2018 ADAPT University Press • www.bollettinoadapt.it • redazione@adapt.it
WorkingPaper
A s s o c i a z i o n e p e r g l i S t u d i I n t e r n a z i o n a l i e Comparati s u l D i r i t t o del l a v o r o e s u l l e R e l a z i o n i i n d u s t r i a l i
Sul “ritrovato” dinamismo del sistema di relazioni industriali
Rappresentatività e assetti contrattuali dopo l’accordo interconfederale 28 febbraio 2018
Xxxxxxxxx Xx Xxxx
Assegnista di ricerca nell’Università di Foggia
ISSN 2240-273X – Registrazione n. 1609, 11 novembre 2001 – Tribunale di Modena
Working Paper n. 7
@2018 ADAPT University Press • xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx • xxxxxxxxx@xxxxx.xx
I PUNTI CHIAVE DEL PAPER |
❖ Con la firma dell’accordo interconfe- derale le parti sociali hanno lanciato un forte segnale di “vitalità/esistenza” al sistema politico e, in modo particolare, al nuovo Parlamento ❖ Per la prima volta hanno affrontato la questione della misurazione della rap- presentatività delle organizzazioni da- toriali ❖ La misurazione della rappresentatività, però, chiama in causa la questione pre- liminare della “perimetrazione” della categoria contrattuale ❖ Le parti sociali sono intervenute anche sugli assetti della contrattazione, con- fermando la struttura a doppio livello e assegnando nuova centralità al CCNL ❖ I molti nodi irrisolti e l’obiettiva diffi- coltà che le parti sociali possano risol- verli autonomamente, inducono ad au- spicare un intervento eteronomo in materia |
ABSTRACT
Il contributo contiene una lettura “a caldo” di alcuni temi affrontati nell’accordo inter- confederale sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 28 febbraio 2018. In par- ticolare, si sofferma sulla misurazione della rappresentatività dei soggetti negoziali e sui livelli della contrattazione collettiva, in un’analisi che tiene conto del più ampio processo di autoriforma del sistema inter- sindacale intrapreso dalle parti sociali a partire dal 2011. In questo percorso, l’accordo in commento si segnala per aver introdotto importanti innovazioni che, per trovare compiuta realizzazione, richiedono la risoluzione di alcune fondamentali que- stioni, senza le quali resterebbero lettera morta. Proprio per questo, a margine dell’esame delle principali novità introdot- te nella disciplina interconfederale, ci si interroga sull’opportunità (e sull’intensità) di un intervento eteronomo che – nel ri- spetto dei principi costituzionali – contri- buisca alla normalizzazione delle relazioni industriali nel nostro Paese.
IL MESSAGGIO |
Sebbene l’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018 contenga interessanti spunti per la risoluzione di alcune criticità del nostro sistema di relazioni industriali, esso lascia irrisolte una serie di questioni che, senza il consenso di tutti gli attori del sistema, rischiano di vanifi- care gli sforzi delle parti sociali. Per tale ragione è auspicabile un intervento del Legislatore che, recependo i risultati emersi nel sistema intersindacale, definisca un quadro di regole en- tro il quale, come del resto già accade nel settore pubblico, le organizzazioni sindacali e dato- riali possano confrontarsi. Un intervento eteronomo di questo tipo potrebbe riportare le di- namiche della frammentazione rappresentativa nell’alveo di una fisiologica competizione (soprattutto sul lato datoriale) e porre un freno ai deprecabili fenomeni di dumping contrat- tuale che tradiscono la funzione anticoncorrenziale propria della contrattazione collettiva. |
Indice
1. Il contesto e le ragioni politico-sindacali dell’AI 28 febbraio 2018 tra “fisiologiche” evoluzioni del processo di autoriforma e “preoccupati” segnali di superamento del sistema intersindacale 4
2. La misurazione della rappresentatività datoriale: la “chiusura del cerchio” del processo di autoriforma avviato nel quadriennio 2011-2014 6
2.1. La “perimetrazione” delle categorie contrattuali quale condicio sine qua non
per la misurazione della rappresentatività delle parti negoziali 10
3. La dinamica pendolare degli assetti della contrattazione collettiva: dalle spinte al decentramento negli accordi 2011-2014. 14
4. …alla rinnovata centralità del CCNL nell’AI 2018 18
5. Sono maturi i tempi per una legge sindacale? 20
* L’articolo è in corso di pubblicazione in Diritto delle Relazioni Industriali, 2018, n. 4.
1. Il contesto e le ragioni politico-sindacali dell’AI 28 febbraio 2018 tra “fisiologiche” evoluzioni del processo di autoriforma e “preoc- cupati” segnali di superamento del sistema intersindacale
È nei frangenti più complessi della vita politico-istituzionale del Paese che le parti so- ciali sono capaci di straordinari passi in avanti nella risoluzione di importanti vertenze o nell’auto-riforma delle regole dell’ordinamento intersindacale. Così in dottrina si faceva notare in occasione della stipula dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011 (di segui- to: AI 2011) (X. XXXXX, L’accordo interconfederale 28 giugno 2011: un’inversione di tendenza nel sistema di relazioni industriali, in ADL, 2012, n. 1, 45), avanzando un cau- to parallelismo con quanto avvenuto quasi un ventennio prima per la sottoscrizione di due importanti protocolli trilaterali (protocolli 31 luglio 1992 e 23 luglio 1993 in mate- ria di politica dei redditi e assetto della contrattazione collettiva). Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, lo sforzo di tutti gli attori delle relazioni industriali (sindacati dei lavoratori, organizzazioni dei datori di lavoro e pubblici poteri) si rese ne- cessario per consentire all’Italia di centrare i parametri per l’ingresso nella moneta unica europea, mentre, agli albori del secondo decennio del 2000, le parti sociali in un mo- mento di forte crisi economica, politica e istituzionale hanno gettato le basi per la ri- scrittura “unitaria” delle regole su rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva nel settore privato, superando così le pulsioni “separatiste” emerse solo qualche anno prima in occasione della conclusione di alcuni importanti accordi senza la firma della Cgil (il riferimento è agli accordi quadro e interconfederale “separati” del 22 gennaio e del 15 aprile 2009 e al CCNL “separato” dei metalmeccanici del 15 ottobre 2009).
Anche l’accordo interconfederale sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con Confindustria il 28 febbraio 2018 (e ratificato il 9 marzo) (c.d. “Patto per la Fabbrica”, di seguito: AI 2018), dal quale scaturiscono le brevi riflessioni contenute nel presente scritto, è stato concluso in un momento politico di particolare criticità. Eravamo a pochi giorni dalle elezioni del 4 marzo che avrebbero sancito il definitivo ingresso del nostro Paese nella c.d. terza Repubblica, con la fine del bipolarismo fondato su due schieramenti politici contrappo- sti – quelli “storici” di centro-destra e centro-sinistra – e su una legge elettorale di tipo maggioritario (c.d. porcellum), e il consolidarsi di un sistema “tripolare”, originato dalla dirompente emersione sulla scena nazionale di una forza politica post-ideologica e anti- sistema e favorito da una legge elettorale di stampo proporzionale (c.d. rosatellum).
Ad ogni modo, sul piano delle relazioni industriali, la “particolarità” del momento stori- co non è ascrivibile all’instabilità politica di cui si avvertiva il pericolo alla vigilia dell’appuntamento elettorale (o, meglio, non solo a questa). Le parti sociali, infatti, con questo accordo hanno voluto lanciare un messaggio chiaro di “vitalità/esistenza” al si- stema politico e al nuovo Parlamento (in termini si veda X. XXXXXXXXXX, Verso il tra- guardo il «Patto per la Fabbrica», in GLav, 2018, n. 2, 4; X. XXXX, Qualche erratica considerazione sul recente accordo interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del 9 marzo 2018, in Boll. ADAPT, 2018, n. 16, e – anche se molto critico sui contenuti dell’AI 2018 – X. XXXXXX, Quel patto poco utile alla fabbrica, in xxx.xxxxxx.xxxx, 10 aprile 2018), soprattutto a quelle forze politiche che nei loro programmi lasciavano tra- sparire – nemmeno troppo velatamente – poca fiducia sul ruolo dei corpi intermedi, sino a minarne ruolo e funzione. Un vero e proprio rischio di “superamento”, come testimo- niato, ad esempio, da alcune proposte di introduzione di forme di c.d. salario minimo legale (emerse chiaramente dalle linee programmatiche e dalle dichiarazioni d’intenti delle tre forze politiche più suffragate nelle elezioni del 4 marzo 2018: Movimento 5
Stelle, Partito Democratico e la Lega), specie nelle sue declinazioni più hard (con ciò intendendo forme di salario minimo legale fissate nel quantum direttamente dalla fonte eteronoma senza il coinvolgimento delle parti sociali – nemmeno in chiave consultiva – né tanto meno con alcun riferimento alla contrattazione collettiva come, ad esempio, già previsto nel nostro ordinamento per i soci lavoratori di cooperativa ai sensi dell’art. 7, comma 4, d.l. n. 248/2007, dichiarato costituzionalmente legittimo da C. cost. 26 marzo 2015, n. 51, su cui cfr. i commenti di X. XXXXXXXX, In tema di legittimità costituzionale del rinvio al ccnl delle organizzazioni più rappresentative nel settore cooperativo per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, in RGL, 2015, II, 493 ss.,
X. XXXXXXXX, La giusta retribuzione del socio di cooperativa: un’altra occasione per la Corte costituzionale per difendere i diritti dei lavoratori ai tempi della crisi, in ADL, 2015, n. 4-5, 934 ss., D. SCHIUMA, Il trattamento economico del socio subordinato di cooperativa: la Corte costituzionale e il bilanciamento fra libertà sindacale e il princi- pio di giusta ed equa retribuzione, in DRI, 2015, III, 823 ss. e X. XXXXXXXXX, Giochi di parole sull’erga omnes, in MGL, 2015, 490 ss. Per una classificazione dei modelli di sa- lario minimo legale, in funzione del coinvolgimento delle parti sociali e del rapporto con la contrattazione collettiva, anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici, cfr. X. XXXXXXX, Salario legale, contrattazione collettiva e concorrenza, Editoriale Scientifica, 2016, in part. 21 ss.).
In altre parole, sembra ragionevole ritenere che le parti sociali abbiano sottoscritto que- sto accordo per dimostrare la vitalità e l’importanza di un sistema che per settant’anni, grazie a un’unità d’azione (certo non priva di interruzioni e momenti di criticità), ha ga- rantito la regolazione collettiva dei rapporti di lavoro nell’inerzia del legislatore ordina- rio, che non ha mai dato attuazione al sistema prefigurato dalla Carta costituzionale (sulle ragioni della mancata attuazione cfr. X. XXXXXX, Esperienze corporative e post- corporative dei rapporti collettivi di lavoro, in Il Mulino, 1956, n. 1-2; ID., Art. 39, in
X. XXXXXX (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1979, tomo I, 257 ss.; G.F. XXXXXXX, Libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, in RTDPC, 1963, 570 ss., e ora in ID., Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, 1976, con il titolo Il problema dell’articolo 39 (libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes», 133 ss.; X. XXXXXXX, Teorie e ideologie nel diritto sindacale, Edizioni di Comunità, 1972, II ed., 19 ss.; X. XXXX, Il sindacato fuori dalla costituzione, in Jus, 1975, 199 ss.; M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, 1986, 6 ss., e, più di recente, X. XXXXX, Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della Costituzione, in Labor, 2017, n. 2, 135 ss.) e tanto meno si è misurato fino in fondo nel suo difficile e pernicioso superamento.
Tutto ciò premesso, nell’economia del presente lavoro si svolgeranno alcune prime ri- flessioni su taluni temi oggetto dell’AI 2018, in particolare sulla misurazione della rap- presentatività e sui livelli della contrattazione collettiva, inserendole però nel più artico- lato processo di riforma del sistema intersindacale avviato nel 2011 e, nel cui solco (per stessa ammissione dei soggetti stipulanti) (punto 1, comma 4, AI 2018) s’inserisce l’accordo in commento.
2. La misurazione della rappresentatività datoriale: la “chiusura del cerchio” del processo di autoriforma avviato nel quadriennio 2011-2014
Una delle questioni più interessanti poste dall’AI 2018 attiene al “nodo gordiano” della misurazione della rappresentatività delle parti stipulanti, che, per la prima volta con una tale sistematicità, involge anche quella delle organizzazioni dei datori di lavoro (il tema della rappresentatività delle organizzazioni datoriali – a differenza di quello delle orga- nizzazioni dei prestatori di lavoro – è sempre rimasto ai margini della riflessione scienti- fica lavoristica e di relazioni industriali. Negli ultimi anni, invece, una serie di fattori ne hanno fatto riscoprire l’importanza, testimoniata dal vivace dibattito ospitato su alcune riviste scientifiche a partire dal 2016 – il riferimento è ad alcuni contributi comparsi su Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali e Diritti Lavori Mercati – e dalla pubblicazione di alcuni lavori monografici: V. PAPA, L’attività sindacale delle or- ganizzazioni datoriali. Rappresentanza, rappresentatività e contrattazione, Xxxxxxxxxx- li, 2017, e X. XXXXXXXX, L’associazionismo imprenditoriale nel moderno sistema di relazioni industriali, Giappichelli, 2016). Il percorso intrapreso unitariamente dalle parti sociali a partire dal 2011, infatti, aveva affrontato il tema – l’AI 2011 per quanto riguar- da la sola ammissione al tavolo delle trattative e il protocollo interconfederale 31 mag- gio 2013 (di seguito: PI 2013) e il testo unico 10 gennaio 2014 (di seguito: TU 2014) anche per quanto concerne la sottoscrizione degli accordi nazionali – rivolgendo l’attenzione esclusivamente alle organizzazioni dei lavoratori. Con l’AI 2018, invece, le parti «in continuità con le precedenti intese interconfederali» e in coerenza «con i prin- cìpi sanciti dal legislatore in tema di contrattazione collettiva» (punto 4, comma 4, AI 2018) hanno convenuto che il percorso intrapreso qualche anno prima «per essere com- piuto e pienamente efficace» necessitasse della misurazione della rappresentatività «an- che di parte datoriale» (punto 4, comma 6, AI 2018). Si può, pertanto, affermare che quest’ultimo accordo segni la “chiusura del cerchio” (senza comunque scrivere – come si vedrà più avanti – la parola “fine”) del processo unitario – non privo di ostacoli (si pensi, sul piano eteronomo, all’introduzione dell’art. 8, d.l. n. 138/2011, e, sul piano au- tonomo, alla stipula dell’AI “separato” sulla produttività del 21 novembre 2012) – di autoriforma avviato all’interno del sistema intersindacale nell’ultimo decennio. In tema di rappresentatività, infatti, si è registrata un’indiscutibile inversione di tendenza rispet- to alla prassi del nostro sistema di relazioni sindacali: se, nel lavoro privato, la legitti- mazione a contrattare è sempre stata affidata al reciproco riconoscimento delle stesse parti sociali, secondo il principio di effettività, con il nuovo metodo, invece, tale legit- timazione è stata condizionata al possesso di un dato oggettivo di rappresentatività, esterno alla valutazione dei contraenti (questa inversione di tendenza era già stata se- gnalata in dottrina da alcuni commentatori dell’AI 2011: tra gli altri, cfr. X. XXXXXXX, Contratto collettivo nazionale di lavoro e “regole sulla rappresentanza” sindacale: verso l’attuazione dell’art. 39, co. 4, della Costituzione?, in AA.VV., Il contributo di Xxxxx Xxxxxxxx all’evoluzione teorica del diritto del lavoro. Studi in onore, Xxxxxx- xxxxxx, 2013, 179 ss.; X. XXXXX, L’accordo interconfederale 28 giugno 2011: un’inversione di tendenza nel sistema di relazioni industriali, cit., 48; X. XXXXXXXXX, Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili xxxx- xxxxx del legislatore, Working Paper CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT, 2011, n. 127, 8;
X. XXXXXXXX, Regole certe su rappresentanze sindacali e contrattazione collettiva con l’accordo interconfederale 28 giugno, in LG, 2011, n. 7, 654) che per la prima volta –
per la sola ammissione ai tavoli – introduceva il principio della misurazione della rap- presentatività esclusivamente per le organizzazioni sindacali.
La molla che ha fatto scattare l’ultimo intervento dell’autonomia collettiva è senza dub- bio la crescita – costante e inarrestabile (già due anni fa X. XXXXX, I contratti nazionali: quanti sono e perché crescono, in DLRI, 2016, n. 3, 417 ss., sottolineava, analizzando l’archivio della contrattazione collettiva del CNEL, come i CCNL dal 2008 al 2015 fos- sero aumentati del 70%, passando da 398 a 706. Questo trend è stato confermato nelle successive rilevazioni, che a settembre 2016 hanno fatto registrare quota 803 e che nello stesso mese del 2017 hanno raggiunto la cifra record di 868: si cfr. Notiziario dell’Archivio dei contratti del CNEL, dicembre 2017, 6) – del numero dei contratti col- lettivi nazionali approvati negli ultimi anni (un fenomeno che le organizzazioni sindaca- li, come emerge chiaramente nel documento congiunto del gennaio 2016, attribuiscono in larga parte al «processo di frammentazione della rappresentanza associativa dell’impresa»; così il punto 1, comma 7, del documento unitario di Cgil, Cisl e Uil del 14 gennaio 2016 Un moderno sistema di relazioni industriali). Questa situazione ha messo con le spalle al muro le parti sociali, inducendole a maturare l’idea che se davve- ro avessero voluto contrastare questa “ipertrofia contrattuale” (alimentata da «soggetti senza nessuna rappresentanza certificata» e finalizzata «esclusivamente a dare “copertu- ra formale” a situazioni di vero e proprio “dumping contrattuale” che alterano la concor- renza fra imprese e danneggiano lavoratrici e lavoratori»: punto 4, comma 6, AI 2018) la sfida da accettare, soprattutto per le organizzazioni datoriali (in preda ad una crisi di rappresentanza, forse molto più profonda di quella dei sindacati dei lavoratori e su cui, tra gli altri, cfr. X. XXXXXXXX, L’associazionismo dei datori di lavoro: un elemento di fragilità delle relazioni industriali?, in DLRI, 2016, n. 3, 403 ss., e X. XXXXXX, A propo- sito di rappresentanza datoriale, ivi, 2017, n. 2, 265 ss.), fosse quella della misurazione del tasso di rappresentatività (come condivisibilmente osservato in merito alle novità in- trodotte nel sistema intersindacale nel quadriennio 2011-2014 «il nodo della rappresen- tanza – che si traduce in chi rappresenta “di più” tra i sindacati – diventa importante quando il pluralismo sindacale diventa esasperato: quando cioè la pluralità dei sindacati dà vita a divisioni non solo competitive, ma che agiscono ancora più in profondità ren- dendo difficile il funzionamento del sistema contrattuale». Così X. XXXXXXXX, P. FEL- TRIN, Al bivio. Lavoro, sindacato e rappresentanza nell’Italia di oggi, Donzelli, 2016, 112). Una sfida dal respiro amplissimo, che trascende le buone intenzioni (e le forze) delle parti sociali e che, per essere vinta, chiama in causa l’impegno diretto dei pubblici poteri, nell’immediato con un intervento ad adiuvandum (del CNEL) e in prospettiva con un vero e proprio intervento ad sostituendum (del Legislatore).
Le parti sociali, infatti, nella fase iniziale hanno ritenuto utile indicare nel CNEL (me- diante il gruppo di lavoro per il potenziamento della banca dati sulla contrattazione col- lettiva) l’interlocutore istituzionale più adatto a favorire questo percorso attraverso una doppia operazione. In primo luogo, impegnandosi a effettuare una vera e propria rico- gnizione dei vari contratti collettivi nazionali di categoria, «al fine di delinearne un qua- dro generale e consentire alle parti sociali di valutarne l’adeguatezza rispetto ai processi di trasformazione in corso nell’economia italiana» (punto 4, comma 8, lett. a, AI 2018). In secondo luogo, effettuando un censimento dei soggetti che, nell’àmbito dei suddetti perimetri contrattuali, risultino essere firmatari di contratti collettivi nazionali di catego- ria applicati ai lavoratori appartenenti ai settori oggetto di indagine, «affinché diventi possibile, sulla base di dati oggettivi, accertarne l’effettiva rappresentatività» (punto 4, comma 8, lett. b, AI 2018).
L’iniziativa delle parti sociali, diretta a contrastare il risalente e diffuso fenomeno dei
c.d. contratti pirata (su cui cfr. X. XXXXXXXX, Significato e anomalia di un contratto, in LI, 1997, n. 5, 21 ss.; X. XXXXXXXXXX, Pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria, in LD, 1997, n. 2, 261 ss.; X. XXXX, Note sui contratti collettivi
«pirata», in RIDL, 1997, I, 381 ss.), s’inserisce nel solco tracciato negli ultimi anni da diverse amministrazioni statali, spesso in stretta collaborazione con le parti sociali (su cui si veda X. XXXXXX, Contratti pirata, dall’ispettorato una soluzione pragmatica, in Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2018, 29). È il caso dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che, in riferimento a una serie di segnalazioni provenienti dal settore dei servizi di Field Mar- keting, in una recente circolare ha ribadito come nel nostro ordinamento, «pur in pre- senza di un principio di “libertà sindacale”», non sia indifferente la circostanza della mancata applicazione di un contratto sottoscritto dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. L’attuazione di determinate discipline (contrat- tazione di prossimità, benefici normativi e contributivi, calcolo della retribuzione dovu- ta, completamento/deroga di discipline legali), infatti, è subordinata «alla sottoscrizione o applicazione di contratti collettivi dotati del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi» e, pertanto, ha invitato gli uffici ad attivare specifiche azioni di vigilanza in questo senso (circ. INL 25 gennaio 2018, n. 23).
Xxxxx stesso tenore già la posizione del Ministero del lavoro che, in un interpello del 2015 sulla normativa dei benefici contributivi nel settore agricolo (int. 24 marzo 2015,
n. 8, su cui si veda X. XXXXXXX, Il principio di “meritevolezza dei benefici normativi e contributivi” ed i sindacati comparativamente più rappresentativi, in DRI, 2015, n. 3, 859 ss.), aveva affermato che, sulla scorta di una considerazione olistica del quadro or- dinamentale italiano, potessero beneficiare della normativa di favore solo quei datori di lavoro che applicassero i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sin- dacali comparativamente più rappresentative (la disciplina di settore – art. 20, comma 2, d.lgs. n. 375/1993, come sostituito dall’art. 9-ter, comma 3, d.l. n. 510/1996, convertito in l. n. 608/1996 – faceva riferimento ai datori di lavoro che avessero stipulato «i con- tratti collettivi nazionali di categoria, ovvero i contratti collettivi territoriali» mentre la successiva normativa sui benefici normativi e contributivi di carattere generale – art. 1, commi 1175 e 1176, l. n. 296/2006 – subordinava i benefici solo a quelli che avessero applicato contratti collettivi nazionali e decentrati «stipulati dalle organizzazioni sinda- cali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Il quesito, quindi, atteneva alla definizione del rapporto tra le disposizioni richiamate – la prima di carattere speciale e riferita al settore dell’agricoltura e la secon- da a carattere generale – e all’applicazione del principio lex posterior generalis non de- rogat legi priori speciali).
Sulla stessa lunghezza d’onda, infine, sembra porsi un’iniziativa annunciata dal Presi- dente del CNEL di voler introdurre un sistema per dare maggiore risalto a quei contratti collettivi (contrassegnandoli con il c.d. bollino blu) che permettono l’accesso ai benefici normativi e contributivi, avendo come parametro la contrattazione selezionata dall’Inps ai fini della legge sui minimali contributivi (X. XXXX, Intervista, in Il Sole 24 Ore, 9 no- vembre 2017, e X. XXXXXXXXXXX, Come orientarsi nella giungla dei contratti, in xxx.xxxxxx.xxxx, 20 aprile 2018).
Xxxxxx, la volontà delle parti sociali di portare a compimento la riforma del sistema prevedendo la misurazione della loro rappresentatività è da salutare sicuramente in ma- niera positiva, ma, in un contesto caratterizzato da forte pluralismo e spiccata competi- zione (soprattutto dal lato datoriale), questa novità rischierebbe di arrestarsi su di un
“binario morto” qualora non fosse accettata anche dalle altre organizzazioni datoriali. Un rischio ben presente ai firmatari dell’accordo, che si sono affrettati a precisare la ne- cessità di definire «un percorso condiviso con le altre associazioni datoriali» per arriva- re a un modello di certificazione della rappresentatività «capace di garantire una con- trattazione collettiva con efficacia ed esigibilità generalizzata, nel rispetto dei princìpi della democrazia, della libertà di associazione e del pluralismo sindacale» (punto 4, comma 7, AI 2018).
La “volontà” (o, sarebbe meglio dire, la “necessità”) di coinvolgere le altre organizza- zioni datoriali nel processo di riforma – ma soprattutto di far loro metabolizzare la “no- vità” della misurazione della rappresentatività – giustifica l’assenza nell’AI 2018 di una disciplina di dettaglio in grado di trasformare la mera enunciazione del principio (la mi- surazione della rappresentatività) in uno strumento compiuto e funzionante. In questa fase i soggetti firmatari si sono esclusivamente limitati a indicare una direzione: abban- donare una volta per tutte la strada della “rappresentatività presunta” (anche per le orga- nizzazioni datoriali) per imboccare quella della “rappresentatività misurata”. Incassato l’assenso delle altre organizzazioni datoriali sull’an si confronteranno su quantum e quomodo, ovvero sugli indici e sugli strumenti mediante i quali effettuare la misurazio- ne, su cui già sono state avanzate diverse proposte (ci si riferisce a quelle ipotesi di mi- surazione della rappresentatività datoriale contenute in alcune proposte di legge avanza- te in dottrina dal gruppo di studiosi denominato Freccia Rossa (Proposta di intervento in materia sindacale, in RIDL, 2015, III, n. 4, 205 ss.) e da quello coordinato da M. Ru- sciano e X. Xxxxxxx nell’ambito della rivista Diritti Lavori Mercati (e ivi consultabile sul n. 1/2014, 156 ss.) o contenute in alcune proposte di legge di iniziativa popolare (Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil) e parlamentare (come, ad esempio, il
d.d.l. n. 709/2013 presentato nella XVII Legislatura dai deputati X. Xxxxxxx e altri o il
d.d.l. n. 1872/2209 presentato dai senatori X. Xxxxxx e altri nella XVI Legislatura e altri, anche se molto risalenti, come il d.d.l. n. 2380/1951 presentato dal ministro X. Xxxxxxx- ci nella I Legislatura), su cui cfr. X. XXXXXXXXXX, Sulla verifica di rappresentatività delle organizzazioni sindacali datoriali, in DLRI, 2017, n. 1, 1 ss.; V. PAPA, Verso una rappresentanza misurata? Strumenti e metodi di misurazione della rappresentatività datoriale, ivi, 21 ss., e EAD., L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali. Rap- presentanza, rappresentatività e contrattazione, cit., 146 ss.). Si comprende, pertanto, la cautela adottata dalle parti sociali nell’accordo in oggetto, atteso che la “regola aurea” di un sistema di relazioni industriali fondato sul principio volontaristico è la condivisio- ne unanime (o almeno della stragrande maggioranza) delle regole da parte degli attori coinvolti (X. XXXXXXXXXX, Il sindacato confederale: un centauro del terzo millennio, in
X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Una nuova costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Editoriale Scientifica, 2014, 58), senza la quale ogni tentativo di regolazione è destinato a infrangersi sugli scogli della natura privatistica delle regola- zioni convenzionali.
Questa consapevolezza, peraltro, sembra alla base di quella che si potrebbe definire una “clausola di non ostilità” nei confronti di un intervento eteronomo che le parti sociali hanno inserito in coda alla parte dell’AI 2018 concernente la misurazione della rappre- sentatività (punto 4, comma 10, AI 2018). Le parti non si sono spinte al punto di chiede- re direttamente l’approvazione di una legge sindacale (di questo parere sembra X. XXXX, op. cit., 5) ma, convenendo sull’importanza per il nostro sistema di relazioni industriali di una normativa che disponga l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, hanno
“aperto” all’eventuale definizione di un «quadro normativo in materia» che recepisca le regole definite autonomamente nel sistema intersindacale.
2.1. La “perimetrazione” delle categorie contrattuali quale condi- cio sine qua non per la misurazione della rappresentatività delle parti negoziali
L’introduzione del principio della rappresentatività “misurata” delle parti negoziali im- pone una strada obbligata a quanti volessero misurarsi con la sua introduzione nella realtà fattuale: quella – preliminare e ineludibile – della “perimetrazione” dello spazio negoziale, vero e proprio prius logico (prima che giuridico) rispetto alla misurazione e su cui si è snodata già un’interessante riflessione dottrinale a margine degli accordi in- terconfederali stipulati tra il 2011 e il 2014 (X. XXXXXXX, Xxxxx “autoregolamentazio- ne” alla “legge sindacale”? La questione dell’ambito di misurazione della rappresen- tatività sindacale, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Una nuova costi- tuzione per il sistema di relazioni sindacali?, cit., 331 ss., e ivi A. XXXXXXX, Soggettività sindacale e categorie contrattuali, 395 ss.; X. XXXXX, Gli accordi interconfederali del 2013 e i persistenti problemi teorici (e pratici) della definizione autonoma della “cate- goria contrattuale”, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Xxxxxxxx, dissenso e rap- presentanza: le nuove relazioni sindacali, Cedam, 2014, 361 ss.).
La delimitazione dello spazio negoziale entro cui operare la rilevazione, peraltro, chia- ma in causa la questione della “categoria contrattuale”, che, con la fine del sistema cor- porativo e l’avvento del nuovo assetto costituzionale, è stata ricondotta, sulla scorta del- la libertà di organizzazione sindacale al principio dell’autodeterminazione della catego- ria professionale (per una critica alla tesi che si fonda su tale principio cfr. il recente saggio di X. SIOTTO, La categoria come ambito di applicazione e perimetro di misura- zione della rappresentanza, in RIDL, 2017, n. 2, I, 311 ss.), per cui – come sancito nella prevalente giurisprudenza costituzionale e di legittimità sull’art. 2070 x.x. (xxx. X. xxxx. 0 xxxxxx 0000, x. 00, xx XX, 0000; I, 1103; in RDL, 1964, II, 15, con nota di P.P. Ci- pressi; in GC, 1963, 822, con nota di X. Xxxxxx; in MGL, 1963, 177, con nota di X. Xxxxxxx; C. cost. 26 giugno 0000, x. 000, xx XX, 0000, X, 0000; in GC, 1969, II, 1601, con nota di X. Xxxxxxx; in MGL, 1969, 383, con nota di X. Xxxxxxxxx, e in DL, 1969, II, 318, con nota di X. Xxxxxxxx; e, tra le altre, Cass., Sez. Un., 26 marzo 1997, n. 2665, in GI, 1998, 915, con nota di X. Xxxxxxx) – la categoria è quell’entità economico-sociale risultante dalla spontanea organizzazione sindacale e dall’autonomia collettiva, tanto da far icasticamente affermare che, nell’attuale assetto normativo post-costituzionale, «ca- tegoria è termine più performativo che constativo: “dire” la categoria equivale a “fare” la categoria» (X. XXXXXXX, Soggettività sindacale e categorie contrattuali, cit., 397) o, ancora, che essa sia «figlia legittima del contratto collettivo e di esso soltanto: non della legge o di regolamenti ministeriali» (così X. Xxxxxxx in X. XXXXXX (a cura di), Intervista a Xxxxxxxx Xxxxxxx, in RIDL, 1993, I, 162-163).
Questa ricostruzione ben si attaglia a un sistema di relazioni industriali fondato sul reci- proco riconoscimento dei soggetti negoziali e contraddistinto dalla presenza di un unico contratto collettivo; è destinata, però, a mostrare la sua “fragilità” nel momento in cui quella stessa libertà di organizzazione sindacale sancita dall’art. 39, comma 1, Cost. consente la moltiplicazione delle categorie, ovvero dei contratti collettivi esistenti ed astrattamente applicabili per la regolazione di un medesimo rapporto di lavoro e che –
quando non è «manifestazione di libera concorrenza tra organizzazioni e contratti» (X. XXXXXXXXXX, Sulla verifica di rappresentatività delle organizzazioni sindacali datoria- li, cit., 6) – assume i connotati della law shopping e del deprecabile fenomeno del dum- ping contrattuale (a tal proposito F. SIOTTO, op. cit., 332, parla di «aporia insita nel principio di autodefinizione della categoria se declinato solo come libertà datoriale di non applicare un contratto nazionale»).
Si comprende così l’inversione operata dalle parti sociali rispetto al tema della rappre- sentatività: rinunciare all’autonomo riconoscimento per sottoporsi a uno scrutinio ester- no, effettuato da un soggetto terzo, previa la definizione del perimetro contrattuale. Nel processo di autoriforma degli ultimi anni, infatti, hanno deciso di condizionare l’ammissione ai tavoli negoziali a quelle organizzazioni sindacali che raggiungano una certa soglia di rappresentatività (almeno pari al 5%) «nell’ambito di applicazione del contratto collettivo di lavoro» (parti I e III, TU 2014, e punti 4 e 5, sezione Misurazione della rappresentatività, e punto 1, sezione Titolarità ed efficacia della contrattazione, PI 2013); e, ancora, hanno stabilito che, in caso di dissenso tra le varie organizzazioni sindacali, la parte datoriale debba favorire che «la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50 % + 1» (parte III, TU 2014, e già punto 2, sezione Titolarità ed efficacia della contrattazione, PI 2013). Hanno con- venuto, infine, che il CCNL abbia validità e vincolatività per le parti in seguito all’approvazione della maggioranza semplice dei lavoratori appartenenti alla categoria interessata e alla sottoscrizione da parte delle organizzazioni sindacali «che rappresenti- no almeno il 50 % + 1 della rappresentanza» (parte III, TU 2014, e già punto 3, sezione Titolarità ed efficacia della contrattazione, PI 2013).
Tali regole, però, presuppongono la definizione dei confini dello spazio negoziale, sen- za la quale sono destinate a non avere “respiro”. A questa esigenza sembrano dirette le clausole con le quali le parti si sono impegnate a catalogare i CCNL, «attribuendo a cia- scun contratto uno specifico codice» (parte I, TU 2014) e a mappare i soggetti negoziali ex latere praestatoris assegnando «uno specifico codice identificativo a tutte le organiz- zazioni sindacali di categoria interessate a partecipare alla rilevazione della propria rap- presentanza per gli effetti della stipula dei contratti collettivi nazionali di lavoro» (parte I, TU 2014).
Tuttavia il sistema fa emergere una certa «approssimazione lessicale» nella individua- zione dell’unità contrattuale, che è frutto di una «ambigua sovrapposizione concettuale tra settore merceologico e categoria contrattuale nonché tra questa e categoria sindacale, ovvero tra gruppo professionale rappresentato e platea dei destinatari della disciplina collettiva» che induce a un esito “paradossale”, in quanto «l’ambito di applicazione del contratto collettivo è definito in sede negoziale dalle parti contraenti ma per essere am- messi alla sede negoziale occorre certificare un dato rappresentativo calcolato sull’ambito di applicazione del contratto che si intende negoziare» (A. XXXXXXX, Sogget- tività sindacale e categorie contrattuali, cit., 409). Si tratta in altre parole di un “cane che si morde la coda”: la perimetrazione dell’ambito negoziale è affidata ai contraenti, i quali, però, per accedere ai tavoli contrattuali, devono possedere un quantum di rappre- sentatività calcolato ex ante nel perimetro del contratto che si deve stipulare. Un limite evidenziato in dottrina e sul quale si sono articolate, da un lato, posizioni volte a far ri- levare la mancanza di un vero cambiamento degli accordi in questione rispetto all’assetto consolidato (V. PAPA, L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali. Rappresentanza, rappresentatività e contrattazione, cit., 181-182; X. XXXXX, L’accordo
del 31 maggio su rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei Ccnl: appunti in tema di rappresentatività, legittimazione negoziale, efficacia soggettiva e contrasto agli “accordi separati”, in DRI, 2013, n. 3, 642 ss.; X. XXXXXXX, Soggettività sindacale e categorie contrattuali, cit., 409-410; ID., Prime note sul Protocollo 31 maggio 2013, in RIDL, 2013, I, 749 ss.; X. XXXXXXXXX, Il Testo Unico sulla rappresentanza tra relazioni industriali e diritto, in DRI, 2014, n. 3, 687 ss., e X. XXXXXXX, Il Protocollo d’intesa e la sentenza sull’art. 19 st. lav., in Libro dell’anno del Diritto 2014, Treccani, 2014) e, da un altro, posizioni dirette a valorizzare il criterio introdotto e a individuare soluzioni pratiche per il suo concreto impiego (X. XXXXXXX, Dalla “autoregolamentazione” alla “legge sindacale”? La questione dell’ambito di misurazione della rappresentatività sindacale, cit., 331 ss.; ID., Il protocollo d’intesa 31 maggio 2013 c’è, ma la volontà delle parti?, in DRI, 2013, n. 3, 621 ss.; X. XXXXXXX, Il contratto collettivo nazionale di categoria dopo il Protocollo d’intesa 31 maggio 2013, in RIDL, 2013, I, 707 ss.; X. XXXXX, xx. xxx., 000 xx.).
Su questo terreno particolarmente scivoloso si inserisce l’AI 2018 che dischiude all’orizzonte un ulteriore cambiamento nella prassi del nostro sistema di relazioni indu- striali: dopo il passaggio dalla rappresentatività “storica o presuntiva” a quella “misura- ta”, un’altra novità sembra investire (attraverso una sua trasformazione o attenuazione) il principio di autodeterminazione della categoria in favore di un criterio, sempre basato sul principio volontaristico, ma maggiormente rivolto all’effettiva attività svolta dal da- tore di lavoro che applichi un determinato CCNL.
Abbiamo già accennato alla scelta di affidare al CNEL il compito di effettuare una «ri- cognizione dei perimetri della contrattazione collettiva nazionale di categoria»; e sin qui, nulla di particolarmente rilevante, atteso che si tratterebbe di una “fotografia” dell’ambito di applicazione dei vari CCNL esistenti. Ma è nel prosieguo che si intravede il cambio di prospettiva: le parti, infatti, hanno specificato che tale ricognizione debba essere diretta a valutare «l’adeguatezza rispetto ai processi di trasformazione in corso nell’economia italiana», consentendo eventualmente di «intervenire sugli ambiti di ap- plicazione della contrattazione collettiva nazionale di categoria, anche al fine di garanti- re una più stretta correlazione tra CCNL applicato e reale attività d’impresa» (punto 4, comma 8, lett. a, AI 2018). È in quest’ultimo passaggio che si coglie la volontà delle parti – sicuramente finalizzata al contrasto di fenomeni di dumping contrattuale (X. XXXX, L’accordo interconfederale del 28.02.2018 sulle relazioni industriali e la con- trattazione collettiva: alcune prime riflessioni, in xxx.xxxxxxxx.xx, 8 marzo 2018) – a intervenire sulla propria libertà di “determinare” la categoria, che nella pratica si mani- festa nella possibilità per il datore di lavoro di applicare un contratto stipulato da orga- nizzazioni operanti in altri settori produttivi rispetto a quello nel quale concretamente si trovi ad operare (ad esempio la possibilità per un datore di lavoro del settore tessile di applicare un contratto collettivo stipulato delle organizzazioni sindacali e datoriali del settore chimico).
Questa circostanza è confermata in almeno altre due clausole dell’AI 2018. Innanzitutto quando le parti, a proposito delle regole introdotte dal TU 2014, hanno affermato che esso detti regole per la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro e «nei settori merceologici in cui si articola la rappresentanza di Confindustria» (punto 4, comma 3, AI 2018); in secondo luogo, laddove, dopo aver delimitato il mandato ricognitivo del CNEL, si sono impegnate ad adottare delle regole che «assicurino il rispetto dei perime- tri della contrattazione collettiva e dei suoi contenuti» e impediscano a soggetti privi di adeguato livello di rappresentatività certificata «di violare o forzare arbitrariamente i pe-
rimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria» (punto 4, comma 9, AI 2018). Quest’ultima asserzione, peraltro, sembra essere più l’effetto di un eventuale intervento del legislatore che di una clausola negoziale, come tale abilitata esclusivamente a produrre i suoi effetti tra le parti (in questo senso X. XXXX, op. cit., 7). Solo un intervento eteronomo – che comprendesse anche la questione dell’efficacia er- ga omnes – potrebbe introdurre regole con validità generale sulla delimitazione dei con- fini di applicazione del contratto collettivo. E che l’efficacia generalizzata del contratto collettivo sia il vero “obiettivo” delle parti sociali lo si comprende, allorché nell’AI 2018 nell’aprire a un’eventuale legge sindacale esse non hanno mancato di sottolineare come «l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi di lavoro costituisca un elemento qualificante delle relazioni industriali» e che proprio le regole definite nel sistema inter- sindacale «possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia» (punto 4, comma 10, AI 2018).
Su questo aspetto, illuminante è ancora oggi la lezione di chi più di mezzo secolo fa spiegava le ragioni sottese alla richiesta da parte dei sindacati dell’estensione generaliz- zata degli effetti dei contratti collettivi e che oggi, mutatis mutandis, potrebbero essere utilizzate per comprendere quale sia l’interesse delle organizzazioni dei datori di lavoro (e, nel caso di specie, di Confindustria) a sostenere tale richiesta. Xxxxxxxx Xxxxxxx, in- fatti, nella celebre prolusione bolognese del 1963, affermava che solo «se il sindacato si avvede che esistono limiti insuperabili alla propria opera di proselitismo nella massa apatica o dissenziente, o se non riesce a far sì che il contratto s’imponga a tutti gli im- prenditori per la sua intrinseca forza sociale […] domanda al pubblico potere di venirgli in aiuto; chiede, cioè, allo Stato di estendere – come solo lo Stato, con le sue prerogati- ve, può fare – le clausole del contratto all’intero settore cui questo si riferisce» (G.F. XXXXXXX, Il problema dell’articolo 39 (libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, cit., 135, che nelle pagine successive così argomentava: «il sindacato non chie- de l’efficacia generale del contratto collettivo per un’altruistica tensione a soccorrere i non-soci, bensì per difendere i soci, ossia sé stesso, e le proprie conquiste. Nei confronti dei non-soci – che non pagano i contributi, che spesso non partecipano agli scioperi e magari ne compromettono l’esito – il sindacato ha una naturale vocazione egemonica ma nessuna solidarietà; e se di solidarietà parla talvolta, lo fa per l’educazione marxista dei suoi dirigenti, per bocca d’intellettuali, insomma, che, secondo il noto schema di Xxxxxxx, sovrappongono i loro valori e i loro sistemi alla sua home-grown philosophy, alla sua semplice filosofia “fatta in casa”. L’erga omnes, pertanto, non è concepito dal sindacato come un’attribuzione di diritti a chi sta fuori di esso, ma come un’imposizione di obblighi fatta a fini di autotutela»). Questa richiesta, però, comporta il pagamento di un “prezzo” che consiste nella perdita per il sindacato «della facoltà di definire esso i limiti del ramo d’attività entro il quale e per il quale negoziare». In un sistema fondato sul contratto di diritto comune, infatti, tale facoltà rientra nella disponibilità del sindaca- to; diversamente in un sistema caratterizzato dall’efficacia erga omnes del contratto col- lettivo, in cui «un simile potere non può che spettare allo Stato, se non altro come giudi- ce delle controversie che tra le associazioni insorgano circa le rispettive sfere di compe- tenza; o, altrimenti, è il caos, è la sovrapposizione o l’intersecamento di discipline di- verse e tutte fornite della medesima forza vincolante» (G.F. XXXXXXX, op. ult. cit., 138). Proprio quest’ultima circostanza, peraltro, portava Xxxxxxx a suggerire la soppressione degli ultimi tre commi dell’art. 39 Cost., i quali, presupponendo in qualche modo il rife- rimento al concetto di categoria proprio dell’ordinamento corporativo (X. XXXXXXX, op.
cit., 20) – come ambito preordinato rispetto all’attività (e all’esistenza stessa) del sinda- cato (come sottolinea A. XXXXXXX, Soggettività sindacale e categorie contrattuali, cit., 395, infatti, «la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro del 3 aprile 1926 n. 563 attribuiva personalità giuridica alle associazioni sindacali legalmente riconosciute e alle stesse consegnava la rappresentanza legale di tutti i soggetti per cui erano state costituite, “vi siano o non vi siano iscritti” (art. 5)») – a suo avviso si pone- vano in un insanabile contrasto con la libertà di organizzazione sindacale (e, quindi, con il principio di autodeterminazione della categoria) derivante dal primo comma della di- sposizione costituzionale (su questa posizione già X. XXXX, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli, 1960, 57 ss. Contra cfr. X. XXXXXX, Art. 39, cit., 260, e M. D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in DLRI, 1998, 669-670).
Un’asimmetria di non poco conto tra la prima e la seconda parte dell’art. 39 Cost. che si staglia innanzi a chiunque voglia misurarsi con la predisposizione di un corpus norma- tivo volto a introdurre l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi e, quindi, alla deli- cata questione della delimitazione degli ambiti negoziali. Su questo aspetto, è sicura- mente condivisibile la posizione di chi, nell’immaginare i contorni di un eventuale in- tervento normativo a Costituzione invariata, suggerisce la devoluzione della competen- za a delineare i confini della categoria contrattuale alle parti sociali. Del resto, alcune delle proposte di legge avanzate negli ultimi anni si muovono in questa direzione: è il caso della Carta dei diritti universali del lavoro della Cgil, in cui si prevede che
«l’individuazione delle unità negoziali sia rimessa alla contrattazione interconfederale» e a quest’ultima sia assegnata anche la determinazione dei «criteri di appartenenza agli ambiti contrattuali dei singoli datori di lavoro» (art. 33) o quello della proposta formula- ta nell’ambito della rivista Diritti Lavori Mercati, in cui la definizione dei perimetri contrattuali è affidata ad accordi interconfederali stipulati da confederazioni sindacali e datoriali che superino la soglia del 5% di rappresentatività in almeno il 30% degli ambi- ti di contrattazione nazionale vigenti, a cui viene demandato il compito di regolare «gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali» (artt. 3, comma 4 e 1, comma 6). Entrambe le soluzioni, però, sarebbero destinate a scontrarsi con il «cortocircuito normativo» derivante dalla selezione delle organizzazioni sindacali e datoriali a cui de- volvere la definizione dei confini convenzionali. Un ostacolo che per alcuni sarebbe su- perabile mediante il recupero in via meramente transitoria del criterio della rappresenta- tività storica (o comparativamente maggiore) delle organizzazioni sindacali e datoriali, a cui riconoscere una «sorta di legittimazione originaria che, una volta esercitata, si dile- guerebbe e cesserebbe in quanto tale e che avrebbe il privilegio di evitare innaturali (e, con ogni probabilità, incostituzionali) etero-definizioni legali dei perimetri contrattuali» (così V. PAPA, L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali. Rappresentanza, rap- presentatività e contrattazione, cit., 187).
3. La dinamica pendolare degli assetti della contrattazione collettiva: dalle spinte al decentramento negli accordi 2011-2014...
Un altro importante tema affrontato nell’AI 2018 è quello relativo agli assetti della con- trattazione collettiva. Su questa questione, infatti, negli ultimi anni si sono registrate importanti modifiche, rispetto alle quali l’accordo in commento – pur in sostanziale
continuità – si segnala per alcuni aspetti innovativi, che si inseriscono nella dinamica “pendolare” tra centralizzazione e decentramento, da sempre tratto distintivo del nostro sistema di negoziazione collettiva (su tale dinamica – speculare all’andamento del ciclo economico-occupazionale (sintetizzabile nella coppia “trend negativo-centralizzazione” e “trend positivo-decentramento”) – si veda G.P. XXXXX, X. XXXX, Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Il Mulino, 2009, in part. 73 ss. La globalizzazione dei mer- cati e dell’economia, però, ha scardinato la relazione biunivoca tra ciclo economico e centralizzazione-decentramento della dinamica contrattuale (di modifica di «questa re- lazione» si parla in G.P. XXXXX, X. XXXX, op. cit., 30 ss., mentre di vera e propria «cesu- ra tra due epoche contrattuali» in X. XXXXXX, Diritto sindacale, Cacucci, 2014, 170): dalla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, la tendenza al decentra- mento è divenuta stabile ed è stata incentivata attraverso la modifica delle regole sulla struttura contrattuale sancita in diversi accordi interconfederali e in alcuni interventi normativi, per consentire l’adeguamento flessibile, anche in senso peggiorativo, delle condizioni di lavoro nelle singole imprese o nelle diverse aree territoriali). Per meglio comprenderne la portata appare utile riassumere brevemente le modifiche intervenute nel quadriennio 2011-2014.
Com’è noto, l’AI 2011 (confluito poi nel TU 2014), in continuità con quanto previsto dal protocollo 1993 e dagli accordi del 2009, ha confermato il doppio livello di negozia- zione, chiarendo la volontà di mantenere ferma la consolidata struttura a due livelli e di scongiurare la possibilità, paventata in seguito al “caso Fiat”, di prevedere la sostituzio- ne del «contratto collettivo nazionale (ccnl), presente nell’intero territorio nazionale, con contrattazioni aziendali o di gruppo o comunque speciali» (X. XXXXXXXX, op. cit., 655). Nella nuova disciplina intersindacale, pertanto, al livello nazionale è stato affidato il compito di «garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale» (periodo 1, parte III, TU 2014, e già punto 2, AI 2011) e a quello aziendale, invece, di disciplinare le
«materie delegate e con le modalità previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge» (periodo 10, parte III, TU 2014 e in termini sostanzialmente analoghi il punto 3, AI 2011). Tuttavia, in controtendenza rispetto alla disciplina previ- gente, l’AI 2011 e i successivi accordi hanno offerto strumenti più incisivi per la valo- rizzazione del contratto aziendale che, come osservato, è stato «finalmente oggetto non solo di una sterile promozione “politica”, ma di vero supporto giuridico-strutturale» (X. XXXX, Gli assetti contrattuali fra tradizione e innovazione, in X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), Le relazioni industriali, Xxxxxxxxxxxx, 2014, 82), sul versante sia dei soggetti stipulanti che su quello dell’efficacia soggettiva. Il riferimento è a quelle clausole intro- dotte nel quadriennio 2011-2014 che, per garantire l’esigibilità degli accordi e per evita- re il riproporsi delle criticità manifestatesi in diverse occasioni (soprattutto in caso di accordi “separati”), hanno disciplinato secondo il principio di maggioranza le modalità di stipulazione degli accordi aziendali, al fine di rendere efficaci i loro contenuti a tutti i lavoratori impiegati nell’azienda e di vincolare le organizzazioni (anche quelle dissen- zienti) che aderissero a quelle firmatarie degli accordi interconfederali (per un commen- to critico sull’opportunità e la tenuta giuridica di tali clausole si veda X. XXXXXXXX, Il testo unico alla prova delle norme giuridiche, in DLRI, 2014, 577 ss.).
La volontà di favorire un aumento della contrattazione di secondo livello è stata manife- stata sin dalla premessa dell’AI 2011. Le parti sociali, infatti, pur non disconoscendo l’importante funzione del contratto nazionale, si sono poste l’obiettivo di «favorire la diffusione della contrattazione collettiva di secondo livello», avendo ben presente «la
necessità di promuoverne l’effettività e di garantire una maggiore certezza alle scelte operate d’intesa fra aziende e rappresentanze sindacali dei lavoratori» (premessa, ultimo periodo, AI 2011).
Per verificare, però, se le dichiarazioni di principio sono state seguite da scelte ben pre- cise è necessario indagare su quello che si è detto e, soprattutto, su quello che si è taciu- to nella disciplina interconfederale. Volendo partire proprio da quello che è stato omes- so, non è passata inosservata l’assenza, all’interno della disciplina del livello decentrato, della possibilità di stipulare contratti territoriali in alternativa a quelli aziendali (L. BEL- LARDI, La recente riforma della struttura contrattuale: profili critici e incoerenze, in DLRI, 2014, 739 ss., e già EAD., L’accordo del 28 giugno: cambia ancora la struttura della contrattazione?, in xxx.xxxxxxxxx.xxx, 22 luglio 2011; X. XXXXXXXX, Gli accor- di territoriali di secondo livello, in MGL, 2012, n. 3, 171 ss.). Le parti sociali hanno operato una scelta ben precisa, indicando quale secondo livello negoziale solo quello aziendale. A tal proposito, se giustificate sono sembrate le critiche mosse rispetto a quanto previsto sia nel 1993 (punto 2.1, cap. 2, protocollo 1993) che nel 2009 (punti 1.1 e 2.3, ultimo capoverso, AI 2009) in merito alla possibilità che la contrattazione decen- trata si svolgesse al livello aziendale o territoriale «secondo la prassi esistente» (quella che X. XXXXXXX, Una dichiarazione d’intenti: l’Accordo quadro 22 gennaio sulla rifor- ma degli assetti contrattuali, in RIDL, 2009, n. 2, I, 187, ha definito una «clausola di congelamento della prassi esistente»), lo sono ancor di più quelle rispetto a quanto pre- visto (o, meglio, omesso) dall’AI 2011. Attesa la struttura del sistema produttivo del no- stro Paese (caratterizzata dalla presenza di piccole e piccolissime imprese), la decisione di indicare quale unica declinazione della contrattazione decentrata il contratto azienda- le sembra “stridere” con la volontà dichiarata di voler ampliare il livello di copertura del secondo livello contrattuale.
Ciò premesso, non possono essere sottaciute ben altre circostanze dalle quali è emersa la volontà di valorizzare il livello decentrato (rectius: “aziendale”). La prima ha riguar- dato l’assenza di disposizioni che in maniera esplicita affermassero, sulla scorta dell’esperienza precedente, il principio del ne bis in idem (tali clausole, invece, erano presenti negli accordi quadro e interconfederale del 2009, rispettivamente ai punti 11 e 3.2, e, per quanto riguarda la sola materia retributiva, anche nel protocollo del 1993 al punto 3, cap. II). Anche se in dottrina si è affermato che tale principio fosse implicita- mente racchiuso nel concetto di delega (X. XXXX, L’accordo 28 giugno 2011 e oltre, in DRI, 2011, n. 3, 618), sembra più aderente al dato reale la lettura per cui la mancata previsione del principio stesse a indicare la volontà di favorire la contrattazione azien- dale a scapito di quella nazionale (X. XXXXXXXX, Osservazioni estemporanee sull’accordo interconfederale del 2011, in ADL, 2011, n. 3, 451 ss.; X. XXXXX, L’accordo interconfederale 28 giugno 2011: un’inversione di tendenza nel sistema di relazioni industriali, cit., 49).
La seconda – in sostanziale continuità con le previsioni degli accordi del 2009 – ha ri- guardato il fatto che le materie oggetto della contrattazione aziendale fossero delegate, oltre che dal contratto nazionale, anche dalla legge. Tale circostanza, infatti, oltre ad aver posto le premesse per un «decentramento sregolato, per la possibile contraddizione tra le competenze rinviate dall’una e dall’altra fonte» (X. XXXXXXXX, L’accordo del 28 giugno: cambia ancora la struttura della contrattazione?, cit.), ha comportato la possi- bilità che la delega possa esercitarsi indifferentemente sia al livello nazionale che a quello aziendale, a maggior ragione in seguito all’approvazione di alcune disposizioni legali che, sui rinvii alla fonte contrattuale, hanno introdotto una parificazione di fatto
dei livelli negoziali (il riferimento è all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, su cui, tra gli altri, cfr.
X. XXXXXXXXXXX, L’equiordinazione tra i livelli della contrattazione quale modello di rinvio legale all’autonomia collettiva ex art. 51 del d.lgs. 81 del 2015, in XXX, 0000, n. 2, 275 ss.; X. XXXX, I rinvii alla contrattazione collettiva (art. 51, d.lgs. n. 81/2015), in
X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, P. A. VARESI (a cura di), Il codice dei contratti di lavoro. Commentario al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante la disciplina organica dei con- tratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della l. 10 dicembre 2014, n. 183, Xxxxxxxxxxxx, 2016, 243 ss.; I. XXXXXX, Il micro sistema dei rinvii al contratto collettivo nel D.Lgs. n. 81 del 2015: il nuovo mo- dello della competizione fra i livelli della contrattazione collettiva, in RIDL, 2016, n. 4, I, 658 ss.; X. XXXXXXXXXX, La nozione di sindacato comparativamente più rappresenta- tivo nel decreto legislativo n. 81/2015, in DRI, 2016, n. 2, 367 ss., e, da ultimi, X. XXX, Una “norma di sistema” per contrattazione e rappresentanza, in DRI, 2017, n. 1, 45 ss.; X. XXXXXXXX, Rappresentanza e contrattazione in azienda. Dal sostegno sindacale al contratto derogatorio, Cedam, 2017, in part. 101 ss., oltre il mio Legge e contratto collettivo prima e dopo l’art. 8, l. n. 148/2011: storia di un rapporto in crisi, in DLM, 2017, n. 3, 553 ss.).
Un ultimo aspetto “rivelatore” della volontà di potenziare il livello decentrato può esse- re colto nel “via libera” alle c.d. clausole d’uscita, quale contraltare alla conferma del doppio livello negoziale e al ruolo “ordinatore” (anche se depotenziato) del contratto nazionale. Nell’AI 2011 (in questa parte confluito senza modifiche nel TU 2014) è stata prevista la possibilità di «attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assi- curare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi e pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro» (punto 7, AI 2011). Uno dei punti che aveva provocato lo strappo all’interno del fronte sindacale nel 2009 è stato recuperato in maniera unitaria nell’accordo del 2011. La faticosa conver- genza della Cgil che aveva fatto mancare la propria firma in calce agli accordi del 2009 si può intravedere nello sforzo di “diplomazia semantica” operato dalle parti: la possibi- lità di derogare a livello aziendale la disciplina del contratto nazionale è indicata attra- verso la perifrasi «strumenti di articolazione contrattuale». Ad ogni modo, la previsione contenuta nell’AI 2011 è una clausola d’uscita in piena regola e, per certi versi, addirit- tura più ampia di quella introdotta negli accordi separati del 2009: si è stabilito, infatti, che i contratti aziendali avrebbero potuto definire – per un periodo determinato o per sempre – discipline modificative delle «regolamentazioni contenute nei contratti collet- tivi nazionali di lavoro». Questa particolare possibilità, peraltro, sarebbe stata esercitata
«nei limiti e con le procedure» definiti nei contratti nazionali. L’AI 2011, così facendo, si è limitato a dettare un principio generale (la possibilità di derogare a livello aziendale la disciplina contenuta nel contratto di livello nazionale), a cui i singoli contratti nazio- nali avrebbero fatto seguire una più dettagliata disciplina. Da questo punto di vista, quindi, la regolazione del processo di deroga appare comunque molto più agile di quella contenuta nell’AI 2009, secondo cui le deroghe alla disciplina del contratto nazionale si sarebbero potute prevedere solo a livello territoriale e «in base a parametri oggettivi in- dividuati nel contratto nazionale» (punto 5, AI 2009). Nella disciplina del 2011, invece, nulla è detto rispetto ai soggetti stipulanti a livello aziendale (rimettendo la questione ai singoli CCNL) e ai parametri oggettivi, tant’è che qualcuno ha osservato che l’accordo si fosse limitato solo a specificare la finalità di «assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi» (punto 7, AI 2011), “promuovendo” «a pa-
rametri oggettivi le esigenze tecnico-produttive dell’impresa» (X. XXXXX, L’accordo in- terconfederale 28 giugno 2011: un’inversione di tendenza nel sistema di relazioni indu- striali, cit., 54). L’aleatorietà rispetto al se e al quando dell’eventuale intervento regola- tivo dei singoli contratti nazionali e la volontà di garantire a tutte le aziende la fruibilità immediata dello strumento, inoltre, hanno indotto le parti stipulanti a prevedere una par- ticolare disciplina delle clausole d’uscita, nel caso «non fossero state previste e in attesa che i rinnovi definis[sero] la materia». Si è previsto che contratti in deroga potessero es- sere stipulati in determinate materie (prestazione lavorativa, orari e organizzazione), in presenza di due condizioni: la sussistenza di situazioni di crisi o la presenza di investi- menti “significativi” e la preventiva “intesa” con le organizzazioni sindacali territoriali aderenti alle confederazioni firmatarie dell’AI 2011.
Xxxxxx, si può affermare che l’assetto della struttura contrattuale, nel quadriennio 2011- 2014, abbia subito pressanti spinte – pur ricondotte nella consolidata struttura a doppio livello – che ne hanno spostato il baricentro verso il livello decentrato.
4. …alla rinnovata centralità del CCNL nell’AI 2018
Questa impostazione, a una prima lettura, sembrerebbe rimasta immutata anche nell’AI 2018. Nella parte introduttiva dedicata ai Princìpi per regolare assetti e contenuti della contrattazione collettiva, infatti, emergerebbe un assetto a doppio livello “flessibile” (espresso nella nuova formula del modello di relazioni industriali a «governance adatta- bile») (punto 5, comma 1, AI 2018) diretto a sostenere la competitività delle imprese e la valorizzazione del lavoro, «affidando ai diversi livelli di contrattazione collettiva compiti e funzioni distinte entro un quadro regolatorio flessibile, ma coerente nel suo disegno complessivo e, quindi, organico e certo» (punto 5, comma 2, AI 2018). Prose- guendo nella lettura delle «linee di indirizzo generali» (punto 5, comma 3, AI 2018), pe- rò, si può cogliere un cambio di prospettiva che lascia intravedere una rinnovata centra- lità (per la verità mai del tutto abbandonata) del livello nazionale. E, se è vero che le parti sociali su questo punto si sono limitate a ripetere una serie di princìpi «in gran par- te scontati», allo stesso tempo è di straordinaria importanza il fatto che essi siano stati richiamati a chiare lettere, poiché questo, com’è stato osservato, «costituisce una moda- lità decisamente utile per sollecitare e far crescere la cultura degli attori, a tutti i livelli» (così X. XXXX, op. cit., 4).
In primo luogo, nell’accordo si è ribadito che in capo al contratto collettivo nazionale di categoria restino saldamente ancorate due funzioni: quella di «fonte di regolazione dei rapporti di lavoro e di garante dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i la- voratori del settore, ovunque impiegati» (punto 5, comma 3, lett. c, AI 2018) e quella, non meno importante, di centro «regolatore delle relazioni sindacali del settore», ivi comprese le «iniziative di bilateralità» (punto 5, comma 3, lett. d, AI 2018).
In secondo luogo, la rinnovata importanza del livello nazionale emerge “in controluce” proprio nelle parti dell’AI 2018 che si sono occupate della contrattazione decentrata. Il riferimento è alla clausola con cui si è confermata la persistenza di un sistema fondato su due livelli: nazionale e aziendale «ovvero territoriale laddove esistente secondo le prassi in essere». Come affermato supra al paragrafo precedente a proposito della me- desima clausola dell’AI 2011, in un tessuto produttivo caratterizzato da un forte «nani- smo dimensionale» (così X. XXXXX, L’accordo quadro e l’accordo interconfederale del
2009: contenuti, criticità e modelli di relazioni industriali, in RIDL, 2009, I, 356, e, più in generale, sulla relazione tra dimensione delle imprese e contrattazione decentrata cfr.
X. XXXXXXXX, La contrattazione decentrata nell’industria, in CESOS, Le relazioni sin- dacali in Italia. Rapporto 1996-97, Edizioni Lavoro, 1998, 249 ss.; X. XXXXXXXXX, La piccola impresa e le relazioni industriali, in DLRI, 1996, n. 72, 635 ss., e M. D’ONGHIA, Rapporto su la contrattazione collettiva aziendale. Diffusione e contenuti, in AA.VV., Il lavoro che cambia, report del 2008 consultabile in xxx.xxxxxxxxxxx.xx) la volontà politica di favorire la diffusione della contrattazione decentrata passa necessa- riamente dalla promozione effettiva dei livelli sovra-aziendali (in primo luogo territoria- le ma, come ricordato dalle stesse parti sociali, anche a livello di distretto, sito o filiera) (in proposito si veda quanto affermato al punto 1, comma 4 del citato documento unita- rio di Cgil, Cisl e Uil del 14 gennaio 2016). In questo caso, invece, ancora una volta la contrattazione territoriale viene relegata alle (poche) realtà nelle quali è già diffusa, fa- cendo sì che la promozione della contrattazione di secondo livello sia destinata a restare nell’alveo delle buone intenzioni.
Un’ulteriore conferma di quella che, con Xx Xxxxx (F. DE XXXXX, Il gorilla [orig. Le gorille di X. XXXXXXXX], in Volume III, Bluebell Records, 1968), potremmo chiamare
«la differenza fra idea e azione», ovvero tra la dichiarata volontà di promuovere il se- condo livello negoziale e le concrete disposizioni del testo interconfederale, si può otte- nere analizzando la seconda (e ultima) clausola che nell’AI 2018 si occupa della con- trattazione di secondo livello. Qui le parti – riproponendo la c.d. «clausola di congela- mento della prassi esistente» (X. XXXXXXX, op. cit., 187) – hanno disposto che il contratto nazionale di categoria debba incentivare lo sviluppo quali-quantitativo della contratta- zione di secondo livello orientando «verso il riconoscimento di trattamenti economici strettamente legati a reali e concordati obiettivi di crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività, di innovazione» le intese aziendali, «ovvero quel- le territoriali (laddove esistenti, secondo le prassi in essere)» (punto 5, comma 3, lett. g, AI 2018).
L’ultima (ma non per questo meno importante) circostanza da cui traspare la centralità del contratto nazionale riguarda i minimi retributivi – che potremmo definire “La” ma- teria di competenza dei contratti collettivi (che, non a caso, nel nostro ordinamento sono stati indicati originariamente con il nome “significante” di concordati di tariffa) – su cui l’AI 2018 introduce un’importante novità. Le parti hanno convenuto che al contratto na- zionale spetti il compito di individuare il «trattamento economico complessivo (TEC) e il trattamento economico minimo (TEM)» (punto 5, comma 3, lett. e, AI 2018). Parten- do da quest’ultimo, come specificato nel testo, si tratta dei minimi tabellari per il perio- do di vigenza contrattuale, la cui variazione avverrà «secondo le regole condivise, per norma o prassi, nei singoli CCNL» (quindi ex ante come nel contratto dei chimici o ex post come nel contratto dei metalmeccanici) in funzione degli scostamenti registrati nel tempo dall’indice IPCA (l’indice dei prezzi dei beni al consumo, armonizzato per i Pae- si membri dell’UE e depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati) (punto 5, comma 3, lett. h, AI 2018). Di grande importanza, inoltre, nell’ottica qui inda- gata è quella parte della clausola sul TEM in cui le parti hanno voluto attribuire al con- tratto collettivo nazionale la possibilità di modificarne il valore «in ragione dei processi di trasformazione e o di innovazione» (punto 5, comma 3, lett. h, AI 2018. Il fatto che alcune componenti del TEC siano definite a livello decentrato, peraltro, ha fatto parlare di «un passo verso il decentramento contrattuale». Così C. DELL’ARINGA, Relazioni in- dustriali alla prova del dopo-elezioni, in xxx.xxxxxx.xxxx, 13 marzo 2018).
Il TEC, invece, sarà dato dalla somma del TEM e di «tutti quei trattamenti economici – nei quali, limitatamente a questi fini, sono da ricomprendere fra gli altri anche le even- tuali forme di welfare – che il contratto collettivo nazionale di categoria qualificherà come “comuni a tutti i lavoratori del settore”, a prescindere dal livello di contrattazione a cui il medesimo contratto collettivo nazionale di categoria ne affiderà la disciplina» (punto 5, comma 3, lett. f, AI 2018).
Da una prima analisi di questa parte dell’AI 2018, quindi, sembra legittimo affermare che ci si trovi dinnanzi a un rinnovato impulso al contratto collettivo nazionale di cate- goria, in termini sia di materie ad esso affidate sia di centro “regolatore” delle compe- tenze da attribuire al livello decentrato. Un giudizio, peraltro, sospeso condizionalmente in attesa di valutarne l’effettiva applicazione nei prossimi rinnovi contrattuali.
5. Sono maturi i tempi per una legge sindacale?
A valle di queste prime note sull’accordo è ora possibile svolgere qualche breve consi- derazione conclusiva, che si snodi sull’interrogativo riguardante l’approvazione di una legge sindacale, ormai da più parti auspicata (ex multis, cfr. X. XXXXXX, Per un inter- vento eteronomo sulla rappresentanza sindacale: se non ora quando!, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), op. cit., 453 ss.; X. XXXXXXXX, Lettura e rilettura dell’art. 39 della Costituzione, in XXX, 0000, n. 2, 263 ss., e già ID., Contratto colletti- vo e autonomia sindacale, cit., 163-164; X. XXXXXXXX, Contratto e contrattazione col- lettiva oggi, in AA.VV., Il contributo di Xxxxx Xxxxxxxx all’evoluzione teorica del dirit- to del lavoro. Studi in onore, cit., 197 ss.; X. XXXXXXXXX, Rappresentanza: prime os- servazioni sul protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, in DRI, 2013, n. 3, 649 ss.; X. XXXXXXX, Per una legge sindacale di stampo parteci- pativo, in X. XXXXXXX (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresen- tanza sindacale a Corte Cost. n. 231/2013, Atti della IX edizione del Seminario di Ber- tinoro-Bologna, ADAPT University Press, 2014, 180 ss., e contra X. XXXXXXXXXX, La legge sindacale? Le ragioni del no, ivi, 165 ss.; X. XXXXX, Ordinamento statuale e ordi- namento intersindacale, in RIDL, 2014, I, 3 ss.).
È indubbio che le parti sociali, nel percorso di autoriforma del sistema intrapreso nel 2011 e giunto sino alla firma dell’AI 2018, abbiano tracciato una strada, indicando co- me fulcro del sistema la misurazione della rappresentatività di entrambe le parti stipu- lanti e una progressiva modifica del principio di autodeterminazione della categoria contrattuale, almeno per come è stato concepito sino ad oggi.
Il mutato scenario di fondo delle relazioni industriali nel nostro Paese – caratterizzato da una forte frammentazione della rappresentanza e da un aumento vertiginoso dei testi negoziali applicati nel medesimo settore – ha indotto le parti sociali a compiere passi da gigante nella ridefinizione delle regole del gioco, accettando il rischio della sperimenta- zione di un percorso nuovo e abbandonando una serie di comode rendite di posizione.
Tuttavia, non può sottacersi come i pur importanti sforzi compiuti nell’ambito del si- stema confindustriale difficilmente potranno invertire le preoccupanti derive degli ulti- mi anni. È bene ribadirlo: senza un’ampia (se non unanime) condivisione delle regole da parte di tutti gli attori delle relazioni industriali l’apparato regolativo messo a punto dalle parti sociali è destinato a sfarinarsi alla prima onda, come un castello di sabbia co- struito sulla battigia.
Per tale ragione, porre fine alla storica “anomia” del nostro sistema sindacale, magari con un intervento eteronomo promozionale che acquisisca i risultati raggiunti autono- mamente dalle parti sociali, potrebbe riportare le dinamiche della frammentazione rap- presentativa (sia dal lato sindacale che da quello datoriale) nell’alveo di una fisiologica competizione e porre un freno ai deprecabili fenomeni di determinazione collettiva delle regole “al ribasso” che tradiscono la funzione anticoncorrenziale propria della negozia- zione collettiva.
Una legge su rappresentatività e contrattazione potrebbe rappresentare un importante strumento per la “normalizzazione” della dialettica sindacale in un sistema saldamente fondato sulla libertà e sul pluralismo. Del resto qualsiasi intervento legislativo dovrebbe fare i conti con il fondamento costituzionale, misurandosi con le due anime dell’art. 39 Cost. e cimentandosi, secondo la lezione giugniana, con «un’interpretazione che ne ar- monizzi le varie parti, attribuendo il valore prevalente al contenuto di principio: in que- sto caso, al principio di libertà sindacale» (X. XXXXXX, Art. 39, cit., 260). Sempreché, un legislatore “impavido” non voglia avventurarsi in una modifica della Carta costituziona- le che lasciando immutato il principio scolpito nella prima parte, ponga mano, modifi- candola, alla seconda (rispetto a questa soluzione cfr. X. XXXXX, L’art. 39 della Costitu- zione e il contratto collettivo, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a cura di), op. cit., 484, e X. XXXXXXXX, Lettura e rilettura dell’art. 39 della Costituzione, cit., 279), così da rendere meno insidioso l’eventuale percorso di attuazione del legislatore ordina- rio. Proposte di legge in questo senso, del resto, sono state depositate anche all’inizio di questa XVIII Legislatura (si veda, ad esempio, il d.d.l. costituzionale n. 225/2018 pre- sentato alla Camera dei deputati dall’xx. Xxxxxxx Xxxxxxxx e altri, recante Modifiche all’articolo 39 della Costituzione relative alla libertà e democraticità dei sindacati nonché alla stipulazione di contratti collettivi. Il disegno di legge, che è stato già pre- sentato dallo stesso Ceccanti in Senato nel corso della XVI Legislatura – d.d.l. n. 2520/2011–, riprende con alcune modifiche la proposta avanzata nel 1985 dalla Com- missione Xxxxx), sulla cui durata e incisività, però, è difficile fare pronostici.
Ma – è risaputo – le strade della politica sono “infinite” e talvolta possono prendere traiettorie sino a poco tempo prima nemmeno immaginabili. Evidentemente le parti so- ciali di questo sono consapevoli e con l’AI 2018 hanno detto la loro, forse memori dell’esortazione evangelica «estote parati» (Xxxxxx, 24, 44; Xxxx, 12, 40). Perché il magmatico contesto politico-parlamentare fa presagire, anche stavolta, la vittoria della linea astensionistica ma “non si sa mai” e, se dovessero improvvisamente delinearsi le condizioni per un intervento eteronomo, meglio non farsi prendere alla sprovvista.