LE NOVITÀ IN MATERIA DI CONTRATTI A TERMINE, OCCUPAZIONE GIOVANILE, CONTRATTI DI SOMMINISTRAZIONE, PRESTAZIONI OCCASIONALI, LICENZIAMENTI E CENTRI PER L'IMPIEGO
LE NOVITÀ IN MATERIA DI CONTRATTI A TERMINE, OCCUPAZIONE GIOVANILE, CONTRATTI DI SOMMINISTRAZIONE, PRESTAZIONI OCCASIONALI, LICENZIAMENTI E CENTRI PER L'IMPIEGO
(a cura di Xxxxxxxx Xxxxx)
Il D.L. 12 luglio 2018, n. 87 , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 161 del 13 luglio 2018, è intervenuto, in maniera significativa, sulla disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla somministrazione e sull’indennità risarcitoria in materia di licenziamenti illegittimi.
La legge di conversione che ha superato l’esame della Camera e che, nel momento in cui scrivo, attende il parere positivo del Senato, ha introdotto significative modificazioni sia agli articoli 19, 21, 28 e 34 del D.L.vo n. 81/2015 che all’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, che ad una serie di altri istituti: mi riferisco all’offerta conciliativa ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, alle modifiche relative alle prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, limitatamente al settore agricolo, a quello del turismo e agli Enti locali, all’allungamento fino al 2020 dei benefici, già previsti dai commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani “under 35” che non hanno mai avuto un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e ad alcune misure che concernono l’implementazione degli organici presso i centri per l’impiego.
1) CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO
Tornando ai discorsi relativi ai contratti a termine che rappresentano il punto centrale di questa riflessione, ricordo che, per effetto dell’art. 29 (non “toccato”) dalla riforma sono esclusi dal campo di applicazione di tutto il Capo III (e, quindi, anche dalle disposizioni del presente Decreto) una serie di rapporti che fanno riferimento:
a) agli operai agricoli a tempo determinato la cui disciplina si trova all’interno del D.L. vo n. 375/1993;
b) ai richiami in servizio dei volontari del Corpo dei Vigili del Fuoco;
c) ai contratti a termine del personale con qualifica dirigenziale;
d) ai rapporti per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e del commercio, nei casi individuati dalla contrattazione collettiva, fermo restando l’obbligo di comunicare l’instaurazione del rapporto di lavoro entro il giorno antecedente. Si tratta di una tipologia contrattuale presente, da tempo, nel nostro ordinamento, ritornata “in auge” dopo la cancellazione dei“voucher” avvenuta con il D.L. n. 25/2017;
e) ai contratti a termine del personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze ed al personale sanitario, anche dirigente, del Servizio Sanitario
Nazionale;
f) ai contratti a tempo determinato ex lege n. 240/2010;
g) al personale artistico e tecnico delle Fondazioni musicali non si applicano i primi tre commi dell’art. 19 e l’art. 21;
h) al personale delle Pubbliche Amministrazione continua ad applicarsi l’art., 36 del
D.L. vo n. 165/2001.
1.1 Le novità del nuovo articolo 19 del Decreto Legislativo n. 81/2015
La lotta al precariato, obiettivo primario dichiarato dall’Esecutivo, parte con una profonda revisione dei contratti a tempo determinato che si concretizza sotto diversi parametri:
a) aumento dell’aliquota contributiva in caso di xxxxxxx dopo il primo contratto pari allo 0,5, cosa che, però, non riguarda i rapporti a tempo determinato del settore domestico, come chiarito con l’emendamento approvato nel corso della discussione alla Camera;
b) diminuzione della durata massima complessiva riferita ai rapporti a termine, intesi anche in sommatoria;
c) introduzioni delle causali, a partire dal tredicesimo mese di utilizzazione del lavoratore, sia che si superi la soglia dell’anno in virtù di un contratto iniziale, di una proroga o di un rinnovo;
d) ampliamento dei termini per la proposizione del ricorso giudiziario.
A tali misure, occorre aggiungerne altre che fanno riferimento al contratto di somministrazione a tempo determinato ove, peraltro, le modifiche introdotte alla Camera in sede di conversione hanno, di molto, attenuato la rigidità dell’art. 2, all’indennità risarcitoria relativa ai licenziamenti illegittimi prevista dall’art. 3, comma 1 del D.L.vo n. 23/2015 che, per gli assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, nel limite massimo, rapportato all’anzianità aziendale, per le imprese dimensionate oltre le quindici unità, può arrivare fino a trentasei mensilità partendo da una base di sei (per quelle piccole, fermo restando il tetto massimo delle sei mensilità, la base di partenza viene innalzata a tre, come si evince dalla correlazione della nuova norma con il dettato dell’art. 9 del predetto decreto), all’aumento degli importi per l’offerta conciliativa ad accettazione del licenziamento, alle agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato per gli “under 35”, ed ai
c.d. “PrestO” per il turismo, l’agricoltura e gli Enti locali.
Probabilmente (ma questo è un giudizio del tutto personale), al di là di qualche aggiustamento utile per i contratti a termine (ad esempio, la durata massima), sarebbe stato meglio che la lotta al precariato si fosse indirizzata verso le false partite IVA, le collaborazioni autonome di dubbia “autonomia”, il lavoro nero e le false cooperative, i distacchi senza interesse dell’impresa distaccante, i contratti di rete “fasulli”, piuttosto che intervenire, in modo profondo e pesante, sui contratti a termine e sulla somministrazione ove sussistono forme di garanzia “ben radicate”.
L’introduzione delle ragioni giustificatrici ed il limite massimo dei ventiquattro mesi
Ma, andiamo con ordine.
Il nuovo comma 1 dell’art. 19 stabilisce che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato è consentita, senza l’obbligo della introduzione di alcuna causale, soltanto per un periodo di durata non superiore a dodici mesi.
Un termine di durata maggiore è, ovviamente, rispettando il limite massimo di ventiquattro mesi e con l’apposizione di una delle seguenti causali:
a) esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria. Con un chiarimento apparso “in extremis” nella versione finale del Decreto Legge, poi pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è stata risolta, con buon senso, la questione dei rapporti stagionali che rischiava di bloccare le “campagne stagionali” in corso. Afferma, infatti, il comma 01 del nuovo art. 21 del D.L. vo n. 81/2015 che i contratti stagionali possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle ragioni giustificatrici.
Quanto appena detto merita alcune riflessioni.
La prima riguarda la durata: il contratto a termine, fatte salve le diverse determinazioni della contrattazione collettiva (il comma 2, su questo punto, non è stato toccato come non è stata toccata la possibilità di stipulare alla scadenza del termine massimo un ulteriore contratto presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro), può durare fino a ventiquattro mesi ma l’assenza della causale riguarda, unicamente, il primo contratto a tempo determinato (fino a dodici mesi, magari raggiungibili con una proroga): una durata maggiore necessita di causali, come necessita di causale il rinnovo di un contratto a termine stipulato nell’arco temporale dei dodici mesi (perché si tratta di un secondo contratto).
Quindi, tanto per fissare alcuni concetti: il termine si è ridotto a ventiquattro mesi ma le possibilità di deroga alla durata massima restano, seppur “mediate” da alcune specifiche procedure.
La seconda riguarda le causali per le quali la norma, a differenza di altri istituti come la durata massima, non fornisce alcuna delega alla contrattazione collettiva.
L’introduzione di tali condizioni, riappare dopo la cancellazione di quelle (per la verità, abbastanza ampie) tecnico, produttive, organizzative e sostitutive previste dal D.L. vo n. 368/2001 le quali, anche (ma non solo) per la loro genericità, erano state “portatrici” di un forte contenzioso giudiziale, come dimostrano i cinquantadue anni, dal 1962, nei quali sono rimaste in vigore. Il D.L.
n. 87/2018 le “rimette in campo”, riprendendo alcune motivazioni già presenti nella legge n. 230/1962, con una fraseologia che richiama indirizzi giurisprudenziali espressi sotto la vigenza di
quella norma.
La prima causale fa riferimento a situazioni temporanee ed oggettive la cui natura sia estranea all’attività produttiva e ad esigenze “di sostituzione” (così parla un emendamento passato alla Camera che ha sostituito la parola originaria “sostitutive”) di altri lavoratori come nel caso delle sostituzioni per maternità, malattia, infortunio e ferie. Esse, non consentono di oltrepassare la soglia dei ventiquattro mesi, pena la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, anche in sommatoria con precedenti contratti riferibili a mansioni espletate nel livello della stessa categoria legale di inquadramento.
E qui, a mio avviso, resta sempre valido l’accorgimento di inserire nel contratto a termine, oltre alla specifica causale anche il riferimento al fatto che il rapporto cessa al traguardo dei ventiquattro mesi raggiungibili, si ripete, anche in sommatoria.
Si pone, a questo punto, una questione relativa alle sostituzioni per ferie che, senz’altro, rientrano nella casistica: il datore di lavoro che nella propria organizzazione dovrà utilizzare un lavoratore per un certo periodo in sostituzione di più lavoratori in possesso della stessa qualifica (si pensi, ad esempio, alla grande distribuzione nel periodo giugno settembre) dovrà riportare i nominativi dei sostituti, oppure potrà parlare di “tout court” di esigenze sostitutive di altri lavoratori?
A mio avviso, si potranno anche omettere i nomi dei sostituti ma, nella lettera di assunzione (qualora si tratti di un rinnovo o di una proroga oltre la soglia dei dodici mesi) sarà necessario esplicitare, in modo esaustivo, la causale ed una serie di elementi di riferimento.
Sempre restando all’interno della prima causale il D.L. n. 87/2018 parla di esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria dell’impresa: qui la questione, se si resta al puro dettato letterale, sembra farsi più complicata, in quanto sembrerebbe che, superando la soglia dei dodici mesi, il contratto possa stipularsi soltanto per situazioni “straordinarie”, come ad esempio, la gestione di un progetto finalizzato o lo sviluppo di una nuova linea produttiva.
L’altra causale fa riferimento a “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria”. I tre requisiti, non presentando il testo alcuna congiunzione disgiuntiva, sembrano dover sussistere congiuntamente.
Se così fosse, la frase potrebbe essere foriera di contenziosi che attengono non soltanto alla temporaneità del contratto ma al fatto che l’incremento dell’attività debba essere “significativo”: ovviamente, in caso di lite, il parametro del giudice potrebbe essere diverso da quello del datore di lavoro (che fino a prova contraria, organizza il lavoro all’interno della propria struttura: quale è la percentuale della significatività? E, poi, come andrà valutato il riferimento agli “incrementi temporanei dell'attività ordinaria non programmabili”? Come verrà valutata, ad esempio, l’acquisizione di una commessa per la quale si è trattato per lungo tempo o come verrà valutato l’incremento, sempre, di una commessa ove, in corso d’opera, il cliente chiede un maggior ordinativo? O come sarà valutata nel settore commerciale l’assunzione di una addetta alle vendite che ha già alle spalle, più di dodici mesi di rapporto a termine con lo stesso datore, per far fronte alle maggiori vendite dei “saldi” (il periodo rientra nella ordinaria attività d’impresa in quanto le date
si conoscono dall’inizio dell’anno)?
Se la causale verrà meno perché, ad esempio, il giudice non la riterrà sussistente anche per carenza di correlazioni specifiche, il risultato sarà uno soltanto: la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato che rappresenta, non dimentichiamolo, la forma comune del rapporto di lavoro subordinato.
A tal proposito, il comma 1-bis dell’art. 1, del D.L. n. 87/2018, inserito in sede di conversione afferma che nel caso in cui venga stipulato un contratto di durata superiore ai dodici mesi senza l’inserimento di alcuna causale, lo stesso si trasforma a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi: nella sostanza, si tratta di una conversione automatica che non necessita di particolari “passaggi”.
Tutto questo nel breve-lungo periodo potrebbe, non tanto favorire l’occupazione a tempo indeterminato, ma la “rotazione” di contratti a termine di durata non superiore a dodici mesi e, soprattutto, l’esternalizzazione attraverso appalti, anche ai limiti della legalità, il ricorso ad improbabili forme di collaborazione, peraltro sanzionate, in caso di controllo, dall’art. 2 del D.L.vo
n. 81/2015 (ma qui saranno gli ispettori del lavoro che dovranno cercare di limitare e controllare il fenomeno). Al contempo, potrebbe essere accentuato il ricorso a terzisti ubicati all’estero la cui proprietà non è dell’impresa che importa in Italia e, che, quindi, non ha delocalizzato e che, di conseguenza, non ricadono nelle misure di recupero previste nel c.d. “Decreto Dignità”.
Per completezza di informazione ricordo che in materia di contratti a termine continua a sussistere la sanzione amministrativa (del tutto particolare per come fu pensata) prevista dall’art. 23, comma 4, applicata dagli ispettori del lavoro in caso di superamento della percentuale legale o contrattuale, secondo le modalità declinate dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18 del 30 luglio 2014. Tale sanzione, essendo, ex lege, esclusa qualsiasi trasformazione in contratto a tempo indeterminato, è l’unica che si applica in caso di “sforamento” della percentuale.
Il limite massimo dei ventiquattro mesi non riguarda i contratti di lavoro stagionali per i quali è rimasta invariata (comma 2 dell’art. 21) la previsione già contenuta, a suo tempo, nell’art. 5, comma 4 –ter del D.L. vo n. 368/2001: essi percorrono una strada parallela, destinata a non incontrarsi mai, con quella degli altri contratti a termine.
Infatti, oltre alla non computabilità all’interno dei ventiquattro mesi intesi quale limite massimo, va ricordato che lo “stop and go” tra un rapporto e l’altro non trova applicazione e che l’esercizio del diritto di precedenza per un nuovo contratto, rafforzato attraverso l’informazione scritta contenuta nella lettera di assunzione, riguarda soltanto le ulteriori “campagne stagionali”: ricordo, nuovamente, che l’apposizione della causale non è richiesta.
Ma, detto questo, torno ad esaminare l’art. 19 ed esattamente il comma 2, ove l’unica novità introdotta riguarda la sostituzione della parola “trentasei” con “ventiquattro”.
Tale limite massimo, tuttavia, può essere derogato sia dalla contrattazione collettiva (la vecchia norma che fa salve le intese sindacali non ha subito cambiamenti), anche aziendale, secondo la
specifica offerta dall’art. 51 (v. tra l’altro, l’accordo del settore metalmeccanico ove la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione può arrivare al limite dei 44 mesi o anche quello dei chimici, tanto per restare in ambiti particolarmente importanti del nostro sistema industriale), che con l’ulteriore contratto stipulato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro per un massimo di dodici mesi. Il limite, autonomo, fissato dalla contrattazione collettiva resta, atteso che la nuova norma nulla di nuovo ha detto in ordine a tale autonomia che resta pienamente in vigore non essendo neanche stata limitata con l’inserimento di un “tetto massimo”.
Per quel che concerne l’ulteriore contratto stipulato in sede di Ispettorato territoriale del Lavoro, senza entrare nel merito di quest’ultima possibilità, cosa che mi porterebbe lontano dall’argomento ricordo che:
a) il Ministero del Lavoro ha fornito i propri chiarimenti con la circolare n. 13/2008 che, a mio avviso, dovrebbe essere aggiornata alla luce delle novità introdotte;
b) l’ulteriore contratto deve contenere una delle causali indicate nel nuovo art. 19;
c) l’ulteriore contratto “è uno solo”: ciò significa che se, ad esempio, la durata è di sei mesi, tale limite non può essere superato né con una proroga, né con un rinnovo;
d) l’ulteriore contratto non riguarda il personale con qualifica dirigenziale, la cui disciplina esula dal Capo III del D.L.vo n. 81/2015;
e) l’ulteriore contratto non è applicabile ai contratti stagionali che, come detto, hanno una disciplina “parallela” rispetto agli ordinari contratti a termine;
f) l’assistenza del lavoratore da parte di una organizzazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, non è più obbligatoria (ciò era previsto nel D.L.vo n. 368/2001).
Ma, la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione (riferibili a rapporti con mansioni che sono individuate nello stesso livello della categoria legale di inquadramento, ai fini del raggiungimento dei ventiquattro mesi), come va effettuata?
La circolare del Ministero del Lavoro n. 18/2012, prendendo lo spunto dal fatto che l’obbligo fu introdotto con la legge n. 92/2012, chiarì che i rapporti di somministrazione dovessero essere calcolati a partire dal 18 luglio del 2012, data di entrata in vigore della norma: ritengo che tale indirizzo possa essere confermato.
Nel computo non rientrano i periodi trascorsi, anche a termine, con il lavoro intermittente, le prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, i “vecchi voucher” ex art. 70 del D.L. vo n. 276/2003, i periodi, eventuali, legati ad un rapporto a tempo indeterminato o ad un rapporto di apprendistato, il contratto di inserimento, ora abrogato.
La dizione operata dal Legislatore ed il fatto che le note amministrative del Dicastero del Lavoro intervenute in passato (circolari n. 13/2008, n. 18/2012 e n. 18/2014) nulla dicano sull’argomento, indice a ritenere che non sono assolutamente sommabili tra di loro periodi con contratti a termine
lavorati alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte dello stesso gruppo. Il discorso può presentarsi alquanto complesso e delicato in quanto in alcune ipotesi la pluralità di aziende collegate (con un unico centro organizzativo e direzionale) non coincide con la nozione giuridica di “gruppo di imprese”, come dimostrato (sia pure ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970) dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14553 del 17 agosto 2012.
Ovviamente, si può porre il problema di un’impresa che, per effetto di fusioni ed incorporazioni abbia, giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di aziende prima “viventi”: non è possibile trovare una risposta di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere che, in quest’ultimo caso, possa operare la sommatoria dei contratti, cosa che, sicuramente si verifica laddove interviene l’art. 2112 c.c. con la cessione di azienda o ramo di essa.
Tornando all’esame del provvedimento governativo occorre rimarcare come il comma 4 dell’art. 19 sia stato riscritto con alcuni specifici cambiamenti.
Il contratto, con la sola eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a dodici giorni, deve risultare da atto scritto: in caso contrario, l’apposizione del termine non ha effetto. Rispetto al vecchio testo, è stata espunta la possibilità di provare l’esistenza del termine documentandolo con qualunque altro riferimento diretto od indiretto: la relazione tecnica, allegata al Decreto, ha giustificato tale modifica con la necessità di rendere “più agevole l’interpretazione estensiva della norma”. A mio avviso, poco cambia rispetto al passato nel senso che, senza il termine, il contratto viene inficiato alla radice, ed il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio.
La forma scritta del contratto riguarda anche i rapporti legati alle attività stagionali, per le quali lo stesso Legislatore ha stabilito ipotesi diverse sia per quel che concerne la non necessità dello “stacco” tra un contratto e l’altro, che per l’esclusione dal computo massimo dei ventiquattro mesi che, infine, per i termini temporali per l’esercizio del diritto di precedenza per un successivo rapporto stagionale.
L’applicazione della disciplina relativa al contratti a termine per attività stagionali non può prescindere da un esame, sia pur breve, delle disposizioni, anche di natura pattizia che hanno trattato, nel tempo la materia, sottolineando, peraltro, che l’art. 19, comma 2, parlando delle proroghe e dei rinnovi, afferma che la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine ove non sia stato rispettato lo stacco non trova applicazione ai contratti stagionali ove le attività stagionali saranno individuate da un D.M. del Ministro del Lavoro e dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Con la stessa disposizione, si afferma la “validità a tempo” del DPR n. 1525/1963 (che contiene attività alquanto desuete) che resta in vigore fino all’entrata in vigore del Decreto Ministeriale (sono trascorsi oltre tre anni dall’entrata in vigore del D.L. vo n. 81/2015 e non è successo nulla).
Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 42 del 1° agosto 2002, affermò che non esiste alcuna predeterminazione alla durata dei contratti (il riferimento era alla voce n. 48 del DPR n. 1525/1963
– attività esercitate da aziende turistiche, con un periodo di inattività non inferiore a settanta giorni continuativi o a centoventi giorni non continuativi -), essendo la stessa una variabile strettamente correlata alle esigenze produttive del datore di lavoro, attesa anche la nota dell’INPS espressa con la circolare n. 36/2003 con la quale si ribadiva l’ammissibilità, in via generale, del contratto a termine, strettamente riferito alle esigenze aziendali, supportate dalle motivazioni datoriali. Va, inoltre, ricordato come la contrattazione collettiva nazionale (ora, il Legislatore delegato, amplia tale potere anche a quella aziendale) sia andata oltre il concetto di mera stagionalità (si pensi al settore turistico che, il 30 aprile 2015 ha sottoscritto un ulteriore avviso comune sulla stagionalità, firmato da Federalberghi, Faita, CGIL, CISL e UIL di categoria), tale da ricomprendere quelle imprese che non operano soltanto in un determinato periodo, ma anche durante tutto l’anno e che si trovano ad affrontare problemi legati ad incrementi dell’attività, secondo un indirizzo, un po’ datato del Ministero del Lavoro, espresso nel lontano 1997.
L’art. 19 comma 4, nel testo rinnovato dal D.L. n. 87/2018 ribadisce l’obbligo, in carico al datore di lavoro, di consegnare al dipendente copia dell’atto scritto entro i cinque giorni lavorativi, successivi all’assunzione. La mancata consegna, di per sé stessa, non appare gravata di sanzione ma, a mio avviso, rientra negli obblighi previsti dall’art. 4-bis, primo periodo, comma 2, del D.L. vo n. 181/2000, ove si afferma che all’atto della instaurazione del rapporto, prima dell’inizio dell’attività, i datori di lavoro privati sono tenuti a consegnare ai lavoratori copia della comunicazione di instaurazione del rapporto. Tale obbligo si ritiene assolto se il datore consegna, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia del contratto individuale che contenga tutte le informazioni richieste dal
D.L. vo n. 152/1997: la violazione viene punita con una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1.500 euro. L’onere citato nel D.L. n. 87/2018 appare, nella sostanza, una duplicazione burocratica che, forse, si poteva evitare.
Questo è solo uno degli impegni amministrativi che gravano sul datore di lavoro e strettamente correlati alla stipula del contratto a termine e forse, questa è, l’occasione per ricapitolarli tutti:
a) comunicazione di assunzione: va effettuata, telematicamente, al centro per l’impiego almeno nel giorno antecedente l’effettivo inizio del rapporto. Per i datori di lavoro pubblici (art. 1, comma 2 del
D.L. vo n. 165/2001) c’è più tempo, nel senso che l’onere della comunicazione può essere assolto, come, del resto per le agenzie di somministrazione che assumono lavoratori a termine da indirizzare alle aziende utilizzatrici, entro il giorno venti del mese successivo a quello in cui si è verificata l’instaurazione del rapporto (per tali soggetti, il termine riguarda anche le cessazioni e le proroghe). La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro sanabile, nella misura minima, attraverso l’istituto della c.d. “diffida obbligatoria”;
b) trasformazione del rapporto: la comunicazione telematica va inviata entro i cinque giorni successivi al verificarsi dell’evento: la violazione segue le regole sanzionatorie appena riportate;
c) comunicazione di cessazione: se la data è stata già indicata nella comunicazione di assunzione, l’onere si intende assolto (in caso contrario tutto va fatto entro i cinque giorni successivi e l’apparato sanzionatorio è identico ai precedenti casi);
d) scritturazioni sul Libro Unico del Lavoro: vanno effettuate entro la fine del mese successivo cui le stesse si riferiscono.
Il nuovo comma 4 prosegue, ricordando che in caso di rinnovo (quindi di un nuovo contratto a tempo determinato) l’atto scritto deve contenere la specificazione di una delle causali previste al comma 1 (cosa che non vale per i “contratti stagionali”): qualora, invece, ci si trovi di fronte ad una proroga (come vedremo, nei ventiquattro mesi possono essere soltanto quattro e non cinque) l’individuazione della condizione alla base del contratto è necessaria soltanto se il termine complessivo supera i dodici mesi.
Da quanto appena detto si evince, chiaramente, che un primo contratto a termine di sei mesi, può essere senza causale se, con la proroga, non supera la soglia sopra indicata, mentre se il primo cessa e, poi, se ne stipula un altro, è necessaria la causale pur se si dovesse restare, in sommatoria con il precedente contratto, entro il tetto dei dodici mesi.
Sempre il comma 4 dell’art. 19 riconferma che per i rapporti di breve durata non superiori a dodici giorni non è necessaria la forma scritta.
La prova di queste situazioni, infatti, non è soggetta a prescrizioni formali e, in caso di giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio (Cass., 8 luglio 1995, n. 7507).
Il periodo va inteso, a mio avviso, come dodici giorni lavorativi, in quanto appare plausibile che il parametro di riferimento sia rappresentato dalle “due settimane”, comprensive dei due giorni di riposo ex art. 9 del D.L. vo n. 66/2003.
Alcune considerazioni si possono trarre dal disposto normativo:
a) la mancanza della forma scritta è un fatto puramente formale, atteso che sul datore di lavoro grava sempre l’obbligo della comunicazione di assunzione anticipata telematica al centro per l’impiego;
b) il contratto rientra nella percentuale legale del 20% ed in quella prevista dalla contrattazione collettiva (a meno che non vi sia stata una esplicita esclusione);
c) il venir meno della occasionalità, un tempo prevista dal D.L. vo n. 368/2001, consente ai datori di lavoro di usufruire, più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei dodici giorni, ma, il nuovo dettato normativo (trattandosi di rinnovo pur se la “forma” resta orale) chiede che il rapporto sia supportato da una causale (almeno questa appare la lettura coordinata con le nuove disposizioni);
d) non è consentita la utilizzazione di istituti che consentano il superamento di tale limite (sforamento del termine, proroga, ecc.).
Xxx contratti non a tempo indeterminato (art. 2, commi 28 e 29 della legge n. 92/2012), compresi quelli stipulati dalle c.d. “star-up innovative” e quelli “orali” fino a dodici giorni, si applica un contributo addizionale, a carico dei datori di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, il cui scopo principale è, oggi, quello di contribuire al finanziamento della NASPI. Ora, con la previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 3 del D.L. n. 87/2018, il contributo dell’1,40% viene aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato: tale regola vale anche per la somministrazione. Per effetto di un emendamento approvato ed inserito all’interno del predetto comma 2, il contributo addizionale non si applica ai contratti di lavoro domestico.
Il contributo addizionale non si applica:
a) ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
b) ai lavoratori assunti a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali previste dal
D.P.R. n. 1525/1963;
c) agli apprendisti che, però, stipulano, sin dall’inizio, un contratto a tempo indeterminato, fatta eccezione per quelli stagionali disciplinati contrattualmente, al momento, nel solo settore del turismo;
d) ai lavoratori dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni, individuate ex art. 1, comma 2, del D.L. vo n. 165/2001.
Nell’intento di favorire la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, il Legislatore (art. 2, comma 30, come interpretato dall’art. 1, comma 135, della legge n. 147/2013) ha previsto la possibilità di una restituzione della contribuzione aggiuntiva.
Dal 1° gennaio 2014 essa è totale avviene nel caso in cui, alla scadenza di un contratto a termine, il rapporto viene trasformato a tempo indeterminato. C’è, poi, un’altra ipotesi che non è “legata” alla immediata trasformazione: è quella secondo la quale la riassunzione con contratto a tempo indeterminato del lavoratore avvenga entro il termine massimo di sei mesi dalla cessazione del precedente rapporto. In questo caso, però, la restituzione degli ultimi sei mesi non è “piena” ma vanno “defalcate” le mensilità trascorse dalla cessazione del precedente rapporto a termine, come chiaramente affermato dall’INPS nella circolare n. 15/2014. La trasformazione (v. messaggio INPS
n. 4152 del 17 aprile 2014) può avvenire, qualora ne ricorrano le condizioni, anche con un rapporto di apprendistato: a tal proposito, l’INPS richiama il contenuto dell’interpello del Ministero del Lavoro
n. 8/2007 il quale ritiene attivabile la tipologia pur in presenza di precedenti rapporti a termine o di somministrazione la cui durata non abbia superato la metà del periodo formativo dell’apprendistato (in sostanza, diciotto mesi per quello professionalizzante, con esclusione delle qualifiche riferite al settore artigiano).
Per completezza di informazione ricordo che la trasformazione a tempo indeterminato di un
contratto a termine va vista anche nella logica incentivante dei commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 ove il giovane, almeno per il 2018, non deve aver varcato la soglia dei trentacinque anni. Tale limite ultimo, in vigore per il solo 2018, è stato esteso, per effetto dell’art. 1- bis, inserito in sede di conversione, agli anni 2019 e 2020.
1.2 I contenuti dell’art. 21 in ordine alle proroghe ed ai rinnovi
L’istituto delle proroghe e dei rinnovi è stato, profondamente, ritoccato.
L’esame che si intende effettuare riguarda non soltanto l’istituto ma anche le possibili correlazioni con altri “passaggi normativi” non toccati dalla legge di riforma.
Ma, andiamo con ordine.
Prima del comma 1, è stato inserito il comma 01 ove si stabilisce che il contratto a termine può essere rinnovato soltanto in presenza di una delle causali individuate al comma 1 dell’art. 19 e che, qualora ci si trovi di fronte al primo rapporto, questo può essere prorogato liberamente all’interno del periodo massimo (dodici mesi) mentre, se si supera tale soglia, soltanto in presenza di una esigenza specifica contemplata dalla causale: tale regola, non si applica ai contratti stagionali.
La violazione di tali precetti comporta (è questo un chiarimento esplicito inserito in sede di conversione) la trasformazione del contratto a tempo indeterminato.
Ora, il numero massimo delle proroghe viene stabilito in quattro nell’ambito dei ventiquattro mesi e a prescindere dal numero dei rinnovi contrattuali che, comunque, è bene ripeterlo, a partire dal secondo, debbono essere supportati da una causale, pur se si è all’interno dei primi dodici mesi.
Ma, cosa succede se il numero delle proroghe, nell’arco temporale prefissato, risulta superiore a quattro?
Il D.L. vo n. 81/2015, come riformato dal D.L. n. 87/2018, afferma che il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della quinta proroga (e non, quindi, dall’inizio).
Il consenso del lavoratore è sempre richiesto: qui nulla è cambiato rispetto al passato e la stessa Giurisprudenza ha convenuto, fin dalla vigenza della legge n. 230/1962, che lo stesso potesse essere manifestato in forma orale (Cass., n. 6305/1988; Cass., n. 4360/1986; Cass., n. 3517/1981), o ravvisabile per “fatti concludenti” dalla prosecuzione dell’attività lavorativa (Cass. n. 4939/1990) e potendo essere fornito dal prestatore, anche in via preventiva, al momento della stipula iniziale (Cass., n. 6305/1988).
Si pone, poi, un’altra questione relativa alla proroga, cosa che, con il vecchio testo, era di secondaria importanza: ora, tranne il caso dei primi dodici mesi, anche la proroga va motivata con una causale. Quindi, potrebbero tornare in auge le conclusioni alle quali, in presenza delle condizioni previste al comma 1 dell’art. 19, giunse la Giurisprudenza (Cass., n. 10140/2005; Cass.,
n. 9993/2008) che l’aveva riferita alla “dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale”. Ciò stava a significare che attraverso la proroga il dipendente non poteva essere adibito ad altre
attività non correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato: ovviamente, la proroga, ferme restando le mansioni, potrebbe riferirsi ad una causale (ad esempio, ragioni “di sostituzione”) diversa da quella originaria (ad esempio, incrementi temporanei e significativi).
Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che, possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a cinque anni. La giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il limite massimo) era possibile anche senza necessità di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 1274; Cass., 17 agosto
1998, n. 8069).
L’istituto della proroga non trova applicazione (art. 29, comma 4), per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale.
L’art. 21, comma 3 afferma, poi, che i limiti relativi alle proroghe ed ai rinnovi non si applicano alle imprese c.d. “start up innovative” previste dall’art. 25 della legge n. 221/2012 per il periodo di quattro anni dalla costituzione o per il più limitato arco temporale
previsto dal comma 3 dell’art. 25 per le società già costituite.
C’è, poi, il problema delle proroghe nei contratti stagionali: la norma inserita nell’art. 21 ha una valenza generale che, però, poco si attaglia ai rapporti la cui causale è la stagionalità. Probabilmente, la questione è meno pressante che in altri settori potendosi, per legge, “legare” un contratto all’altro senza soluzione di continuità, ma questo significa, da un punto di vista prettamente operativo, una maggiore difficoltà burocratica (occorre stipulare un nuovo contratto, sono necessari altri adempimenti, ecc.). Nel settore alimentare, forzando un po’ la disposizione legale, il 7 novembre 2014 le associazioni datoriali aderenti a Confindustria e quelle nazionali di categoria di CGIL, CISL e UIL hanno stabilito che nei rapporti stagionali del settore ogni singolo contratto, la cui durata massima è di otto mesi, può essere prorogato fino a quattro volte. La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo) al centro per l’impiego, competente per territorio o presso il quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la sezione 4 del modello “Unilav”. L’inottemperanza al precetto (mancata comunicazione o ritardo) è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro, onorabile con il minimo per effetto della c.d. “diffida obbligatoria”.
1.3 Termine per l’impugnazione e nuova disciplina transitoria
Il D.L. n. 87/2018 (art. 1, comma 1, lettera c) ha introdotto, altresì, un ulteriore modifica di natura processualistica che va ad inserirsi nel comma 1 dell’art. 28: l’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza, entro centottanta giorni (prima erano centoventi) dalla sua comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma scritta, dei motivi,
ove non contestuale: essa può avvenire, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale: ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966 (xxxxx://xxx. xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/Xxxxx_00_xxxxxx_0000_x.000. pdf), il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Ovviamente, l’allungamento dei termini per proporre il ricorso giudiziale dovrebbe consentire, in un’ottica di prevedibile aumento delle liti legate, soprattutto, all’accertamento della veridicità delle causali, situazioni conciliative pregiudiziali tra lavoratore (magari assistito da un legale) e l’azienda, con un sicuro aumento dei costi indiretti legati alla soluzione risarcitoria finalizzata ad evitare l’intervento della Magistratura.
A tal proposito ricordo anche il contenuto del comma 2 dell’art. 28: In caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato il giudice condanna il datore al risarcimento del danno, stabilendo una indennità onnicomprensiva in una misura compresa tra un minimo, rappresentato da 2,5 mensilità ad un massimo di 12, calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. L’importo viene determinato alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (anzianità aziendale, contesto economico, numero dei dipendenti, comportamento avuto dalle parti, ecc.). L’indennità “copre” per intero il pregiudizio subito, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive concernenti il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia giudiziale con la quale è stata ordinata la ricostituzione del rapporto di lavoro. Tale indennità viene ridotta alla metà se ci si trova in presenza (comma 3) di contratti collettivi che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.
Appare, a commento, dell’art. 1 del D.L. n. 87/2018, utile sottolineare le disposizioni contenute nel comma 2 che, rispetto al testo originario che non prevedeva alcun periodo transitorio, è cambiata con l’emendamento introdotto alla Camera. Ora si afferma che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data del 14 luglio, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.
Cosa significa tutto questo?
Dal momento della conversione in legge si “apre” una finestra che consente di effettuare, fino al 31 ottobre 2018, per i contratti stipulati in data antecedente, proroghe (fino a cinque) e rinnovi, senza causali, secondo le disposizioni in vigore fino al 13 luglio u.s. .
La scrittura della norma appare, francamente, poco felice e, in ogni caso, in attesa di chiarimenti amministrativi preannunciati dal titolare del Dicastero del Lavoro (che, in ogni caso, non potranno che essere “secundum legem” e non potranno vincolare l’interpretazione dei giudici, secondo un indirizzo espresso, a più riprese, dalla Cassazione) non si può non sottolineare come, al momento sono quattro i regimi da applicare ai contratti a termine:
a) quello ex D.L. vo n. 81/2015 per i contratti stipulati entro il 13 luglio 2018;
b) quello vigente dal 14 luglio fino alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione;
c) quello in essere dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione fino al 31 ottobre 2018;
d) quello in essere dal 1° novembre 2018;
1.4 Il contratto a termine nelle Pubbliche Amministrazioni
Una breve riflessione anche sui contratti a termine delle Pubbliche Amministrazioni
che, in gran parte, sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.L. vo n. 165/2001: rientrano nella nuova disciplina o no?
La risposta fornita dal comma 3 dell’art. 1 del D.L. n. 87/2018 è negativa e viene detto, espressamente che nei contratti a tempo determinato (ma anche nella somministrazione) continua ad applicarsi la disciplina “ad hoc” vigente, in quanto ne viene riconosciuta la “specialità”.
Vale la pena di ricordare che le prestazioni a tempo determinato vengono regolamentate dall’art. 36 del D.L. vo n. 165/2001 il quale, peraltro, ne subordina l’attivazione a “comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35. C’è, tuttavia da sottolineare che il richiamo effettuato all’interno dell’art. 36, all’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, comporti che la durata massima non sia più di trentasei mesi ma di ventiquattro. Si potrebbe sostenere che la dizione normativa potrebbe continuare a configurare un termine massimo di trentasei mesi: sarebbe opportuno, in sede di conversione, chiarire la questione. Per la verità, non sarebbe la prima volta che una determinata norma assuma contenuti differenti a seconda che il settore sia pubblico o privato: in passato ciò si verificò per le disposizioni sul contratto a tempo parziale e per l’art. 18 della legge n. 300/1970 riformato dalla legge n. 92/2012.
In ogni caso, pur senza la precisazione contenuta nel D.L. n. 87/2018 nel settore pubblico
la materia continua ad essere disciplinata dall’art. 36 sopra richiamato come previsto dal comma 4 dell’art. 29, non “toccato” dalla riforma.
2) ESONERO PER FAVORIRE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE
Con un articolo, l’1-bis, inserito dalla Camera in sede di conversione, sono state introdotte disposizioni che prolungano al 2019 ed al 2020 le agevolazioni contributive previste dai commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017, in maniera strutturale per i giovani fino ai trenta anni e per il solo 2018 per coloro che non hanno superato i 35 anni (34 anni e 364 giorni): nella sostanza, per questi ultimi, si tratta di un allungamento dei termini di fruizione del beneficio in favore dei datori di lavoro che assumono.
La norma, mentre rinvia per la piena operatività dell’esonero, ad un Decreto “concertato” tra i Ministeri del Lavoro e dell’Economia da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione, afferma che:
a) l’assunzione deve essere a tempo indeterminato a “tutele crescenti” (c’è un richiamo al D.L.vo n. 23/2015): a mio avviso, le “tutele crescenti” vanno intese in senso “atecnico”, come ebbe a dire la circolare n. 40/2018 dell’INPS. L’assunzione può essere anche a tempo parziale (le agevolazioni, ovviamente, saranno “pro –quota”): il Legislatore non ne parla ma, secondo i principi fissati dalla normativa precedente e dai chiarimenti amministrativi espressi dall’INPS, e ferme restando le determinazioni del “Decreto concertato”, dovrebbero essere esclusi i rapporti di apprendistato (che godono di una “speciale” normativa incentivante), il lavoro intermittente, pur se a tempo indeterminato, ove la prestazione ha natura episodica e dipende dalla chiamata del datore di lavoro, il contratto di lavoro domestico (per la specialità del rapporto) e le prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, per le quali di “stabile” e di “tempo indeterminato” non c’è nulla;
b) il beneficio, previsto per un massimo di trentasei mesi, consiste nell’esonero dal versamento del 50% dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, con esclusione dei premi e contributi INAIL, nel limite massimo di 3.000 euro su base annua, riparametrato ed applicato su base mensile. Ciò significa che, fatte salve indicazioni diverse provenienti dal “Decreto concertato”, essendo le parole del tutto uguali a quelle contenute nella legge n. 205/2017, varranno le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 40/2018 sia per le modalità di fruizione che per gli altri “contributi minori” dovuti in aggiunta ai versamenti INAIL;
c) l’agevolazione spetta ai datori di lavoro che assumono lavoratori “under 35” i quali non siano mai stati occupati con rapporto a tempo indeterminato con lo stesso o altro datore di lavoro, fatti salvi eventuali periodi di apprendistato (che è un contratto a tempo indeterminato) svolti presso un altro datore e non “consolidati” durante o al termine del periodo formativo. La circolare n. 40/2018 dell’INPS ha fornito, sotto questo aspetto, indirizzi abbastanza restrittivi come, ad esempio, il non aver superato il periodo di prova in un contratto a tempo indeterminato, cosa che preclude la fruizione dell’agevolazione: vedremo cosa si dirà alla luce del “Decreto concertato”. L’agevolazione dovrebbe spettare anche in caso di trasformazione del rapporto da contratto a termine a contratto a tempo indeterminato (ovviamente, in presenza delle condizioni oggettive – non aver avuto precedenti rapporti a tempo indeterminato, neanche di poche ore settimanali – e soggettive – requisito anagrafico). Ho adoperato il termine condizionale in quanto nel testo approvato non c’è alcun riferimento a tale possibilità, cosa che, invece, sussiste (ed è strutturale) per gli “under 30” nella legge n. 205/2017;
d) il sistema informativo dell’INPS, già consente di verificare se il lavoratore ha avuto precedenti rapporti a tempo indeterminato ma l’Istituto, al momento, non attribuisce alla verifica alcun valore certificatorio.
Di più non afferma la disposizione ma ritengo che la fruizione del beneficio non possa che discendere dal rispetto dei commi 1175 e 1176 dell’art. 1 della legge n. 296/2006 (regolarità
contributiva, assenza di condanne o sanzioni definitive per violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro che comportano, come pena accessoria, la sospensione temporanea del DURC, rispetto del trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale od aziendale, dalle organizzazioni sindacali di settore comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) e dall’osservanza degli obblighi scaturenti dall’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015, avendo presente che la circolare INPS n. 40/2018 ne ha dato, per gli stessi casi individuati dalla legge n. 205/2017 (art. 1, commi 100 e seguenti) una lettura “aperta”.
Resta impregiudicata (ma per l’entrata in vigore della norma alla data del 1° gennaio 2019 la cosa sarà, senz’altro, chiarita) la questione relativa agli “aiuti di Stato” di origine comunitaria, peraltro esclusi dalla circolare n. 40, in quanto indirizzati alla totalità dei datori di lavoro.
3) MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO
Quanto affermato dall’art. 2 del D.L. n. 87/2018 è stato profondamente “ritoccato” dalla legge di conversione.
Ma, andiamo con ordine, cominciando dal comma 01, introdotto in sede di conversione.
Il comma 2 dell’art. 31 viene riscritto ed introduce una percentuale di utilizzazione dei somministrati. La nuova norma fa salvi i contratti collettivi applicati dall’utilizzatore (anche aziendali) ed afferma che, fermo restando il limite legale del 20% relativo ai contratti a tempo determinato (ma che la pattuizione collettiva può definire diversamente), il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine o in somministrazione a tempo determinato non può superare complessivamente il 30% del numero dei lavoratori in forza a tempo indeterminato presso l’utilizzatore alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le stipule, con arrotondamento all’unità superiore se il decimale è pari o superiore allo 0,5. Se l’attività è iniziata in corso d’anno il limite viene calcolato al momento della stipula del contratto di somministrazione. Sono esenti dai limiti quantitativi i lavoratori in mobilità (genere, pressoché estinto, attesa la cancellazione delle liste dal 1° gennaio 2017), i soggetti disoccupati che fruiscono del trattamento di NASPI o di interventi integrativi salariali da almeno sei mesi, i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, come tali definiti dall’art. 2 (n. 4 e 99) del Regolamento CE n. 651/2014 ed individuati con D.M. del Ministro del Lavoro. Per il calcolo dei dipendenti in forza a tempo indeterminato ritengo sia opportuno continuare a riferirsi ai criteri individuati dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18/2014.
Si è, poi, intervenuti, modificandolo, sul primo periodo del comma 2, dell’art. 34 del D.L.vo n. 81/2015.
Ora, al rapporto di lavoro tra somministratore (Agenzia) e lavoratore si applica la disciplina del Capo III che regola il contratto a tempo determinato con la sola eccezione degli articoli 21, comma 2, 23 e 24: per completezza di informazione in questo esame va tenuta in debita considerazione la
frase contenuta nel comma 1-ter dell’art, 2 ove, con una formulazione poco chiara, si afferma che le causali previste dal nuovo art. 19, comma 1, in caso di ricorso al contratto di somministrazione, si applicano esclusivamente all’utilizzatore, con tutte le prevedibili questioni operative che nasceranno allorquando la somministrazione supererà la soglia dei dodici mesi. Ciò esonera le Agenzie del Lavoro dal rispetto delle causali da apporre al contratto con il lavoratore somministrato che, quindi, può essere assunto più volte per le successive missioni senza particolari problemi.
Da quanto appena detto scaturisce una considerazione: le cose, rispetto alla primaria versione del
D.L. n. 87/2018, sono radicalmente cambiate.
È vero che al contratto tra Agenzia e lavoratore si applica la disciplina del contratto a termine ma gli articoli che sono esclusi rendono tale affermazione molto “spuntata” in quanto non si applicano le causali (è un obbligo per l’utilizzatore), il limite complessivo dei ventiquattro mesi sussiste ma può essere derogato dalla contrattazione collettiva (prima riga del comma 2 dell’art. 19), non si applicano lo “stop and go” tra un contratto e l’altro, ed il limite percentuale alla stipula dei contratti, né le conseguenti sanzioni degli organi di vigilanza ispettiva (art. 23), né, infine, il diritto di precedenza (art. 24). Della normativa relativa al contratto a termine resta ben poca cosa (il divieto di qualunque atto discriminatorio – art. 25 – ed i criteri di computo necessari, ad esempio, per le “garanzie sindacali” –art. 27 – oltre, ovviamente, alle quattro proroghe – art. 21, comma
1 – che vanno correlate al principio, sempre presente nell’art. 34 del D.L.vo n. 81/2015,
secondo le quali è il contratto collettivo a stabilire il numero delle proroghe che, attualmente sono sei, ed al termine per depositare il ricorso in giudizio che è, ora, fissato in centottanta giorni - art. 28, comma 1-).
In sede di conversione, attraverso l’art. 38-bis del D.L.vo n. 81/2015, inserito attraverso il comma 1-bis, è stata reintrodotta la somministrazione fraudolenta, abrogata dal D.L.vo n. 81/2015: essa si verifica allorquando la tipologia contrattuale viene posta in essere con la specifica volontà di eludere norme inderogabili di legge (si pensi, ad esempio, ad una somministrazione con il medesimo lavoratore, titolare di due contratti a termine, separati tra di loro dallo “stop and go” che consente allo stesso di lavorare durante “lo stacco”, ponendo, quindi, in essere un “negotium in fraudem legis”). La sanzione irrogabile sia all’Agenzia che all’utilizzatore riveste natura penale: infatti, si tratta di una ammenda di venti euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione: essa si va ad aggiungere a quelle previste dall’art. 18 del D.L. vo n. 276/2003. Ovviamente, nel caso prospettato nell’esempio, la conseguenza per l’utilizzatore è anche da riferire al rapporto con il lavoratore: non essendoci stato alcun “stacco”, il rapporto si considera a tempo indeterminato sin dall’inizio.
Dovrebbe, poi, restare, pienamente in vigore la norma secondo la quale, in presenza di una somministrazione a termine di un portatore di handicap con una durata di almeno dodici mesi, lo stesso viene computato nella quota d’obbligo dell’utilizzatore ex art. 3 della legge n. 68/1999. L’utilizzatore potrà essere esentato dal mettere una causale se il rapporto tocca soltanto la soglia dei dodici mesi: se superiore, avrà difficoltà a farla rientrare (copertura dell’aliquota d’obbligo) tra
quelle previste nel nuovo art. 19.
Di conseguenza, trascorso tale periodo e persistendo la scopertura, dovrà adempiere all’obbligo occupazionale attraverso una assunzione.
4) DISPOSIZIONI PER FAVORIRE IL LAVORATORE NELL’AMBITO DELLE PRESTAZIONI OCCASIONALI
Con tale titolo della rubrica il nuovo art. 2-bis introduce significative modifiche alla disciplina sulle prestazioni occasionali previste dall’art. 54-bis della legge n. 96/2017, rendendone più agevole il ricorso in agricoltura, nel settore turistico e negli Enti locali. Per completezza di informazione, ricordo che la normativa aveva già subito alcune integrazioni, per effetto della legge n. 205/2017, in favore delle società sportive identificate dalla legge n. 91/1981. Sotto l’aspetto amministrativo la materia continua ad esser disciplinata dalla circolare n. 107/2017 dell’INPS, dal messaggio n. 2887/2017 dello stesso Istituto e, per quel che concerne gli aspetti sanzionatori, dalla circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 5/2017: tali atti amministrativi debbono, ora, esser “rimodulati” alla luce delle novità introdotte.
La legge di conversione interviene su una serie di commi che sono di seguito riportati:
a) comma 8: i prestatori occasionali, all’atto della registrazione sulla piattaforma informatica predisposta dall’INPS, debbono, obbligatoriamente, autocertificare la propria condizione (ad esempio, studente, disoccupato, pensionato, ecc.);
b) comma 8-bis: tale comma, inserito con un emendamento, impone al prestatore agricolo di autocertificare di non essere stato iscritto, nell’anno precedente, negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli;
c) comma 14: si tratta della disposizione che identifica i limiti massimi dimensionali.
Alla lettera a) si afferma che le prestazioni occasionali (PrestO) sono vietate agli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori a tempo indeterminato: ora si aggiungono le seguenti parole “ad eccezione delle aziende alberghiere e delle strutture ricettive che operano nel settore del turismo….. e che hanno alle proprie dipendenze fino a otto lavoratori”.
d) comma 15: in questa disposizione viene citato l’impegno dell’utilizzatore a versare all’INPS le somme necessarie per pagare le prestazioni. Ora, viene previsto che, ferma restando la responsabilità dell’utilizzatore, le somme possano essere versate anche per il tramite dei professionisti (consulenti del lavoro) individuati dalla legge n. 12/1979;
e) comma 17: si tratta di una disposizione “cardine” relativa agli obblighi di comunicazione di inizio della prestazione alla piattaforma informatica INPS che restano del tutto invariati (almeno sessanta minuti prima, dati anagrafici, luogo ed oggetto della prestazione, compenso). Ciò che cambia sono gli oneri previsti dalla lettera d) che viene, completamente sostituita: va comunicata “la data e l’ora di inizio e di termine della prestazione ovvero, se imprenditore agricolo, azienda alberghiera o struttura ricettiva che opera nel settore del turismo o Ente locale, la data di inizio ed il monte orario complessivo presunto con riferimento ad un arco temporale non superiore a dieci giorni”. Le
quattro ore di prestazione continuativa di cui parla la lettera e) per il solo settore agricolo “sono riferite all’arco temporale di cui alla lettera d) del presente comma”: ossia dieci giorni. Così come è scritta la disposizione, imporrà, a mio avviso, una riflessione circa le forme di controllo sulla legittimità di “PrestO” nei settori sopra evidenziati, cosa che dovrà essere effettuata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro;
f) comma 19: con questa disposizione l’art. 54-bis disciplina in maniera puntuale le modalità di pagamento che sono effettuate dall’INPS il giorno 15 del mese successivo al quale si riferiscono le prestazioni. Ora viene aggiunta la seguente frase: “ A richiesta del prestatore espressa all’atto della registrazione nella piattaforma informatica INPS, invece che con le modalità indicate al primo periodo, il pagamento del compenso al prestatore può essere effettuato, decorsi quindici giorni dal
momento in cui la prestazione lavorativa inserita nella procedura informatica マ consolidata, tramite
qualsiasi sportello postale a fronte della generazione e presentazione di univoco mandato ovvero di autorizzazione di pagamento emesso dalla piattaforma informatica INPS e stampato dall’utilizzatore, che identifica le parti, il luogo, la durata della prestazione e l’importo del corrispettivo. Gli oneri del pagamento del compenso riferiti a tale modalità sono a carico del prestatore”.
g) comma 20: l’impianto sanzionatorio viene confermato con una sola eccezione che riguarda gli imprenditori agricoli che potrebbero essere stati tratti in inganno dalla autocertificazione del prestatore che ha dichiarato, ad esempio, di non esser iscritto negli elenchi anagrafici dell’anno precedente. Ebbene, viene fatto salvo l’imprenditore laddove si dimostri che la violazione “derivi dalle informazioni incomplete e non veritiere contenute nelle autocertificazioni rese nella piattaforma informatica INPS dai prestatori”.
5) INDENNITÀ PER IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO E PER L’OFFERTA CONCILIATIVA L’attenzione dei media e degli operatori è stata richiamata da una novità, contenuta nel D.L. n. 87/2018, attraverso la quale l’Esecutivo ha rivalutato l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015 che ha rappresentato uno dei provvedimenti di maggiore novità del Jobs act. Tale operazione si è realizzata con l’art. 3 il quale ha rivisto, al rialzo, intervenendo su due dei tre elementi, gli importi per il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa riferibile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, data “spartiacque” anche riguardo alla applicazione delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970.
5.1 Indennità per il licenziamento ingiustificato
Prima di entrare nel merito occorre, a mio avviso, ben identificare a favore di chi può trovare applicazione la nuova disposizione. Ho già accennato ai soggetti assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015: la norma si riferisce ai dipendenti (operai, impiegati o quadri, con l’esclusione implicita, in quanto non nominato, del personale con qualifica dirigenziale), comunque
assunti con una tipologia contrattuale a tempo indeterminato, tra cui rientra anche l’apprendistato, ed a prescindere dalla dislocazione oraria della prestazione come nel rapporto a tempo parziale.
Questi lavoratori, però, non sono i soli dipendenti “potenzialmente” destinatari.
Nella tutela (art. 2, comma 2) rientrano anche coloro che, titolari di un rapporto a tempo determinato o di apprendistato iniziato prima del 7 marzo 2015, hanno visto convertito o “consolidato” il proprio contratto dopo tale data e chi (art. 2, comma 3) pur dipendente, da prima del 7 marzo 2015, con un contratto a tempo indeterminato, da un piccolo datore di lavoro dimensionato sotto le quindici unità e che, comunque non integrava i requisiti occupazionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, abbia visto, nel tempo, crescere gli organici, per effetto di assunzioni successive, in maniera tale da superare le soglie sopra richiamate.
La prima domanda che è opportuno porsi riguarda l’assetto normativo: con questa modifica il Governo si è limitato ad apportare soltanto una modifica ai parametri risarcitori o è intervenuto nel merito dei criteri alla base dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015?
La risposta è chiara: l’intervento normativo “non tocca” minimamente i due criteri di cui la predetta disposizione è portatrice.
La regola dell’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo (con l’eccezione del “disciplinare”, per fatto materiale rivelatosi insussistente e dei casi gravi di nullità per violazione di legge, discriminatori, ritorsivi, insussistenza delle motivazioni nel recesso che colpisce i portatori di handicap, “normati” nell’art. 2) e la misura “di base” dell’indennità che è sottratta alla discrezionalità del giudice, pur se supportata da elementi oggettivi, non hanno subito modifiche: quest’ultima continua ad essere correlata all’anzianità aziendale, istituto che il Legislatore delegato definì nei minimi particolari prevedendo, all’art. 8, anche il computo per le frazioni di mese e di anno.
Affermava la vecchia norma che nelle ipotesi in cui si riscontri che non ricorrono gli estremi del licenziamento (cosa che comporta una valutazione da parte del giudice di merito) per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, mancata soppressione del posto di lavoro, mancato repechage e la questione è da valutare anche alla luce del nuovo art. 2103 c.c., come sostituito dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015 ecc.) , o per mancato motivo soggettivo anche di natura disciplinare (notevole inadempimento nella prestazione lavorativa) o giusta causa (quella che non consente la continuazione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro), il giudice dichiara cessato il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata ad alcuna contribuzione, pari a due mensilità della ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Ora, secondo la nuova previsione, l’indennità, che ha natura anche risarcitoria (oltre che sanzionatoria e satisfattiva), pur partendo da una base di due, non può essere inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR. Occorrerà riflettere se i nuovi importi possano rispondere ai requisiti sopra
evidenziati, atteso che, in passato (in diversi casi, giustamente) ci si era lamentati della efficacia non dissuasiva dell’apparato sanzionatorio che, peraltro, esclude qualsiasi onere contributivo.
Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, concetto puntualmente più tecnico di ultima retribuzione globale di fatto adoperato per l’art. 18 della legge n. 300/1970?
Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese. Il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 43 del 3 ottobre 2008, precisò che se il CCNL prevede espressamente quali elementi della retribuzione vanno calcolati e quali no, il datore è tenuto a rispettarlo, a prescindere da qualsiasi ulteriore considerazione.
Quindi, retribuzione mensile oltre ai ratei delle mensilità aggiuntive ed ai c.d. “elementi non occasionali”.
Una breve riflessione va, a mio avviso, riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo gli stessi definitivi. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, riporto alcune voci relative alla computabilità:
a) lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;
b) indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;
c) alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);
d) premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);
e) indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);
f) indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria
(Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);
g) indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);
h) indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);
i) indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);
l) indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).
Riguardo al significato di ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la risposta parte dalla retribuzione annuale accantonata per il calcolo del TFR, divisa per i mesi dell’anno, senza alcun reale riferimento alla retribuzione dell’ultimo mese sulla quale, in alcune realtà aziendali, che hanno punte stagionali o attività caratterizzate da saltuarietà, potrebbero interferire elementi transitori.
Dopo questa breve parentesi e tornando all’argomento di questa riflessione non si può non ricordare come nelle descrizioni dei “media” e nelle dichiarazioni rilasciate da commentatori ed esponenti politici in questi giorni, si affermi che l’indennità è aumentata del 50%: ciò è vero se si pensa al limite minimo dell’indennità che non può essere inferiore a sei mensilità (prima erano quattro) ed a quello massimo trentasei mensilità (prima erano ventiquattro). Tuttavia, poiché non è mutata la misura di base del computo (due mensilità all’anno calcolate in relazione all’anzianità aziendale) gli effetti della riforma, ai fini dell’applicazione massima del risarcimento (che riguarda soltanto i dipendenti delle imprese con un organico superiore alle quindici unità) sono fortemente dilazionati nel tempo.
Come si diceva, la disposizione si applica ai lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015 (7 marzo 2015): un rapido calcolo, essendo la misura correlata all’anzianità aziendale, ci porta ad affermare che il tetto massimo dei trentasei mesi per i lavoratori assunti, ad esempio nel luglio del 2015 e licenziati illegittimamente, si raggiungerà nel luglio del 2.033 e, negli anni successivi per coloro che sono stati assunti a partire dal 2016: tutto questo perché, pur essendo assicurato “un minimum” di sei mensilità, il moltiplicatore è rimasto uguale (due mensilità). Tanto per fare un altro esempio si può prendere quale parametro di riferimento il caso di un lavoratore, assunto a luglio del 2015 da un datore di lavoro dimensionato oltre le quindici unità, che ha “goduto” dell’esonero contributivo triennale previsto dalla legge n. 190/2014, e licenziato, dopo trentasei mesi con una motivazione ritenuta illegittima dal giudice.
Con il vecchio criterio l’indennità risarcitoria era pari a sei mensilità (frutto del risultato della base di calcolo non inferiore a quattro a cui vanno ad aggiungersi le due mensilità correlate all’anzianità per il terzo anno), con il nuovo criterio il lavoratore percepisce ugualmente sei mensilità che rappresentano il limite minimo risarcitorio, non essendo attivabile quello legato all’anzianità, atteso che le due mensilità per ogni anno di anzianità aziendale portano per tre anni di rapporto ad un
ammontare complessivo di sei mensilità.
Un vantaggio per il lavoratore licenziato ingiustamente si registra, invece, se il recesso interviene nei primi due anni: è il caso del lavoratore assunto a luglio 2016 da un datore di lavoro che ha anche fruito dell’esonero contributivo biennale previsto dalla legge n. 208/2015 e licenziato a luglio 2018: ebbene, con la nuova normativa l’indennità per licenziamento illegittimo è, oggi, pari a sei mensilità, mentre, prima, essendo l’anzianità aziendale pari a ventiquattro mesi, con un “minimum” di quattro mensilità, sarebbe stata, appunto, di quattro mensilità.
L’incremento che sto esaminando va, necessariamente, correlato anche con l’art. 9 del D.L.vo n. 23/2015 ove si afferma che per i datori di lavoro che non raggiungano i limiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (sono quelli piccoli) e quelli non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione o di culto, gli importi previsti dall’art. 3, comma 1 (che ora sono due mensilità all’anno partendo da una base di sei) sono dimezzati (quindi, una mensilità all’anno partendo da una base di tre) ma, il tetto massimo, evidenziato esplicitamente all’art. 9, che non è stato ritoccato, continua ad essere pari a sei mensilità. Da ciò ne consegue che il lavoratore licenziato illegittimamente da un piccolo datore non potrà mai avere un risarcimento indennitario superiore a tale soglia e, meno che mai, le trentasei mensilità.
Paradossalmente, in una piccola impresa, ove il datore di lavoro è rimasto sotto i limiti dimensionali viene ad essere maggiormente tutelato un lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 che, per effetto dell’art. 8 della legge n. 604/1966, fruisce, in luogo del rifiuto della riassunzione da parte del datore, di indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio ed alle condizioni delle parti (sulla base di un potere discrezionale che il Legislatore ha riconosciuto al giudice).
La misura massima può essere maggiorata fino a dieci mensilità se il dipendente ha una anzianità aziendale superiore ai dieci anni:
essa può salire fino a quattordici se il lavoratore ha una anzianità superiore ai venti anni, che occupino più di quindici unità. La sussistenza di tale ultimo requisito, secondo una interpretazione fornita dalla Cassazione con la sentenza n. 6531/2001, scatta in presenza del requisito dell’anzianità ma soltanto per quel datore di lavoro che “occupa complessivamente più di quindici e fino a sessanta dipendenti, distribuiti in unità produttive e ambiti comunali aventi ciascuno meno di quindici dipendenti”.
L’incremento della indennità per licenziamenti illegittimi riverbera i propri effetti anche sui licenziamenti collettivi per riduzione di personale attivati secondo la procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 e che riguardano i lavoratori assunti, a tempo indeterminato, a partire dal 7 marzo 2015.
Afferma, infatti, l’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015 che se il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art., 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione l’art. 3, comma 1, ora riformato (estinzione del rapporto alla data del recesso e corresponsione di una indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a due mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, con una base di partenza di sei e, comunque, entro un tetto massimo fissato a trentasei mensilità).
5.2 L’indennità per l’offerta facoltativa di conciliazione
Con un emendamento in sede di conversione è stato, giustamente, rivisto anche l’importo della offerta conciliativa facoltativa ad accettazione del licenziamento, prevista dall’art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, ove i valori delle somme, esenti da IRPEF, correlati all’anzianità aziendale (data di assunzione e data di licenziamento risultanti dalle comunicazioni obbligatorie), sono stati aggiornati: prima si parlava di una mensilità all’anno, calcolata sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, partendo da una base di due, fino ad un massimo di diciotto e tali valori erano ridotti alla metà (mezza mensilità all’anno partendo dalla base di una) per i datori di lavoro individuati all’art. 9 ai quali si è fatto cenno poc'anzi, con un tetto massimo fissato a sei mensilità. Ora, ferma restando la base di partenza ad una mensilità, l’importo minimo non può essere inferiore alle tre mensilità, con un tetto massimo, sempre correlato all’anzianità aziendale, che non può superare le ventisette mensilità.
Per le piccole imprese e le associazioni di tendenza ove i valori sono ridotti della metà la base di partenza sempre mezza mensilità, ma l’importo minimo è, ora, non più fissato ad una mensilità, ma ad una mensilità e mezza.
Senza entrare nel merito della offerta conciliativa, cosa che mi porterebbe lontano da questa riflessione ricordo che:
a) la somma relativa all’accettazione del licenziamento, va offerta tramite assegno circolare “in sede protetta”;
b) il periodo sul quale calcolare l’indennità non può comprendere periodi di “lavoro nero”, ma deve essere quello risultante dalle comunicazioni obbligatorie: la “ratio” di tale principio appare evidente alla luce del fatto che la “fiscalità generale” per consentire il buon esito della conciliazione, acconsente che le somme siano esenti da IRPEF;
c) il lavoratore non ha alcun obbligo di aderire alla stessa che va formulata dal datore di lavoro entro i sessanta giorni successivi al recesso;
d) il datore può condizionare l’offerta conciliativa all’accettazione di altra conciliazione afferente rivendicazioni riferite a voci concernenti la gestione del rapporto di lavoro (differenze retributive, straordinari, scatti di anzianità, ecc.), ma per queste voci si seguono le regole ordinarie relative alla tassazione ed alla contribuzione;
e) il lavoratore che accetta il licenziamento ha diritto, ricorrendo le condizioni previste dal D.L.vo n. 22/2015 alla NASPI, come chiarito dal Ministero del Lavoro con l’interpello n. 13/2015;
f) una mancata adesione alla offerta di conciliazione o un mancato accordo intervenuto al termine dell’incontro non costituiscono “valore negativo” in un eventuale successivo giudizio, atteso che la procedura di conciliazione ha carattere facoltativo;
g) l’accordo raggiunto in sede di conciliazione ha effetti estintivi anche su una eventuale vertenza di impugnativa di licenziamento già “radicata” con il deposito del ricorso.
Una riflessione si rende necessaria.
Essa riguarda la nuova indennità risarcitoria che nei limiti massimi (sia pure rapportati all’anzianità aziendale) appare superiore (trentasei mesi) rispetto alla tutela economica prevista dall’art. 18 che, ad esempio, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è compresa tra dodici a ventiquattro mensilità, ma che, ai fini dell’applicazione giudiziale tiene conto di una serie di parametri. Ovviamente, il valore superiore, come detto in precedenza, non è assolutamente immediato in quanto il limite massimo di trentasei si raggiungerà dopo diciotto anni di anzianità presso lo stesso datore (con la sola eccezione dei lavoratori impiegati negli appalti ove – art. 7 – vige il principio dell’anzianità nell’appalto e di quelli transitati presso altro datore ex art. 2112 c.c.). Un’ultima considerazione: come è noto pende davanti alla Corte Costituzionale una istanza di remissione del giudice di Roma su diversi aspetti del D.L.vo n. 23/2015 tra cui quello della inadeguatezza dell’indennità prevista dall’art. 3, comma 1: la identificazione di parametri economici più alti, se confermati dalla legge di conversione, potrebbe far venir meno, su questo punto, la decisione della Consulta.
6) ASSUNZIONI PRESSO I CENTRI PER L’IMPIEGO
Con l’art. 3-bis, introdotto in sede di conversione, è stata prevista una disposizione programmatica: per il triennio 2019 – 2021 una quota (tutta da quantificare) delle facoltà assunzionali delle Regioni, definite in sede di Conferenza permanente Stato, Regioni e Provincie Autonome di Trento e Bolzano, deve essere destinata al rafforzamento degli organici dei centri per l’impiego, con lo scopo di garantirne la piena operatività, secondo le modalità definite dalla stessa Conferenza entro il 31 marzo di ciascun anno.