parzialmente) conformato a Costituzione
Il contratto di lavoro «a tutele crescenti» (parzialmente) conformato a Costituzione
Xxxxxxx Xxxxxxxx
Avvocato, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l’Università di Perugia.
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La disciplina originaria del contratto di lavoro «a tutele crescenti». Xxxxxxx Xxxxxxxx0. Il contratto «a tutele crescenti» dopo il «decreto dignità» e la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale. 4. I problemi applicativi del nuovo art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015. 5. Le questioni irrisolte del d.lgs. n. 23 del 2015.
1. Premessa. Il percorso del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, baricentro normativo e insieme manifesto politico-ideologico del Jobs Act, è apparso sin da subito irto di ostacoli d’ordine costituzionale. Furono infatti in molti, come è noto1, già all’indomani della pubblicazione del decreto2, a metterne in evidenza criticamente i numerosi profili di possibile contrasto con i principi costituzionali.
Al centro di tali censure non stava tanto la scelta di marginalizzare ulteriormente il campo applicativo della tutela reintegratoria, portando in qualche modo a compimento il disegno di sostanziale ridimensionamento dell’art. 18 dello Statuto già avviato dalla l. n. 92 del 20123, quanto
* Lo scritto – che con qualche adattamento è destinato agli studi in onore di Xxxxxxxxx Xxxxxxx – accorpa il testo di due relazioni svolte nella primavera del 2019: la prima, il 20 marzo, presso l’Aula magna della Corte di Cassazione, nell’ambito del corso Fonti e tutele dei lavoratori. Il jobs act al vaglio della Consulta; la seconda, il 24 maggio, in occasione del convegno fiorentino su Xxxxx e ricorsi del diritto del lavoro.
1 Tra costoro (ancorché, come naturale, con diverse articolazioni) v. principalmente, senza alcuna pretesa di completezza, X. XXXXXXXX, Il contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-259/2015; ID., Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra Costituzione e diritto europeo, in RIDL, 2016, I, p. 111 ss.; X. XXXXXXX, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di «paradigma» per il diritto del lavoro?, in Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, a cura di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Torino, 2015, p. 3 ss.; X. XXXXXX, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-273/2015 (e poi, più diffusamente, ID., Le tutele, in L’estinzione del rapporto di lavoro subordinato, a cura di X. Xxxxxxxx, vol. quinto del Trattato di diritto del lavoro diretto da X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Padova, 2017, p. 724 ss., spec. p. 1016 ss.); X. XXXX, Licenziamenti illegittimi e reintegrazione: le nuove mappe del Jobs Act, in DLRI, 2015, p. 557 ss.; X. XX XXXX, Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e nuovo sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi tra legge delega e legge delegata, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-251/2015; X. XXXXXXX, I contrappunti delle riforme nella disciplina dei licenziamenti individuali, in ADL, 2015, p. 789 ss. Per una linea sostanzialmente assolutoria, di complessiva difesa della coerenza anche costituzionale dell’impianto del d.lgs. n. 23 del 2015, v. invece, tra i primi (seppure con diverse sfumature),
X. XXXXX, X. XXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXXXXXX, Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015.
2 Cfr., volendo, X. XXXXXXXX, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in Xxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, fasc. 1 del 2015.
0 X. xxxx X. XXXXXXX, Il tramonto dello Statuto dei lavoratori (dalla l. n. 300/1970 al Jobs Act), in I licenziamenti nel contratto «a tutele crescenti», Quaderni di ADL, n. 14, a cura di X. Xxxxxxx, Milano, 2015, p. 1 ss. Per la eclissi della tutela reale v. soprattutto X. XXXXXX, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Xxxxxxxx
piuttosto il congegno che il legislatore del Jobs Act aveva escogitato quale base del calcolo della indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato, con un automatismo rigidamente correlato alla sola anzianità di servizio del lavoratore. Il riduzionismo economicistico che ispirava quell’elementare meccanismo di calcolo, nel travisare probabilmente persino le raccomandazioni estrapolabili dal pur eterogeneo armamentario teorico messo a disposizione dalla law & economics4, appariva, infatti, ad uno sguardo non velato dal pregiudizio ideologico, radicalmente incompatibile con l’impianto stesso dei principi personalista e lavorista inscritti nella Costituzione repubblicana5.
Quelle censure, inizialmente confinate al confronto dialettico tra le diverse posizioni dottrinali, hanno come ben noto finalmente potuto trovare almeno in parte sfogo, grazie all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma6, nella sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale7:
Xxxxxxxxxx, a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxxxx, Milano, 2012, p. 792 ss., che vi coglie il decisivo trapasso del sistema italiano dei rimedi contro il licenziamento illegittimo dalle logica delle property rules a quella, ritenuta più coerente con gli orientamenti di flessicurezza, delle liability rules. Peraltro, sulla improprietà, in un’ottica comparatistica, di questa pur suggestiva ricostruzione, cfr. X. XXXXXX, La nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati alla prova del diritto comparato, in DLRI, 2012, p. 661 ss. (spec. p. 680); X. XXXXXXXXX, La tutela contro il licenziamento ingiustificato nell’ordinamento dell’Unione europea, ivi, p. 617 ss.
4 È X. XXXXXXX, Efficient breach, valori del mercato e tutela della stabilità. Il controllo del giudice sui licenziamenti economici in Italia, Francia e Spagna, in RGL, 2012, I, p. 561 ss., a rammentare opportunamente come un «costo di separazione» rigido e anelastico non risulti in principio idoneo a soddisfare le stesse raccomandazioni delle dottrine gius-economiche dell’efficient breach of contract, visto che una misura rigidamente prestabilita, quale quella dell’originario art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore, specie quando essa sia bassa, finisce nei fatti per costituire un incentivo all’azzardo morale del datore di lavoro, rendendo conveniente l’abuso del potere di recesso. Per un riepilogo critico del dibattito sulla law and economics, che tra i giuslavoristi italiani ha in Xxxxxx Xxxxxx il principale propugnatore (v. almeno le sue Lezioni di diritto del lavoro. Un approccio di labour law and economics, Milano, 2004), si fa rinvio a X. XXXXXXXX, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, in RGL, 2014, I, pp. 344 ss. e 447 ss.
5 Valga solo il richiamo ai classici: C. MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, in XX, 0000, I, p. 149 ss. (poi ristampato in Xxxxxxxxxx Xxxxxxx e «Il lavoro nella Costituzione»: una rilettura. Atti della giornata di studio, Siena, 31 gennaio 2003, a cura di X. Xxxxx, Milano, 2005, p. 7 ss.); X. XXXXXXXXXX, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952 (ora riprodotto in ID., Prima e dopo la Costituzione, con premessa di X. Xxxxxxx e saggi introduttivi di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, Napoli, 2015, p. 123 ss.). Ciò, naturalmente, a patto di tener fermo – come ad esempio fa, con posizioni qui largamente condivise, X. XXXXXX, La costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Napoli, 2016 – il nucleo normativo indefettibile di quei principi fondativi dell’ordine costituzionale repubblicano, contro i tentativi diretti a svalutarne il significato nel contesto della nuova costituzione economica di matrice neoliberale che risulterebbe dalla integrazione dei principi posti dal diritto dell’Unione europea. V. in senso analogo X. XXXXXXXX, La sentenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in RGL, 2019, II, p. 3 ss., sul punto p. 9, e X. XXXXXXX, Il valore del lavoro e la disciplina del licenziamento illegittimo, in Treccani - Il libro dell’anno del diritto 2019, Roma, 2019, p. 341 ss., spec. p. 348. Per un rinfrescante riepilogo del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea costituente sui principi fondamentali della Carta repubblicana v., più di recente, X. XXXXXXXXXX, Costituzione italiana: articolo 2, Roma, 2017, p. 43 ss., e X. XXXXXXXX, X. XXXXXX, Costituzione italiana: articolo 3, Roma, 2017, p. 4 ss.
6 T. Roma, ord. 26 luglio 2017, su cui v., tra gli altri, in termini adesivi, soprattutto X. XXXXXXXX, La questione di legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, in RGL, 2017, II, p. 333 ss., ed in senso critico, principalmente, X. XXXXX, Sulla questione di costituzionalità del contratto a tutele crescenti, in RIDL, 2017, II, p. 780 ss., e X. XXXX, X. XXXXXXXX, Cronaca di un’ordinanza … annunciata, in GI, 2017, n. 10, c. 2174.
7 Sulla sentenza, anche in tal caso senza pretese di riferimenti esaustivi, v., tra i molti commenti di diverso segno, quelli di: X. XXXXXX, Il rapporto tra il danno prodotto dal licenziamento e l’indennizzo nella sentenza della Consulta, in RIDL, 2018, II, p. 1050 ss.;
pronuncia nella quale si può a ragione fissare una sorta di spartiacque della tormentata evoluzione recente della disciplina italiana in materia di tutele contro il licenziamento illegittimo.
Questo contributo non ha la pretesa di ripercorrere tale evoluzione in tutta la sua complessità, notevole sia nel dibattito dottrinale sia nelle elaborazioni della giurisprudenza8, ma ha il più limitato intento pratico di fornire una mappa aggiornata delle tante questioni poste dal d.lgs. n. 23 del 2015: di quelle risolte, in parte qua, dall’intervento sull’art. 3 della Corte costituzionale (e,
M.T. CARINCI, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel Jobs Act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema, ivi, p. 1059 ss. (ma già EAD., La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel «Jobs Act», e oltre, WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-382/2018); X. XXXXXXX, La Corte costituzionale e il decreto n. 23/2015: one step forward two step back, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-378/2018; X. XX XXXXXXX, Sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e giudizi pendenti: prime riflessioni, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-387/2019; X. XXXXXXX, Il valore del lavoro, cit., p. 341 ss. (e poi ID., Correzioni di rotta. La disciplina del licenziamento illegittimo di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 alla luce del c.d. «Decreto Dignità» e della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, in Lavoro Diritti Europa, n. 1 del 2019); X. XXXXXXXX, La sentenza della Corte costituzionale, cit., p. 3 ss.; X. XXXXXXX, Le tutele avverso il licenziamento ingiustificato e la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale: dopo le scosse, l’assestamento?, in DRI, 2019, n. 1, p. 214 ss.;
X. XXXXXXX, Licenziamento ingiustificato e indennizzo del lavoratore dopo la sentenza della Xxxxx xxxxxxxxxxxxxx x. 000/0000 (xxxx ricerca della norma che non c’è), ivi, p. 228 ss.; X. XXXX, La sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale e il suo «dopo», ivi, p. 244 ss. (nonché di nuovo ID., Spigolature di dottrina sulla sentenza n. 194/2018 e il suo «dopo», ivi, 2019, p. 640 ss.); X. XXXXX, Il diritto stocastico. La disciplina italiana del licenziamento dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 (e «decreto dignità»), ivi, p. 256 ss.; X. XXXXXXX, Il licenziamento «de-costituzionalizzato»: con la sentenza n. 194/2018 la Consulta argina, ma non architetta, ivi, p. 277 ss.; X. XXXXXXX, Il «Jobs Act» e la Corte costituzionale. Riflessioni su C. cost. n. 194/2018, ivi, 2019, p. 612 ss.; X. XXXX, Polifunzionalità delle sanzioni per il licenziamento ingiustificato e l’autonomia del diritto del lavoro, ivi, p. 624 ss.; X. XXXXXXXXXXX, I criteri legali di determinazione delle indennità risarcitorie nei licenziamenti, in MGL, 2018, p. 39 ss.; X. XXXXXX, La Corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato: l’incertezza del diritto «liquido», ivi, p. 149 ss.; X. XXXXX, Le tutele contro i licenziamenti dopo la pronuncia della Corte costituzionale, ivi, p. 197 ss.; X. XXXXXXX XXXXXXX, La tutela contro i licenziamenti illegittimi dopo la pronuncia della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, xxx, p. 213 ss.; X. XXXXXX, I primi effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 sulla quantificazione dell’indennità da licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese, ivi, p. 235 ss.; X. XXXXXXXXX, Tutele crescenti: de profundis, ivi, p. 251 ss.; X. XXXXXX, Il Jobs Act sotto la scure della Corte costituzionale, in LG, 2019, n. 2, p. 163 ss.; X. XXXXXXX, La sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018. Tra discrezionalità del legislatore e principio di ragionevolezza, in Lavoro Diritti Europa, n. 1 del 2019; X. XXXXXX, La sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018: tra certezza del diritto e ordinamento complesso (tanto rumore per nulla), ibidem; X. XXXXXXXXX, Il licenziamento dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194/18, tra vincoli costituzionali e fonti internazionali: la partita resta aperta, ibidem; X. XXXXXX, La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018: contenuto, natura ed effetti, ibidem; X. XXXXXXXX, La sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018: parturiunt montes, in ADL, 2019, p. 125 ss.; X. XXXXXXX, L’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti: gli effetti sui giudizi pendenti, ivi, p. 15 ss.
8 Un’ottima sintesi è oggi offerta dai contributi raccolti nel volume Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro, a cura di X. Xxxxxx,
X. Xx Xxxxx x X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000.
prima, dello stesso legislatore del «decreto dignità»)9, come di quelle – e sono, forse, ancor più numerose e pressanti delle prime – che ancora attendono una appagante soluzione10.
2. La disciplina originaria del contratto di lavoro «a tutele crescenti». La sentenza della Corte costituzionale non incide – in coerenza con i confini al riguardo fissati dalla stessa ordinanza di rimessione11 – sull’area applicativa ritagliata dal d.lgs. n. 23 del 2015 alla tutela reale del posto di lavoro12. Questa, anche dopo la sentenza, rimane pertanto ristretta (nella duplice versione, piena o attenuata, sostanzialmente sovrapponibile al corrispondente décalage configurato dall’art. 18 St. lav. post-riforma del 2012) alle ipotesi eccezionali che sono state originariamente tipizzate, per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, dagli artt. 2 e 3, comma 2, del d.lgs. n. 23. Le fattispecie disegnate dalle norme testé richiamate non si lasciano peraltro perfettamente sovrapporre a quelle ad esse corrispondenti dei commi 1, 3 e 7 del testo vigente dell’art. 18 St. lav.
Il primo comma dell’art. 2 del decreto, nel delineare le fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria piena senza tetti risarcitori13, mentre si limita a richiamare le ipotesi di nullità del licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della l. n. 300 del 1970, contiene un rinvio generale a tutti gli altri casi di nullità «espressamente» previsti dalla legge. Ciò a differenza di quanto prevede l’art. 18, che al comma 1 fa riferimento – con tecnica analitica e sicuramente più specifica – alle ipotesi di nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’art. 3, l. n. 108 del 1990, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al d.lgs. n. 198 del 2006, o in violazione dei divieti di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9 del testo unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno
9 V. l’art. 3 del d.l. n. 87 del 2018, convertito, con modificazioni, nella successiva l. n. 96, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese. Per un commento organico alla legge cfr. «Decreto Dignità» e Corte costituzionale n. 194 del 2018. Come cambia il Jobs Act, a cura di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Torino, 2019 (ed ivi, in particolare, il saggio di X. XXXXXXX, La disciplina del licenziamento illegittimo di cui all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 alla luce del c.d. «Decreto Dignità» e della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, p. 59 ss.).
10 Per primi spunti sul tema v. già X. XXXXXXXX, Il licenziamento del lavoratore con contratto «a tutele crescenti» dopo la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale, in La sentenza della Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti?, a cura di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx, Roma, 2019, p. 87 ss.
11 Che, in effetti, non aveva dubitato, quantomeno in via diretta, delle previsioni che, nel d.lgs. n. 23 del 2015 ancor più che nell’art. 18 St. lav., limitano a ipotesi residuali e sostanzialmente eccezionali la tutela reintegratoria, riconoscendone, in conformità della consolidata giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, il carattere costituzionalmente non necessitato (v. in senso critico X. XXXXXXXX, La sentenza, cit., p. 125). Va tuttavia notato che, nel prospettare la questione – ritenuta però non fondata dalla Corte – della disparità di trattamento tra «vecchi» e «nuovi» assunti, il giudice a quo aveva potenzialmente aperto il varco ad un diverso esito, astrattamente idoneo, quantomeno, a rimettere in discussione lo sfavorevole regime di tutela previsto, nelle ipotesi di assenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, dal d.lgs. n. 23 del 2015, che esclude sempre la tutela reale, pur attenuata, a differenza di quanto fa l’art. 18, che viceversa la ammette, seppure soltanto nei casi di manifesta insussistenza del fatto posto dal datore di lavoro a giustificazione del recesso.
12 D’obbligo, sul concetto, il richiamo a M. NAPOLI, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, e a M. D’ANTONA, La reintegrazione nel posto di lavoro. Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, Padova, 1979. Per una recente rivisitazione del tema X. XXXXXXXX, Reintegra monetizzata e tutela indennitaria nel licenziamento ingiustificato, Torino, 2018.
13 E con il minimo risarcitorio delle cinque mensilità (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015).
della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. n. 151 del 2001, ovvero – ancora – perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o viziato da un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.
Sennonché la diversa tecnica definitoria impiegata nelle due disposizioni non può fare aggio sulla sostanziale identità delle fattispecie di riferimento, che non possono che avere identico significato, identici essendo gli effetti sanzionatori della nullità del licenziamento nei due casi. Ne consegue, così, che al riferimento agli altri casi di nullità previsti dalla legge deve essere attribuita la stessa ampiezza applicativa, propria in genere delle fattispecie residuali non richiamate nominalmente, tanto nell’art. 18 St. lav. quanto nell’art. 2, comma 1, del decreto, a prescindere dalla circostanza che in tale ultima disposizione figuri l’avverbio «espressamente»14. E lo stesso xxxxxx, al di là dei diversi rimandi legislativi, per la nozione di licenziamento discriminatorio, per la quale la Corte di cassazione ha come noto finalmente imboccato, senza incertezze, la strada di una definizione in termini rigorosamente oggettivi, con tutte le conseguenze sul piano degli oneri allegativi e probatori15, affrancandola dalla connotazione soggettivistica oramai confinata alla ipotesi del recesso viziato da motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.16.
Oltre che nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato il forma orale, l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2015 rende applicabile la disciplina della reintegrazione ad effetti risarcitori pieni, di cui ai commi precedenti, anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68»17.
Sul punto la disciplina del contratto a tutele crescenti è, per un verso, migliorativa di quella di cui l’art. 18 St. lav. e, per un altro, apparentemente peggiorativa. È migliorativa laddove dà
14 Cfr. X. XXXXXXXX, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in ADL, 2015, p. 393 ss., spec.
p. 394; X. XXXXXXX, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, ivi, p. 310 ss., spec. p. 311. Per la diversa interpretazione restrittiva v. però X. XXXXXX, Le tutele, cit., p. 1060 ss. Per un riepilogo delle diverse posizioni v. X. XXXXX, Il licenziamento nullo: chiavistello o grimaldello del nuovo sistema «a tutele crescenti»?, in Working Paper ADAPT, 22 settembre 2015, n. 183, e X. XXXXXX, M. D’ONGHIA, Profilo costituzione del licenziamento nullo, in WP C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-305/2016, ove una originale ricostruzione delle fattispecie di nullità nel d.lgs. n. 23 del 2015.
15 X. xx xxxxxx Xxxx., 00 ottobre 2018, n. 23338, in RIDL, 2019, II, p. 46 ss., con nota di M. NOVELLA, Il licenziamento discriminatorio: fattispecie e ripartizione degli oneri della prova, in cui – ribadendo la propria adesione alle consolidate elaborazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea – in un caso di lavoratrice affetta da handicap, con riguardo alla ripartizione degli oneri probatori ha chiarito che «il lavoratore deve provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione; il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione». In dottrina, di recente, X. XXXXXXXX, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Milano, 2015, p. 29 ss.
16 In tema, di recente, X. XXXXX, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Milano, 2017, p. 101 ss.
17 Su tali ipotesi sia permesso il rinvio a X. XXXXXXXX, Il licenziamento del lavoratore disabile tra disciplina speciale e tutela antidiscriminatoria, in Rivista critica di diritto del lavoro, 2008, p. 427 ss.
opportunamente xxxxxxx00, nelle ipotesi di assenza di giustificazione del licenziamento appena considerate, alla tutela reintegratoria piena (ovvero allo stesso regime rimediale valevole per i casi di discriminazione); mentre l’art. 18, comma 7, contempla, per tali ipotesi, soltanto «l’effetto reintegratorio attenuato»19. È, invece, apparentemente peggiorativa là dove non contempla, a differenza del comma 7 dell’art. 1820, l’ipotesi del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., che, pertanto, almeno secondo la tesi che ammette l’applicazione della tutela reintegratoria piena solo per le fattispecie di nullità espressamente previste dalla legge, dovrebbe ricadere, per i nuovi assunti con il contratto «a tutele crescenti», nel campo di applicazione – congegnato come tendenzialmente generale – della tutela meramente indennitaria di cui all’art. 3 del decreto21. Ma se si condivide quanto si è detto poco sopra a proposito del trattamento degli altri casi di nullità (anche inespressa o implicita), deve ritenersi che il rimedio invocabile contro il licenziamento nullo, perché intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., resti quello previsto dall’art. 2, comma 2, del decreto22. A tutto voler concedere, non potendosi ravvisare una fattispecie di licenziamento in senso proprio ingiustificato, per il quale solo l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 congegna come regola generale il rimedio puramente indennitario, dovrebbe trovare
«applicazione la c.d. tutela reale di diritto comune»23.
Una tutela reintegratoria attenuata (sul modello dell’art. 18, comma 4, St. lav.) è infine prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Avremo modo di approfondire più avanti le questioni interpretative e i persistenti dubbi di legittimità costituzionale sollevati da tale infelice previsione24; per il momento preme rilevare che, con questa disposizione, il legislatore delegato completa le previsioni con le quali intende fissare il confine entro cui è eccezionalmente
18 Proprio in ragione dei forti nessi con la tutela antidiscriminatoria dei lavoratori disabili, sui quali sia consentito l’ulteriore rinvio a S. GIUBBONI, Sopravvenuta inidoneità alla mansione e licenziamento. Note per una interpretazione «adeguatrice», in RIDL, 2012, I, p. 289 ss.
19 P. ALBI, Il campo di applicazione della nuova disciplina dei licenziamenti. Diversificazione del sistema rimediale ed effetti sulle garanzie dei diritti, in Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, a cura di X. Xxxxxx, Xxxx, 0000, p. 381 ss., qui p. 384.
20 Cass., S.U., 22 maggio 2018, n. 12568, ha nel frattempo chiarito che il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto è nullo, trovando ratione temporis applicazione la previsione del settimo comma dell’art. 18 St. lav. e dunque la tutela reintegratoria attenuata.
21 Cfr. X. XXXXXXX, Un contratto alla ricerca di una sua identità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (‘a sensi della bozza del decreto legislativo del 24 dicembre 2014), in I decreti attutativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni, a cura di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxxxxx, ADAPT Labour Studies, e-Book Series, n. 37, 2015, p. 65 ss., spec. p. 71.
22 In senso conforme x. X. XXXXXXX XXXXXXX, Xx xxxxxx, xxx., x. 000 (xxxx nota 21), secondo il quale l’assenza d’una specifica disciplina contenuta nel d.lgs. n. 23 del 2015 «induce a ritenere l’applicabilità del regime della nullità di cui all’art. 2, comma 1, indipendentemente dal raggiungimento del requisito dimensionale da parte del datore di lavoro».
23 X. XXXXXXX, Il contratto a tutele crescenti, cit., p. 42, secondo il quale il campo di applicazione della tutela reale di diritto comune,
«confluito nell’art. 18, comma 1 (così come novellato dalla legge n. 92/2012), rivive oggi al di fuori dei casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge».
24 Infra, par. 4.
consentita la reintegrazione, tanto ad effetti pieni (art. 2), quanto, appunto, ad effetti risarcitori attenuati (art. 3, comma 2).
Al di là di tale confine, il lavoratore assunto con contratto «a tutele crescenti» conoscerà, in caso di licenziamento illegittimo, solo il rimedio di tipo indennitario, forte o debole a seconda dei casi. Ed è qui, come vedremo più in dettaglio tra breve, che viene ad incidere – con tutto il suo profondo impatto innovativo – la doppia «correzione»25 impressa, dapprima, dal «decreto dignità», con la elevazione delle soglie minima e massima della indennità risarcitoria (rispettivamente a 6 e a 36 mensilità), e, poi, dalla sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale, con lo smantellamento del meccanismo di rigida correlazione automatica alla sola anzianità di servizio del lavoratore dell’indennità dovuta per i casi di licenziamento ingiustificato. Il sistema originariamente delineato dal legislatore del Jobs Act ne esce completamente modificato, con una sostanziale alterazione tanto degli equilibri interni alla sistematica del decreto quanto di quelli esterni: ovvero di quelli che sono apprezzabili alla stregua di una valutazione comparativa con il regime dei rimedi che, per gli assunti prima del 7 marzo 2015, viene delineato, a seconda delle dimensioni occupazionali dell’azienda, dall’art. 18 St. lav. e dalla l. n. 604 del 1966. Al punto che, se già in origine il sintagma «contratto a tutele crescenti» poteva essere a ben ragione considerato «un imbroglio linguistico», oggi la formula perde completamente di senso, visto che ben poco resta dello specifico meccanismo «così come (subdolamente) immaginato dalla legge di delega n. 183 del 2014»26.
E così, nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o per giusta causa, se in base al testo originario dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 il giudice, nel dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data del recesso, avrebbe sempre dovuto condannare il datore al pagamento di una indennità
– non assoggettata a contribuzione previdenziale – pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, ora, per effetto del combinato disposto della novellazione operata dal «decreto dignità» e della pronuncia della Corte costituzionale, da un lato la soglia minima e il tetto massimo salgono rispettivamente a 6 e a 36 mensilità, dall’altro la concreta misura dovrà essere discrezionalmente fissata dallo stesso giudice in relazione non più solo all’anzianità di servizio del prestatore, ma all’insieme degli altri parametri di commisurazione tradizionalmente operanti nel sistema, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
25 X. XXXXXXX, Correzioni di rotta, cit., p. 6 ss.
26 Così X. XXXXXX, Il Jobs Act, cit., p. 164, il quale parla, icasticamente, di una vera e propria «rottamazione del Jobs Act», avendo la Corte costituzionale «fatto “saltare” quello che poteva dirsi il cuore della riforma del 2015» (p. 163). In termini analoghi X. XXXXX, Le tutele, cit., pp. 197-198, il quale, pur rilevando che la sentenza della Consulta «non tocca l’evoluzione più rilevante di questi ultimi anni nel nostro diritto del lavoro, e cioè la riforma dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e la riduzione del campo di applicazione della tutela reale (legge n. 92/2012 e d.lgs. n. 23/2015)», si domanda nondimeno «se abbia ancora senso il termine “contratto a tutele crescenti” utilizzato dal legislatore. Se già al momento della sua apparizione, quel termine era stato fatto oggetto di critiche, perché quantomeno enfatico, si può affermare che oramai, a seguito dell’intervento della Corte, non abbia più alcuna corrispondenza con la disciplina sostanziale che lo regola».
La tutela indennitaria debole spetta, invece, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, lasciato indenne dalla Corte costituzionale e non modificato neppure dal «decreto dignità»27, nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 (così come modificato dalla l. n. 92 del 2012) o della procedura di cui all’art. 7 St. lav. Casi nei quali il giudice, dichiarato estinto il rapporto alla data del recesso, deve condannare il datore al pagamento di un’indennità per ogni anno di servizio del lavoratore, in una misura che non potrà essere inferiore a due e superiore a dodici mensilità28.
Per le piccole imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 St. lav. – cui è sempre inapplicabile il rimedio della reintegrazione ad effetti risarcitori attenuati di cui all’art. 3, comma 2 – l’anzidetto ammontare delle indennità risarcitorie è dimezzato e non può in ogni caso superare le sei mensilità, che è il limite massimo ordinario previsto anche dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. In tal modo il decreto, con l’art. 9, comma 1, ridetermina, ma in peius, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, i contenuti della stessa tutela obbligatoria ordinaria valevole per le piccole imprese, abbassando contemporaneamente la soglia minima (che per i vizi procedurali del licenziamento scende ad una sola mensilità di retribuzione) e quella massima (che, per l’appunto, non può superare in nessun caso le sei mensilità, laddove la l. n. 604 del 1966 consente, per i lavoratori con anzianità elevata, di raggiungere, nel massimo, il tetto delle 14 mensilità).
Le organizzazioni di tendenza – ovvero i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto – sono generalmente assoggettati dall’art. 9, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 alla nuova disciplina, nei termini sin qui riepilogati.
L’art. 10 estende al licenziamento collettivo – come definito dagli artt. 4 e 24 della l. n. 223 del 1991 – la medesima disciplina applicabile al licenziamento individuale intimato in carenza di giustificato motivo oggettivo. E dunque, salvo il caso davvero di scuola del licenziamento collettivo intimato oralmente (per il quale vale ovviamente il rimedio della reintegrazione ad effetti risarcitori pieni ai sensi del comma 1 dell’art. 2), sia in caso di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, della l. n. 223 del 1991, sia in caso di violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della medesima legge, dovrà applicarsi il regime indennitario forte previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel testo in vigore anche all’esito delle pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale. Il d.lgs. n. 23 del 2015 esclude, in tal modo, la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro prevista invece dalla l. n. 92 del 2012 in favore del lavoratore licenziato in violazione dei criteri di selezione di cui all’art. 5 della l. n. 223 del 1991, parificando, sul piano dei rimedi, tale vizio sostanziale del recesso alle ipotesi di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, di tale ultima legge.
Completa il disegno della disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015 l’art. 11, che rende inapplicabili ai giudizi di impugnazione dei licenziamenti da esso regolati le disposizioni di cui ai commi da 48 a
27 V. anche X. XXXXXXXXXXX, I criteri legali, cit., p. 88.
28 A meno che, come ovvio, sulla base della domanda del lavoratore il giudice accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli artt. 2 e 3, per il qual caso valgono le osservazioni svolte supra.
68 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012, ovvero lo speciale rito previsto dalla legge Fornero per i licenziamenti contro i quali si invochino le tutele dell’art. 18 St. lav.29.
3. Il contratto «a tutele crescenti» dopo il «decreto dignità» e la sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale. La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale ha dunque cominciato a porre parziale rimedio alla singolarissima situazione che – nell’impianto originario del d.lgs. n. 23 del 2015, come detto solo parzialmente corretto dal «decreto dignità» – faceva del lavoratore assunto con contratto «a tutele crescenti», ad onta del fondamento lavoristico e personalistico della nostra Costituzione, il «debitore più penalizzato del nostro ordinamento giuridico»30.
Dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 (sia nel testo originario sia in quello modificato dalla l. n. 96 del 2018) limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», la Corte, infatti, ripristina, in favore dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, un sistema rimediale contro il licenziamento ingiustificato che torna ad allinearsi – seppure con i limiti e le lacune che segnaleremo più avanti
– ai precetti di cui agli artt. 3, 4, comma 1, 35, comma 1, e 76 e 117, comma 1, Cost. (questi ultimi in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, nella sua duplice veste di precetto integrante il criterio direttivo di delega e di norma interposta). Oggi, infatti, in virtù del combinato disposto della sentenza della Corte costituzionale e dell’intervento del legislatore, il rimedio generalmente azionabile ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 contro il licenziamento ingiustificato (sempre, per quello per motivi oggettivi o economici; in via generale, per quello fondato su ragioni disciplinari, e salvo che non ricorrano eccezionalmente gli estremi per la reintegrazione ad effetti attenuati alla stregua del secondo comma della disposizione) potrà senz’altro consistere in una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, che il giudice dovrà commisurare alla concreta situazione dedotta in giudizio (rendendo congruo, pertanto, il ristoro rispetto al danno subito, seppure entro le soglie ricordate), tenendo anzitutto conto dell’anzianità di servizio del prestatore, ma considerando, altresì, gli «altri criteri desumibili, in chiave sistematica, dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)»31.
La Corte ha in tal modo scardinato – ritenendolo radicalmente incompatibile con gli evocati parametri costituzionali – il rudimentale meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria che nell’impianto del Jobs Act, non corretto su tale cruciale profilo dal «decreto dignità», pretendeva di ridurre il giudice ad un modesto contabile, in una singolare miscela di
29 Per una acuminata trattazione delle questioni relative alla impugnazione giudiziale del licenziamento v. ora X. XXXXXXXX,
Impugnazione del licenziamento e decadenza, Milano, 2018, p. 279 ss.
30 X. XXXXXX, I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa nel d.lgs. n. 23 del 2015, in ADL, 2015, p. 507 ss., qui p. 508.
31 Punto 15 del Considerato in diritto della sentenza. Per una immediata applicazione giudiziale (per così dire anticipata) di tali criteri, x. X. Xxxx, 00 ottobre 2018, n. 43328.
«legolatria» neo-illuministica32 e di pedagogia da law & economics low cost (se si consente il gioco di parole). La conseguenza è un inevitabile contrappasso per quanti avevano coltivato l’illusione della facile certezza del diritto ridotta a calcolo aritmetico del firing cost: dopo la sentenza della Corte l’incertezza endemica alla disciplina dei licenziamenti, come «riformata» dalla l. n. 92 del 201233, si estende anche alla sfera applicativa del d.lgs. n. 23 del 2015, rendendo impossibile al datore di lavoro quantificare con esattezza ex ante il costo del licenziamento entro la soglia minima di 6 e il tetto massimo di 36 mensilità della retribuzione utile per il computo del trattamento di fine rapporto34.
È stato in effetti sufficiente riaprire il ragionamento giuridico al soffio dei valori costituzionali
– anche come integrati dai principi della Carta sociale europea – per battere «in breccia alcuni assiomi della nostrana law & economics, così come penetrati nella disposizione dell’art. 3, comma 1, nella parte in cui prevede una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e predeterminata»35. Ancorché nella motivazione della Corte non sia del tutto svanita l’eco di quelle
«mitologie economiche»36 che negli ultimi lustri hanno sorretto, fin quasi a diventare senso comune, il rovesciamento dei postulati costituzionali dello Stato democratico e sociale, dissimulando sotto le suadenti vesti d’un sedicente nuovo riformismo le più spettacolari
32 Per usare la nota espressione di P. GROSSI, L’invenzione del diritto, Xxxx x Xxxx, 0000, p. 114 ss.
33 V. le taglienti osservazioni di X. XX XXXX XXXXXX, Licenziamento disciplinare, clausole elastiche, «fatto» contestato, in ADL, 2015,
p. 269 ss.
34 Particolarmente critico di un siffatto esito, che ci pare invece costituzionalmente dovuto, è, sin dal titolo polemico del suo commento, X. XXXXX, Il diritto stocastico, cit., p. 260, secondo cui «la sentenza della Consulta italiana tradisce un’eccedenza di discorso politico (o, se si vuole, dell’attitudine giusdicente) sull’interpretazione costituzionale», stigmatizzando la divaricazione culturale che un tale approccio segnerebbe rispetto a quello del Conseil constitutionnel francese, che ha viceversa convalidato la ordonnance n. 2017-1387 con la quale si è introdotta, nell’ordinamento d’oltralpe, «una tabella di indennità vincolante che fissa gli importi minimi e massimi dell’indennità di licenziamento sans cause réelle et sérieuse in base all’anzianità di servizio del dipendente» (sulla nuova e assai controversa disciplina francese v. xxxxxxx X. XXXXXXX, L’indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo tra Jobs Act e Ordonnances Macron, Milano, 2019). Per una critica analoga cfr. anche X. XXXXXX, Il rapporto, cit., p. 1052;
X. XXXXX, Le tutele, cit., p. 201, nonché X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., spec. pp. 169-170, che rimprovera al «creazionismo giudiziario» della Consulta l’effetto perverso di costruire la deterrenza della sanzione contro il licenziamento illegittimo sulla incertezza, vedendo in ciò addirittura «una sconfitta dello stato di diritto, giacché, in questo modo, la certezza del diritto, che dovrebbe essere un valore fondamentale dell’ordinamento, diventa un disvalore perché poco dissuasiva». Al netto dell’enfasi polemica, ciò che accomuna tali posture critiche – con la loro implicita aspirazione ad un diritto numericamente certo e perfettamente calcolabile ex ante, nel quale, a voler esser conseguenti fino in fondo, il giudice potrebbe ben essere rimpiazzato dall’algoritmo (con diverse sensibilità hanno analizzato da par loro le radici ideologiche di tali distopie X. XXXXXX, La Gouvernance par les nombres, Paris, 2015, e N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016) – è una concezione fortemente riduttiva del controllo di costituzionalità delle leggi, fondamentalmente ostile all’ampio margine di discrezionalità che connota – di certo nell’esperienza italiana più che in quella francese, assai diversa per ragioni storiche e politiche – il sindacato di ragionevolezza. Non compete a chi scrive rammentare le complesse ragioni che, nel nostro ordinamento, sorreggono un tale impianto concettuale della funzione svolta dalla Corte costituzionale, potendosi fare senz’altro rinvio alla ponderosa ricerca teorico- comparata recentemente pubblicata da X. XXXXXX, I giudici del diritto. Problemi teorici della giustizia costituzionale, Milano, 2014.
35 X. XXXXXXX, Il valore del lavoro, cit., p. 347.
36 Cfr. il bel saggio di É. XXXXXXX, Mitologie economiche, trad. it., Vicenza, 2017.
controriforme sociali della recente storia repubblicana, non c’è dubbio che la sentenza n. 194 del 2018 riaffermi con forza il primato del principio lavoristico.
La Corte giunge al detto esito di parziale demolizione (e conseguente manipolazione) dell’art. 3, primo comma, del d.lgs. n. 23 del 2015 accogliendo solo in parte i profili di illegittimità costituzionale sollevati dal giudice rimettente. In estrema sintesi, i dubbi di incostituzionalità prospettati dal giudice a quo in ordine al rigido meccanismo di determinazione dell’indennità risarcitoria in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore si addensavano essenzialmente intorno a due poli fondamentali: la violazione, da un lato, del principio di eguaglianza- ragionevolezza e, dall’altro, del principio di effettività (sub specie di adeguatezza e dissuasività) della tutela indennitaria.
Quanto al principio di eguaglianza, si era osservato, da una parte, come detto sistema di tutela introducesse una irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, non costituendo certo la diversa data di assunzione – che è elemento del tutto estrinseco alla fattispecie – un idoneo criterio giustificativo di differenziazione di rapporti contrattuali evidentemente identici sotto ogni altro profilo sostanziale; dall’altra, come l’assenza di graduazione della tutela, imponendo al giudice un meccanismo automatico di riconoscimento dell’indennizzo legato al solo parametro dell’anzianità di servizio, impedisse di valutare ogni altro elemento, costringendo a trattare irragionevolmente alla stessa maniera situazioni tra loro anche profondamente differenti37.
Per ciò che attiene al principio di effettività della tutela, era stato rilevato come, sebbene il rimedio contro il licenziamento ingiustificato possa anche non avere natura reintegratoria, esso debba comunque risultare adeguato, dovendo in ogni caso assicurare, dal lato del lavoratore, una congrua riparazione del bene giuridico leso (che è qui di pregnante rilievo costituzionale), e dovendo altresì essere, dal lato del datore di lavoro, realmente dissuasivo. Mentre, nella specie (ove veniva in questione il licenziamento con motivazione «apparente» di un lavoratore con modesta anzianità di servizio), doveva apparire addirittura evidente come la misura dell’indennizzo fosse irrisoria rispetto all’importanza del bene protetto e che, conseguentemente, il diritto al lavoro (costituzionalmente garantito come strumento di realizzazione della persona e primario mezzo di emancipazione sociale ed economica) risultasse ingiustamente sacrificato, nella sostanziale assenza di un corretto bilanciamento con il contrapposto interesse datoriale, pur espressione della libertà d’iniziativa economica di cui all’art. 41, comma 1, Cost.
La Corte ha disatteso il primo dei prospettati profili di violazione dell’art. 3 Cost., ritenendo non irragionevole, e dunque non contraria al principio di eguaglianza, la pur forte differenza di statuto protettivo tra assunti prima e dopo la fatidica data del 7 marzo 201538; in particolare
37 Come è stato finemente rammentato, «l’equità che esige pari diritto in pari situazioni (aequitas quae in paribus causis paria iura desiderat) è, appunto, il pari trattamento di situazioni uguali (ed il diverso di diverse), ritenuto dalla Corte corollario immediato del principio di uguaglianza»: X. XXXXX, L’uguaglianza, Roma e Bari, 2005, p. 32.
38 È opportuno ricordare che la Corte ha ritenuto non fondato un ulteriore profilo della questione sollevata dal giudice a quo ex art. 3 Cost., in relazione stavolta al trattamento più favorevole di cui i lavoratori con qualifica dirigenziale (ai quali la disciplina del contratto a tutele crescenti non trova applicazione) verrebbero a beneficiare rispetto a operai, impiegati e quadri.
reputando che la scelta del legislatore di differenziare la sfera di applicazione delle norme in ragione di detto fattore temporale risulterebbe coerente con lo scopo dichiaratamente perseguito
«di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione»39.
Tale conclusione – come già argomentato in altra occasione40 – non ci appare tuttavia convincente. È pur vero (come del resto puntualmente ricordato nella stessa ordinanza di rimessione) che nella giurisprudenza costituzionale è stato costantemente affermato come un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, non contrasti, di per sé, con il principio di eguaglianza, potendo il fluire del tempo costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Tuttavia, la Corte non sembra aver tenuto nella debita considerazione che l’irragionevolezza della scelta del legislatore non risiede tanto nella scelta, in sé considerata, dell’attenuazione delle tutele in vista di un qualche obiettivo di politica occupazionale, quanto nel criterio puramente temporale – o, per meglio dire, irriducibilmente contingente – individuato per l’applicazione della nuova disciplina. Infatti, la divaricazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo – che è destinata a durare nel tempo ed è, come tale, strutturale per i rapporti su cui va ad incidere – viene qui incoerentemente ancorata ad un criterio (quello del diverso momento di stipulazione del contratto di lavoro) che è del tutto estraneo, o per meglio dire eccentrico, proprio perché contingente, rispetto alla fattispecie disciplinata, laddove le caratteristiche dei detti rapporti, in qualunque tempo instaurati, rimangono – anche in proiezione temporale – del tutto identiche sotto ogni profilo sostanziale41.
Così opinando, però, la Corte amputa la portata del canone della ragionevolezza, rinunciando ad un controllo di congruità finalistica della legge ed evitando «di verificare l’adeguatezza
Secondo la Corte, anche questa disparità di trattamento risulterebbe giustificata, in quanto la figura del dirigente è caratterizzata da alcune significative peculiarità che, storicamente, ne hanno sempre comportato l’esclusione dall’applicazione della generale disciplina limitativa dei licenziamenti. Non possiamo tuttavia non notare come, in passato, quelle esclusioni fossero sorrette dalla ratio di differenziare in peius lo statuto protettivo del dirigente rispetto alle altre categorie di lavoratori, mentre nel nostro caso ci troviamo nella situazione inversa, aspetto, questo, chiaramente equivocato dalla Corte. Onde rimane il paradosso che, ove la Corte non fosse giunta per altre vie all’esito di incostituzionalità in parte qua dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, la condizione giuridica dei dirigenti (ovviamente del settore privato) si sarebbe caratterizzata per uno statuto protettivo per molti versi più favorevole di quello previsto dal Jobs Act per i lavoratori appartenenti alle categorie inferiori (principalmente, ma non solo, a motivo della flessibilità con cui i contratti collettivi consentono che sia modulata, in caso di licenziamento privo del requisito della giustificatezza, la misura dell’indennità supplementare, che pure cresce, ma non meccanicamente, in ragione dell’anzianità di servizio del lavoratore).
39 Alinea dell’art. 1, comma 7, della l. delega n. 183 del 2014, espressamente richiamato dalla Corte al punto 5.4 del Considerato in diritto.
00 X. X. XXXXXXXX, Xx licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la sentenza n. 194 del 2018 della Xxxxx xxxxxxxxxxxxxx, xx XX, 0000, I, c. 24.
00 Xxx. X. XXXXXXXX, Xx xxxxxxxx, cit., p. 5, che sottolinea «come la differenza di disciplina in tempi diversi presuppone comunque una diversità delle situazioni di fatto concretamente regolate, certamente non coincidente con la costituzione del rapporto», visto che la data di assunzione è di per sé «un fattore esclusivamente temporale che non incide minimamente sulla sostanziale omogeneità delle situazioni».
strumentale del mezzo legislativamente prescelto rispetto al fine da realizzare»42. Ma, in tal modo, la sentenza finisce per svalutare di conseguenza – seppure in nome di un self-restraint di cui ben si comprendono le ragioni di opportunità politica – il valore del principio di eguaglianza, che si rattrappisce a misura delle stesse scelte effettuate, a monte, dal legislatore ordinario. Senza un controllo di congruità causale-sostanziale tra le finalità enunciate dal legislatore e gli strumenti all’uopo impiegati, le differenze di trattamento giuridico introdotte dalla legge – salvi i casi piuttosto improbabili di irrazionalità manifesta per evidente incoerenza logica – rischiano di diventare tutte pressoché automaticamente giustificate, alla stregua di un ragionamento che appare tuttavia viziato da una palese circolarità: l’enunciazione del fine finisce, in pratica, per assorbire in sé la giustificazione dei mezzi43.
La Corte ha invece ritenuto fondate, e dunque accolto, tutte le ulteriori questioni di legittimità sollevate con riferimento all’art. 3, comma 1, Cost., agli artt. 4, comma 1, e 35, comma 1, Cost., nonché agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi, come detto, in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea). La Corte ha infatti rilevato che il meccanismo di quantificazione contenuto nell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, commisurando meccanicamente e rigidamente l’indennità, la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità e le fa così assumere i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, con la conseguenza di privare il giudice della possibilità di personalizzare il danno subito dal lavoratore (entro una soglia minima ed una massima) facendo ricorso ad una pluralità di parametri di valutazione diversi. Il risarcimento del danno, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere al contrario sempre effettivo e adeguato, mentre la rigida dipendenza dell’indennità dalla sola anzianità di servizio, soprattutto nei casi in cui questa sia bassa, impedisce di liquidare un congruo ristoro del danno prodotto dal licenziamento illegittimo e certamente preclude alla disciplina sanzionatoria quella funzione di dissuasione dell’abuso del potere di recesso datoriale che è parimenti necessaria affinché possa dirsi realizzato un equilibrato componimento degli interessi in gioco, comprimendo l’interesse del lavoratore in misura eccessiva rispetto alla libertà di organizzazione dell’impresa e risultando, in tal modo, incompatibile sia con il principio di ragionevolezza, sia con la tutela costituzionale del diritto al lavoro.
4. I problemi applicativi del nuovo art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015. La sentenza della Corte ha dunque modificato in profondità la regola contenuta nel primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015,
42 X. XXXXXXX, Il valore del lavoro, cit., p. 346.
43 Onde la nostra critica, come si vede, è perfettamente speculare a quella – a nostro avviso del tutto infondata – che altri hanno mosso alla sentenza rimproverando la pretesa «eccedenza politica» del controllo di ragionevolezza svolto dalla Corte (v. supra, nota 34). Si deve affamare esattamente il contrario (come fa con particolare incisività X. XXXXXXX, La Corte costituzionale, cit., spec. p. 7 ss.), visto che la Corte ha eccessivamente auto-limitato il raggio del controllo di ragionevolezza, depotenziando il rilievo che esso può e deve avere alla luce dell’art. 3 Cost. (v. per tutti X. XXXXXXX, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007). Cfr., in una più ampia prospettiva di politica del diritto, ancora X. XXXXXXX, Il diritto del lavoro e le disuguaglianze. Il coraggio di cambiare, in Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro diseguale, a cura di X. Xxxxxxx, Roma, 2017, p. 63 ss.
destrutturando44, di riflesso, il meccanico automatismo sanzionatorio congegnato dal Jobs Act e restituendo al giudice la indispensabile discrezionalità valutativa nella commisurazione della indennità risarcitoria al caso concreto45. La natura della pronuncia e i suoi precisi effetti sui criteri di determinazione del quantum, resi ora nuovamente disponibili al giudice, sono, tuttavia, oggetto di accesa discussione tra i commentatori.
È in particolare dibattuto se – in considerazione della tecnica decisoria cristallizzata dal dispositivo – la pronunzia della Corte debba essere intesa come di annullamento parziale
«secco»46, meramente ablativo di una porzione della norma di legge47, o se, valorizzando la parte motiva della sentenza, la stessa non debba piuttosto essere ascritta al novero delle pronunce manipolative48 e – in specie – a quelle cosiddette «additive di regola»49. L’opzione per l’una o l’altra tesi ha evidenti implicazioni pratiche, in particolare in ordine alla possibilità di integrare il dispositivo con le indicazioni espresse in motivazione sui parametri di quantificazione dell’indennità risarcitoria, che solo optando per la seconda lettura potrebbero propriamente ritenersi vincolanti per il giudice. Un riflesso non meno importante sul piano applicativo attiene alla precisa determinazione del contenuto della norma di risulta, giacché ove si ritenesse – svalutando il rilievo delle motivazioni – che la sentenza si sia limitata ad espungere «dalla precedente disposizione l’unico criterio moltiplicatore (l’anzianità) e il moltiplicando (le due mensilità della retribuzione), senza però essere additiva di altri criteri», dovremmo concludere di trovarci in presenza di «una norma “aperta”, da ricondurre alla tipologia delle disposizioni che
44 Di destrutturazione, «in termini di coerenza ordinamentale, [dell’]intero apparato sanzionatorio del Jobs Act», parla X. XXXXXX,
La sentenza, cit., p. 10.
45 Cfr. X. XXXXXXXX, Il ruolo del giudice in un sistema equilibrato di tutele, in La sentenza della Xxxxx xxxxxxxxxxxxxx, xxx., x. 00 xx.
00 X. XXXXXX, Il Jobs Act, cit., p. 170.
47 Propendono per questa tesi, tra gli altri, X. XX XXXXXXX, Sentenza n. 194/2014, cit., p. 9 (che, «a fronte di una declaratoria d’illegittimità parziale testuale», esclude che «possa integrarsi il dispositivo con la motivazione»); X. XXXXXXX, Licenziamento ingiustificato, cit., p. 230 (che, però, come si vedrà meglio fra breve, finisce per sviluppare un ragionamento convergente, negli esiti, con quanto qui sostenuto); X. XXXXX, Le tutele, cit., p. 205.
48 Cfr. X. XXXXXXX, Il «diritto al lavoro» da principio fondamentale a diritto fondamentale: propaggine estrema del costituzionalismo ad impronta personale e sociale, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018, p. 3 (ove si parla di «sentenza manipolativa di accoglimento parziale»); X. XXXXXX, La sentenza, cit., pp. 9 e 14 (ove la si classifica come «interpretativa di accoglimento fortemente manipolativa»). In senso contrario X. XXXXXXX, Il licenziamento, cit., p. 281, secondo cui si è in presenza di un «dispositivo rigorosamente di tipo “ablativo”, senza nessun richiamo alle più ricche motivazioni», con la conseguenza che la sentenza non può «ricondursi alle manipolatorie, meno che mai additive») Più difficilmente collocabile – ci sembra – è la posizione di X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., p. 151, che, rimproverando alla Consulta di aver «creato una norma monca, o un moncone di norma», le riconosce una natura «accentuatamente manipolativa», senza peraltro giungere a ritenere che essa possa considerarsi propriamente additiva di nuovi criteri di quantificazione della indennità risarcitoria, in quanto «le formulazioni della parte motiva della sentenza non si prestano a costituire un frammento di norma idoneo a integrare il dispositivo, non avendo i requisiti sufficienti di specificità e di chiarezza» (p. 158). V. anche infra, nota 50 e testo corrispondente.
49 In tal senso M.T. CARINCI, La Corte costituzionale, cit., p. 1064.
dovranno essere etero-integrate, ossia riempite di volta in volta dal giudice, in relazione alle quali il legislatore rinunzia volutamente a predeterminare tali criteri, proprio al fine di demandarne la definizione alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria»50, nel solo rispetto della soglia minima delle sei mensilità e del tetto massimo delle trentasei.
Già in una precedente occasione si è avuto modo di affermare come non possa essere questa la lettura della sentenza della Corte51, che, al di là di indubbi aspetti di incoerenza tra parte motiva e dispositivo52, ha chiaramente inteso censurare, dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, unicamente la regola della rigida correlazione della indennità ivi prevista al solo criterio della anzianità di servizio del lavoratore, facendo salvi tutti gli altri elementi della fattispecie, così corretta. Ed infatti, come è stato persuasivamente osservato, «il meccanismo di indicizzazione dell’indennità correlata alla maturazione dell’anzianità, così come previsto dall’art. 3, comma 1 (“due mensilità […] per ogni anno di servizio”), non è stato, in quanto tale, oggetto di una specifica censura da parte della Corte. Censura che, invece, ha riguardato la modalità congegnata dal legislatore di determinazione crescente dell’indennità connotata “oltre che come certa, anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio”»53. Per cui, se è pur vero, su un piano strettamente formale, che «tale meccanismo di indicizzazione (“due mensilità […] per ogni anno di servizio”) è stato rimosso dal dispositivo della sentenza n. 194/2018, […] ciò è addebitabile non già ad una censura di incostituzionalità, quanto all’ampiezza dell’intervento di rimozione del dato testuale dell’art. 3, comma 1, operato dalla Corte nel dispositivo; quindi una rimozione avvenuta per motivi tecnico-formali e non per la sua illegittimità. Del resto, la stessa cosa si è verificata per quanto riguarda il riferimento alla
50 X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., pp. 158 e 160.
51 Cfr. X. XXXXXXXX, Il licenziamento del lavoratore con contratto «a tutele crescenti» dopo l’intervento della Corte costituzionale, in WP
C.S.D.L.E. “Xxxxxxx X’Xxxxxx” IT-379/2018. Ci sembra che la lettura qui criticata – mossa da quello stesso intento polemico che rimprovera alla Corte di aver travalicato i confini propri del controllo di costituzionalità, appropriandosi di un ruolo creativo che non le compete – giunga paradossalmente ad esaltare oltre il dovuto gli effetti destrutturanti della pronuncia (v. anche X. XXXX, La sentenza n. 194/2018, cit., pp. 254-255), attribuendole – in modo vagamente decostruzionista – la creazione di una norma radicalmente alternativa a quella voluta dal legislatore del Jobs Act in quanto lasciata alla totale libertà applicativa del giudice, in un’ottica, appunto, di puro soggettivismo giudiziario. Ma è un esito, questo, che a nostro avviso può essere in buona parte scongiurato aderendo, più pragmaticamente, alla tesi che si sta per formulare nel testo.
52 Il principale – come ben sottolinea X. XXXXX, Il diritto stocastico, cit., p. 257, in nota – va colto in ciò: che la Corte, «pur avendo affermato, in motivazione, che l’indennizzo minimo di quattro mensilità (diventate sei per effetto del “decreto dignità”) “è suscettibile di minare, in tutta evidenza, la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro”, e che “non realizza un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco”, finendo “per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato”, conclude in senso opposto nel dispositivo, laddove la censura di inadeguatezza della misura minima dell’indennizzo non viene accolta, giudicandosi incostituzionale il solo criterio dell’anzianità crescente».
53 X. XXXXXXX, Licenziamento ingiustificato, cit., p. 241.
retribuzione utilizzata per il TFR, che, espunta dal dispositivo, viene invece recuperata nella motivazione della sentenza n. 194/2018»54.
Integrando il dispositivo con la motivazione della sentenza, che già sotto il profilo testé messo in evidenza va quindi senz’altro qualificata come manipolativa, si può così giungere ad una prima importante conclusione sulla portata della norma di risulta, che non si limita a contenere la fissazione della soglia minima e del tetto massimo della indennità risarcitoria, ma continua a prescrivere al giudice – contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della tesi qui criticata55 – anche di fare applicazione del meccanismo di indicizzazione delle due mensilità di retribuzione, utili ai fini del calcolo del TFR, per ogni anno di servizio.
Del resto, che tale meccanismo di indicizzazione rimanga in vigore – in quanto per l’appunto ritenuto dalla Corte conforme ai principi costituzionali (avendo la stessa censurato soltanto l’impossibilità, per il giudice, di incrementare l’indennità tenendo conto degli altri parametri desumili dal sistema ai fini di una adeguata personalizzazione del ristoro) – è agevolmente ricavabile da una lettura sistematica, ed essa stessa costituzionalmente orientata, del d.lgs. n. 23
n. 2015. Questo, infatti, per le ipotesi di vizio procedurale del licenziamento individuale continua a prescrivere al giudice – ferma la misura minima di due e quella massima di dodici – di commisurare l’indennità risarcitoria ad una mensilità per ogni anno di servizio del lavoratore (art. 4). Onde è anche in ossequio a un’ovvia esigenza sistematica che, in coerenza con l’opzione di fondo del legislatore, certo non smentita dalla Corte costituzionale, che il meccanismo di crescita dell’indennità che assiste le fattispecie di licenziamento ingiustificato dovrà rimanere differenziato (cioè, necessariamente rafforzato) rispetto a quello che sanziona i difetti di natura procedurale del recesso, tanto più se si considera che il «decreto dignità» ha ulteriormente accentuato tale differenza, elevando la soglia minima e il tetto massimo previsti dal primo comma dell’art. 3 di un terzo.
Se è corretto quanto sin qui osservato, deve concludersi che la base di calcolo della indennità risarcitoria ex art. 3, comma 1, resti inderogabilmente fissata (ovviamente entro la soglia minima e il tetto massimo di legge) in due mensilità per ogni anno di servizio del lavoratore ingiustamente licenziato, senza possibilità, per il giudice, di scendere sotto tale base di liquidazione del danno56.
54 Ibidem.
55 V. in particolare X. XXXX, La sentenza n. 194/2018, cit., p. 255, che, isolando il dato testuale del dispositivo dalla motivazione, ritiene addirittura «fantasiosa» la «commistione della vecchia e della nuova norma» qui proposta, non avvedendosi che né il moltiplicando, ovvero le due mensilità di retribuzione, né la sua base di computo (ovvero la retribuzione utile ai fini del TFR), sono entrati – di per sé – nell’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, circoscritto, giusta l’ordinanza di rimessione, al solo moltiplicatore rigido dell’anzianità di servizio. In senso contrario a quanto qui sostenuto v., ad ogni modo, anche X. XXXXXXXXXXX, I criteri legali, cit., p. 82; X. XXXXX, Le tutele, cit., p. 208.
56 In senso contrario, sia pure dubitativamente, X. XXXXX, La disciplina sanzionatoria del licenziamento invalido, dalla legge n. 604 del 1966 al Jobs Act, modificato dal decreto dignità, alla Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194, in Il Giuslavorista, focus del 20 novembre 2018, che si chiede «se il giudice possa applicare la sentenza della Corte costituzionale in pejus, cioè determinare l’entità dell’indennità risarcitoria in misura inferiore all’originario criterio indicato dall’art. 3, primo comma, precedente alla dichiarazione di incostituzionalità», prospettando al riguardo il caso di un lavoratore «con più di diciotto anni di servizio, e di profili di
Deve allora ritenersi che, ancorché non rappresenti propriamente un criterio sovraordinato in senso gerarchico57, il parametro dell’anzianità di servizio del lavoratore serva tuttora a determinare – entro il minimo e il massimo fissati dalla legge – la base di partenza della quantificazione dell’indennità risarcitoria, che dovrà essere (in ipotesi) elevata dal giudice nel caso concreto tenendo conto, con congrua motivazione, di tutti gli altri parametri desumibili dal sistema e considerati dalla Corte costituzionale58. Se non ha in senso proprio una prevalenza gerarchica in termini qualitativi, il criterio dell’anzianità di servizio continua perciò ad avere, nell’art. 3, comma 1, una priorità logica59, semplicemente perché, nell’impianto del decreto, esso è in via generale deputato a fissare il meccanismo «basico», per così dire, di indicizzazione dell’indennità risarcitoria60. Non a caso la Corte costituzionale non ha esteso la dichiarazione di illegittimità alla previsione di cui all’art. 1, comma 7, lett. c), della l. delega n. 183 del 2014, che rimane dunque in vigore là dove contempla, in favore del lavoratore, «un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio».
Quanto agli altri parametri, diversi e ulteriori rispetto a quello logicamente prioritario dell’anzianità di servizio del lavoratore, è la stessa sentenza della Corte ad indicarli con sufficiente precisione in motivazione61, traendoli agevolmente dal sistema che si è consolidato in tema di licenziamento illegittimo a partire dalla l. n. 604 del 1966. La Corte fa espresso e chiaro riferimento al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica, al comportamento e alle condizioni delle parti62, con rinvio sostanziale – e per così dire sintetico e sincretico ad un tempo – alle corrispondenti previsioni tanto della l. n. 604 del 1966 quanto dell’art. 18 St. lav. Onde si può ritenere che la indicazione di detti criteri – che naturalmente non
illegittimità di lieve entità». Sennonché, laddove la Corte indica al giudice di considerare innanzi tutto l’anzianità di servizio del lavoratore, prescrive allo stesso di muovere da tale parametro quale base di calcolo dell’indennità risarcitoria, la quale dovrà essere (eventualmente) innalzata ove rilevino, ma appunto solo in melius, anche gli altri criteri di valutazione, da applicare alla stregua di una adeguata (e motivata) ponderazione nel caso concreto.
57 V. in tal senso X. XXXXXXX, Il valore del lavoro, cit., p. 350.
58 Cfr. gli artt. 8 della l. n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, l. n. 108 del 1990) e 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970 (come novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b, l. n. 92 del 2012), ma anche, a rigore, l’art. 30 della l. n. 183 del 2010, pure non evocato dalla Corte costituzionale.
59 In senso analogo, ma con diversi argomenti, M.T. CARINCI, La Corte costituzionale, cit., p. 1063; X. XXXXXXX, L’incostituzionalità, cit., p. 21, secondo cui il criterio della anzianità, in quanto logicamente prioritario, «dovrebbe essere considerato base inderogabile di partenza impeditiva di una quantificazione in peius». Pur senza pervenire alle conclusioni qui raggiunte, assegnano un rilievo prioritario al criterio della anzianità di servizio anche X. XXXXXXXXXXX, I criteri legali, cit., pp. 80-81; X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., p. 161; XXXXX, Le tutele, cit., p. 207.
60 È la medesima conclusione cui perviene X. XXXXXXX, Licenziamento ingiustificato, cit., p. 242, che così sintetizza la sua posizione: «La soluzione prospettata si risolve, quindi, nel considerare l’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, come una misura minima e non rigidamente predeterminata in modo fisso (come avveniva nel testo originario). Misura, quindi, incrementabile ove il lavoratore ne dimostri l’inadeguatezza riscontrata ed ancorata a parametri più ampi ed articolati rispetto a quello, esclusivo (prima che automatico), dell’anzianità».
61 In senso contrario, come già rammentato, X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., p. 158.
62 Cfr. il punto 15 del Considerato in diritto della sentenza.
esclude, di per sé, il riferimento anche ad altri parametri, egualmente desumili dal sistema in via integrativa della norma di xxxxxxx00 – vincoli il giudice, che sarà dunque tenuto a soppesarne, alla stregua delle risultanze probatorie del processo64, l’effettiva rilevanza nel caso concreto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo (come si può desumere, in via analogica, dall’art. 18, comma 5, St. lav.).
Per quanto ne risulterà difficile e disagevole la prospettazione in concreto, per gli stringenti limiti del «nuovo» giudizio di cassazione, non sembra dunque in astratto neppure precluso il controllo sul corretto utilizzo di tali criteri in sede di legittimità sotto il profilo della violazione o della falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c.65, quantomeno nel caso limite di totale pretermissione del criterio – come detto logicamente prioritario (e, dunque, indefettibile e necessariamente operante) – della anzianità di servizio del prestatore di lavoro66.
5. Le questioni irrisolte del d.lgs. n. 23 del 2015. La sentenza n. 194 del 2018 lascia peraltro irrisolti molti nodi, sui quali – in mancanza di un nuovo intervento correttivo del legislatore – sarà con ogni probabilità necessario ricorrere nuovamente al vaglio di legittimità costituzionale.
Il primo di essi attiene al disposto dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, che la sentenza non tocca per difetto di rilevanza della relativa questione nel giudizio a quo67. Con tale disposizione, nella medesima logica di comprimere quanto più possibile la discrezionalità giudiziale che era sottesa alla predeterminazione di un criterio di liquidazione dell’indennità risarcitoria rigidamente forfettizzato e standardizzato, il legislatore del 2015 ha escluso, per i licenziamenti disciplinari, qualunque valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità dell’infrazione, imponendo al giudice di limitare il proprio accertamento ai fini dell’eccezionale applicazione del rimedio reintegratorio alla insussistenza – testualmente – del «fatto materiale».
63 È il caso, ad esempio, di quello previsto dal comma 7 dell’art. 18 St. lav. per il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, ove si fa riferimento alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione (mentre non vale quello relativo al comportamento delle parti nell’ambito della procedura prevista dall’art. 7 della l. n. 604 del 1966, visto che tale xxxxx è inapplicabile ai rapporti di lavoro assoggettati alla disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015).
64 Quanto agli oneri deduttivi e probatori occorre ritenere – con X. XXXXXXXXX, Tutele crescenti, cit., p. 253 – che: «per l’anzianità di servizio l’onere della prova spetta al lavoratore; per i dipendenti occupati e per la dimensione dell’attività economica l’onere spetta al datore in quanto parte più vicina alla prova (cfr. Cass., Sez. Un., 10 gennaio 2006, n. 141, relativa ai requisiti dimensionali previsti per il licenziamento); per il comportamento e le condizioni delle parti l’onere spetta a ciascuna parte (ad es. il lavoratore può dedurre e provare la sua disoccupazione involontaria o il numero dei familiari a carico; il datore di lavoro può dedurre e provare che gli introiti dell’azienda sono pochi o negativi)».
65 Coerentemente diversa è, sul punto, la conclusione cui perviene X. XXXXXX, La Corte costituzionale, cit., p. 160.
66 Mentre è più difficile immaginare, a fronte del vigente testo dell’art. 360 c.p.c., che possa senz’altro operare, come ritiene invece X. XXXXXXX, Correzioni di rotta, cit., p. 24, «il principio di carattere generale, da tempo precisato in giurisprudenza, secondo il quale la determinazione tra il minimo e i massimo della misura dell’indennità risarcitoria spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria».
67 V. il punto 5.1.3.1 del Considerato in diritto della sentenza.
La norma del secondo comma dell’art. 3 ha invero una genesi ideologica che non si fatica a individuare in quella irresistibile insofferenza verso la discrezionalità valutativa del giudice che caratterizza – più di altri – gli approcci ispirati alla razionalità strumentale della law and economics68, costruiti sul mito di un diritto certo in quanto calcolabile, misurabile, esattamente predeterminabile ex ante perché interamente iscrivibile dentro la logica del calcolo numerico. Appunto nella medesima logica che ispirava la scelta di commisurare meccanicamente alla sola anzianità di servizio del lavoratore l’entità dell’indennità risarcitoria, anche l’art. 3, comma 2, aspira, in certo senso, ad una qualche forma di automatismo volto a restringere al minimo la discrezionalità valutativa del giudice, visto che impone a quest’ultimo di limitare l’accertamento ai fini dell’eccezionale applicazione del rimedio reintegratorio alla insussistenza del mero «fatto materiale», escludendo qualunque valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità della infrazione.
Questa logica aveva provato come noto a farsi strada anche nella interpretazione del nuovo art. 18 St. lav., ove una parte della dottrina si era applicata a dimostrare cha la insussistenza del fatto addebitato o posto a base del licenziamento, di cui ai commi 4 e 7 della disposizione novellata dalla l. n. 92 del 2012, dovesse essere inteso come fatto materiale (e non «giuridico»), oggettivato o reificato al punto da escludere – secondo i più rigorosi – qualunque considerazione del profilo psicologico dell’agente nella realizzazione della condotta (la coscienza e la volontà dell’evento, il dolo o la colpa, lieve o grave che fosse, oltre che, naturalmente, qualunque elemento contestuale incidente sulla entità della rilevanza in termini di inadempimento contrattuale)69. La tesi era stata tuttavia subito confutata – con insuperabili argomenti testuali e sistematici – da un non meno
68 «Una teoria giuridica senza il diritto», nella fulminante definizione di X.-X. XXXXXXXXXX, A Legal Theory without Law, Xxxxxxxx, 0000.
69 La prima illustrazione della tesi si trova in X. XXXXXXX, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, I, p. 415 ss., poi seguito – ancorché con talune sfumature – da altri autori, tra i quali: X. XX XXXX XXXXXX, Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura, in RIDL, 2012, II, p. 1064 ss.; X. XXXXXXX, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in ADL, 2012, p. 613 ss.; X. XXXXXXXX, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, ivi, 2013, p. 66 ss.
consistente filone dottrinario70, al quale era presto giunto il conforto – sempre decisivo – della dominante giurisprudenza, prima di merito71 e poi di legittimità72, formatasi sul nuovo art. 1873.
La ventura volle tuttavia che proprio nei giorni in cui i tecnici del Governo Xxxxx erano all’opera per vergare il testo del decreto attuativo, la Corte di cassazione – con un obiter dictum peraltro del tutto contradditorio rispetto alla ratio della decisione74 – si avventurasse ad affermare che «il nuovo art. 18 ha tenuta distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione»; conseguendone che la «reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi come fatto materiale»; con la ulteriore conseguenza – si noti il passo finale – «che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato»75.
La eco di questo obiter è subito risuonata nel testo dell’art. 3, comma 2, del decreto: ed invero, come un «dilettante di sensazioni»76, il legislatore delegato si lasciò volentieri suggestionare da questa inattesa (e isolata) apertura della Cassazione alla teoria del fatto materiale, della cui esistenza o inesistenza in rerum natura il giudice sarebbe chiamato a prendere atto, senza potersi avventurare nei terreni proibiti delle valutazioni di proporzionalità.
A prima lettura, la norma sembrerebbe dunque imporre al giudice di fermarsi alla constatazione del nudo fatto, con il solo temperamento – ammesso dagli stessi fautori di tale lettura, che
70 Cfr. ex multis, tra i primi, X. XXXXXXX, Il legislatore e il giudice: l’imprevidente innovatore ed il prudente conservatore (in occasione di Trib. Bologna, ord. 15 ottobre 2012), in ADL, 2012, p. 773 ss.; ID., Ripensando il nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ivi, 2013, p. 461 ss. X. XXXXXXX, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 St. lav. Ratio ed aporie dei concetti normativi, ivi, 2012,
p. 785 ss.; X. XXXXXXXX, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, I, p. 521 ss.; nonché soprattutto
X. XXXXX, Xxxx’ingiustificatezza aggravata del licenziamento, in RGL, 2014, I, p. 425 ss., e X. XX XXXX, Riforma della tutela reale contro i licenziamenti al tempo delle larghe intese: riflessioni su un compromesso necessario, in RIDL, 2013, I, p. 1 ss. (e ID., La disciplina dei licenziamenti fra tradizione e innovazione: per una lettura conforme a Costituzione, in ADL, 2013, p. 1345 ss.).
71 Già a partire dalla primissima ordinanza di T. Bologna, 15 ottobre 2012, in RIDL, 2012, II, p. 1049 ss., con commenti di
M.T. CARINCI, Il licenziamento non sorretto da giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele previste dall’art. 18 St. lav. alla luce dei vincoli posti dal sistema; X. XXXXX, La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della legge n. 300/1970: tanto rumore per nulla?.
72 Un primo accenno adesivo era giunto, sia pure come obiter dictum, già da Xxxx., 7 maggio 2013, n. 10550; v. poi – per la consacrazione di tale posizione – Cass., 10 maggio 2018, n. 11322.
73 Per una rassegna completa delle posizioni della giurisprudenza si fa rinvio a X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXX, Novità giurisprudenziali sull’art. 18 St. lav., in Treccani - Il libro dell’anno del diritto 2019, Xxxx, 0000, p. 325 ss.
74 V. infatti il commento di X. XX XXXX, Fatto materiale e fatto giuridico nella riforma della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi: note minime sulla prima sentenza in materia della Corte di Cassazione, in ADL, 2014, p. 1279 ss.
75 Così Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in ADL, 2014, p. 1381 ss., qui p. 1385.
76 Per evocare – con altrettanta libertà di suggestioni – il celebre giudizio di Xxxxxxxxx Xxxxx sulla poetica dannunziana.
addirittura ne ricavano a ritroso argomenti interpretativi utili per lo stesso art. 1877 – della minimale consistenza disciplinare e della imputabilità subiettiva dell’evento al suo autore. Ci sembra, in buona sostanza, la conclusione cui ora pragmaticamente perviene – in via di interpretazione costituzionalmente orientata della norma – la stessa Corte di cassazione, laddove chiarisce come, «pur dovendosi valutare il tenore letterale della nuova disposizione, nondimeno sia parimenti indubitabile che le espressioni utilizzate (id est: fatto materiale contestato) non possano che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 e che costituisce, all’attualità, diritto vivente»78. Il medesimo «criterio razionale» che ha indotto la Corte di cassazione a ritenere che, «quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere della illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015»79.
Questa minimale ortopedia interpretativa non sembra, però, ancora sufficiente a restituire alla previsione un significato conforme al canone di ragionevolezza immanente del precetto di cui all’art. 3 Cost. Ed invero, anche dando per assodato che il riferimento al «fatto materiale» debba essere inteso come a un «fatto-inadempimento» – ovvero come necessaria contestazione di un fatto almeno astrattamente idoneo a integrare gli estremi della giusta causa (art. 2119 c.c.) o del giustificato motivo soggettivo (art. 3, l. n. 604 del 1966)80 –, in forza della precisa formulazione lessicale della norma resta la ineliminabile irragionevolezza del criterio adottato per la selezione delle tutele, visto che – avendo anche eliminato il riferimento alle previsioni disciplinari dei contratti collettivi, presente invece nell’art. 18, comma 4, St. lav. – il secondo comma dell’art. 3 finisce comunque per trattare in modo fortemente differenziato situazioni analoghe sotto il profilo della qualificazione (e del connesso disvalore) giuridico dell’atto datoriale di recesso; e ciò
77 V. infatti X. XX XXXX XXXXXX, Licenziamento, cit., p. 272, che (ricavandone piuttosto arditamente un implicito effetto di
«interpretazione autentica» del quarto comma dell’art. 18 St. lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012) chiarisce come «la nuova disciplina del licenziamento, così per i lavoratori occupati alla data del 6 marzo 2015 come per quelli assunti dopo tale data, postula due distinte operazioni concettuali»: la prima, diretta a una «ricognizione della ricorrenza di una causa legittimante il licenziamento disciplinare»; la seconda (condizionata all’acclarata illegittimità del recesso) volta alla sola «verifica della sussistenza/insussistenza del fatto», e finalizzata alla selezione del «meccanismo sanzionatorio applicabile» (indennità o reintegrazione). Onde l’edulcorazione della tesi del puro «fatto materiale», nella misura in cui esso (oltre che soggettivamente imputabile in quanto assistito da un minimum di volontarietà e consapevolezza) deve per l’appunto avere «un sia pur minimo rilievo disciplinare» (sempre X. XX XXXX XXXXXX, Licenziamento, cit., p. 280; nello stesso senso X. XXXXXXX, Il regime sanzionatorio, cit., pp. 324-325; X. XXXXXXXX, Xxxxxxxxx, cit., p. 393 ss.; X. XXXXX, La nuova disciplina dei licenziamenti e le fonti internazionali, in ADL, 2015, p. 566 ss.).
78 Cass., 8 maggio 2019, n. 12174, al punto 5.3 della motivazione.
79 Così in sentenza, al successivo punto 5.4 della motivazione.
80 Cfr. X. XXXXXX, I licenziamenti, cit., p. 516 ss.
proprio perché, nei casi in cui trova applicazione il solo indennizzo risarcitorio, anche «un inadempimento di esigua importanza può provocare la definitiva cessazione del rapporto, seppure accompagnata da una sanzione puramente indennitaria»81. Onde, anche così interpretata, la disposizione del secondo comma dell’art. 3 continua ad esprimere una regola irrazionale82, visto che neppure in tal modo si riesce a fornire un adeguato fondamento razionale al criterio discretivo adottato dal legislatore.
La sentenza in commento non tocca, inoltre, sempre per difetto di rilevanza nel giudizio a quo83, l’art. 4, sul quale non è intervenuto neppure il «decreto dignità». Ne consegue che, nelle ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 St. lav., la misura dell’indennità – compresa tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto – resta rigidamente correlata alla sola anzianità di servizio del lavoratore84, senza che al giudice sia consentito graduarne l’importo in relazione anche alla gravità del vizio formale o procedurale (come è invece previsto dall’art. 18, comma 6, St. lav.).
Nell’evidente impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente adeguata di fronte al chiarissimo tenore letterale della disposizione, sarà allora inevitabile prospettare di nuovo la relativa questione alla Corte costituzionale, visto che l’art. 4 impone di utilizzare quel medesimo meccanismo rigido e standardizzato, del tutto insensibile alle peculiarità del caso concreto, che la Corte ha censurato ex art. 3 Cost. Ma v’è anche da chiedersi, più al fondo, se sia ragionevole la scelta di svalutare a tal punto il rilievo sanzionatorio delle violazioni formali e procedurali rispetto quelle sostanziali, da prevedere per le prime una soglia minima e un tetto massimo che, dopo il
«decreto dignità»85, sono pari a un terzo (e non più alla metà, come avviene invece nell’art. 18, comma 6, St. lav.) di quelli previsti per le seconde (rispettivamente due contro sei e dodici contro trentasei mensilità).
Rimane poi il vulnus in tema di licenziamenti collettivi, visto che il rimedio previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, pur dopo l’adeguamento legislativo e la correzione della Corte costituzionale, appare afflitto da profili di irragionevolezza senz’altro aggravati rispetto a quelli che inficiavano il primo comma dell’art. 3. Da un lato, infatti, appare qui addirittura esaltata – e
81 X. XX XXXX XXXXXX, Licenziamento, cit., p. 271.
82 Seppure come auspico di riforma, e quindi in una prospettiva de iure condendo, anche X. XXXXX, Il diritto stocastico, cit., p. 275, ritine necessario superare una tale «asperità» – che è presente anche nell’art. 18, ma che nell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 si presenta in forma accentuata – e «prevedere la tutela reale anche in caso di inadempimento di scarsa importanza ex art. 1355 c.c. (oltre che in caso di “insussistenza del fatto contestato”)».
83 V. il punto 5.1.1 del Considerato in diritto.
84 Una mensilità per ogni anno di servizio.
85 Il legislatore del 2018 (art. 1, comma 1-bis, del «decreto dignità», come integrato in sede di conversione) ha invece opportunamente curato di adeguare le misure minima e massima dell’offerta conciliativa di cui all’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, portandone l’importo, rispettivamente, a tre e ventisette mensilità.
quindi viepiù ingiustificabile – la disparità di trattamento tra «vecchi» e «nuovi» assunti86, laddove, di fronte ad uno stesso licenziamento collettivo affetto dai medesimi vizi sostanziali di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, solo ai primi la legge riserva la tutela reintegratoria (con lo speciale rito regolato dai commi da 48 a 68 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012), lasciando viceversa ai secondi (che dovranno introdurre il ricorso nei modi ordinari) quella meramente indennitaria. D’altro lato, la norma appare anche internamente incoerente, nella misura in cui riunifica sotto un unico regime vizi (rispettivamente procedurali e sostanziali) cui il legislatore recente (sia della
l. n. 92 del 2012 che dello stesso d.lgs. n. 23 del 2015) mostra di voler per contro attribuire un diverso disvalore giuridico, con conseguente differenziazione della intensità dei rimedi applicabili.
A fortiori dopo l’intervento del legislatore e della Corte costituzionale spicca, inoltre, l’assoluta inidoneità delle previsioni dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ad apprestare rimedi adeguati contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. Non è qui neppure il caso di dire della palese inadeguatezza della misura minima dell’indennità, visto che essa rimane inferiore a quella (originariamente di quattro mensilità) di cui al primo comma dell’art. 3, che la stessa sentenza n. 194 del 2018 ha ritenuto inidonea a soddisfare un’effettiva funzione riparatoria e dissuasiva87, pur non traendone poi le necessarie conseguenze sul piano della declaratoria di illegittimità costituzionale di tale ultima previsione88.
Ma nella specie è sicuramente inadeguata anche la misura massima89. Il tetto massimo dell’indennità non può infatti mai superare, ai sensi dell’art. 9, le sei mensilità, con uno scarto che
86 Si usa questa espressione per mere esigenze di brevità, ma è bene rimarcare come si tratti di una semplificazione che potrebbe risultare fuorviante ove le si desse il significato di valorizzare (come ha fatto, errando, la sentenza n. 194) l’importanza del
«fluire del tempo», visto che – come si è più volte ripetuto – il mero accidente temporale dell’assunzione prima o dopo il 7 marzo 2015 svela tutta la sua inidoneità a giustificare un diverso trattamento tra le due situazioni, che sono sotto ogni profilo sostanziale tra loro identiche. Anzi, la grande livella del fluire del tempo è destinata negli anni ad accentuare l’insensatezza della disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti, come sono pronti ora ad ammettere – di fronte all’incongruo assetto vigente dopo le «correzioni» del d.lgs. n. 23 da parte del legislatore e della Corte costituzionale – anche coloro che prima negavano qualunque problema di compatibilità con l’art. 3 Cost. (v., sintomaticamente, X. XXXXXX, La Xxxxx xxxxxxxxxxxxxx, xxx.,
x. 000, x X. XXXXXXXXX, Tutele crescenti, cit., p. 253, che oggi stigmatizzano l’irragionevole discriminazione a sfavore dei
«vecchi» assunti, ma che ieri negavano quella, assai più macroscopica, che il Jobs Act imponeva a svantaggio dei «nuovi»).
00 X. xxxx X. XXXXXX, Xx Jobs Act, cit., p. 171.
88 Questa palese contraddizione tra motivazione e dispositivo è stata già messa criticamente in evidenza supra, alla nota 52.
89 La Corte ha invece escluso che sia inadeguato il tetto massimo, già di 24 e ora di 36 mensilità, previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, con valutazione che è stata tuttavia criticata per non aver tenuto in considerazione che, alla stregua dell’art. 24 della Carta sociale europea, laddove sia prescelta la strada della tutela soltanto monetaria, non sono in linea di principio consentiti limiti massimi al risarcimento, dovendo questo essere integrale [v. in particolare M.T. CARINCI, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel «Jobs Act», e oltre, cit., p. 24; per una analoga conclusione, sebbene con diversa argomentazione, anche X. XXXXXXXX, La sentenza, cit., p. 128, secondo cui
«un’indennità risarcitoria che non può, comunque, superare l’importo di trentasei mensilità della retribuzione (e che è anche sottratta alla contribuzione previdenziale) non è in grado, nella quasi totalità dei casi, di risarcire adeguatamente la perdita, il mancato guadagno e i danni subiti da chi ha visto violato il suo diritto a non essere licenziato se non per giusta causa o
non solo appare eccessivo rispetto a quanto previsto per i datori di lavoro di maggiori dimensioni dal primo comma dell’art. 3, ma che rimane significativo anche rispetto a quanto consente l’art. 8 della l. n. 604 del 196690. Ci sembra palese come un tale irrisorio limite massimo, per di più ormai assai vicino alla soglia indennitaria minima91, non risulti idoneo – specie se raffrontato con quanto prevede per situazioni omologhe l’art. 8 della legge n. 604 del 1966 – a soddisfare il test di adeguatezza e dissuasività così come articolabile, in particolare, alla stregua dell’art. 24 della Carta sociale europea92.
Le osservazioni appena svolte – ma altre ne se potrebbero aggiungere, su profili non necessariamente minori93 – sono sufficienti a suffragare l’amara riflessione, stavolta coralmente condivisa da tutti i commentatori della sentenza n. 194 del 2018, a prescindere dagli orientamenti di politica del diritto degli uni o degli altri, circa lo sconfortante stato dell’arte della disciplina italiana dei licenziamenti: un quadro vagamente dadaista del quale il meglio che si possa dire è che ne «emerge una disciplina totalmente priva di ragionevolezza»94. Ed è vero che oggi, dopo il
«decreto dignità» e la sentenza della Consulta, le imprevedibili combinazioni cui può dar luogo la lotteria legislativo-giudiziaria nei singoli casi non sono necessariamente sfavorevoli a coloro cui trova applicazione il d.lgs. n. 23 del 201595: i quali – in non poche circostanze (e con un po’ di fortuna) – potrebbero infatti ottenere monetizzazioni decisamente più consistenti degli omologhi
giustificato motivo»]. Ma va pragmaticamente «riconosciuto che i 36 mesi di retribuzione come limite all’indennizzo fissati dal
c.d. decreto dignità sono un tetto molto alto, anche considerando quanto previsto nella legislazione degli altri ordinamenti europei» (così X. XXXXXXXXX, Il licenziamento, cit., p. 9).
90 Visto che tale disposizione consente di maggiorare la misura massima dell’indennità fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 per quello con anzianità superiore ai venti, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici lavoratori.
91 Che, essendo d’importo dimezzato rispetto a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, deve ritenersi pari, ora, a tre mensilità. Onde, ex art. 9, comma 1, il giudice avrà a disposizione, per graduare la misura dell’indennizzo, un range contenuto (soltanto) tra le 3 e le 6 mensilità.
00 Xxx. X. XXXXXXXXX, Xx licenziamento, cit., p. 8 ss., spec. p. 9.
93 Si pensi, ad esempio, all’incongrua costellazione che regge gli aspetti di carattere procedurale o propriamente processuale, per i quali varrà la pena di ricordare che ai licenziamenti cui è riferibile la disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015 non sono applicabili né l’art. 7 della l. n. 604 del 1966 (come modificato dalla l. n. 92 del 2012), né i commi 48 e seguenti dell’art. 1 di tale ultima legge (il cosiddetto «rito Fornero»), mentre è applicabile la previsione sul meccanismo di conciliazione fiscalmente agevolata di cui all’art. 6 del decreto, che, però, nonostante l’adeguamento previsto dalla l. n. 96 del 2018, dopo la sentenza della Corte costituzionale ha probabilmente perso parte della sua «attrattività». Anche in questo caso è difficile trovare una giustificazione razionale a tali differenze di regime applicabile.
94 È la sobria osservazione M.T. XXXXXXX, op. ult. cit., p. 26. Ma, come detto, l’osservazione è comune: v. ad es. A. VALLEBONA,
Tutele crescenti, cit., p. 253.
95 V. ad es. X. XXXXXX, Il Jobs Act, cit., p. 172, che ricorda come ora, per i nuovi assunti, la tutela può esser «tale da poter sopravanzare in concreto quella ottenibile dai vecchi assunti, in un singolare rovesciamento di prospettiva».
cui si applica l’art. 18 St. lav.96. Questi ultimi, di converso, continuano certamente a vantare, rispetto ai «nuovi assunti»97, maggiori chances di accesso alla tutela reale, essendo questa sempre esclusa nel d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti economici; ma si è già visto come per i licenziamenti disciplinari, nonostante la diversa formulazione lessicale delle norme di riferimento, le differenze si siano già assottigliate per effetto della interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata messa prontamente in opera dalla Suprema Corte98.
È dunque pienamente condivisibile la pressoché corale invocazione di una complessiva riforma del sistema, da parte di un avveduto legislatore, che riporti un minimo di razionalità a partire, quantomeno, dalla eliminazione delle più ingiustificabili differenze di trattamento99. Ed ha probabilmente ragione Xxxxxxx Xxxxxxxxx nel chiedere – provocatoriamente – senz’altro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015100. Qui, nel concludere la nostra analisi, vogliamo essere ancor più provocatori, e per questo – consapevoli del fatto che certi appelli sono comunque destinati a cadere nel vuoto, anzitutto per l’introvabilità di quel legislatore illuminato e avveduto cui sono idealmente rivolti – invochiamo senza meno anche l’abrogazione del comma 42 dell’art. 1 della l. n. 92 del 2012, con il ritorno all’art. 18, se non d’antan, almeno pre-Fornero.
96 Visto che, per loro, il tetto risarcitorio per il licenziamento ingiustificato sale da 24 a 36 mensilità retributive: una differenza ragguardevole.
97 Non dobbiamo ripetere in quale senso – limitato e, per così dire, brachilogico – usiamo qui questa espressione (v. sopra, nota 86).
98 X. xx xxx xxxxxx xxxxxxxx x. 00000 del 2019.
99 V. ad es. gli spunti offerti al riguardo da X. XXXXX, Il diritto stocastico, cit., p.p. 274-275, e da X. XXXXXXX, Il licenziamento, cit., pp. 292-294.
100 X. XXXXXXXXX, Tutele crescenti, cit., p. 254.