LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TERMINE DOPO LA LEGGE 247 DEL 2007
Università “X. x'Xxxxxxxx”
Dipartimento di Scienze giuridiche
La riforma del contratto a termine dopo la legge 247 del 2007
di Xxxxxxx Xxxxxxxx
N° 6 / 2008
XXXXXXX XXXXXXXX
Ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Chieti Pescara
LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TERMINE DOPO LA LEGGE 247 DEL 2007
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La diffusione dei contratti a termine al momento della riforma. – 3. La
«storia» della legge (le «Linee guida» del Governo ed il Protocollo del 23 luglio 2007). – 4. La concertazione della l. 247/2007 e le finalità perseguite dal legislatore. – 5. Il contratto a t. indeterminato come “regola” e la conferma delle esigenze temporanee del lavoro a termine. – 6. La fissazione di un «tetto» alla reiterazione dei contratti a t. determinato ed il limite temporale massimo per rapporti a termine (art. 5, comma 4 bis, d.lgs. 368/2001). – 6.1. Il criterio di calcolo
dei 36 mesi e la durata nel tempo del limite triennale. – 6.2. Le esclusioni dal «tetto» dei 36 mesi: le mansioni diverse e non equivalenti. La frode alla legge – 6.3. (Segue) Le tipologie contrattuali a termine escluse dal limite alla reiterazione. – 7. La possibilità di deroga al «tetto» dei 36 mesi ed i
limiti collettivi alla durata del contratto a termine in deroga. – 8. Il regime sanzionatorio.
1. La legge 24 dicembre 2007, n. 247, che è finalizzata ad attuare il Protocollo del 23 luglio 2007 stipulato tra sindacati e Governo, modifica il d.lgs. 368/2001 in tema di contratto a termine (art. 1, commi da 39 a 43). Questo saggio si propone di analizzare alcune delle innovazioni introdotte. Per ragioni di spazio e per la volontà di privilegiare soprattutto le novità che incidono su aspetti della materia di carattere più generale, non mi occuperò di questioni importanti come il diritto di precedenza, i limiti quantitativi che l’autonomia collettiva può stabilire nei rapporti a termine e la disciplina transitoria1. L’analisi delle nuove disposizioni verrà effettuata nell’ambito delle regole in materia di interpretazione della legge enucleate dalla giurisprudenza. Mi porrò nell’ottica del giudice o dell’operatore del diritto che si trovano dinanzi ad un testo normativo da «decifrare» ed applicare ad un caso concreto. Mi rendo conto che questi criteri interpretativi sono discutibili e che su essi vi è ampio dibattito2. Ma è altrettanto vero che, come dimostrano le numerose sentenze sull’art. 12 delle
1 Ringrazio Xxxxxx Xxxxxxx, che pubblica in questo stesso fascicolo un saggio sulla riforma del contratto a termine introdotta dalla l. 247/2007 e con il quale ho avuto un proficuo scambio di opinioni, non sempre coincidenti.
2 Si rinvia, per tutti, a X. XXXXXXX, L’interpretazione della legge, Milano, 1980 e X. XXXXXXXX, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004.
«preleggi», queste sono le «regole operative» che vengono usate dai giudici quando devono applicare la legge. E’ opportuno, quindi, utilizzarle anche per fornire soluzioni pratiche dei numerosi problemi sollevati dalle nuove norme.
2. Prima di affrontare le questioni giuridiche, è opportuno fornire alcuni dati sulla diffusione dei contratti a termine. Le indicazioni provenienti dall’Istat e dal Governo mettono in evidenza che, dal 2002, vi è stata la crescita del lavoro a t. determinato3. Tuttavia, la diffusione di queste tipologie contrattuali (incluse quelle successive al 2001) dimostra che vi sono oscillazioni in aumento o in diminuzione, anche se nel 2005 – 2007 vi è stata un’accelerazione4. In sostanza le nuove riforme introdotte nel 2001 e nel 2003 hanno sicuramente inciso sull’incremento dei rapporti a t. determinato ma senza che vi sia una stata una vera e propria «rivoluzione» (almeno sino ad oggi).
Il quadro è diverso se dall’analisi delle quantità passiamo a quelle della qualità dell’occupazione a termine. Ad esempio l’Isfol, nel suo Rapporto 2007, ha rilevato che «la metà dei nuovi posti di lavoro (+ 9,7% rispetto al 2005) è a termine….» e che
«si sta dunque rapidamente modificando la composizione dell’occupazione
dipendente, dove la componente permanente perde progressivamente peso al ritmo di un punto percentuale a biennio»5. Inoltre, l’Istat rileva che la tendenza alla crescita dei rapporti di lavoro temporaneo riguarda soprattutto i giovani e le donne, sottolineando l’esistenza di «aree ad alto rischio di precarietà»6. Un dato, questo, già rilevato dalla
3 Dal 12,3 al 13,1% su tutti i lavoratori dipendenti nel 2006 (Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Occupazione e forme di lavoro precario, 13 novembre 2007, xxx.xxxxxx.xxx.xx, 7). Anche i dati disponibili nel 2007 sembrano confermare una percentuale non lontana dal 13% (esattamente il 13,6 per il III trimestre 2007 ed il 13,4 per il II trimestre 2007: si vedano le Rilevazioni sulle forze lavoro, l’ultima pubblicata il 20/12/2007, xxx.xxxxx.xx).
4 E’ stato rilevato un incremento dei rapporti a termine dal 12,3% del 2005 al 13% circa attuale, anche se vi erano state oscillazioni negli anni precedenti (dal 10,9 del 1995, al 12,7 del 2000, con un calo costante sino all’11,8 del 2004) (Occupazione e forme di lavoro precario, cit., 7).
5 Rapporto Isfol 2007, xxx.xxxxx.xx, 39.
6 Sono le parole pronunciate dal Presidente dell’Istat nel corso dell’audizione presso la Commissione Lavoro del Senato (7 novembre 2006) (p. 7) e sono riportate da X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato: la prima stagione applicativa del d.lgs. n. 368 del 2001, DLRI, 2007, 456.
Banca D’Italia e dall’Isfol7. Tra l’altro, si è osservato che «negli ultimi anni è aumentata la percentuale di permanenza nel lavoro temporaneo»8, in presenza di
«occupazioni davvero molto precarie, dentro le quali non pochi giovani rischiano di essere intrappolati»9, con possibilità assai ridotte di passare da uno (o più) rapporti instabili ad uno a tempo indeterminato10. In questo contesto, parlare di
«precarizzazione» dei rapporti di lavoro non è certo un’esagerazione.
3. Il Governo è certamente consapevole di questa precarietà e ha manifestato, anche in documenti ufficiali, la propria volontà di combattere il fenomeno e di favorire la diffusione di lavoro stabile. In tale ambito vanno inquadrate le disposizioni contenute nella legge finanziaria 2007, con agevolazioni fiscali concesse soltanto alle imprese che hanno alle dipendenze o assumono lavoratori a tempo indeterminato. E, sempre nel medesimo contesto, vanno lette le «Linee guida» per un riforma del contratto a termine emesse dall’Esecutivo nel novembre 2006. In esse si afferma che
«la forma normale di occupazione è il lavoro a tempo indeterminato» e che «tutte le tipologie contrattuali a termine devono essere motivate sulla base di un oggettivo carattere temporaneo delle prestazioni richieste». In base a tali premesse si sostiene che la nuova disciplina in materia avrebbe dovuto essere molto simile a quella precedente al d.lgs. 268/2001, con causali specifiche previste dalla legge, potere alla contrattazione collettiva di individuarne ulteriori e di fissare percentuali massime di assunzioni a termine e così via11. Le reazioni delle parti sociali sono state diverse, con
7 Si vedano i dati contenuti nel Bollettino economico n. 46, (2006, xxx.xxxxxxxxxxxx.xx, 42) dove si parla di un
26,4% di contratti a termine per i lavoratori dipendenti tra 15 e 29 anni. L’Isfol, inoltre (Rapporto, cit., 39), rileva come «il contratto di lavoro a tempo determinato è generalmente diffuso tra i giovani e le donne. A riguardo, permangono le perplessità sui rischi di precarizzazione che tali forme di lavoro comportano».
8 Occupazione e forme di lavoro precario, cit., 10.
9 X. XXXXXXX, Xxxxxx comuni e problemi reali del mercato del lavoro italiano, DLM, 7 – 8.
10 X. XXXXXXX, op. ult. cit., rileva che «i dipendenti a termine….hanno una probabilità di cadere nella disoccupazione da 2 a 8 volte superiore a quella dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato…” (8). E ad analoghe conclusioni giungono il Cnel ed altri studi (cfr. X. XXXXXXXX, L’articolazione della fattispecie, X. XXXXXXX (a
c. di), Trattato Bessone, XXIV, t. II, 161, nt.183).
11 Il testo è reperibile nei siti xxx.xxxxxx.xxx.xx. e xxx.xxxx.xx.
Vi è stata quindi l’apertura dei «tavoli negoziali», in cui si é discusso di pensioni,
di welfare in genere e di mercato del lavoro, fino alla stipula del Protocollo del 23 luglio 2007. L’accordo, contestato dalla FIOM – CGIL e da alcuni partiti di sinistra della coalizione (e firmato «con riserva» dalla CGIL, ma non in relazione ai contratti a termine), è stato sottoposto a referendum. I dati ufficiali parlano di cinque milioni e 115 mila lavoratori che hanno partecipato alla consultazione, con l’81,62% che si è espresso in senso favorevole. Il Protocollo è stato bocciato con una maggioranza molto ridotta tra i metalmeccanici (solo il 52%) e con percentuali negative in alcune grandi aziende. I risultati del referendum sono stati accolti con grande soddisfazione da CGIL, CISL e UIL13.
In seguito il Governo ha predisposto un disegno di legge che avrebbe dovuto formalizzare in atto normativo le intese raggiunte e, sollecitato dai partiti di sinistra della coalizione – che non erano d’accordo con il contenuto del Protocollo , ha introdotto delle modifiche al testo concordato con le parti sociali. Sindacati e Confindustria hanno duramente protestato per le innovazioni, ovviamente ciascuno dal proprio punto di vista. Si è quindi riaperta la fase negoziale ed alla fine l’Esecutivo ha predisposto un nuovo disegno di legge che ha trovato il pieno consenso delle parti sociali e nel quale sono stati eliminati gli elementi di contrasto (che, per i contratti a termine, avevano riguardato soprattutto la disciplina transitoria per i rapporti già in essere). Infine il 24 dicembre 2007 è stata emanata la legge 247, che riprende, nei suoi contenuti essenziali, l’accordo raggiunto14. In senso contrario, si è
12 Cisl e Uil hanno rimproverato il Governo di voler scavalcare le parti sociali ed hanno ritenuto troppo breve il periodo di tre mesi ad esse concesso per trovare un accordo, oltre a giudicare inaccettabile l’intervento legislativo. Le varie reazioni delle parti sociali sono reperibili nelle news del 4 novembre 2006 nei siti xxx.xxxxxxxxxx.xxxxxxxxx.xxx; xxx.xxxxxxxxx.xxx (6 novembre 2006) e xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
13 Per i dati sul referendum e per i commenti delle organizzazioni sindacali si rinvia alle news sul sito
xxx.xxxxxxxx.xx (12 – 17 ottobre 2007) e xxx.xxxxxxxx.xx (11 ottobre 2007),
14 La tensione tra parti sociali, Governo e Parlamento nella trasposizione in legge del Protocollo sono sottolineate anche da X. XXXXX, Le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in X. XXXXXXXX, X. XXXXX (a c. di), La nuova disciplina del Welfare, Padova, 2008, 93; X. XXXXXXX, Il contratto di lavoro a tempo
parlato di differenze sostanziali tra Protocollo e legge, con riferimento in particolare alla conversione in un rapporto a t. indeterminato15. Il confronto tra i due testi consente di confutare questa opinione, anche in relazione al sistema sanzionatorio (v. infra § 8), con differenze che non incidono sulla sostanza della disciplina concordata con le parti sociali.
4. Senza dubbio la l. 247/2007 è una legge concertata, frutto di un lungo processo negoziale «triangolare». Rispetto al modello di concertazione tradizionale – che presuppone una condivisione degli obiettivi e l’autonomia di ciascuna delle parti negoziali (Governo incluso) per quanto riguarda gli interventi attuativi dell’intesa – la codecisione ha riguardato non solo le linee guida o i principi generali della regolazione, ma ha coinvolto anche la fase di dettaglio della definizione dei singoli articoli di legge. In questo caso, probabilmente per impedire le pressioni provenienti da alcuni settori della maggioranza finalizzate a modificare un’intesa approvata da milioni di lavoratori, sindacati e Confindustria si sono fortemente impegnati affinché l’intesa raggiunta non venisse mutata in alcun elemento (anche marginale). Vi è stata quindi l’applicazione di un modello di concertazione «forte» parzialmente diverso da quello già sperimentato in precedenza16. La dura reazione delle parti sociali alle modifiche introdotte dal Governo si può comprendere se si tiene conto che è consustanziale a qualsiasi tecnica concertativa il fatto che l’Esecutivo spenda tutto il suo impegno politico affinché l’accordo venga tradotto in legge e che, quindi, costituisce una palese violazione di tale impegno presentare un progetto legislativo
determinato, X. XXXXXXX–X. XXXXXXX (a c. di), Welfare, mercato del lavoro e competitività, I Supplementi di Guida al lavoro, 2/2008, 66. Per la ricostruzione delle vicende descritte nel testo si rinvia alle news sul sito xxx.xxxxxxxx.xx (2 agosto 2007, 14 ottobre 2007, 17 ottobre 2007) e in xxx.xxxxxx.xxx.xx (21 ottobre 2007).
15 X. XXXXXXX, op. cit., 66.
16 L’attenzione delle parti sociali anche ai dettagli del testo che traduceva in legge il Protocollo nasceva dalla esistenza di tensioni all’interno del Governo, dove una parte della maggioranza non condivideva i contenuti dell’accordo e cercava di cambiarli. Vi è stata, quindi, una concertazione «forte» giustificata dalla «debolezza» di
una delle parti firmatarie del Protocollo. Sulla concertazione si rinvia a X. XXXXXXXX, Concertazione e contrattazione. Xxxxxxxx, poteri e dinamiche, Bari, 1999; ID., Istituzionalizzazione e (in)stabilità della concertazione sociale, ADL, 87 ss.
che alteri i contenuti codeterminati tra le parti. In sostanza eventuali modifiche avrebbero potuto essere inserite dal Parlamento, ma non certo dal Governo, che aveva assunto un vincolo negoziale quale «parte» di un contratto.
Le nuove disposizioni devono essere analizzate in modo approfondito. Va subito rilevato, peraltro, che la legge si pone chiaramente la finalità di limitare l’utilizzazione dei contratti a termine. Questa «intenzione del legislatore» (art. 12 disp. prel. c.c.) è
ricavabile da vari elementi connessi in primo luogo all’iter preparatorio della normativa. Si consideri, ad esempio, la volontà – ribadita nelle «Linee guida» di fare del t. indeterminato la «forma normale di occupazione» e di ritenere che il termine dovesse essere motivato da esigenze temporanee, nell’ambito di una politica, più volte
espressa dal Governo in documenti ufficiali, diretta a ridurre la precarietà connessa
alla diffusione del contratto a t. determinato. Questa finalità è stata ribadita dall’Esecutivo nel Protocollo, con la disciplina restrittiva sopra descritta. La volontà di ridurre l’utilizzazione dei contratti a termine ha poi trovato un’ulteriore conferma nella legge, che non solo ha espressamente ripreso le statuizioni contenute nell’accordo tra le parti sociali, ma le ha anche precisate con limiti ulteriori. Basta pensare, per fare un esempio, al «tetto» dei 36 mesi, per il quale si è previsto che in esso non devono essere considerati «i periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro». Lo stesso può dirsi per la sanzione della conversione in un contratto stabile, che opera non solo nel caso in cui il rapporto in deroga (oltre il limite massimo) sia stipulato senza l’assistenza del sindacato (come stabilito in sede di concertazione), ma anche nell’ipotesi «di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto»17.
La giurisprudenza prevalente ritiene che l’«intenzione del legislatore» costituisce un criterio sussidiario di interpretazione della legge, che deve operare soltanto nel caso di insufficienza del «significato proprio delle parole secondo la connessione di
17 Una delle differenze più rilevanti della legge rispetto al Protocollo è l’affidamento agli avvisi comuni della determinazione della durata del contratto a termine stipulabile oltre i 36 mesi. Qui, dunque, vi è stato un
«rafforzamento» del ruolo sindacale nel controllo del mercato del lavoro.
esse»18. Tra l’altro la mens legis non va identificata con i lavori preparatori o con le
opinioni personali di coloro che parteciparono all’elaborazione della legge (se non corrispondenti al testo legislativo19), ma deve essere intesa come «volontà oggettiva della legge»20, e deve essere desunta, oltre che dalle espressioni letterali, da un’adeguata valutazione del fondamento e dello scopo della norma21. Nel caso delle
«leggi negoziate», caratterizzate da un lungo processo contrattuale di formazione extralegislativa che ha condizionato il contenuto delle norme, ritengo che gli accordi di concertazione dovrebbero essere presi in considerazione nel processo interpretativo, anche se sempre in via sussidiaria, per comprendere la volontà del legislatore22.
Va detto, peraltro, che, per quanto attiene alle disposizioni della legge 247/2007 sul contratto a termine, i criteri sopra descritti (quello letterale, «l’intenzione del legislatore», i lavori preparatori e le vicende negoziali del processo di concertazione di cui la legge è stata l’attuazione) conducono tutti al medesimo risultato: la nuova normativa ha lo scopo di ridurre l’utilizzazione dei contratti a tempo determinato sia sotto il profilo della reiterazione temporale che della loro consistenza quantitativa.
5. L’art. 1, comma 39, della l. 247/2007 aggiunge all’art. 1 del d.lgs. 368/2001 un primo comma, secondo il quale «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di
18 Cass. 16 ottobre 1975, n. 3359; Cass. 23 settembre 1985, n. 4711; Cass. 17 novembre 1993, n. 11359; Cass. 6
aprile 2001, n. 5128; Cass. 18 agosto 0000, x. 00000 e molte altre.
19 Cass. 27 maggio 1971, n. 1571; Cass. 1 marzo 1971, n. 507; Cass. 21 maggio 1973, n. 1455; Cass. 27 febbraio
1995, n. 2230 ed altre ancora.
20 Cass. 8 giugno 1979, n. 3276, GC, 1979, I, 1616, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2230; Cass. 1 marzo 1971 n. 507; Cass. 27 aprile 1978, n. 1985.
21 Cass. 21 febbraio 1980, n. 1255, GC, 1980, I, 1625, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2230, GI, 1996, I, 1, 532 parla di «volontà obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico». X. XXXXXXXX, L’interpretazione, cit., 189, afferma che la «volontà oggettiva della legge» è «una cosa misteriosa», che
«non vuole dire nulla di preciso», se non l’irrilevanza, nell’interpretazione, dei lavori preparatori. In verità il
concetto può essere spiegato con il fatto che l’intenzione del legislatore è desumibile da elementi di carattere logico sistematico derivanti da una interpretazione non soltanto letterale delle disposizioni, ma nel loro contesto complessivo.
22 Se i lavori preparatori sono un ausilio, seppur non determinante, per ricostruire la volontà della legge (Xxxx. 1 febbraio 1974, n. 263; Cass. 20 aprile 1985, n. 2626) mi sembra che, in una normativa che sia frutto di un’attività negoziale di tipo extralegislativo, la volontà delle parti sociali assurga al medesimo valore ermeneutico in relazione alle caratteristiche specifiche di formazione della fonte primaria.
regola a tempo indeterminato»23. Si tratta dell’unica variazione della disposizione fondamentale della normativa del 2001, nella quale si prevedono le esigenze economiche ed organizzative che giustificano il termine e l’obbligo di una specifica
motivazione scritta. Pertanto è necessario chiedersi se ed in che misura l’innovazione
incida su questa disciplina. Tra l’altro, in colloqui informali con altri studiosi e operatori di diritto, si è affacciata un’interpretazione secondo la quale il limite dei 36 mesi complessivi alla reiterazione dei contratti non andrebbe letto soltanto come un argine alla precarietà, ma come espressione di una volontà della legge di operare in un senso preciso. Il legislatore avrebbe lasciato alle parti la facoltà di avere contratti a termine anche per esigenze stabili di lavoro fino al raggiungimento dei 36 mesi, oltre i quali si può stipulare un solo contratto a t. determinato ed alle condizioni previste dalla legge. Questa lettura della riforma è, a mio giudizio, assolutamente insostenibile ed é smentita da una serie di elementi di carattere letterale, logico e sistematico.
Prima di approfondire l’analisi di questi aspetti, è bene ricordare che
l’interpretazione dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 aveva dato vita ad un vivace dibattito dottrinario. Sono stato tra i primi ad affermare che la causale introdotta dalla legge implicava che il contratto dovesse essere fondato su esigenze temporanee e queste conclusioni sono state argomentate in base ad una lettura combinata della Direttiva 1999/70/CE e della normativa nazionale e con un’interpretazione condotta in coerenza con i canoni classici (testo della legge, intenzione del legislatore, necessità di decifrare la normativa nazionale alla luce della Direttiva, interpretazione sistematica e così via)24. Questa tesi è stata confutata da un diverso orientamento, secondo il quale, al contrario, il contratto a termine potrebbe basarsi anche su ragioni oggettive e non arbitrarie di lavoro xxxxxxx00. La giurisprudenza, dopo una prima importante decisione
23 La legge, invece di riscrivere l’art. 1 del decreto delegato, introducendo un primo comma e modificando a scalare la numerazione degli altri, prevede un comma «01» che lascia immutati i numeri successivi. Si è in presenza di una tecnica legislativa del tutto inusuale.
24 X. XXXXXXXX, La nuova legge sul contratto a termine, DLRI, 2001, 361 ss.; ID., Il contratto a termine. Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Milano, 2003, 399 ss.
25 Per un’analisi delle diverse teorie rinvio a X. XXXXXXXX, op. ult. cit.; X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 458 ss.; X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze
della Cassazione che ha affermato che il termine è una «deroga» rispetto al tempo indeterminato26, si è espressa in prevalenza a favore della tesi della temporaneità. Non mancano tuttavia sentenze che non richiedono le esigenze temporanee e che
legittimano il contratto a termine anche per occasioni stabili di lavoro27.
Un’importante conferma della natura temporanea delle esigenze che giustificano il termine è rinvenibile in una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea28 e per ragioni che ho altrove approfondito29.
L’applicazione dei principi in tema di interpretazione della legge («senso…fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse»,
«intenzione del legislatore», lettura logico sistematica) conduce ad affermare che la nuova normativa conferma e rafforza la tesi delle esigenze temporanee quale causa legittima di apposizione del termine. Infatti:
a) se il tempo indeterminato è la «regola» (con una formulazione che richiama
quella della direttiva 1999/70/CE sulla «forma comune del contratto»), il termine è una deroga. In caso contrario, l’espressione letterale usata dalla disposizione, e finalizzata a creare una «opposizione» rispetto a qualcosa che
….«regola» non è, non avrebbe senso. Tra l’altro, non è possibile dire oggi che questa norma possa essere considerata, come nel caso della Direttiva, una
della Corte di Giustizia, RGL, 2006, I, 698 ss.; X. XXXXXXXXX (a c. di), Giustificazione del lavoro a termine, Colloqui giuridici sul lavoro, Il sole 24 ore Pirola, 1, 2006, 9 ss.
26 Cass. 21 maggio 2002, n. 7468, RGL, 2003, II, 49.
27 Per un riepilogo dei diversi orientamenti giurisprudenziali cfr. X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 455 SS.; X. XXXXXXXX, Lavoro a tempo determinato, X. XXXX, (a c. di), Dizionario di diritto privato, Xxxxxx (xx xxxxx xx xxxxxxxxxxxxx), 0 xx. (xxxxx); X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro, cit., 695 ss.; X. XXXXXXXXXX, La riforma del lavoro a termine: una prima analisi giurisprudenziale, q. Riv., 2006, I, 327 ss.
28 X. Xxxxx. 0 xxxxxx 0000, xxxxx 000/00, XX, 2007, IV, 72.
00 X. XXXXXXXX, Xxxxxx a tempo determinato, cit., 3 ss. Anche se la sentenza non riguarda le causali del primo contratto a tempo determinato, i riferimenti, contenuti nella decisione, alla «stabilità dell’impiego…come elemento portante della tutela dei lavoratori» (punto 62), e l’impossibilità di utilizzare la reiterazione dei contratti a termine per soddisfare «fabbisogni non limitati nel tempo, ma al contrario ‘permanenti e durevoli’ » (punto 88) dimostrano indirettamente la necessità delle esigenze temporanee. Su tali sentenze e sulle recenti decisioni della Corte di
Giustizia v. X. XXXXXXXX, op. ult. cit., 706 ss.; X. XXXXXXXX, Il meccanismo sanzionatorio per l’illegittima successione di contratti a termine alle dipendenze della p.a. al vaglio della Corte di Giustizia, RGL, 2006, II, 614 ss.; X. XXXXXXXXXX, La Corte di Giustizia e gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine: il problema della legittimità comunitaria degli artt. 5 d.lgs. n. 368/2001 e 36 d.lgs. n. 165/2001, q. Riv., 2006, II, 742 ss. (a questi autori si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche).
«indicazione di contesto…e non un limite legale»30. Questa tesi non era sostenibile neanche per la fonte comunitaria31. Nella legge italiana, comunque,
il principio sopra descritto ha un carattere normativo indiscutibile, perché è
parte integrante della legge32;
b) il termine può essere apposto per ragioni economiche ed organizzative di carattere oggettivo e non rimesse alla semplice volontà delle parti del contratto. Quando il legislatore ha voluto affidare ai contraenti la libertà di scegliere se stipulare un rapporto a tempo indeterminato o a termine lo ha fatto con formulazioni diverse e senza prevedere una causale di tipo oggettivo (è questo il caso della locazione, della somministrazione di cose o del contratto di agenzia previsti dal codice civile)33;
c) le ragioni oggettive non possono essere le stesse del tempo indeterminato. Non si capirebbe, infatti, perché qualificare due tipologie contrattuali in rapporto di
«regola» e «deroga», per poi ritenere che entrambe sono basate sulle stesse
esigenze economiche ed organizzative;
d) la distinzione tra la «normalità» e la deroga deve essere effettuata in base a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e questo ci riporta alla coppia stabilità (t. indeterminato) temporaneità (termine). E’ evidente, infatti, che se il t. determinato è una «deroga», la causale economica non può essere la stessa del contratto «normale» e deve necessariamente avere contenuto diverso. Si è in presenza, quindi, di due modelli contrattuali non
«fungibili», e la distinzione tra essi – per precisa scelta del legislatore esplicitata nell’art. 1 del d.lgs 368/2001 deve essere effettuata in base a
30 X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 460.
31 Rinvio a X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 385 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 437 ss.
32 Un valore particolare alla deroga, quale elemento che conferma il carattere temporaneo della causale, è attribuito da X.XXXXXXXXX, Le novità in materia di contratto di lavoro subordinato, in GLav, 2008, 2, p. 111. In senso analogo, X. XXXXXXX, Il contratto, cit., 66 – 67. Anche X. XXXXXX (La flessibilità del lavoro dopo la legge di
attuazione del protocollo sul welfare: prime osservazioni, C.S.D.L.E.I, 68/2008), xxx.xxx.xxxxx.xx, 3 e 5) ritiene che la previsione della «regola» confermi l’eccezionalità del termine e la sussistenza delle esigenze temporanee.
33 Xxx contratti indicati nel testo la libertà di scelta tra termine e t. indeterminato è espressa con formule inequivocabili e sempre senza causali (cfr. artt. 1750, 1569, 1573 e 1574 c. c.).
ragioni economiche ed organizzative. Il che conduce al binomio t. indeterminato, che si basa sulla necessità di occupazione stabile (un’esigenza cioè, non legata a fenomeni ab origine di durata limitata nel tempo) e contratto
a termine, che deve necessariamente essere contrassegnato dalla temporaneità
La riforma, indubbiamente, si propone anche di introdurre una disciplina che realizzi l'obiettivo della direttiva 99/70/CE di evitare gli «abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato» (clausola 1, lettera b della direttiva 99/70/CE), anche alla luce della recente giurisprudenza europea35. Tuttavia, la previsione della disposizione che vede nel t. indeterminato la
«regola» persegue un obiettivo ulteriore: riaffermare il profilo causale del contratto a termine (già espresso dall'art. 1 del d.lgs. 368/2001 come norma che autorizza questo rapporto solo in presenza di ragioni oggettive), sottolineando la sua «alterità di
contenuto» rispetto al lavoro stabile. Se l'unico scopo fosse stato quello di stroncare la realtà elusiva della reiterazione dei contratti, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il comma «01» e sarebbe stato sufficiente introdurre il limite massimo dei
36 mesi36. Il che conferma, insieme alle altre argomentazioni prima descritte, il carattere temporaneo delle esigenze economiche ed organizzative37.
Quelle descritte non sono le uniche ragioni a fondamento della tesi qui sostenuta. Si é visto che la legge 247/2007 si è formata con un processo di concertazione
«forte», nel quale le «Linee guida», che costituiscono l’antecedente del Protocollo e
34 Per un approfondimento delle tematiche indicate nel testo, molte delle quali sono state già sviluppate prima della recente riforma, rinvio a X.XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 377 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 427 ss.
35 Il riferimento è alla sentenza Xxxxxxxx (v. retro note 28 e 29) che ha certamente dato impulso ad introdurre nuove disposizioni che sanzionassero in modo più radicale il divieto di abuso derivante dalla successione di contratti a termine. In tal senso anche X.XXXXXXXXX, op. cit., 112 e X. XXXXXX, op. ult. cit., 3, nt. 6.
36 In senso contrario la CONFINDUSTRIA (Circolare n. 19005/2008, 2), secondo la quale la disposizione altro non costituirebbe che la trasposizione nel nostro ordinamento del principio comunitario.
37 X. XXXXX (Le modifiche, cit., 93) afferma che in realtà il comma 01 non muta la situazione preesistente e che,
anzi, l’introduzione del «tetto» dei 36 mesi potrebbe indurre la giurisprudenza ad un’interpretazione meno rigida delle ragioni economiche ed organizzative. Mi sembra che tutte le argomentazioni svolte in questo paragrafo conducano a conclusioni opposte.
della legge negoziata, non solo ribadiscono che la «forma normale di occupazione è il lavoro a tempo indeterminato», ma si fondano sul presupposto del «carattere
temporaneo delle prestazioni» realizzate con un contratto a termine. Questo presupposto è stato esplicitato sia nell’accordo con le parti sociali che nella legge con la formula del tempo indeterminato come «regola», che costituisce quindi l’attuazione concreta della volontà di riaffermare la temporaneità delle esigenze38. D’altra parte: una legge che si propone come obiettivo esplicito quello di ridurre l’utilizzazione dei
rapporti a termine ponendo limiti massimi alla reiterazione dei contratti ed incrementando la possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre limiti quantitativi sarebbe del tutto in contraddizione con la facoltà, concessa alle parti, di
apporre il termine anche per soddisfare esigenze stabili di lavoro.
L’interpretazione proposta trova conferma in altri elementi. Nella formulazione originaria del d.lgs. 368/2001, la disciplina della proroga e delle sanzioni in caso di prolungamento del rapporto o di successione di contratti (con la conversione nel tempo indeterminato) depongono a favore della temporaneità della causale del contratto. Anche se lo scopo principale della normativa é quello di prevenire gli
«abusi» (secondo quanto già detto), la trasformazione del rapporto è una sanzione che si giustifica solo perché la protrazione del lavoro dimostra che esso tende a soddisfare esigenze di carattere permanente, non compatibili con l’esistenza di un termine39. La legge 247/2007 non muta l’assetto sopra descritto (elemento questo già di per sé significativo) e prevede la conversione del rapporto in uno a t. indeterminato quando si superano i 36 mesi, a conferma della valutazione negativa per contratti la cui reiterazione è indice della volontà di utilizzare il termine per necessità di lavoro stabile.
38 Questa conclusione, dunque, è suffragata dall’utilizzazione del criterio sussidiario di interpretazione dei «lavori preparatori», nel senso in precedenza specificato (tutto il «materiale» anche di carattere extra parlamentare che ha concorso alla formazione della legge (v. retro note da 19 a 22).
39 In coerenza anche con le conclusioni a cui è giunta la Corte di Giustizia Europea (v. retro note 28 e 29). Il tema era già stato da me altrove ulteriormente approfondito (X. XXXXXXXX, Il contratto a termine, cit., 431 – 432).
Un altro elemento importante a favore della temporaneità è dato dalla necessità che la causale economica del termine sia «consentita» solo in presenza di una
specifica motivazione scritta. Questo argomento aveva una notevole importanza anche prima della riforma del 2007 che, peraltro, gli ha attribuito un rilievo ancora maggiore. Oggi, infatti abbiamo una tipologia contrattuale espressamente qualificata come «regola» (il t. indeterminato) che non richiede alcuna giustificazione economica
ed organizzativa, anche se, in genere, essa coinciderà con la necessità di un’attività
lavorativa senza un limite temporale già predefinito. Al contrario la «deroga» presuppone ragioni oggettive che devono essere esplicitate. Se il datore di lavoro potesse apporre il termine anche per esigenze di lavoro stabile, non si comprenderebbe per quale ragione sarebbe tenuto a giustificare specificatamente per iscritto la causale economica ed organizzativa: perché controllare la motivazione del contratto se esso può essere stipulato per le stesse ragioni del t. indeterminato? E come conciliare tale possibilità con il fatto che il termine é oggi qualificato come
qualcosa di diverso dal rapporto senza scadenza finale? Solo la necessità che la
«deroga» si basi su differenti esigenze economiche ed organizzative può giustificare un obbligo così rigoroso della motivazione (la cui mancanza determina la nullità del termine: v. infra § 8). E se il t. indeterminato si collega naturalmente al lavoro stabile,
il termine non può che esprimere un contenuto differente dalla «regola» e, quindi, ragioni temporanee.
In tempi recenti si è espressa una diversa opinione sulla funzione della motivazione. La causale economico organizzativa espressa nel contratto
cristallizzerebbe «la ragione posta a fondamento dell’assunzione: il datore di lavoro potrà utilizzare il dipendente assunto a termine – diversamente da quanto avviene per il personale a tempo indeterminato – solo ed esclusivamente in funzione della ragione di assunzione», che potrebbe anche coincidere con la necessità di lavoro stabile40.
40 X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 461. Infatti, «la specifica ragione che ha motivato l’assunzione, una volta esternata, diventa parte essenziale del programma contrattuale, con la conseguenza di esporre la legittimità del termine alla verifica dell’esistenza di un nesso causale tra le ragioni dichiarate
Questa interpretazione, che è stata espressa prima della riforma del 2007, si prestava già a varie obiezioni41 e, a mio giudizio, può essere ulteriormente confutata dopo le recenti innovazioni. Una prima critica è quella che, in base a questa ricostruzione, la motivazione non sarebbe finalizzata a spiegare il «perché» del contratto a termine, ma servirebbe solo ad impedire che il lavoratore venga utilizzato per diverse esigenze
economiche od organizzative (con esclusione o notevole compressione dello ius
variandi). Una simile interpretazione determina una «svalutazione» della funzione della motivazione che, già difficilmente comprensibile in passato, sarebbe ancora meno plausibile dopo la legge 247/2007. Quest’ultima, infatti, ha la finalità di ridurre l’utilizzazione del contratto a termine e di favorire il t. indeterminato (che è la forma di lavoro «normale»). Sembra difficile poter affermare che, in un contesto normativo così restrittivo, la differenza tra le due tipologie contrattuali non debba basarsi sulla diversa natura delle causali economiche bensì nel fatto che – pur potendo entrambi i rapporti essere giustificati dalla necessità di lavoro stabile – nel termine vi sarebbe solo una maggiore rigidità nell’utilizzazione del lavoratore. Si tratterebbe di una soluzione interpretativa assai «riduttiva» rispetto agli scopi perseguiti dalla riforma.
Ma vi sono obiezioni ulteriori. La spiegazione del ruolo della motivazione qui criticata è in primo luogo contraddetta dal rigore della legge per quanto riguarda la proroga e le sanzioni in caso di prolungamento del rapporto oltre certi limiti temporali o per la successione dei contratti senza rispettare gli intervalli previsti dalla legge. Tali disposizioni sarebbero del tutto incomprensibili se la motivazione non riguardasse una
causale differente rispetto al t. indeterminato. Infatti, perché convertire il contratto se, a mansioni invariate, si lavora ventuno o trentuno giorni o, sempre in relazione alla
medesima «ragione di assunzione», non si rispettino i dieci o venti giorni di intervallo? La violazione dei limiti temporali, infatti, non inciderebbe sul contenuto dell’attività del lavoratore – che sarebbe sempre uguale e quindi «cristallizzata» e
00 X. XXXXXXXX, Xxxxxx a tempo determinato, cit., 2 ss.
non vi sarebbe la necessità di applicare la sanzione. Quest’ultima si giustifica soltanto per lo sfavore del d.lgs. 368/2001 per un uso del contratto a termine per soddisfare le
medesime esigenze che sono a fondamento del rapporto senza scadenza finale. D’altra parte, oggi è stato introdotto il comma 01 dell’art. 1 del d.lgs. 368/2001 che qualifica il tempo indeterminato come «regola». La disposizione va letta insieme a quella che
«consente» il termine solo per precise causali economiche e che impone la loro esplicitazione per iscritto. Nell’ambito, dunque, di una lettura combinata dei primi tre
commi dell’art. 1 (dopo la riforma), la motivazione è strumentale ad illustrare le
ragioni del contratto a t. determinato al fine di verificare se esse sono diverse rispetto a quelle del «normale» rapporto di lavoro. Un’interpretazione della disposizione finalizzata soltanto ad impedire una utilizzazione flessibile del lavoratore a termine presuppone la totale obliterazione di specifiche previsioni normative ed una lettura
«atomistica» della motivazione, avulsa dall’intero contesto della legge.
L’insieme delle argomentazioni sopra espresse dimostra che la riforma rafforza il carattere temporaneo delle esigenze economiche che legittimano l'apposizione del termine, con ragioni ulteriori rispetto a quelle già desumibili in precedenza. Tra l'altro, l’interpretazione qui contestata può essere confutata con altri argomenti di carattere sistematico. Se il legislatore avesse avuto l’intenzione di lasciare piena libertà all'impresa di stipulare contratti per necessità stabili di lavoro fino al limite massimo di 36 mesi avrebbe dovuto lasciare inalterato l’art. 1 del d.lgs. 368/2001 relativo alla causale (o addirittura abrogarlo), eliminare la disciplina della proroga ed il sistema sanzionatorio previsto nei commi 2 e 3 dell’art. 5 della legge ed infine introdurre soltanto il c. 4 bis e la sanzione ivi prevista (conversione del contratto in caso di violazione della procedura di derogabilità assistita o del nuovo termine di durata). Le nuove disposizioni o quelle conservate, infatti, sarebbero del tutto inutili e palesemente contraddittorie rispetto alla volontà di liberalizzare il termine nella causale, prevedendo solo un «tetto» temporale. Il contenuto profondamente diverso della nuova normativa esclude in radice la coerenza della tesi qui criticata.
6. Il nuovo comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. 368/2001 costituisce uno dei punti cardine della riforma. La disposizione prevede un limite massimo di 36 mesi per i rapporti a termine tra le stesse parti e con riferimento alle stesse mansioni o ad altre
equivalenti. Oltre questo limite è possibile stipulare soltanto un altro contratto alle
condizioni previste dalla legge42.
Il legislatore, preoccupato dell’eccessiva diffusione dei rapporti a termine, confermata da dati statistici e da ricerche43, ha introdotto limiti ulteriori rispetto alla disciplina del d.lgs. 368. La normativa del 2001 aveva indubbiamente reso più agevole il ricorso al t. determinato rispetto alla legislazione preesistente, anche se aveva ribadito la necessità delle esigenze temporanee di lavoro. La riforma parte dal presupposto che le regole vigenti non sono sufficienti ad arginare la diffusione di contratti a termine e soprattutto la loro reiterazione, con la creazione di una vera e propria «trappola nella precarietà». Accanto alla causale oggettiva di carattere temporaneo (che, come si è visto, viene espressamente confermata) viene quindi
inserito un limite soggettivo44. Anche se esistono fondate ragioni per la stipula del contratto (la sostituzione di lavoratori assenti, gli incrementi di attività in determinati periodi, la necessità di fare ricorso, per tempi limitati, a particolari professionalità ecc.), la legge impone un «tetto» massimo alla reiterazione dei rapporti. La volontà è quella di evitare che, pur a fronte di esigenze legittime, il lavoratore diventi un
«precario… a t. indeterminato». E’ vero che la riforma, in questo modo, può ridurre possibilità reali di impiego non stabile45. Ma il legislatore vuole impedire la nascita di un altro rapporto temporaneo che aggrava la «trappola della precarietà» e favorire la stabilizzazione del rapporto, oltre a reprimere gli «abusi» nella successione di
42 X. XXXXXXX, Il contratto, cit., p. 67, ritiene, con un’opinione condivisibile, che l’accordo in deroga debba essere stipulato prima del decorso dei 36 mesi. Mentre, se effettuato successivamente, avrebbe valore dispositivo del diritto alla stabilità ormai maturato per effetto del superamento del triennio.
43 V. retro note da 3 a 7.
44 In tal senso anche X. XXXXX, Le modifiche, cit., 94 – 95.
45 X. XXXXX, Le modifiche, cit., 95.
contratti a t. determinato46. In questi casi, dunque, le esigenze economiche dell’impresa cedono dinanzi alla volontà di protezione del lavoratore. Le necessità organizzative del datore di lavoro in relazione a determinate mansioni (o a quelle equivalenti) per le quali si è esaurito il limite del triennio (o la «deroga» successiva) potranno essere soddisfatte con il ricorso ad un rapporto a termine con un differente
lavoratore o con le diverse tipologie contrattuali escluse dal limite dei 36 mesi (v.
infra § 6.3).
Dopo aver ribadito la vigenza del sistema sanzionatorio contenuto nei commi da 1 a 4 dell’art. 5 del d.lgs. 368/200147, il comma 4 bis prevede che dopo 36 mesi di contratti con scadenza finale «il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2». I 36 mesi vanno calcolati «comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro». La disposizione non è chiarissima: sarebbe stato meglio utilizzare la formulazione «con esclusione» dei periodi di intervallo tra i contratti. Peraltro, il mancato computo delle interruzioni risulta anche dal fatto che il comma 4 bis riferisce il «tetto» dei 36 mesi al «rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore». Dunque, bisogna prendere in considerazione i tempi di lavoro effettivo derivante dalla «successione di contratti a termine» (anche prorogati o rinnovati) «per lo svolgimento di mansioni» e non quelli di assenza della prestazione48.
46 Vi sono settori, come quelli del terziario o delle banche, caratterizzati da elevatissimi turn over con contratti a termine molto brevi con lo stesso lavoratore, che si prolungano per anni e che costituiscono una forma tipica di lavoro precario. D’altra parte, come ho cercato già di sostenere in passato (X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 382),
l’esistenza di esigenze temporanee molto ravvicinate é espressione di una necessità costante per quel tipo di attività
ed è quindi una caratteristica «permanente» di un certo tipo di produzione. La scelta, quindi, di spingere per l’assunzione a t. indeterminato (magari part time per far fronte alla variabilità dell’intensità del lavoro richiesta) è coerente con le stesse caratteristiche organizzative dell’impresa, oltre che per ragioni di tutela del lavoratore.
47 Il comma 4 bis inizia con l’inciso «ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti», che acquista un valore sintomatico del carattere temporaneo delle esigenze che giustificano il termine.
La disposizione, infatti, lega vecchia e nuova disciplina, che esprimono la stessa logica ed i medesimi obiettivi. Non ha senso affermare la «fungibilità» tra t. determinato e lavoro stabile e poi penalizzare in misura radicale (con la conversione in t. indeterminato) il prolungamento del contratto oltre certi limiti, la successione di rapporti che non rispettino determinati intervalli o il superamento dei 36 mesi.
48 In tal senso anche X. XXXXX, Le modifiche, cit., 97; X. XXXXXXX, op . ult. cit., 68; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 7. Il riferimento al «rapporto» complessivo in opposizione ai singoli contratti potrebbe far pensare che il legislatore abbia usato il primo termine per indicare la «relazione di fatto» tra le parti in un certo arco temporale e non l’effettiva esistenza di vincoli giuridici, con la conseguenza che i periodi di intervallo andrebbero calcolati
Dal punto di vista letterale, si potrebbe sostenere che il comma 4bis riguardi soltanto la «successione di contratti a termine». Pertanto, sarebbe possibile stipulare un primo rapporto a t. determinato anche eccedente i 36 mesi (ad esempio per 4 anni),
e sempre che, comunque, vi siano esigenze temporanee da soddisfare. Solo il contratto a termine successivo sarebbe illegittimo, visto che, dopo i 36 mesi, non si è osservata la procedura di «derogabilità assistita»49. In realtà questa interpretazione si scontra,
innanzitutto, con l’intenzione del legislatore di evitare che i contratti a termine si estendano oltre il periodo massimo, con una finalità che è chiaramente dimostrata da una disciplina assai restrittiva per quanto attiene la possibilità di superare il limite
triennale50. In questo contesto, ammettere un contratto – anche se basato su esigenze temporanee – che sin dall’origine superi i 36 mesi non sembra plausibile. Tra l’altro, la tesi qui criticata condurrebbe ad esiti paradossali: si potrebbe stabilire una durata
iniziale assai lunga (ad es. 5 anni) e poi usufruire dell’ulteriore rapporto a termine in deroga. In questo modo si renderebbe ancora più evanescente la finalità di porre un
«tetto» di tre anni all’utilizzazione dei contratti a t. determinato. Va detto, peraltro,
che la tesi qui sostenuta trova conferma anche in dati testuali. Infatti, la durata del rapporto di lavoro successivo al triennio può essere stabilita soltanto «con avvisi comuni». La legge, dunque, delega soltanto l’autonomia collettiva ad «autorizzare» un termine di durata eccedente i 36 mesi e sottrae alle parti del contratto individuale la possibilità di fissare inizialmente una scadenza del rapporto che sia superiore a questo limite temporale51. Né si può sostenere che questa disposizione presuppone la "successione" di rapporti e non riguarda quindi un unico contratto iniziale. Infatti, se
nei 36 mesi. In sostanza qui «indipendentemente dai», potrebbe avere il significato di «inclusivo dei». Tuttavia, mi sembra che, quando la legge afferma che il triennio è quello che si matura per effetto della «successione di contratti» finalizzati allo «svolgimento» della prestazione ed esprima la necessità di prendere in considerazione anche «proroghe o rinnovi», vi sia la chiara volontà di computare solo il «lavoro effettivo». D’altra parte, nel senso qui contestato, la norma avrebbe dovuto parlare di semplice «rapporto» e non di «rapporto di lavoro», che presuppone la relazione contrattuale. Infine l’interpretazione qui sostenuta trova espressa conferma nel Protocollo,
dove il triennio è calcolato esclusivamente con riferimento ai contratti e non anche ai periodi di non lavoro.
49 Così X. XXXXX, Le modifiche, cit., 95. Anche X. XXXXXXX (op. ult. cit., 67) ritiene che il limite dei 36 mesi non valga per un unico contratto iniziale a termine.
50 Depongono in tal senso la «derogabilità assistita», i limiti temporali del nuovo contratto fissati dall’autonomia collettiva, la sanzione della conversione in tempo indeterminato se non si rispettano le regole e la durata.
la ratio è quella di impedire l'uso del termine oltre 36 mesi se non alle condizioni previste dalla autonomia collettiva, sarebbe incongruo che questa finalità venisse frustrata riattribuendo alle parti individuali la facoltà di superare il tetto triennale con un solo contratto52.
Un elemento letterale contrario alla tesi qui sostenuta potrebbe essere costituito dal fatto che l'art. 4 del d.lgs. 368/2001 sulla proroga, non modificato dalla legge
247/2007, prevede implicitamente la possibilità di un termine iniziale superiore ai tre
anni. La tesi era sicuramente plausibile prima della riforma. Tuttavia oggi questa disposizione va letta in coordinamento con il nuovo comma 4 bis. E l'interpretazione coordinata porta alle seguenti conclusioni: a) la proroga è possibile solo se il contratto ha meno di tre anni e fino al limite massimo dei 36 mesi; b) «la durata iniziale… inferiore a tre anni» specificata nell’art. 4 è limite che opera solo in rapporto al prolungamento del contratto e non può, in presenza di una diversa disposizione espressa che dice il contrario, essere considerato come «autorizzatoria» di un termine iniziale che ecceda il triennio53.
L’applicazione dei principi in materia di interpretazione della legge54 conferma dunque che i 36 mesi (salva l’eventuale deroga) costituiscono un limite temporale generale che opera per i contratti a t. determinato sin dalla fase iniziale di apposizione del termine. Il limite temporale massimo, inoltre, non può essere superato né per effetto della successione di contratti (art. 5, comma 4 bis) né in conseguenza di un
51 La seconda parte del comma 4bis è chiarissima: «in deroga a quanto disposto dal primo periodo del presente comma» (e cioè fino ai 36 mesi), un nuovo rapporto a termine presuppone la «derogabilità assistita» e l’«ulteriore
successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti» (stipulabile una sola volta) deve avere la «durata» definita dalle organizzazioni sindacali contrapposte. Inoltre «nel caso di superamento del termine stabilito nel medesimo contratto, il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato». Dunque la legge configura un percorso derogatorio assai rigido – con la sanzione massima della conversione in un rapporto stabile – nel quale, dopo il
triennio, per la definizione di un nuovo rapporto a t. determinato non vi è spazio per l’autonomia privata
individuale ma solo per quella collettiva.
52 La vigenza del limite dei 36 mesi sin dal primo contratto è sostenuta anche da X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 8.
53 Anche X. XXXXXX (op. ult. cit, 8) propone un’interpretazione adeguatrice dell’art. 4 del d.lgs. 368/2001 che ne consenta il coordinamento con il limite dei 36 mesi anche per il primo contratto a termine.
54 In particolare, la formulazione letterale delle disposizioni, l’intenzione del legislatore, la lettura sistematica delle norme.
unico rapporto inferiore al «tetto» e poi prolungato oltre il triennio. In quest’ultimo caso è l’art. 4 del d.lgs. 368/2001 ad impedire la proroga oltre i 36 mesi55.
6.1. La nuova disposizione non specifica come calcolare i 36 mesi. In questo caso, come nell’ipotesi del comporto per sommatoria nella malattia, devono essere considerati due termini: uno «interno» i giorni di effettivo lavoro con contratti a t. determinato e l'altro «esterno» (i tre anni). La giurisprudenza sul comporto, quando i termini sono fissati a mesi, applica la regola generale del computo secondo il
«calendario comune»56. Questo principio è sicuramente estensibile anche all'ipotesi in
cui la durata dei vari rapporti a termine è fissato in mesi. Ne deriva che, per stabilire l’estensione dei vari contratti, non si considerano i giorni, ma si calcolano i periodi temporali per intero e si passa dalla data iniziale a quella corrispondente del mese finale. Pertanto, se il rapporto inizia il 7 gennaio ed ha durata semestrale, esso scadrà il 7 luglio57. Se, invece, i singoli contratti a termine sono fissati con date iniziali e finali specifiche (ad es., 1 marzo 30 settembre), le regole descritte non sono applicabili perché il termine interno è calcolato in giorni e quello esterno a mesi (36). Ritengo allora che occorra procedere in modo diverso per l'impossibilità di utilizzare una disciplina (quella del «calendario comune») nei limiti in cui essa presuppone soltanto il computo del mese e non un'altra unità di tempo. L'unica soluzione possibile in questi casi è quella di dividere i giorni dell'anno per 365 (o per 366 se è incluso un anno bisestile) e moltiplicare il risultato per 3658. In questo modo si otterrà un numero complessivo di giorni equivalente al triennio che potrà essere posto a confronto con
55 X. XXXXX, Le modifiche, cit., 96. La disposizione, infatti, prevede che, in caso di proroga «la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni».
56 Cass. 2 aprile 2004 n. 6554; Cass. 2 agosto 1999 n. 8358. Infatti, si è in presenza di un principio – enucleabile dagli artt. 155, c. 1, c.p.c. e 2963 c.c. di portata generale in materia processuale e sostanziale (Xxxx. 12 settembre 1991 n. 9536; 25 luglio 1987 n. 6479; 2 agosto 1999 n. 8358).
57 X. XXXXXXX, Computo dei termini di prescrizione, X. XXXXXXX (a cura di), La prescrizione, t. II, Milano, 1999, 396 e 402; Cass. 12 agosto 2000, n. 10785; Cass. 27 agosto 1992 n. 9911. Inoltre, se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente a quello iniziale, il termine scadrà nell'ultimo giorno del mese (X. XXXXXXX, op. ult. cit., 402).
58 In un anno di 365 giorni, dividendo per 12, si ottiene una durata media del mese pari a 30,4 giorni. Per un’applicazione di tale principio al comporto per malattia, v. T. Milano 14 marzo 2003, LG, 2003, 886.
quelli di durata dei singoli contratti (incluse proroghe e rinnovi) per verificare se il limite massimo è stato superato o meno.
La legge non pone alcuna limitazione temporale al periodo entro il quale deve
essere preso in considerazione il «tetto» dei 36 mesi (come, al contrario, è previsto per il diritto di precedenza nelle assunzioni a t. indeterminato, che vale soltanto per un anno). Pertanto, se le parti, con rapporti a termine, hanno «consumato» 24 mesi su 36, il limite dei restanti 12 prima di raggiungere il triennio (ovviamente in relazione alle medesime mansioni o a quelle equivalenti) sarà in vigore... per sempre59. Quindi, se dopo molto tempo dall'ultimo contratto (ad esempio 3/4 anni) il datore di lavoro volesse assumere a termine il medesimo lavoratore (sempre in relazione alle stesse attività o per altre di uguale valore professionale), lo potrebbe fare soltanto per un massimo di 12 mesi e non per periodi superiori. Si tratta di un notevole irrigidimento della normativa e che forse va al di là della stessa finalità perseguita dalla legge che, per ridurre la precarietà, intende evitare l'abuso nascente dalla successione (più o meno) ravvicinata dei contratti e non introdurre un divieto assoluto e «perenne» di riassunzione a termine per il medesimo lavoratore60. Va detto, peraltro, che la formulazione letterale della disposizione e l’impossibilità, in assenza di parametri anche indiretti, di individuare un arco temporale massimo entro cui calcolare 36 mesi impongono l’interpretazione qui proposta, con una scelta del legislatore di cui si è ipotizzata l’incostituzionalità61. Il limite triennale presuppone lo «stesso datore di lavoro» e non è quindi applicabile, nel trasferimento di azienda, nei confronti del
59 In tal senso, X. XXXXX, Le modifiche, cit., 97; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., che parla di limite che riguarda «l’intera vita lavorativa» (7).
60 In questo caso, il computo dei periodi pregressi nel tetto massimo dei 36 mesi, più che costituire un «argine» alla precarietà, assumerebbe il valore di una compressione ingiustificata delle possibilità occupazionali del lavoratore. Critiche a questa scelta legislativa anche da X. XXXXX, Le modifiche, cit., 97.
61 X. XXXXX, op. ult. cit., 97. A me sembra che, ferme le critiche di merito, non si possa tacciare di incostituzionalità una disciplina che ha la finalità di incentivare lavoro stabile (nell’ambito, quindi, di una particolare lettura dell’art. 4 Cost.), anche in considerazione della discrezionalità del legislatore nello scegliere i mezzi più opportuni per perseguire la tutela dell’occupazione.
cessionario62, mentre è operante per il cedente nel caso di ritorno al vecchio datore di lavoro (che è sempre «lo stesso») con un altro contratto a termine.
6.2 Il comma 4 bis prevede che, ai fini del computo del triennio, occorre prendere in considerazione soltanto i contratti per mansioni equivalenti, con tutti i problemi teorici e pratici connessi a questa nozione63. Il riferimento ad attività di eguale valore professionale implica che devono essere computati anche i contratti riferiti a mansioni identiche, perché anche in questo caso vi è la stessa finalità di tutela.
Il limite del triennio non opera se, pur essendo coinvolti gli stessi soggetti, il contratto riguardi mansioni diverse e, quindi, in relazione a professionalità superiori o inferiori. In questo caso, infatti, poiché si è in presenza di diversi contratti, con autonomi rapporti obbligatori (salvo l’intento fraudolento), non vi sarà il divieto di
riforma in peius previsto dall’art. 2103 cod. civ., che opera soltanto all’interno dello stesso contratto a termine o a t. indeterminato. Potrà accadere che tra le parti vi sia una successione di rapporti con mansioni diverse. In base alla legge, i contratti per professionalità di livello superiore od inferiore sono esclusi dal calcolo dei 36 mesi. Ne consegue che il periodo massimo triennale potrebbe essere fortemente dilatato.
Un primo argine contro un’estensione «patologica» del «tetto» massimo è dato dalla necessità che ogni rapporto sia fondato su ragioni genuinamente temporanee
(con una riduzione, quindi, oggettiva dell’eventuale intento elusivo). Inoltre, se l’adibizione alle mansioni inferiori o superiori sarà fittizia, il lavoratore potrà sempre contestare l’accaduto e, quindi, dimostrare che anche quel rapporto a termine (relativo ad attività identiche o equivalenti) debba essere computato nei 36 mesi. Infine, il
dipendente interessato potrà tentare di dimostrare l’esistenza della frode alla legge e
sostenere che la successione di rapporti con diversi contenuti professionali o
62 X. XXXXX, op. ult. cit., 96.
63 Su tali aspetti si rinvia a X. XXXXX, op. ult. cit., 96; X. XXXXXXXXX, Le novità, cit., 115; E. DE XXXXX, Nuovo contratto a termine: penalizzate le aziende stagionali, GLav, 2008, 2, 117; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit.,
8; X. XXXXXXX, Il contratto, cit., secondo il quale in questo caso la nozione di equivalenza dovrebbe essere interpretata in senso più elastico rispetto a quella tradizionale (68).
l’alternanza tra i contratti a termine previsti dal comma 4 bis e quelli ulteriori esentati
dal limite triennale (v. infra § 6.3), aveva la finalità elusiva di «bypassare» il tetto xxxxxxx00.
Va detto, peraltro, che l’applicazione della disciplina della frode alla legge pone delicati problemi. Il tema, infatti, è molto controverso, tra i fautori della teoria
«oggettiva»65, coloro che sostengono quella «soggettiva»66 e chi prospetta soluzioni
diverse67. Ora, senza avere la pretesa di analizzare approfonditamente questioni così complesse, va detto che i 36 mesi, superabili solo a precise condizioni, sono una
«norma imperativa» (intesa come disposizione «proibitiva o limitativa posta a garanzia di un precetto inderogabile»)68. Depongono in tal senso, la formulazione letterale (nel caso di superamento del triennio «il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato») e la previsione di una deroga al limite temporale assai
«rigida», che conferma il carattere imperativo del «tetto»69. La successione tra le stesse parti di una pluralità di rapporti a termine (per le stesse mansioni o per mansioni equivalenti o diverse) o con differenti tipologie contrattuali (contratto di
apprendistato, rapporti esclusi dal limite triennale dalla contrattazione collettiva) (v.
infra § 6.3) può comportare il superamento del periodo massimo e costituire frode alla legge (e cioè «il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa»)70.
64 E’ un principio consolidato, in giurisprudenza, quello secondo il quale chi sostiene in giudizio l’elusione della legge ha il relativo onere probatorio e può utilizzare anche «testimoni e presunzioni»: Xxxx. 21 luglio 2006, n. 16759.
65 «La frode alla legge può pertanto definirsi come l’utilizzazione di un contratto, in sé lecito, per realizzare un risultato vietato mediante la combinazione con altri atti giuridici. Il carattere fraudolento dell’operazione prescinde dall’intento elusivo» (C.M. XXXXXX, Il contratto, Milano, 1984, 587; X. XXXXX, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994 (ristampa), 379 ss.
66 Il negozio in frode alla legge è diretto a realizzare un risultato «equivalente» o «analogo» a quello vietato e presuppone l’esistenza dell’intento elusivo (X. XXXXXXX, Il negozio in frode alla legge, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 191 ss.; X. XXXXXXX, Il negozio giuridico, Milano, 2002, 288 ss.
67 X. XXXXXXX, Frode alla legge, Digesto IV – sez. civ., VIII, Torino, 1992, 501 ss.; ID., Negozio in frode alla legge, in EGT, XX, 1990, 1 ss.
68 X. XXXXX, op. ult. cit., 379; C.M. XXXXXX, La norma giuridica, I soggetti, Milano, 1982, 12.
69 Infatti la disciplina in materia – v. retro nel testo e note 50 e 51 conferma indirettamente il carattere cogente del periodo massimo dei 36 mesi.
70 La possibile applicazione dell’art. 1344 c.c. è confermata anche da X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit.,
secondo la quale, peraltro, dopo la nuova disciplina, questo istituto avrà un’utilizzazione «residuale» (7). In senso
Questo accadrà quando sia dimostrabile l’intento elusivo delle parti71 o quando l’arco temporale di utilizzazione dei contratti a termine sia così ampio da determinare oggettivamente la volontà di elusione, perché si traduce nello «svuotamento» della norma imperativa72. In quest’ultimo caso non rileva che le parti abbiano usato
contratti tutti leciti e potenzialmente «cumulabili» tra loro. La successione di rapporti per periodi così lunghi (ad es. per 5 o 6 anni) può essere considerata come presunzione della volontà fraudolenta73 o come espressione di un’elusione
«oggettiva», perché lede il principio del superamento del limite massimo temporale74.
Tra l’altro si è sottolineato che la stretta successione temporale tra contratti tra loro collegati può costituire indice della volontà di aggirare il limite imposto dalla legge75, con un principio particolarmente significativo nel caso in cui il termine massimo di durata costituisce la norma imperativa da rispettare. Senza contare, inoltre, che la giurisprudenza, pur aderendo in prevalenza alla teoria soggettiva, individua l’intento elusivo da fattori oggettivi, come le particolari caratteristiche dei contratti76 o li desume da fatti evidenti che rivelano l’elusione (ad es. il licenziamento e l’immediata
contrario all’uso della frode alla legge si è espresso X. XXXXXXX, Il contratto, cit., 68, perché la reiterazione dei contratti è rigidamente prefissata e solo parzialmente derogabile. In realtà queste considerazioni non escludono che, se vi sono gli estremi dell’art. 1344 c.c., questa disposizione possa essere applicata anche in questa ipotesi, come in qualunque altra che persegua gli scopi vietati dalla norma ed attuati con contratti tutti leciti. Non ha rilievo, inoltre, che l’intento fraudolento sia soprattutto del datore di lavoro e venga «subito» dal lavoratore. Infatti, quando la norma imperativa violata preveda un soggetto «contrattualmente debole» come nel divieto di patto commissorio (art. 2744 c.c.) – il fatto che l’intento elusivo sia soprattutto del soggetto «forte» (il creditore) non esclude l’operatività dell’art. 1344 c.c., come dimostra il costante orientamento giurisprudenziale e dottrinario in questa materia. Analoghi principi sono applicabili nel contratto a termine.
71 A questo fa riferimento la giurisprudenza che, aderendo alla teoria soggettiva, parla di «consapevole volontà delle parti»: (Cass., S.U., 1981, n. 4414; Cass. 9 dicembre 1971, n. 3568; Cass. 4 gennaio 1995, n. 66; Cass. 7 agosto 2004, n. 15308), che, come già spiegato, nel ns. caso vuol dire soprattutto volontà del datore di lavoro.
72 X. XXXXXXX, Xxxxxxx in frode, cit., 503.
73 Non vi sono limiti, in questo ambito, all’utilizzazione della prova per presunzioni (Cass. 22 luglio 1981, n. 4709;
74 Secondo la teoria per la quale é decisivo «il fatto oggettivo della contrarietà allo spirito legale» e non la
consapevole volontà fraudolenta (X. XXXXX, Teoria generale, cit., 382).
75 X. XXXXXXX, Xxxxxxx in frode, cit., 13.
76 E’ questo il caso, ad es., del divieto di patto commissorio «aggirato» con una vendita a scopo di garanzia, dove la giurisprudenza dà rilievo al fatto dell’attribuzione irrevocabile del bene al creditore solo in caso di inadempienza del debitore (Cass., S.U., 3 aprile 1989, n. 1611; Cass. 11 giugno 2007, n. 13621).
riassunzione del lavoratore per frazionare l’indennità di anzianità77, la successione di proroghe di contratti di lavoro temporaneo per la stessa attività78 e così via). Mi sembra, dunque, che qualunque sia l’approccio teorico prescelto, la frode alla legge
sia, in questi casi, concretamente configurabile. Inoltre, spetterà al datore di lavoro
dimostrare che – nonostante gli elementi oggettivi prima descritti l’elusione non sussiste79.
A parte le ipotesi fraudolente, la violazione del comma 4 bis determinerà una
ripartizione dell’onere della prova sulle parti diversa, a seconda che si accolga la tesi secondo cui è solo la norma sostanziale a definire il rispettivo ambito degli oneri probatori o se, oltre ad essa, deve essere preso in considerazione anche il contenuto dell’azione giudiziaria proposta80.
6.3. Il comma 4 bis dell’art. 5 non si riferisce a tutti i contratti a termine. Sono esclusi dal limite dei 36 mesi (con relativa disciplina derogatoria) i rapporti di lavoro con i dirigenti81 e le attività stagionali «definite dal decreto del presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525 e successive modifiche ed integrazioni»82. La giurisprudenza, in relazione alla legislazione precedente alla l. 247/2007, ha
77 Cass. 21 luglio 1984, n. 4289; Cass. 23 febbraio 1983, n. 1359 e molte altre.
78 A. Milano 5 ottobre 2001, GC, 2002, I, 475. V., sul punto, anche X. XXXXXX, op. ult. cit., 7. Tra i fatti che dimostrano l’intento elusivo va incluso anche il collegamento funzionale tra operazioni di frazionamento di un’azienda per evitare la disciplina dell’art. 2112 c.c. (Cass. 20 aprile 1998, n. 4010).
79 In tal senso la giurisprudenza, ad es., che, in caso di licenziamento e riassunzione per frazionare l’indennità di anzianità, ritiene che spetterà al datore di lavoro provare l’esistenza di un’effettiva novazione (Cass. 23 febbraio 1983, n. 1359; Cass. 21 luglio 1984, n. 4289).
80 Rinvio sul punto, per la ricostruzione dei diversi orientamenti dottrinari, a X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 398
– 399. Se é solo il comma 4 bis a definire la ripartizione degli oneri probatori, il lavoratore dovrà dimostrare soltanto il superamento del limite temporale o l’adibizione a mansioni non diverse (ma identiche o equivalenti), mentre il datore di lavoro dovrà provare le condizioni di legittimità della deroga (in tal senso X. XXXXXXXXX, Le novità, cit., 115). Se, invece, valore determinante è connesso anche al contenuto dell’azione giudiziaria, si potrebbe affermare che, se il dipendente deduce anche la mancanza dei requisiti di legittimità delle deroga, sarà tenuto a dimostrare questa circostanza, che è diventata, per sua scelta processuale, un «fatto negativo» (non esistono i requisiti di legittimità della deroga) e «costitutivo».
81 Art. 1, comma 41, lettera c), l. 247/2007, che modifica l’art. 10, comma 4, del d.lgs. 368/2001, prevedendo una
82 Si veda il comma 4 ter dell’art. 5, aggiunto dall’art. 1, comma 40, della l. 247/2007. Sulle esclusioni cfr. anche
X. XXXXX, op.ult. cit., 99; X. XXXXXXX, op. ult. cit., 70 ss.; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 13 ss.
interpretato in senso restrittivo l’elencazione contenuta nel decreto, ritenendo che essa fosse tassativa83, non estensibile in via analogica84 e che, anche se l’attività era ricompresa nel DPR, tuttavia doveva avere carattere autenticamente stagionale e non
svolgersi in modo continuativo85. Mi sembra che questa interpretazione restrittiva vada confermata anche oggi, con esclusione, quindi, delle attività non espressamente previste nel decreto o in relazione a diverse forme di stagionalità (come, ad es., le
«punte stagionali», regolate dall’art. 8 bis della l. 79/1983, oggi abrogato). Una tale conclusione, oltre che dalla finalità della legge (limitare l’uso del contratto a termine), che impone una lettura restrittiva anche delle deroghe al principio generale,
La norma analizzata delega la contrattazione collettiva e gli «avvisi comuni» ad introdurre ulteriori eccezioni al limite massimo dei tre anni87. Si è sostenuto che la formulazione letterale del comma 4 ter consentirebbe all'autonomia collettiva di escludere solo attività stagionali ulteriori rispetto a quelle contenute nel DPR n.
83 Cass. 8 maggio 2006, n. 10442; Cass. 12 ottobre 2006, n. 21825; Cass. 15 giugno 2005, n. 12820.
84 Cass. 15 giugno 2005, n. 12820.
85 Cass. 28 ottobre 1999, n. 12120; Cass. 29 gennaio 2003, n. 1095.
86 La nuova normativa, infatti, se da un lato si riferisce espressamente solo al DPR n. 1525/1963 per le eccezioni al tetto dei 36 mesi, al contrario ha lasciato immutato l’art. 10, comma 7, lettera b) del d.lgs. 368/2001 per quanto attiene l’esenzione dai limiti quantitativi. Questa disposizione fa riferimento a ragioni «di stagionalità, ivi
comprese le attività già previste nell’elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n.
1525..» e, quindi, lascia intendere che sono incluse anche le attività stagionali diverse da quelle contemplate nell’elenco. Le differenti formulazioni utilizzate dalla l. 247/2007 e la mancata modifica della norma citata (che è stata riformata in altri aspetti, a riprova che in questo caso il «silenzio» della legge non è casuale) rafforzano la volontà di non estendere la deroga dei 36 mesi a tutte le prestazioni stagionali, bensì solo a quelle contenute nel
87 Nella realtà sindacale, mutuata dalla esperienza europea, gli «avvisi comuni» (già diffusi in settori quali l’edilizia e l’agricoltura) sono accordi quadro, che, senza avere il valore vincolante degli accordi interconfederali, definiscono orientamenti programmatici e linee guida di carattere generale e che dovrebbero orientare la contrattazione collettiva vera e propria (X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 12 – 13). L’intento del legislatore è quello di abilitare sia gli «avvisi» che i ccnl a definire nuove ipotesi oltre quelle previste dalla legge. Nel caso in
cui la «delega normativa» venga esercitata alternativamente dalle due tipologie contrattuali non vi sarà nessun
problema, perché entrambe sono dotate di poteri normativi attribuiti dalla legge. Al contrario, se, oltre all’avviso comune, per una determinata categoria vi fosse anche il contratto nazionale che introduce tipologie diverse, si creerebbe un «conflitto di competenze» normative che, probabilmente, dovrebbe essere risolto a favore del ccnl. Quest’ultimo, infatti, per espressa volontà delle parti sociali, ha un contenuto contrattuale vincolante estraneo all’avviso.
1525/196388. Ed in effetti la disposizione potrebbe avvalorare questa tesi, ma anche quella che, al contrario, estende la competenza sindacale ad ipotesi diverse rispetto
alla sola stagionalità89. Tuttavia, la seconda interpretazione mi sembra più fondata in
base ad una lettura sistematica con il precedente comma 4 bis e con le successive previsioni relative ai limiti quantitativi che possono essere introdotti dall'autonomia collettiva. Sarebbe strano che la legge attribuisse poteri così estesi e penetranti ai
sindacati in relazione alla durata del contratto che ecceda i 36 mesi o sul quantum di rapporti a termine in un'azienda e poi, in relazione alle esclusioni delle tipologie contrattuali, limitasse tutto soltanto alle attività stagionali. Vi sarebbe una restrizione delle facoltà concesse all’autonomia collettiva che sarebbe in contrasto con il ruolo determinante ad essa attribuito dalla legge su aspetti essenziali della materia. Mi sembra quindi che la disposizione affidi ad avvisi comuni e contratti collettivi una
«delega in bianco» e cioè la libertà di introdurre ipotesi normative anche diverse da quelle previste dalla legge e non soggette alla regola del periodo massimo triennale90. L’unico limite sarà quello di non poter ampliare le eccezioni in modo tale da vanificare completamente il «tetto» dei 36 mesi previsto dal comma 4 bis (rendendolo operativo solo per una parte assai esigua di rapporti a termine). In quest’ultimo caso, infatti, non si tratterebbe di «integrazione» della norma ma di «rovesciamento» del rapporto regola (comma 4 bis), deroga (comma 4 ter) certamente non consentita dalla legge. In sostanza, la legge impone un «vincolo di scopo», consistente nell’abilitazione a porre limiti alla disciplina generale e non permette certamente di trasformare la regola in …eccezione. Ovviamente, fino a quando avvisi comuni o
88 X. XXXXXX, op. ult. cit., 13 14.
89 Confermano quest’ultima tesi X. XXXXXXX, op. ult. cit., 70 e X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., 115, senza analizzare l'ambiguità testuale della disposizione. Infatti, le parole «nonché di quelle» contenute nel comma 4 ter potrebbero essere alternativamente riferite alle sole «attività stagionali» o, più in generale, alle «attività» «che saranno individuate…», e quindi anche ad altre prive del carattere della stagionalità.
90 Cass., S.U., 2 marzo 2006, n. 4588; Cass. 23 agosto 2006, n. 18378, entrambe riferite all’art. 23 della l. 56/1987. Mi sembra che, pur nell’ambito di consistenti differenze, vi sia una evidente analogia tra la nuova disposizione e l’art. 23 oggi abrogato, almeno sotto il profilo della ratio. L’autonomia collettiva, pertanto, sarà libera di introdurre
nuove deroghe (ad esempio anche le «punte stagionali» non ricomprese nelle attività incluse nell’elenco del DPR
n. 1525/1963 o diverse tipologie di attività produttive).
contratti collettivi non vi saranno, le esenzioni previste dalla legge saranno le uniche applicabili.
I contratti descritti non sono gli unici esclusi dal limite del triennio. La l. 247/2007 riforma l’art. 5 del d.lgs. 368/2001, ma non modifica l’art. 10 della medesima legge nei commi dove sono regolate le esclusioni «dal campo di applicazione del presente decreto legislativo». Dunque le tipologie contrattuali ivi previste sono fuori dall’ambito applicativo della disciplina generale del termine, con una regola che, applicabile alla legge originaria, va ribadita anche oggi dopo la riforma e che riguarda, quindi, tutte le innovazioni introdotte nel 2007, non estensibili a questi contratti91. E questo anche in considerazione del fatto che non si tratta di una
«svista» del legislatore, che ha innovato l’art. 10 del 368/2001 nei commi 7 e seguenti (sui limiti quantitativi ai rapporti a termine che possono essere apposti dai contratti collettivi) (art. 1, comma 41, della l. 247/2007). Dunque, la conservazione dei commi da 1 a 6 dell’art. 10 sembra espressione di una precisa scelta della riforma. Va anche detto, peraltro, che un’operazione di «aggiornamento» della legge sarebbe stata opportuna. La lettera a) del comma 1 dell’art. 10 fa riferimento al lavoro temporaneo,
che è stato abrogato92, mentre la lettera b) esclude i contratti di formazione e lavoro,
oggi applicabili solo al settore pubblico93. Il comma 6 dell’art. 10 cita due tipologie di rapporti a termine anch’esse abrogate94. Un’operazione di ricostruzione sistematica delle esenzioni è quindi opportuna.
Va in primo luogo rilevato che la somministrazione a t. determinato è tra i contratti esclusi. Il comma 4 bis, infatti, fa riferimento a contratti «fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore». Al contrario, se dopo più rapporti a termine diretti, il lavoratore venga assegnato per una missione a t. determinato presso il medesimo
91 Il t. indeterminato come «regola», il limite massimo dei 36 mesi con la deroga, il diritto di precedenza ecc. Anche X. XXXXXX (La flessibilità del lavoro, cit., 14) conferma la non applicabilità della nuova disciplina ai contratti esclusi dal campo di applicazione del 368/2001 dall’art. 10 di questa legge.
92 Art. 85, comma 1, lettera f), del d.lgs. 276/2003.
93 Art. 86, comma 9, del d.lgs. 276/2003.
94 L’art. 10 della l. 53/2000 è stato abrogato dall’art. 86, comma 2, lettera t) del d.lgs. 151/2001. L’art. 75 della l. 388/2000 è stato abrogato dall’art. 1, comma 17, della l. 243/2004.
imprenditore, egli sarà dipendente dell’Agenzia per il lavoro e non di colui in favore del quale effettua la prestazione95. Se si considera la scarsa deterrenza del maggior costo della somministrazione nelle aree economicamente più avanzate del paese dove maggiormente si usa questo istituto e che l’opinione assolutamente prevalente ritiene
che questo contratto non richiede esigenze temporanee96, vi potrebbero essere due effetti negativi: l’incentivo ad utilizzare la somministrazione come alternativa permanente del contratto a termine e, in ogni caso, la dilatazione a dismisura dei 36 mesi, con l’alternanza tra contratti a t. determinato e forniture di mano d’opera a termine. Anche nel rapporto di lavoro tra Agenzia e lavoratore a t. determinato non si applica il limite triennale. Infatti, l’art. 1, comma 42, della l. 247/2007 ha modificato il comma 2 dell’art. 22 del d.lgs. 368/2001 ed ha previsto che nel contratto a termine con l’Agenzia non si applicano le «disposizioni di cui all’art. 5, commi 3 e seguenti», ivi incluso quindi anche il comma 4bis, che prevede il tetto dei 36 mesi97.
Anche il contratto di inserimento deve essere computato nel limite massimo triennale. Si tratta di una tipologia contrattuale ovviamente non contemplata nel
regime delle esclusioni previsto dalla formulazione originaria del d.lgs. 368/2001 (perché introdotta nel 2003) e che tuttavia il legislatore del 2007 non ha voluto inserire nei primi sei commi dell’art. 10 del decreto delegato, con la chiara volontà di
non modificare la normativa preesistente e di non aggiungere altri rapporti a termine sottratti alla disciplina generale. Il contratto di inserimento è, inoltre, salva diversa disposizione della contrattazione collettiva, un contratto soggetto alla disciplina del
95 Tra l’altro nel Protocollo si afferma chiaramente che la somministrazione non è inclusa nel limite temporale del triennio. L’esclusione della somministrazione è confermata da X. XXXXX, op. ult. cit., 99 e da CONFINDUSTRIA, Circolare, 4.
96 Per un’analisi approfondita della questione e delle diverse opinioni sul tema v. X. XXXXX, Il contratto di somministrazione di lavoro, DLRI, 2006, 424 ss.
97 La conseguenza dell’esclusione sopra descritta sarà quella di un ulteriore incentivo alla utilizzazione della somministrazione. Non solo, infatti, il lavoratore somministrato non è considerato ai fini del tetto nel rapporto con l'utilizzatore (che non è «lo stesso datore di lavoro»), ma anche rispetto all'Agenzia non vi sarà il limite temporale complessivo di 36 mesi. Vi potrà quindi essere reiterazione molto accentuate di assunzioni a termine con l'Agenzia
e di missioni a tempo determinato presso l'utilizzatore con lo stesso lavoratore, con una dilatazione abnorme del triennio. In questo caso la frode alla legge (v. retro § 6.2) assume un'importanza fondamentale per evitare fenomeni elusivi.
d.lgs. 368/2001, nei limiti della compatibilità, qui certamente esistente98. Ovviamente, la contrattazione collettiva potrebbe stabilire che il contratto di inserimento non vada
calcolato ai fini del limite triennale.
In definitiva, a parte le esclusioni espressamente previste dalla riforma del 2007, sono esentati dai limiti triennali soltanto i contratti a termine previsti dai commi da 1 a 6 dell’art. 10 ancora in vigore99. Inoltre, nel caso di successione nel tempo tra rapporti ricompresi nel limite dei 36 mesi e quelli estranei al «tetto» (disciplinati dalla legge o previsti dalla contrattazione collettiva), bisognerà verificare se vi sono gli estremi
della frode alla legge già esaminati. Se si considerano i dati sulla precarietà (v. retro § 2), forse il legislatore avrebbe dovuto prevedere un limite massimo speciale di rapporti a termine solo per i giovani, inclusivi anche di quelli a contenuto formativo. Infatti, se la contrattazione collettiva abiliterà anche il contratto di inserimento tra le deroghe al limite triennale ed a queste tipologie si aggiungono le esenzioni previste dall’art. 10 del d.lgs. 368/2001 e la somministrazione a termine, vi sarà per i giovani la possibilità di una reiterazione molto lunga di rapporti a t. determinato, che non risolverà il problema della «trappola» della precarietà prima analizzata100.
7. Il triennio massimo di durata per i contratti a termine può essere derogato «una sola volta» e con l'assistenza del sindacato101. Si è in presenza di un'ulteriore ipotesi di
«autonomia individuale assistita»102, nella quale alla Direzione provinciale del lavoro
98 Art. 58, comma 1, d.lgs. 276/2003. A ben vedere i 36 mesi si pongono come limite «esterno» alla reiterazione dei contratti e non incidono sulla disciplina interna del contratto di inserimento, senza che si pongano, quindi problemi di compatibilità.
99 Apprendistato, rapporti di «formazione attraverso il lavoro» senza vincolo di subordinazione, operai agricoli, contratti non superiori a tre giorni nel turismo e nei pubblici esercizi, contratti con aziende di prodotti ortofrutticoli. In tal senso anche X. XXXXX, Le modifiche, cit., 99.
100 Un giovane, infatti, potrebbe essere prima assunto con uno stage, poi con un contratto di inserimento per una diversa professionalità, seguito da un apprendistato di diverso contenuto formativo e da normali contratti a termine e di somministrazione.
101 Sul punto si rinvia a X. XXXXXXXXX, Le novità, cit., 114; X. XXXXX, Le modifiche, cit., 98; X. XXXXXXX, Il contratto, cit., 68 – 69; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 10 ss.
102 Si rinvia sul punto a X. XXXX, L'autonomia individuale assistita nel diritto del lavoro, Bari, 2007; X. XXXXXXXXX, Norme inderogabili e certezza del diritto: prospettive per la volontà assistita, XX, 0000, I, 479 ss. Riconducono la nuova disposizione nell’ambito di questo istituto anche X. XXXXXXX (op. ult. cit., 69), X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., 114 , X. XXXXX, op. ult. cit., 98; X. XXXXXX, op. ult. cit., 10.
ed al sindacato si affida il compito di rimuovere il limite legale dei 36 mesi (che, come si è visto, è disposizione inderogabile). La funzione attribuita al soggetto pubblico ed al rappresentante sindacale, oltre a quella di informare il lavoratore dei suoi diritti e di supportare la formazione di una volontà individuale «consapevole», è quella di controllare il profilo «causale» del contratto, con una funzione di vera e propria «derogabilità assistita»103. In sostanza, si chiederà alla DPL ed al sindacato di verificare: a) il superamento dei 36 mesi; b) l'esistenza di esigenze temporanee alla
base del nuovo contratto; c) il fatto che il rapporto «in deroga» abbia la durata prevista negli avvisi comuni. In mancanza di un’espressa disposizione speciale (come, ad esempio nel caso della certificazione)104, si deve ritenere che la competenza territoriale della DPL debba essere desunta ai sensi degli artt. 410 e 413 cpc.
Ovviamente, non si potrà escludere il possibile controllo giurisdizionale su tutti i
profili di legittimità del contratto sopra descritti105. Infatti, anche se l'attività della DPL è finalizzata ad autorizzare un rapporto a termine in deroga, il comma 4 bis non esclude il sindacato del giudice, come, al contrario, sostiene una parte della giurisprudenza, per contratti a termine soggetti all'autorizzazione di organi pubblici106
103 X. XXXX, op. ult. cit., 200. X. XXXXX (Le modifiche, cit., 98) dubita della legittimità costituzionale della disposizione (in relazione all’art. 39 Cost.) nella parte in cui limita l’assistenza sindacale alle organizzazioni comparativamente più rappresentative, perché questo criterio è utilizzabile quando si tratti di atti o attività destinate a produrre i loro effetti oltre la sfera degli iscritti e non, come in questo caso, solo nei confronti del singolo lavoratore. A me sembra che, se questa è la logica, poiché la stipula del contratto a t. determinato in deroga costituisce uno strumento che, eccezionalmente, estende le ipotesi di legittima apposizione del termine, la selezione del soggetto sindacale comparativamente più rappresentativo sia pienamente comprensibile e rispecchia la medesima finalità dell’art. 23 della l. 56/1987 (garantire soltanto a determinate organizzazioni sindacali il controllo del mercato del lavoro). Il che è coerente con la costante interpretazione della Corte Costituzionale sulla legittimità di una selezione tra le organizzazioni sindacali a cui affidare diritti particolari.
104 L’art. 77 d.lgs. 276/2003 sulla certificazione espressamente prevede, per le DPL, un criterio di competenza territoriale (la commissione nella cui circoscrizione si trova l’azienda o una sua dipendenza).
105 La possibilità per il giudice di effettuare un controllo causale sulle ragioni obiettive del contratto è sostenuta da X.XXXX, op. ult. cit., 200. Anche X. XXXXXX (La flessibilità del lavoro, cit., 11) giunge alle stesse conclusioni in base al fatto che la contraria opinione costituirebbe una lesione del diritto costituzionale alla difesa ed in coerenza con la funzione della procedura sindacale che è diretta solo a consentire il superamento dei 36 mesi con un altro contratto a termine.
106 In relazione, infatti, alle ipotesi delle c.d. «punte stagionali» (previste dalla l. 18/1978 e dalla l. 79/1983) si è detto che «il giudice ordinario può esercitare, a richiesta del lavoratore, unicamente un controllo di legittimità, diretto ad accertare l'esistenza dei presupposti formali del provvedimento, che non può estendersi anche al merito delle valutazioni con lo stesso operate in ordine all'identificazione dei periodi dell'anno in cui si verificano, nelle singole province, le c.d. punte stagionali, nonché in ordine alla sussistenza delle altre condizioni legittimanti l'assunzione a termine, trattandosi di valutazioni di carattere tecnico rimesse espressamente dalla legge alla
e come si è affermato anche in relazione all’analoga disposizione del Protocollo, oggi recepita con modifiche nella l. 247/2007107. La tesi che esclude il controllo giudiziale è smentita da vari elementi. La legge, in primo luogo, non utilizza in questo caso una formulazione «preclusiva» come quella dell'art. 2113, ultimo comma, c.c. per quanto attiene alle rinunce e transazioni in sede sindacale (dove non è possibile contestare il
contenuto dell'atto, se non sotto il profilo dei vizi della volontà). Inoltre, il contratto di
lavoro, anche se autorizzato con un provvedimento amministrativo, è un atto di autonomia privata distinto ed autonomo, soggetto al normale controllo di coerenza con la legge da parte del giudice ordinario indipendentemente dall’attestazione emessa dall’organo pubblico108. In ogni caso, poi, secondo le regole generali, qualora la valutazione della legittimità del provvedimento amministrativo fosse necessaria per valutare anche il contenuto del contratto, il giudice potrebbe sempre disapplicare il provvedimento che fosse in contrasto con la legge109.
Spetta agli «avvisi comuni» stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi stabilire la «durata» dell'ulteriore contratto. Quest'ultimo deve, in ogni caso, essere basato su esigenze temporanee. A tale risultato si giunge con la lettura coordinata dell'art. 1 del d.lgs. 368/2001, che consente il contratto solo se vi sono le ragioni oggettive di carattere temporaneo, e del comma 4 bis che prevede limiti aggiuntivi rispetto a quelli «causali» previsti dall’altra disposizione e che certo non modifica le condizioni generali che legittimano la costituzione del rapporto. Inoltre, l'interpretazione qui proposta è coerente con la finalità della legge di introdurre,
valutazione discrezionale e tecnica dell'autorità amministrativa» (Cass. 23 aprile 1999, n. 4065; Cass. 26 settembre 1998, n. 9658; contra, Cass., Sez. Un., 11 aprile 1994, n. 3354).
107 Si è sostenuto, infatti, che in questo caso il giudice potrebbe solo verificare la «legittimità del procedimento» sindacale di assistenza al lavoratore e non il contenuto del contratto a termine (A. VALLEBONA, Il lavoro a termine nel protocollo del luglio 2007, MGL, 2007, 699).
108 Lo stesso accade quando, ad esempio, nel caso di una rinuncia o transazione effettuata dinanzi alla DPL, il giudice accerta il contenuto dell’atto e l’assenza dei vizi di volontà.
109 Nel caso, ad es., dell’assenza delle esigenze temporanee, per violazione della durata del contratto stabilita dall’autonomia collettiva o del computo dei 36 mesi. Si tratterebbe di un’ipotesi di «disapplicazione incidentale», che si ha «quando la controversia ha ad oggetto un diritto soggettivo rispetto al quale “la disciplina dettata dall’atto funge da presupposto”» (X. XXXXXXXX, La tutela del giudice ordinario, X. XXXXXXX (a c. di), Trattato di diritto amministrativo, t. IV, Milano, 2000, 3707).
accanto alla sussistenza di esigenze economiche organizzative (proprie dell'impresa e di natura oggettiva), anche i limiti soggettivi alla reiterazione di contratti con lo stesso lavoratore. In un contesto del genere sarebbe incoerente ammettere un «ultimo» contratto a termine tra le stesse parti che non abbia le medesime caratteristiche di
quelle precedenti. In realtà qui la legge vuole solo ulteriormente ridurre gli spazi
dell'autonomia privata, prevedendo un «tetto» massimo di durata anche per le ragioni temporanee, al fine di evitare la eccessiva precarietà del lavoratore110.
8. La riforma del 2007 modifica anche il regime sanzionatorio del d.lgs. 368/2001. Accanto alle ipotesi originarie di conversione del contratto in uno a tempo indeterminato, ne sono state aggiunte due: a) superamento del periodo complessivo dei 36 mesi previsto dal comma 4 bis; b) stipulazione del contratto «in deroga» al tetto massimo triennale senza aver rispettato la procedura di derogabilità assistita o senza aver osservato il termine di durata massimo fissato dall’avviso comune. Nel primo caso il contratto si converte dalla scadenza del triennio111 ed ovviamente il momento esatto di conversione muterà a seconda che il calcolo venga effettuato sulla base del totale dei mesi o dei giorni corrispondenti. Si è ipotizzato che la conversione opererebbe dopo 36 mesi e 20 giorni112. La formulazione letterale della disposizione consente due distinte interpretazioni: a) i 36 mesi sono un'ipotesi aggiuntiva rispetto a quelle della prosecuzione del rapporto oltre i 20 giorni (se inferiore a sei mesi) o 30 giorni (se superiore) in base alle quali si determina il momento di conversione del contratto; b) la norma, oltre a prevedere un caso ulteriore di trasformazione del
rapporto ex nunc trascorso il periodo massimo del triennio, stabilisce anche che i 20
110 La tesi contraria non può trovare sostegno neanche nel fatto che la conversione del contratto può avvenire soltanto qualora vi sia il «superamento del termine stabilito nel medesimo contratto» e senza quindi il riferimento alle ragioni oggettive previste dall'articolo 1. Qui infatti legislatore si è preoccupato soltanto del regime sanzionatorio speciale in misura analoga con quanto previsto da altri commi del medesimo articolo 5 del d.lgs. 368/2001 senza attribuire rilievo alla mancanza delle condizioni che attengono alle esigenze economiche organizzative.
111 Sul nuovo regime sanzionatorio v. X. XXXXXXXXX, Le novità, cit., 114; X. XXXXX, Le modifiche, cit., 97 98; X. XXXXXXX, Il contratto, cit., 68 – 69; X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit., 9.
112 X. XXXXX, op. ult. cit., 97; CONFINDUSTRIA, Circolare, cit., 3.
giorni costituiscono un'estensione fisiologica dei 36 mesi che impedisce la conversione immediata e la fa operare dopo tre anni e 21 giorni113. Quest'ultima lettura
mi sembra più corretta anche per la finalità originaria del comma 2 dell'art. 5 del d.lgs.
368/2001, che voleva impedire che un errore nel prolungamento di fatto del rapporto oltre la scadenza potesse penalizzare il datore di lavoro con l'automatica conversione in un contratto a t. indeterminato. La riforma, nell'introdurre l'inciso all'interno della vecchia disposizione (senza prevederne una aggiuntiva come sarebbe stato naturale) vuole anche in questo caso evitare che il superamento del "tetto" triennale per un solo giorno (o per poco tempo) possa produrre la stabilizzazione del contratto114. La
conversione opererà ex nunc anche nell’ipotesi di violazione delle regole sul rapporto
in deroga, perché la disposizione afferma che «il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato» e, quindi, fissa la trasformazione dal momento di stipula del rapporto eccedente i 36 mesi 115.
La nuova legge, come nel precedente assetto, non regola altre ipotesi di violazione della normativa (mancanza delle esigenze economiche ed organizzative che giustificano il termine o delle ragioni oggettive che ne consentono la proroga; assenza della forma scritta ad substantiam; mancato rispetto dei divieti di stipula del contratto). Dopo l’emanazione del d.lgs. 368/2001 si erano confrontate due tesi. Secondo la prima, nelle ipotesi descritte, si applica l’art. 1419, comma 2, cod. civ., con conversione del contratto in uno a tempo indeterminato. Una seconda tesi, invece, afferma che, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. ed in base alla ricostruzione della
volontà delle parti, il contratto sarebbe colpito da nullità totale e, senza alcuna
conversione, si applicherebbe solo l’art. 2126 c.c. La tesi della trasformazione in un
113 La seconda interpretazione, tra l'altro, sembra in una lettura analitica del periodo più fondata, in quanto il "nonché" congiunge le parole inserite (“decorso il periodo complessivo di cui al comma 4 bis”) a quelle precedenti ("in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi") e sembra quindi introdurre due ipotesi equivalenti di conversione non immediata, ma che avviene dopo 21 giorni.
114 CONFINDUSTRIA, Circolare, cit., 3.
115 In tal senso anche X. XXXXXX, La flessibilità del lavoro, cit. 13 e X. XXXXX, op. ult. cit., 98, che osserva, inoltre, che in questo caso non è richiamata la disposizione dell’art. 5, secondo comma, del d.lgs. 368 del 2001.
rapporto stabile è stata fatta propria dalla giurisprudenza prevalente, anche se vi sono (poche) decisioni favorevoli all’opinione contraria 116.
In tempi recenti si è sostenuto che la mancanza delle ragioni che legittimano l’apposizione del termine costituirebbe «un difetto di un presupposto essenziale per la
scelta del tipo» che impedirebbe «a monte» l’accesso al modello contrattuale. Il giudice, pertanto, convertirebbe il rapporto in uno a tempo indeterminato non in
applicazione della sanzione della nullità bensì perché procederebbe a «qualificare il
tipo, secondo gli schemi contrattuali inderogabilmente previsti dal legislatore»117.
Questa tesi deve essere approfondita. La «riqualificazione» del modello contrattuale operata dal giudice presuppone che, a fronte di un’operazione economica riconducibile ad un contratto tipico (ad esempio, il lavoro subordinato) le parti abbiano invece utilizzato un diverso tipo (il lavoro autonomo), venendo in questo modo a «disporre» della tipologia contrattuale inderogabile prevista dalla legge118. In questo caso il giudice riqualifica il contratto in modo corretto. Tuttavia questa operazione richiede un contrasto tra «tipo legale» previsto dall’ordinamento e la scelta delle parti di un diverso contratto tipico per regolare la fattispecie concreta. Il rapporto a termine non può certamente essere definito un «tipo a sé stante» di lavoro subordinato qualunque sia la teoria tipologica che venga utilizzata e, quindi, manca il presupposto essenziale per il procedimento di riqualificazione del contratto119. La
116 Per un riepilogo dei diversi orientamenti dottrinari e giurisprudenziali sul tema v. X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 405 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 448 ss.; ID. Lavoro a tempo determinato, cit., 8 ss.; X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 480 ss.; X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro, cit., 707 ss.; X. XXXXXXXXX (a c.
di), Giustificazione del lavoro a termine, cit., 44 ss.; X .XXXXXXXXXX, La riforma del lavoro a termine, cit., 348 ss. La tesi dell’applicazione dell’art. 1419, comma 2, c.c. è nettamente prevalente in dottrina e giurisprudenza.
117 X.XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 479.
118 Infatti, nonostante una contraria opinione (X. XXXXXXXXX, La nullità dei contratti di lavoro «atipici», ADL, 2005, 532), i caratteri costitutivi dei tipi contrattuali non sono disponibili dalle parti (« mentre le parti sono libere di convenire l’interpretazione del contratto tra loro concluso, o di una o più clausole in esso contenute, dando così
luogo ad un negozio interpretativo, le parti non possono disporre della qualificazione. Il nomen iuris dato al contratto non vincola il giudice, né nel procedimento interpretativo, né nel procedimento qualificativo del contratto»: X. XXXX, La causa e il tipo, X. XXXXXXXXX (a c. di), I contratti in generale, I, Torino, 1999, 523; conf. X. XXXXX, La qualificazione, X. XXXXX – G. DE NOVA (a c. di), Il contratto, II, 1993, Torino, 443).
119 Per una ricostruzione delle diverse teorie in materia di identificazione del tipo e del sottotipo, come pure della distinzione tra rapporto generale e speciale, mi permetto di rinviare a X. XXXXXXXX, L’articolazione della fattispecie, cit., 115 – 132 e 166 – 171. L’analisi delle diverse interpretazioni sui caratteri costituivi del «tipo» consente di giungere alle conclusioni indicate nel testo.
situazione peraltro potrebbe essere diversa se, in coerenza con alcune interpretazioni, si affermasse che il contratto a t. determinato è un sottotipo, che ha tutti i caratteri del tipo generale (il lavoro subordinato stabile) più un elemento «specializzante» (il
termine)120. In questo caso, infatti, la mancanza delle condizioni economiche ed
organizzative che legittimano il rapporto – e che qualificano il sottotipo determinerebbe una nullità parziale e non travolgerebbe tutto il contratto. Pertanto, vi sarebbe l'automatica riconduzione del rapporto al modello principale.
Si è affermato che, in realtà, la violazione delle disposizioni imperative che regolano le condizioni di accesso al sottotipo flessibile determinerebbe la nullità dell'intero contratto e non un’invalidità parziale, che «non può riguardare clausole caratterizzanti lo schema negoziale voluto». Inoltre, poiché il contratto é nullo, occorrerebbe individuare «l'eventuale volontà del legislatore, espressa o tacita», e verificare se essa é finalizzata ad imporre il ritorno al tipo generale oppure a consentire soltanto l'applicazione dell'art. 2126 c.c. Solo nel primo caso vi potrebbe
essere la conversione nel lavoro subordinato a t. indeterminato121. Alla prima obiezione si può replicare che di nullità di tutto il contratto si può parlare soltanto nel caso di «conflitto tra tipi», quando, cioè, le parti hanno utilizzato un modello
negoziale completamente dissonante da quello previsto dalla legge (ad es.
associazione in partecipazione invece di lavoro subordinato) e, quindi, il tipo utilizzato è integralmente nullo perché violativo delle regole imperative che consentono l’accesso al modello negoziale. Ma se, al contrario, l’invalidità riguarda soltanto la mancanza dell’elemento «specializzante» (ad esempio la formazione nell’apprendistato o il termine), non si comprende perché essa dovrebbe travolgere il contratto nella sua interezza e non il solo elemento che qualifica il «sottotipo». In
120 X. XXXXXXXXXX, Spunti sulla tipologia dei rapporti di lavoro, XX, 0000, I, 89; X. XXXXXXX, La questione della subordinazione in due trattazioni recenti, in q. Riv., 1986, I, 13. La tesi, che trova la sua origine in X. Xxxxxxxxxx, è stata accolta anche da altri autori tra cui X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., 528 ss. (rinvio, per le indicazioni bibliografiche, a X. XXXXXXXX, L’articolazione della fattispecie, cit., 118).
121 X. XXXXXXXXX, La nullità dei contratti, cit., 535, 536, 538, 540. Tra l’altro, secondo questo a., la conversione è espressamente esclusa per il primo contratto a termine (544).
questo caso, infatti, non sono in discussione le caratteristiche che connotano l’intero contratto (e non vi sono, pertanto, i presupposti per un’invalidità integrale), ma si è in presenza di una violazione di legge che riguarda solo «l’elemento aggiuntivo» (il termine)122. Il che determina soltanto l’invalidità di tale carattere specializzante e non di tutto il modello negoziale, che ritorna ad essere quello generale123.
Per quanto riguarda la seconda obiezione, va detto che gli artt. 1418 e 1419 x.x. xxxxxxx xx «xxxxx xxxxxxxxxx» x xx xxxxxxx xx «xxxxx» del contratto o delle sue clausole, senza che sia possibile fare alcuna distinzione relativa a disposizioni che
attengono al contenuto del contratto o all'accesso al tipo. Xxxx, se il carattere imperativo è dato dalla natura degli interessi e dei fini perseguiti dalla norma124 o comunque dall’esistenza di un «interesse generale»125, non vi è dubbio che le
disposizioni che delineano gli elementi costitutivi del tipo o del sottotipo hanno tali caratteristiche perché sono finalizzate a ridurre l'autonomia contrattuale e quindi la libertà dei soggetti entro modelli negoziali predefiniti e per finalità di carattere
generale126. Per quanto attiene infine alla presunta necessità di ricostruire la "volontà
del legislatore", va osservato che, nel momento in cui la legge consente l'accesso ad un determinato tipo o sottotipo in presenza di specifiche caratteristiche, l’«intenzione del legislatore» è stata già concretamente manifestata al momento della creazione del
122 Tra l’altro secondo X. XXXXXXXXXX, (op. ult. cit., 80) il sottotipo «deve presentare tutti gli elementi indispensabili per la configurazione del tipo ed, inoltre, qualche nota ulteriore, che valga a caratterizzarlo
nell’ambito del tipo», per cui «si ha sottotipo solo quando vi sia una caratterizzazione determinata dall’introduzione di un elemento non contemplato come essenziale nello schema del tipo». Questo elemento è per l’a. il termine (89). In base a tale ricostruzione, l’invalidità del termine (carattere non «essenziale») necessariamente deve produrre il ritorno agli elementi costitutivi del tipo (il t. indeterminato) rispetto al quale si
caratterizzava come sottospecie.
123 Anche X. XXXXXXXXX (op. ult. cit., 536) ritiene che, forse, nel caso del venir meno dell’elemento caratterizzante del sottotipo si potrebbe parlare di nullità parziale. Tuttavia, la nullità, secondo questo A., non determinerebbe la conversione del contratto perché il datore di lavoro, al momento della stipula, voleva il sottotipo e non quello generale. Quando, peraltro, sono in gioco le caratteristiche dei modelli negoziali non vi è spazio per la ricostruzione della volontà dei contraenti, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c. Qui, infatti, il carattere generale
124 X. XX XXXX XXXXXX, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, 20.
125 C. M. XXXXXX, La norma giuridica, cit., 12.
126 Tra l’altro, nessun dubbio può sussistere sul fatto che l’apposizione del termine costituisca una «clausola» ai sensi dell’art. 1419 cod. civ., come dimostra la costante giurisprudenza in tema di contratto a termine o di apposizione di una scadenza finale al contratto di locazione.
modello negoziale. Pertanto, il giudice, quando rileva che le parti hanno nominato come autonomo un contratto che ha le caratteristiche della subordinazione altro non
può fare che riqualificarlo nell'ambito dell'art. 2094 c. c. Allo stesso modo, il
magistrato, se accerta l'inesistenza del carattere «specializzante» che connota il sottotipo, deve necessariamente ricondurlo al modello generale per il venire meno degli elementi di specialità che abilitano l’accesso al contratto «particolare» (nel ns. caso il rapporto a termine), con conseguente automatica conversione in un rapporto a
t. indeterminato. Ed in entrambi i casi il giudice non ha alcuna discrezionalità, perché si trova in presenza di requisiti costitutivi «imposti» dalla legge che ha individuato i tipi (o sottotipi) contrattuali indisponibili per le parti e nell’ambito dei quali devono essere «costrette» le operazioni economiche effettuate dai contraenti e ad essi riconducibili.
Va detto, peraltro, che, se anche si volesse dare rilievo alla volontà del legislatore, le conseguenze non sarebbero diverse. La legge, infatti, prevede che il t. indeterminato è la «regola» e consente l’accesso al sottotipo solo in presenza di presupposti formali e sostanziali precisi, qualificando il rapporto a termine come una deroga al modello generale. La rigidità delle condizioni in base alle quali è possibile stipulare il contratto ed il regime sanzionatorio previsto in molteplici ipotesi (con la conversione in lavoro stabile) sono tutte caratteristiche dal significato inequivocabile. Esse dimostrano che il legislatore, quando mancano dei requisiti specifici, vuole che si riaffermi la vigenza del lavoro a t. indeterminato. L’insieme degli elementi descritti esprime una preferenza indiscutibile per il lavoro stabile, che va letta come una chiara volontà del legislatore ad «un ritorno obbligato al tipo generale»127 anche nei casi in cui manchi la sanzione espressa ed occorra utilizzare i principi in tema di nullità parziale per il venir meno dell’elemento che qualifica il sottotipo.
La trasformazione del rapporto a termine in uno stabile può essere giustificata anche in modo diverso e sempre in applicazione della disciplina prevista dagli artt.
127 X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., 540.
La conversione del contratto ai sensi del secondo comma dell’art. 1419 c.c, che è
quella assolutamente dominante in dottrina e giurisprudenza, od anche in base all’art. 1339 c.c., è stata da me già sostenuta, anche alla luce di un’importante decisione della Corte Costituzionale secondo la quale, nel caso di norme poste a protezione del lavoratore (come nel lavoro a termine), «sarebbe palesemente irrazionale che dalla violazione di una norma imperativa…posta proprio al fine di tutelare il lavoratore contro la pattuizione di clausole vessatorie, potesse derivare la liberazione del datore di lavoro da ogni vincolo contrattuale»129. E, questa, si badi, sarebbe proprio la conseguenza a cui si arriverebbe se si volesse affermare che la nullità del termine dovrebbe travolgere l’intero contratto. Senza voler ripercorrere tutto il dibattito in materia, in questa sede intendo limitare la mia analisi alle novità legislative o giurisprudenziali recentemente intervenute.
Va subito detto che prima della riforma si poteva già sostenere che il rapporto stabile era la «regola» e che solo in presenza delle condizioni tassativamente previste nel decreto delegato era possibile derogare ad essa. In sostanza, in base ad elementi desumibili dalla legge e dalla Direttiva 99/70/CE, si poteva affermare che il contratto a tempo indeterminato era la «norma imperativa implicita» che, a fronte della violazione delle disposizioni inderogabili contenute nel d.lgs. del 2001, si sostituiva
«di diritto» (art. 1419, c. 2, c.c.) alle pattuizioni delle parti e determinava la conversione del contratto130. La riforma del 2007 ha reso «esplicito» ciò che prima era solo indirettamente definito, affermando che il t. indeterminato è la «normalità». Il
128 Su tali aspetti mi permetto di rinviare a X. XXXXXXXX, L’articolazione della fattispecie, cit., 115 ss.
129 C. Cost. 11 maggio 1992, n. 210, FI, 1992, I, 3232 ss. Rinvio, sul punto, a X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 405 ss.; ID., Il contratto a termine, cit., 448 ss.; ID., Lavoro a tempo determinato, cit., 8 ss.
130 Su tali aspetti, rinvio a X. XXXXXXXX, Lavoro a tempo determinato, cit., 9 ss.
carattere imperativo della disposizione, oltre che dal «tono incisivo» utilizzato131 è ricavabile dal «tipo di interessi tutelati e d(ai) fini perseguiti dalla norma»132,
consistenti nel rendere il lavoro stabile la «regola» ed il termine «la deroga»133. La disposizione, dunque, ha un valore «cogente» che si rafforza ulteriormente se il comma 01 viene letto insieme a tutte le altre disposizioni del d.lgs. 368/2001, che dimostrano come il termine sia ammesso solo alle condizioni tassative previste dalla legge e non possa costituire la «forma comune» di lavoro subordinato. Nei casi in cui
il contratto a termine è stipulato in assenza delle ragioni giustificative o della forma
vincolata, oppure in contrasto con i divieti o in mancanza delle condizioni economiche ed organizzative che legittimano la proroga, la clausola appositiva del termine è nulla per contrasto con queste disposizioni imperative e viene sostituita dalla norma inderogabile e cioè il lavoro stabile134. In queste ipotesi, inoltre, la volontà delle parti sulla sopravvivenza o meno del contratto a seguito della sua invalidità parziale è irrilevante, perché sono in gioco interessi superindividuali (di carattere pubblico o privato) espressi da norme inderogabili che prevalgono sui contenuti del contratto ed anche in relazione a clausole qualificate dai contraenti come essenziali135. Il dibattito è stato recentemente rianimato da una sentenza della Corte costituzionale136. La Corte si occupa del lavoro a tempo parziale regolato da una disposizione (l'art. 5, comma 2, del d.l. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella l. 19 dicembre 1984, n. 863) oggi non più vigente e che, per
pacifica interpretazione, imponeva per il parttime la forma ad susbtantiam. Il giudice delle leggi afferma che, in caso di mancanza di atto scritto, si può applicare l'art.
131 X. XX XXXX XXXXXX, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, 20.
000 X. XX XXXX XXXXXX, op. ult. cit., 20.
133 X. XXXXXXX (Il contratto, cit., 67) afferma che il comma «01» rafforza la tesi dell’applicazione dell’art. 1419, comma 2, c.c. In senso analogo X. XXXXXXXXX, Le novità, cit., 111.
134 In questo caso l’invalidità opera ai sensi dell’art. 1419, comma 2, (o 1339) c.c. anche in mancanza di una disposizione che espressamente preveda la nullità e l’effetto sostitutivo. Rinvio, su tali aspetti a X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 407 ss.; ID., Lavoro a tempo determinato, cit., 9 (con indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali) e, più recentemente, a P. M. PUTTI, La nullità parziale, Napoli, 2002, 168 ss.
135 Per le indicazioni bibliografiche degli autori civilistici su tali aspetti rinvio a X. XXXXXXXX, La nuova legge, cit., 406 ed a P.M. PUTTI, op. ult. cit., 150 ss.
136 C. Cost. 15 luglio 2005, n. 283, ADL, 2005, 895 ss.
1419, comma 1, c. c., con conservazione del contratto «sempre che la clausola nulla non risulti avere carattere essenziale per entrambe le parti del rapporto nel senso che, in particolare, anche il lavoratore, il quale di regola aspira ad un impiego a tempo pieno, non avrebbe stipulato il contratto se non con la clausola di riduzione di orario».
La sentenza è stata interpretata nel senso della possibile applicazione, anche nel
rapporto di lavoro, dell'art. 1419, comma 1, c.c., con la necessità, nel contratto a t. determinato, di ricostruire la volontà delle parti al fine di verificare l'essenzialità o meno del termine137. E, qualora quest’ultima fosse verificata, vi dovrebbero essere le conseguenze già descritte (estinzione del contratto, applicazione dell'art. 2126 c.c. ecc.).
Va subito osservato che la sentenza del 2005 sembra affermare, almeno indirettamente, che il tempo pieno é una "regola" imperativa, rispetto alla quale il parttime si pone come eccezione (che doveva essere espressamente stipulato per iscritto, a pena di invalidità)138. Ma se è così, va ricordato che, ai sensi dell'art. 1419, comma 2, c.c. la sostituzione con la norma imperativa prevale sulla volontà delle parti anche se l'invalidità sarebbe, per i soggetti stipulanti, tale da inficiare l'intero contratto. In questo caso, in sostanza, il primo comma dell'art. 1419 c.c. non è applicabile, perché le intenzioni dei contraenti sono irrilevanti per l’esigenza di far prevalere il regolamento imperativo della legge e gli interessi da questa tutelati. Per le stesse ragioni, il principio espresso dalla Corte Costituzionale non potrebbe mai essere esteso al contratto a termine, dove sono norme imperative sia quella che prevede il t. indeterminato come «regola», sia quelle che disciplinano le condizioni per la legittima apposizione del termine (e vi è quindi spazio solo per il secondo comma dell’art. 1419 c.c.).
137 X. XXXXXXXXXXX, Il contratto a tempo determinato, cit., 481 ss. ed ev. altri.
138 La sentenza, infatti, qualifica il part time come un «sottotipo derogatorio del normale rapporto di lavoro ad orario pieno» (C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 897 e 898) e ribadisce che tra i due modelli contrattuali vi é un rapporto regola ed eccezione. Essa, inoltre, conferma che la forma ad substantiam del contratto a tempo parziale aveva finalità di protezione del lavoratore proprio in funzione di questa relazione tra «normalità» e deroga (898).
Alla sentenza n. 283/2005 sono stati attribuiti significati del tutto estranei al suo contenuto139. Comunque se, ignorando le considerazioni prima svolte, si volesse applicare il principio enucleato dalla Corte nel 2005 al contratto a t. determinato, le conclusioni non sarebbero diverse. Infatti, secondo il giudice delle leggi, occorrerebbe
dare rilievo prevalente alla volontà del lavoratore140 e l’invalidità dell’intero contratto
vi sarebbe soltanto se essa costituisse per lui un vantaggio. E’ a questo che la Corte si riferisce quando afferma che occorre indagare se il lavoratore voleva o meno un contratto parttime, oppure «di regola» aspirava «ad un impiego a tempo pieno»141.
Nel ns. caso, è sufficiente che il lavoratore affermi che, in conseguenza
dell’illegittimità del termine, non vuole che si determini l’invalidità dell’intero contratto e che egli, sin dall’origine, aveva interesse alla stipula di un rapporto stabile perché il rapporto si conservi senza la scadenza finale e si converta, quindi, in uno a tempo indeterminato142.
139 Si è detto, infatti, che la Corte avrebbe affermato che «la conversione legale automatica del contratto di lavoro invalido opera solo laddove è espressamente prevista dal legislatore» e che essa «non è ricavabile in via di interpretazione analogica» e «dipende dalla discrezionalità del legislatore» (X. XXXXXXXXX, La conversione legale
automatica dei contratti di lavoro atipici invalidi non è costituzionalmente necessitata, ADL, 2005, 835 ss.). La prima e la terza affermazione non sono rinvenibili in alcuna parte della motivazione. Mentre, per quanto attiene all’applicabilità in via analogica della conversione, questa asserzione va ascritta alla «Corte (di Cassazione) remittente» (C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 896) e non certo al giudice delle leggi che non fa mai proprio tale principio. D’altra parte, la Corte costituzionale non esprime alcuna valutazione sul carattere «costituzionalmente necessitat(o)» o meno della conversione (A. VALLEBONA, op. ult. cit., 836), ma si limita ad affermare che alla
trasformazione di un rapporto a t. parziale in uno fulltime, si può giungere con l’applicazione dell’art. 1419, comma 1, c.c., con l’erronea applicazione dei principi civilistici che è già stata censurata nel testo.
140 X. XXXXXXXXXXX, op.ult.cit., 482.
141 C. Cost. 283/2005, cit. a nt. 136, 898.
142 In senso analogo, X. XXXXXXXX, Precarietà del lavoro, cit., 709, nt. 43.