LA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE TRA TUTELA DEL CONSUMATORE E TUTELA DEL MERCATO.
Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School
In: DIRITTO PRIVATO EUROPEO
DEI CONTRATTI CIVILI, COMMERCIALI E DEL LAVORO
Ciclo: XXV
Anno di discussione: 2013
LA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE TRA TUTELA DEL CONSUMATORE E TUTELA DEL MERCATO.
SETTORE SCIENTIFICO - DISCIPLINARE DI AFFERENZA: IUS/01
Tesi di Dottorato di Xxxxx Xxxxxxx, matricola 955744
Coordinatore del Dottorato Tutore del Dottorando Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx.xx Prof. ssa Xxxxxxxxx Xxxxxxx
INDICE.
Introduzione
CAPITOLO I. DALLA COMUNICAZIONE COMMERCIALE ALLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI. LA DIRETTIVA 2005/29/CE.
1.1 Cenni introduttivi. Il Libro verde della Commissione sulla comunicazione commerciale, l’obiettivo del mercato interno e la tutela del consumatore.
1.2 Struttura e contenuti della direttiva 2005/29/CE.
1.3 La direttiva 2005/29/CE e il suo ambito di applicazione: la nozione di
“PRATICA COMMERCIALE” FRA IMPRESE E CONSUMATORI.
1.4 L’ambito di applicazione della Direttiva e gli interessi tutelati.
1.5 L’ambito di applicazione della Direttiva, gli interessi tutelati e i rapporti con la disciplina della pubblicità.
CAPITOLO II. DALLA DIRETTIVA AL CODICE DEL CONSUMO: LE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE. LE PRINCIPALI NOVITA’ INTRODOTTE.
Premessa.
2.1 Il divieto di pratiche commerciali scorrette nel Codice del Consumo. La scorrettezza della pratica.
2.2 Il giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale fra clausola generale e fattispecie tipiche. Portata della clausola generale di slealtà.
2.3 La nozione di diligenza professionale ex art. 18 Cod.Cons nel giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale.
2.4 (SEGUE) LA CLAUSOLA GENERALE E LA “SOGLIA DI MATERIALITÀ” IMPOSTA DALL’ART. 20 COD. CONS.
2.5 Il parametro consumatore medio.
2.6 Le pratiche commerciali ingannevoli e la pubblicità ingannevole fra divergenze e similitudini.
2.6 (SEGUE) LA PUBBLICITÀ PRIMA DELL’ENTRATA IN VIGORE DELLA DIRETTIVA.
2.7 Pratiche ingannevoli e pubblicità ingannevole.
2.8 (SEGUE) LE OMISSIONI INGANNEVOLI E IL DOLO OMISSIVO.
2.9 Pratiche aggressive
2.10 Impegni e MORAL SUASION.
CAP. III. L’APPLICAZIONE DELLE NUOVE NORME.
3.1 I codici di condotta e l’autodisciplina pubblicitaria.
3.2. L’applicazione delle norme. il nuovo regolamento di AGCM sulle procedure istruttorie.
3.3 AGCM e IAP: raccordi o separatezza?
3.4 AGCM e AGCOM. Il riparto di competenze.
3.5 Conclusioni: la disciplina sulle PCS tra ragioni dell’impresa e ragioni del consumo. Una sintesi possibile.
INTRODUZIONE
“Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti.
È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua.
Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro.
Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?" (A. de Toqueville1).
La dinamica dei rapporti pubblico/privato si spiega oggi in tutta la sua complessità e trova riscontro in ogni ambito del diritto. La Suprema Corte di Cassazione ha recentemente osservato che oggi “pubblico e privato si intrecciano secondo sequenze non consuete”2. Allo studioso del diritto privato, in particolare, non può sfuggire come la sorte del contratto e di altri istituti ontologicamente e sociologicamente privatistici (dalla concorrenza sleale alla tutela dei segni distintivi e delle privative industriali) si trovi oggi a dover fare i conti con un ruolo sempre più crescente e incisivo del potere pubblico ed, in particolare, delle cd. authorities. Che sia in corso una sorta di “ritorno al pubblico” o comunque un processo di “amministrativizzazione” di alcune parti sostanziali del diritto privato, pare dato innegabile. Sono sempre più numerosi infatti i settori dell’attività economica,
1 X. XX XXXXXXXXXX, Scritti, note e discorsi politici 1839-1852. Bollati Xxxxxxxxxxx, 0000. La citazione prende spunto dalla relazione introduttiva tenuta del XXXX. XXXXXXX XXXXXXXX in occasione del convegno milanese sulle “Pratiche commerciali scorrette” organizzato dal Sispi (Società italiana per lo studio della proprietà industriale) nei giorni 11-12 giugno 2010 presso l’aula magna dell’università Bocconi di Milano.
2 Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009, 3.
fondati su rapporti privati, che vedono protagoniste le autorità amministrative, specie quelle indipendenti, in un ruolo, non solo normativo , ma molto spesso anche decisionale. Ancor più eclatante appare la scelta in molti settori, fra cui anche quello delle pratiche commerciali sleali oggetto di questo scritto, di attribuire a tali autorità un potere di impulso motu propiu nella repressione degli illeciti.
A ciò si accompagna, spesso e volentieri, un’intensa e travolgente attività legislativa, specie da parte degli organi comunitari - di cui, peraltro, le autorità amministrative indipendenti sono figlie- che vorrebbe, o che comunque tende apparentemente a voler, coprire e regolamentare ogni possibile spazio, ogni singola mossa, dell’attività d’impresa. Autorevole dottrina3 ha parlato in proposito (e con diretto riferimento a quello che suole essere tradizionalmente definito il “diritto industriale”) di “legislazione sgangherata” frutto, fra l’altro della “bulimia legislativa” dell’Unione europea.
Che ciò sia la conseguenza della spinta verso la globalizzazione dei mercati, che impone di rivedere le categorie giuridiche alle quali eravamo abituati, dalle fonti del diritto al ruolo del contratto e dell’autonomia privata, e di adeguarsi alla nuova dimensione macro economica - più che giuridica - imposta dalla stessa, forse non è il punto decisivo. Più importanti (e preoccupanti) paiono essere le conseguenze derivanti da questa progressiva espansione del potere pubblico e delle autorità amministrative.
Un eccesso di legislazione rappresenta, secondo Toqueville (ma anche secondo Xxxx e Xxxxx), “il maggiore rischio di dispotismo a cui le democrazie liberali possano andare incontro”. L’ideologia paternalistica di uno Stato, che insegna ai suoi cittadini qual è il loro bene attraverso una costante attività legislativa, rappresenta per questi Autori una minaccia al pensiero liberale.
A parere di alcuni, una tale ideologia paternalistica si può scorgere dietro i più recenti interventi normativi di stampo comunitario a tutela del consumatore. Fra questi, anche la disciplina delle pratiche commerciali sleali (o scorrette, secondo la definizione data dal legislatore italiano del 2007) introdotta con la Direttiva 29/2005/Ce, che costituisce l’oggetto principale di questa tesi.
3 VANZETTI A., Legislazione e diritto industriale in Riv. Dir. Ind. 2011, 01, p. 5.
La presente trattazione, dunque, si propone, proprio alla luce delle nuove disposizioni, di approfondire il tema dei rapporti tra autonomia privata e regolazione del mercato, fra imprese e consumatori, fra questi e istituzioni. Posto che, a parere di chi scrive, se è vero che la nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali reca con sé innumerevoli difetti e appare come l’ultimo teatro della “pubblicizzazione” del diritto privato e della bulimia legislativa dell’unione europea, essa, ciò non di meno, pare interessante, in quanto attribuisce un nuovo e diverso ruolo ai protagonisti di un sistema più ampio di tutele e di regolazione, che è il mercato.
Su tale ruolo ci si concentrerà, dapprima delineando il contesto storico delle disposizioni oggetto di indagine al fine di individuarne correttamente la ratio, per poi passare a considerare in quali forme le nuove disposizioni vengono ad incidere sulle imprese, sulla loro attività in rapporto con i consumatori, sulla loro autonomia privata e libertà economica, ed, in definitiva, sul loro agire sul mercato. Si prenderà in considerazione innanzitutto la Direttiva 29/2005/CE, per poi passare a considerare le norme di attuazione, contenute oggi nel novellato Codice del consumo (artt.18-27quater), non solo nel loro contenuto meramente giuridico e normativo, ma anche e soprattutto cercando di metterne a fuoco la portata “sistematica”.
Infine, si verrà a considerare il ruolo dell’enforcement che il legislatore ha scelto di dare a tali norme e quindi quello delle istituzioni, o comunque dei soggetti, chiamati a dare attuazione alle disposizioni in esame. Sotto tale profilo, si metteranno in evidenza, da un lato, le dinamiche del rapporto pubblico – privato, poiché, come vedremo, accanto alla scelta del public enforcement affidato nel nostro ordinamento all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, permangono vecchi sistemi di tutela (le autorità giurisdizionali) e nuove (o quasi) forme di regolazione privata, quali l’autodisciplina.
Si cercherà di comprendere come e se, in questo coacervo di competenze e tutele, sia garantita e secondo quali nuovi valori o parametri, una tutela al consumatore, essendo peraltro il consumatore stesso il destinatario, quanto meno formale, della disciplina oggetto di studio.
Si cercherà di evidenziare quali siano in concreto le conseguenze e i rischi che la “virata in senso pubblicistico”, che vede in primo piano le autorità amministrative indipendenti, porta con sé, ed in che modo la stessa possa trovare un argine o un contrappeso nella previsione di tali strumenti di autodisciplina.
Si metteranno inoltre a fuoco i luoghi e i momenti del confronto, ma anche dell’attrito, fra due sistemi, quello comunitario e quello nazionale, soffermandosi sul ruolo e sul valore di una legislazione comunitaria che a tratti appare fortemente lontana e insensibile alla nostra tradizione giuridica, animata, come pare, da una frenesia definitoria e onnicomprensiva. Infine di comprendere quale sia il (nuovo?) ruolo che spetta giurista in un momento di crescente supremazia delle scienze economiche sempre più propense a scrivere, da sole, le linee di policy o di regolazione del mercato. Ed ancora, quale sia anche il ruolo spettante all’interprete che pare oggi più costretto dentro le maglie di un sistema che procede a colpi di definizioni.
Il tema è (quantomeno a parere di chi scrive) senz’altro affascinante e ricco di risvolti, non solo di carattere strettamente giuridico ma, come si accennava, anche ideologico, che vanno dalla regolazione del mercato alla tutela della concorrenza.
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DALLA COMUNICAZIONE COMMERCIALE ALLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI. LA DIRETTIVA 2005/29/CE.
SOMMARIO: 1.1 Cenni introduttivi. Il Libro verde della Commissione sulla comunicazione commerciale, l’obiettivo del mercato interno e la tutela del consumatore. 1.2 Struttura e contenuti della direttiva 2005/29/CE. 1.3 La direttiva 2005/29/CE e il suo ambito di applicazione: la nozione di “pratica commerciale” fra imprese e consumatori. 1.4 L’ambito di applicazione della Direttiva e gli interessi tutelati. 1.5 L’ambito di applicazione della Direttiva, gli interessi tutelati e i rapporti con la disciplina della pubblicità.
1.1 Cenni introduttivi. Il Libro verde della Commissione sulla comunicazione commerciale, l’obiettivo del mercato interno e la tutela del consumatore.
Appare opportuno, al fine di inquadrare correttamente la disciplina di cui ci si occupa, gettare dunque un primo sguardo alle premesse storiche da cui la stessa trae origine. Tali premesse sono rappresentate, in primo luogo, dal Libro Verde sulla comunicazione commerciale elaborato dalla Commissione nel 19964 e quindi, dal Libro verde sulla protezione dei consumatori del 20015.
La comunicazione commerciale, termine non propriamente noto alle scienze giuridiche6, è secondo il Libro verde “ogni forma di comunicazione volta a promuovere i prodotti, i servizi, o l’immagine dell’impresa stessa presso i consumatori finali e/o i distributori” e “si riferisce a tutte le forme di pubblicità, marketing, promozione delle vendite e relazioni pubbliche”.
4 Commissione europea, Libro Verde sulla Comunicazione commerciale, COM. (1996) 192 def.
5 Commissione europea, Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione europea, COM (2001) 531 def.
6 Si veda tuttavia per un precedente normativo importante l’art. 2 lett. f della dir. 2000/31/CE in materia di commercio elettronico dove per comunicazioni commerciali si intendono “tutte le forme di comunicazione destinate, in modo diretto o indiretto, a promuovere beni, servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione o di una persona che esercita un’attività commerciale, industriale, artigianale o una libera professione”.
Secondo la Commissione, la comunicazione commerciale rappresenta inoltre “un potente fattore d’integrazione dei mercati nazionali” e come tale va garantita e incentivata nella sua libera circolazione.
Sempre secondo gli organi comunitari, la presenza di un’eccessiva eterogeneità tra le misure applicate dagli Stati membri rispetto alle forme e al tipo di restrizioni riguardanti la comunicazione commerciale costituisce un pericoloso ostacolo alla realizzazione del mercato interno.
L’esistenza di differenze, talvolta anche marcate, fra le legislazioni nazionali in materia di pubblicità e comunicazione commerciale distoglie, infatti, le imprese dall’operare a livello europeo in tale settore, essenziale per la promozione della loro attività economica. Troppi ed eccessivi appaiono essere i costi e i rischi connessi all’offerta e alla promozione di prodotti e servizi in paesi caratterizzati di volta in vota da scenari normativi distinti. D’altra parte, in un tale contesto, sono i consumatori stessi ad evitare di porre in essere acquisti fuori dal territorio nazionale per la tendenza a considerare meno sicuri i contratti conclusi con professionisti che abbiano la loro sede in altri paesi proprio per il fatto che di tali paesi non si conosce la legislazione7.
È fondamentale rilevare infine come l’incremento quantitativo e qualitativo delle negoziazioni transfrontaliere costituisca, ad avviso della Commissione, una condizione imprescindibile per la realizzazione di due obiettivi strategici del mercato unico: l’armonizzazione dei prezzi (verso un livello che sia il più basso possibile) e l’ampliamento e la diversificazione dell’offerta di prodotti e servizi ai consumatori nello spazio economico europeo.
La direttiva 2005/29/Ce (di seguito anche la “Direttiva”) sulle pratiche commerciali sleali (di seguito anche “PCS”) si inserisce dunque in questo quadro e si propone, attraverso la disciplina del fenomeno della comunicazione commerciale, latu sensu intesa, ma anche si potrebbe correttamente dire dell’attività commerciale delle imprese nei confronti dei consumatori, di andare verso la creazione del mercato unico nel segno dell’Unione europea, contribuendo così all’appianamento delle
7 In tal senso, si veda la Relazione illustrativa della Proposta di direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori presentata dalla Commissione nel 2003 nonché il Considerando n. 12 della Direttiva.
differenze che, come verrà più volte ricordato, creano incertezze negli operatori economici, rallentando e disincentivando la libera circolazione e il libero dispiegarsi dell’attività economica.
Secondo la Direttiva “dall’armonizzazione deriverà un notevole rafforzamento della certezza del diritto, sia per i consumatori sia per le imprese, che potranno contare entrambi su un unico quadro normativo fondato su nozioni giuridiche chiaramente definite che disciplinano tutti gli aspetti inerenti alle pratiche commerciali sleali nell’UE.”.
Da queste premesse quindi è necessario partire qualora ci si accinga ad affrontare uno studio della Direttiva e ad indagarne la ratio.
E tali premesse è necessario ricordare quando si evidenzi l’altro essenziale presupposto che determina la nascita della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali, e cioè il Libro verde della Commissione sulla tutela del consumatore.
Come anticipato sopra, infatti, la Direttiva si pone – anche - come un provvedimento di carattere generale volto a rafforzare il livello di protezione di cui godono i consumatori all’interno del mercato europeo e si propone di apprestare una tutela generalizzata nei confronti di questi ultimi, specie nei loro rapporti con le imprese. Ebbene, che la protezione del consumatore costituisca al tempo stesso presupposto ed oggetto di intervento della normativa in esame non è dato che si intende contestare. Una simile posizione, peraltro, sarebbe presto smentita, non tanto dal richiamo, voluto dagli organi comunitari in sede di emendamento della proposta di Direttiva8, all’art. 153 CE del Trattato Ue, di cui al primo Considerando della stessa, quanto piuttosto, dal fatto essenziale e sostanziale che l’ambito di applicazione della Direttiva corrisponde a tutte e soltanto quelle pratiche commerciali che ledono direttamente gli interessi dei consumatori - mentre, come si avrà modo di osservare, essa non riguarda quelle pratiche che, sebbene sleali, si configurino come lesive esclusivamente degli interessi dei concorrenti9.
8 Si noti peraltro che tale richiamo fu introdotto dal Parlamento solo in sede di emendamenti della Proposta di Direttiva presentata dalla Commissione nel 2003. Inizialmente l’unico richiamo era all’art. 95 CE sul mercato interno.
9 Sulla distinzione fra pratiche lesive esclusivamente degli interessi dei consumatori e pratiche lesive anche degli interessi dei concorrenti/professionisti si veda oltre e in particolare il § 1.5.
Ciò che si vuole mettere in luce, è invece, il fatto che la Direttiva è innanzitutto un provvedimento di regolazione del mercato. Ed è rispetto a questo “macro obbiettivo” che si articolano gli altri obbiettivi affrontati dal legislatore comunitario, fra i quali merita certamente particolare considerazione l’obbiettivo dell’innalzamento del livello di protezione dei consumatori. Che tuttavia, non può certo essere considerato come l’obiettivo principale10.
Come si vedrà a breve, infatti la disciplina introdotta dalla Direttiva si caratterizza per la presenza di una serie di clausole generali e nozioni giuridiche indeterminate che appaiono quali “campanelli di allarme” di una, se non limitata, quantomeno “rivisitata”, tutela del consumatore nell’ambito della tutela contro le pratiche commerciali scorrette.
Tale disciplina si dichiara ispirata sì, al rafforzamento della tutela del consumatore ma è innegabile che essa dando luogo ad una protezione che coniuga divieti e obblighi di diligenza e di informazione da parte del professionista con oneri di attenzione e avvedutezza da parte del consumatore, rivela la sua natura “ibrida”. Non solo, ma come vedremo, la stessa introduce una soglia di proporzionalità della repressione delle violazioni che è palesemente ispirata alla ricerca di un punto di equilibrio fra tutela del consumatore e libertà di impresa e di iniziativa economica da parte del professionista, con particolare riferimento alla sua attività commerciale. Si assiste, cioè ad una sorta di ridefinizione degli equilibri tra gli obiettivi perseguiti a livello comunitario: da un lato, la tutela dei consumatori, dall’altro quella del mercato, della concorrenzialità e del buon funzionamento dello stesso.
D’altro canto, che la tutela del consumatore non rappresenti il fine ultimo e primario della Direttiva, lo si può desumere non appena ci si addentri in una più attenta analisi della stessa.
10 Il tema della regolazione dei mercati, che, come vedremo, rileva nello studio della disciplina in esame, essendo la stessa disciplina preordinata, in primo ordine, alla tutela della concorrenza, è tema estremamente attuale. Per evidenti ragioni di sintesi non ci potrà soffermare in questa sede sui molteplici caratteri che individuano il fenomeno. Pertanto si rinvia alla seguente, per quanto parziale, bibliografia di riferimento: XXXX X., CIOCCA L., Economia per il diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2006, D’ALBERTI, Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Il Mulino 2008, VALENTINI S., Diritto e istituzioni della regolazione, Xxxxxxx 2005.
In tale senso ed in primis, occorre rilevare che la Direttiva si pone come un provvedimento di armonizzazione “massima”, essa punta, cioè, alla realizzazione di una piena e completa identità delle regole sulla comunicazione commerciale e sulle PCS negli Stati membri a garanzia della semplificazione e della certezza delle attività commerciali transfrontaliere11. Ciò appare invero in controtendenza rispetto alla tradizione comunitaria in materia di tutela del consumatore da sempre ispirata ai principi della armonizzazione “minima”12, che, come noto, consente agli Stati membri di mantenere regole diverse da quelle comunitarie purché più rigorose rispetto a queste ultime, in un’ottica, chiaramente di maggiore favor e tutela verso il consumatore. Laddove quindi, il legislatore avesse inteso tutelare in via principale e prioritaria il consumatore avrebbe certamente optato per un provvedimento di armonizzazione minima, consentendo agli Stati membri di mantenere e/o introdurre regole più severe, in grado di tutelarlo maggiormente.
Scegliendo invece la soluzione della “target full harmonization”, ha dimostrato come prioritario fosse lo scopo della creazione del mercato unico (anche) rispetto a
11 Sebbene manchi una disposizione che riconosce espressamente alla Direttiva la natura di provvedimento di armonizzazione completa, non pare, alla luce di una serie di considerazioni, che sul punto possano nutrirsi ragionevoli dubbi. Ed invero, da un lato manca una espressa statuizione che consenta agli Stati membri di ricorrere a norme più rigorose, statuizione che normalmente si ritrova invece in tutte le direttive di tutela del consumatore precedenti a questa (si veda anche oltre, la nota 9). Dall’altro, il fatto che il legislatore comunitario consenta agli Stati membri di mantenere fino al 2013 disposizioni “più dettagliate e vincolanti” rispetto a quelle della Direttiva e puntualizzi che in alcune materie e settori di attività, segnatamente quelli riguardanti i servizi finanziari e i beni immobili, gli Stati membri sono liberi di mantenere e/o introdurre tali disposizioni più vincolanti e dettagliate, fa senz’altro propendere per questo tipo di lettura. Sulla armonizzazione completa della Direttiva la dottrina pare essere concorde. Si veda, fra gli altri, GRANELLI C., Le «pratiche commerciali scorrette» tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/Ce modifica il codice del consumo, in Obbligazioni e contratti, 2007, pp.777; GUERINONI, La direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Prime note, in Contratti, 2, 2007.
12 Fra le direttive adottate dal legislatore comunitario in materia di tutela del consumatore e ispirate al suddetto principio meritano in particolare di essere ricordate: la direttiva 93/13/Cee concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, la direttiva 85/577/Cee e la direttiva 97/7/Ce, oggi abrogate dalla direttiva 2011/83/UE, rispettivamente, sui contratti del consumatore negoziati fuori dai locali commerciali e sui contratti a distanza, la direttiva 2006/65/Ce sulla commercializzazione dei servizi finanziari a distanza ai consumatori, la direttiva 2008/48/Ce sul credito al consumo, recentemente introdotta. Un discorso a parte meriterebbe la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, che modifica la direttiva 93/13/CEE e la direttiva 1999/44/CE e che abroga la direttiva 85/577/CEE e la direttiva 97/7/CE, il cui articolo 4, sotto la rubrica “Livello di armonizzazione” stabilisce che “Salvo che la presente direttiva disponga altrimenti, gli Stati membri non mantengono o adottano nel loro diritto nazionale disposizioni divergenti da quelle stabilite dalla presente direttiva, incluse le disposizioni più o meno severe per garantire al consumatore un livello di tutela diverso”.
quello della protezione del consumatore. L’obiezione, puntuale, avanzata da parte della dottrina, circa il mancato raggiungimento, in concreto, degli obbiettivi dell’armonizzazione massima13, non incide peraltro sull’assunto di fondo che si sta cercando di mettere in luce e, cioè, sul fatto che la tutela del consumatore non costituisce l’obbiettivo principale della disciplina in esame; ché laddove, per contro, così fosse stato, ciò avrebbe dovuto escludere, in linea di principio, la scelta dell’armonizzazione massima.
Un altro argomento interessante, al fine di mettere in luce la fragilità di una lettura della nuova disciplina sulle PCS in chiave esclusivamente consumeristica e privatistica, e che, d’altra parte, rende ancora più evidente la vocazione essenzialmente “regolatoria” del provvedimento, è la separazione – almeno nella lettera della Direttiva – fra il regime di legittimità/illegittimità della pratica commerciale e quello di validità/invalidità del contratto che ne discende e che direttamente coinvolge e lede il consumatore. Separazione, si dice, xxxxxx di quest’ultimo aspetto il legislatore comunitario non si occupa affermando chiaramente che l’applicazione della Direttiva “non pregiudica” l’applicazione
13 Sul punto vi è sostanziale omogeneità di opinione fra gli Autori: si vedano in particolare XXXXXX P, DI XXXXXXX X., DE XXXXXXXXXX X, tutti opportunamente citati in questo scritto. Secondo la dottrina l’obiettivo dell’armonizzazione massima non viene perseguito dal legislatore comunitario in modo efficace e coerente sotto vari profili. In primo luogo, perché, come si accennava sopra, alcuni settori sono espressamente lasciati fuori dallo spettro di incidenza dell’armonizzazione massima (in particolare, sanità, sicurezza dei prodotti, beni immobili, servizi finanziari). Secondariamente, la Direttiva, limitando il suo ambito di applicazione, come vedremo, alle sole pratiche commerciali che siano idonee a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori, lascia impregiudicate tutte quelle pratiche che al contrario sono idonee a danneggiare i soli concorrenti o comunque ad alterare in misura non rilevante il comportamento dei consumatori. Da ultimo, giustamente si rileva che per nulla coerente risulta essere l’impianto delineato dal considerando n. 10 che, in spregio al carattere generale della disciplina, sancisce che la stessa viene derogata dalle norme comunitarie che operano come norme speciali laddove queste contengano disposizioni divergenti (“È necessario garantire un rapporto coerente tra la presente direttiva e il diritto comunitario esistente, soprattutto per quanto concerne le disposizioni dettagliate in materia di pratiche commerciali sleali applicabili a settori specifici. (…) Di conseguenza, la presente direttiva si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore. Essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore e vieta ai professionisti di creare una falsa impressione sulla natura dei prodotti”).
delle norme sui contratti14. Ciò significa che, almeno in linea di principio, un contratto discendente da una pratica commerciale dichiarata scorretta dalle competenti autorità amministrative/giurisdizionali non dà automaticamente luogo alla dichiarazione di invalidità dello stesso e che neppure, teoricamente, interferisce nel procedimento giurisdizionale che avrà ad oggetto la valutazione circa la validità di quel contratto15. Che questo possa essere, una volta calati nel concreto, inverosimile e anacronistico16 è altro problema che pure si affronterà nel presente scritto. Ciò che preme evidenziare ora, è che nella normativa sulle PCS che ci si accinge ad affrontare, l’ottica individualistica (tipicamente civilistica) della tutela del consumatore si perde e si contamina con quella economica e generale del mercato (tipicamente regolatoria).
Ma ciò che più di ogni altra cosa pare mettere a fuoco la logica e la ratio del provvedimento in esame, è la scelta di introdurre, per la prima volta anche attraverso un’espressa definizione legislativa, un parametro soggettivo cui conformare la tutela e sul quale sarà opportuno soffermarsi: secondo il testo della Direttiva infatti, il destinatario della protezione apprestata dalla Xxxxxxxxx non è il consumatore individualmente inteso. O meglio, lo è nella misura in cui egli risponde al parametro del “consumatore medio”, del consumatore, cioè, “ragionevolmente informato, normalmente attento e avveduto”17 che secondo quanto si legge nella relazione illustrativa della proposta di direttiva della Commissione, altro non rappresenta che “un criterio di proporzionalità” necessario a chiarire “il parametro che i tribunali nazionali dovranno applicare” per ridurre
14 Si veda l’articolo 3 della Direttiva, che sotto la rubrica “Ambito di applicazione”, al comma secondo, recita: “La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto”.
15 Per un commento esaustivo sul tema dell’invalidità contrattuale nell’ambito della disciplina in esame si veda CAMARDI C. Pratiche commerciali scorrette e invalidità in Obbligazioni e contratti, giugno 2010, p. 408.
00 XX XXXXXXXXXX X., Xx pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (i decreti legislativi 145 e 146 del 2 agosto 2007). Giappichelli 2008. Dello stesso Autore (a cura di) si veda anche, Le pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori. La direttiva 29/2005/Ce e il diritto italiano. Giappichelli 2007.
17 Considerando n. 18 della Direttiva dove, altresì, si legge che la “Corte di giustizia ha ritenuto opportuno nel valutare cause relative alla pubblicità ingannevole, dopo l’entrata in vigore della dir. 84/450/Cee, esaminare l’effetto su un virtuale consumatore tipico”.
considerevolmente la possibilità di valutazioni divergenti all’interno dell’UE di pratiche tra loro simili”.
Siamo ben lontani dunque dalla tradizionale logica che ispirava altri provvedimenti a tutela del consumatore in cui lo stesso aveva connotati di debolezza strutturale ed economica rispetto al soggetto con cui si confrontava il professionista. Ma su questo punto si tornerà in seguito18.
Ciò premesso, si comprende quindi come, sottesa alla logica e alla ratio della Direttiva non è certamente la difesa assoluta e incondizionata del consumatori. Come è stato autorevolmente sottolineato, la disciplina introdotta dalla Direttiva tende “ad allontanarsi sempre di più dal modello di un diritto privato dei consumatori per avvicinarsi ad un modello di diritto delle imprese e del mercato”19. Senza addentrarsi ulteriormente nell’analisi e nelle valutazioni di una simile impostazione, è opportuno ripetere che, con quanto detto sopra, non si intende sostenere che la Direttiva non abbia o non si proponga di avere un fine anche di tutela del consumatore (inteso nei termini sopra detti). Ciò che si vuole sottolineare è piuttosto il fatto che la protezione del consumatore costituisce un fine mezzo rispetto al fine ultimo, rappresentato dalla creazione di un regime delle pratiche commerciali quanto più unitario e omogeneo possibile all’interno degli Stati membri, che tende a ridurre i costi ad essa connessi, aumentando l’offerta di beni e servizi in tale spazio comunitario e innalzando così il livello di concorrenza. La Direttiva quindi costituisce, in primis, una misura di armonizzazione e di riavvicinamento delle legislazioni degli stati membri adottata dagli organi comunitari in base all’art. 95 Ce per garantire il corretto e pieno funzionamento del mercato interno. E quindi, secondariamente, anche una misura (basata sull’art. 153 Ce) attraverso la quale l’Unione europea ha inteso “contribuire alla tutela degli interessi economici dei consumatori” al fine di assicurare loro un elevato ed uniforme sistema di protezione.
Sul punto non va peraltro dimenticato che la gran parte dei commentatori e delle interpretazioni dottrinali aventi ad oggetto discipline riguardanti la tutela dei
18 Per un’analisi si rinvia al cap. 2 par.5.
19 CAMARDI C. Pratiche commerciali scorrette e invalidità, op. cit. p. 408.
consumatori e quella della concorrenza difficilmente scindono il binomio consumatore/mercato e riconoscono anzi come mercato interno e tutela del consumatore finiscano comunque per convergere nella misura in cui la seconda si consegue efficacemente proprio ottenendo che la concorrenza non venga falsata nel mercato interno. E viceversa, la concorrenza viene effettivamente preservata solo laddove sia garantita una tutela della libera e consapevole scelta dei consumatori20. Correttamente sul punto è stato sottolineato come la Direttiva che introduce la figura delle pratiche commerciali sleali consenta di sindacare a tutto tondo il rapporto tra imprese e consumatore superando la parcellizzazione delle tutele e cogliendo così il fenomeno del rapporto impresa / consumatore/mercato nel suo complesso21
1.2 Struttura e contenuti della Direttiva.
Orbene, una volta individuata la ratio della Direttiva e le sue premesse storiche, affrontiamo quindi più da vicino i contenuti e l’ambito di applicazione della stessa. Cominciamo dall’analisi della struttura e del contenuto.
La Direttiva si articola essenzialmente in due parti fondamentali.
La prima parte (artt. 1-13) contiene specificatamente la nuova disciplina delle “pratiche commerciali sleali”, individua, cioè, e regola appunto le fattispecie rilevanti. Tale parte risulta a sua volta suddivisa in tre capi: il primo capo (artt. 1- 4), intitolato “Disposizioni generali”, contiene le norme che definiscono lo scopo (art. 1) e l’ambito di applicazione (art. 3) della Direttiva e fornisce inoltre alcune definizioni (art. 2) propedeutiche all’analisi delle successive norme.
Il capo secondo, intitolato “Pratiche commerciali sleali”, rappresenta il contenuto precettivo vero e proprio del provvedimento. Come si vedrà nel corso dello scritto, nella nozione di pratiche commerciali si possono annoverare una serie indefinita di condotte poste in essere dal professionista anteriormente, contestualmente o anche successivamente alla conclusione di un contratto col consumatore, finalizzate a
20 Sul punto si veda per tutti PERLINGIERI P., Il diritto dei contratti tra persona e mercato, Napoli, 2003.
21 FIORENTINO X. Xx pratiche commerciali scorrette, in Obbligazioni e contratti 2011, p. 165.
promuovere la stipulazione di un tale contratto o comunque “direttamente connesse” con lo stesso. Merita di essere segnalato sin d’ora che tale nozione non ha trovato particolari consensi nella dottrina, specie in quella, europea per la sua valenza troppo generica e ridondante22 La questione sollevata parrebbe assumere importanza pratica notevole, specie in quegli ordinamenti, come il nostro, dove la nozione non trova antecedenti storici ed è stata recepita dal legislatore senza modifiche di sostanza. In tali contesti, pertanto, si deve ritenere che il compito di dare contenuto concreto alla norma spetterà alla Corte di giustizia europea e ai principi dettati da quest’ultima alla quale si ispireranno poi i giudici nazionali.
Passando a considerare la nozione di “slealtà” della pratica che ne determina l’illegittimità, il legislatore comunitario ha costruito suddetta nozione secondo una struttura piramidale23, che, partendo da una clausola generale e di natura, secondo l’opinione della dottrina maggioritaria, residuale, quella di cui all’art. 5, si sviluppa in due sottoclausole che potremmo definire anche esse di carattere generale: quella relativa alle pratiche ingannevoli – art. 6 e 7 - e quella relativa alle pratiche aggressive – art. 8 e 9. La Direttiva redige anche, al suo allegato I, un elenco esaustivo di 31 pratiche commerciali che, conformemente all’art. 5, n. 5, della direttiva, sono considerate sleali «in ogni caso». Conseguentemente, come espressamente precisato dal diciassettesimo Considerando, si tratta delle uniche pratiche commerciali che si possono considerare sleali senza una valutazione caso per caso ai sensi delle disposizioni degli articoli da 5 a 9 della Direttiva.
Secondo l’art. 5, comma primo, dunque, le pratiche commerciali sleali sono vietate. La clausola di slealtà, intorno alla quale evidentemente ruota il potenziale lesivo delle pratiche e quindi la ragione fondante del loro divieto, si basa come si vedrà sulla ricorrenza cumulativa di due elementi: quello della contrarietà della pratica alla diligenza professionale e, soprattutto, quello dell’attitudine della pratica a
22 XXXXXXXXXX S. - XXXXXXX U., The Regulation of Unfair Commercial Practices Under Ec Directive 2005/29: New Rules and New Techniques, Xxxx Publishing, 2007; Xxxxxxx G.G., XXXXXXXX H.W., XXXXXXXXXXX X., European Fair Trading Law: The Unfair Commercial Practices Directive, Ashgate Publishing, Ltd., 2006; KEIRSBILCK B., The new European law of unfair commercial practices and competition law, Oxford - Xxxx 2011.
23 LIBERTINI M., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette. Attuazione e impatto sistematico della Direttiva 2005/29/CE, a cura di X. XXXXXXXX, Cedam, 2008.
“falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio inducendolo così a prendere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso”.
Ora, al di là dell’utilizzo in sede comunitaria di espressioni a dire il vero poco felici per la loro indeterminatezza24, ciò che emerge chiaramente dalla definizione è che il predicato di slealtà, nel tenore della Direttiva, è riferibile solo ed esclusivamente a comportamenti del professionista che siano in grado di ledere in misura rilevante il comportamento dei consumatori. Si tratta di una precisazione importante in quanto, come vedremo, l’ambito di applicazione della Direttiva è, almeno in prima istanza, circoscritto alle sole pratiche commerciali lesive degli interessi dei consumatori.
Venendo quindi al capo terzo, esso è costituito da un’unica norma (l’art. 10) intitolata “Codici di condotta”. Il tema dei codici di condotta nell’ambito della disciplina de qua sarà oggetto di indagine specifica allorquando ci si soffermerà sull’analisi del recepimento della normativa comunitaria in sede nazionale nonché dell’applicazione delle norme oggetto di studio. Inoltre lo stesso appare particolarmente interessante nell’ambito della Direttiva in quanto richiama nuovamente quella dinamica pubblico/privato di cui si diceva in apertura e testimonia la tensione tra due sistemi di regolamentazione dei rapporti privati. Per ora ci si limiterà a dire, che l’introduzione di una norma che da sola costituisce un intero capo della Direttiva, può già far intuire l’importanza che il legislatore comunitario intendeva attribuire allo strumento dell’autodisciplina. Non si tratta peraltro di una novità nell’ambito della legislazione consumeristica comunitaria dove numerose sono le ragioni del “successo”, per così dire, di tali strumenti25.
Ebbene, anticipando in parte quanto si vedrà oltre, la norma non soltanto autorizza gli Stati membri a prevedere nell’ambito delle discipline nazionali il ricorso allo strumento dei codici di condotta in aggiunta ai tradizionali strumenti di
24 Il termine “decisione di natura commerciale” per esempio, avrebbe secondo la dottrina certamente potuto essere reso dagli incaricati con locuzioni più appropriate. Sul punto si veda in particolare DE XXXXXXXXXX 2007, op.cit., ed ivi ulteriori riferimenti alla dottrina europea.
25 Per una rassegna delle ragioni che sostengono e hanno sostenuto lo sviluppo e la diffusione dei codici di autodisciplina nella regolazione di tipo comunitario, specie in quella riguardante rapporto economici si veda FABBIO P., I codici di condotta nella disciplina delle pratiche commerciali sleali, Giur. comm. 2008, 04, p. 706.
enforcement, giurisdizionali e/o amministrativi, ma prevede anche che i legislatori nazionali “incoraggino” tale controllo basato sull’autodisciplina attraverso la designazione di soggetti e organismi “responsabili del codice”. Così facendo il legislatore comunitario dimostra un chiaro atteggiamento di favore verso un approccio “privatistico” e alternativo della gestione di possibili conflitti. Segnatamente, l’art. 10 recita: “La presente direttiva non esclude il controllo, che gli Stati membri possono incoraggiare, delle pratiche commerciali sleali esercitato dai responsabili dei codici né esclude che le persone o le organizzazioni di cui all’articolo 11 possano ricorrere a tali organismi qualora sia previsto un procedimento dinanzi ad essi, oltre a quelli giudiziari o amministrativi di cui al medesimo articolo. Il ricorso a tali organismi di controllo non è mai considerato equivalente alla rinuncia agli strumenti di ricorso giudiziario o amministrativo di cui all’articolo 11”26.
Il quarto ed ultimo capo, infine, intitolato “Disposizioni finali” (artt. da 11 a 13), reca fondamentalmente la disciplina di carattere per così dire “procedurale”, in quanto contiene norme relative all’applicazione della Direttiva nelle sue disposizioni “sostanziali” (di cui si è detto sopra) e alle sanzioni da comminarsi nel caso di violazione delle stesse. A tal proposito, il legislatore comunitario ha contemplato la possibilità per gli Stati membri di optare per un controllo di tipo amministrativo o giurisdizionale, senza peraltro escludere che le due scelte possano convivere, purché sia assicurata l’esistenza di mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali27.
26 Della norma in questione si tratterà specificatamente oltre.
27 Articolo 11 intitolato “Applicazione” stabilisce al comma 1 che: “Gli Stati membri assicurano che esistano mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali al fine di garantire l’osservanza delle disposizioni della presente direttiva nell’interesse dei consumatori. Tali mezzi includono disposizioni giuridiche ai sensi delle quali le persone o le organizzazioni che secondo la legislazione nazionale hanno un legittimo interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali, inclusi i concorrenti, possono: a) promuovere un’azione giudiziaria contro tali pratiche commerciali sleali, e/o b) sottoporre tali pratiche commerciali sleali al giudizio di un’autorità amministrativa competente a giudicare in merito ai ricorsi oppure a promuovere un’adeguata azione giudiziaria. Spetta a ciascuno Stato membro decidere a quali di questi mezzi si debba ricorrere e se sia opportuno che l’organo giurisdizionale o amministrativo possa esigere che si ricorra in via preliminare ad altri mezzi previsti per risolvere le controversie, compresi quelli di cui all’articolo 10.
In tema di rimedi, l’art. 13 si limita ad affidare alle legislazioni nazionali il compito di irrogare sanzioni che dovranno essere “effettive, proporzionate e dissuasive”, senza peraltro specificare di quali sanzioni debba trattarsi. Pur nella libertà concessa agli Stati, che potranno, almeno astrattamente, prevedere rimedi di carattere pubblicistico (amministrativo e penale) così come di tipo privatistico28, la Direttiva sembra ciò nondimeno considerare principale lo strumento dell’inibitoria volta a far cessare le pratiche o a vietarne il compimento, anche in assenza di prove circa la colpa del professionista e le effettive conseguenze dannose della pratica (art. 11 comma 2)29.
Siamo così giunti alla seconda parte della Direttiva (artt. 14- 16), la quale contempla due soli articoli che sostanzialmente modificano alcune discipline comunitarie già esistenti.
Si tratta, in particolare, della direttiva comunitaria 84/450/Cee in materia di pubblicità ingannevole e comparativa (art. 14)30, delle direttive 97/7Ce e 2002/65/Ce riguardanti, rispettivamente, la protezione dei consumatori nei contratti a distanza e la commercializzazione di servizi finanziari ai consumatori (art. 15) ed
28 In tal senso si veda DE XXXXXXXXXX X, 2007 op.cit. p. 14 ss. secondo il quale nulla, secondo il tenore della Direttiva, avrebbe impedito agli Stati membri ed al nostro Paese di comminare la sanzione di nullità per i contratti nascenti da una pratica commerciale sleale ovvero di attribuire al consumatore, vittima di una PCS, il diritto di recesso ad nutum dal contratto. Secondo l’Autore il legislatore italiano avrebbe serbato un inutile e “assordante” silenzio sul punto lasciando l’arduo compito di ricostruire i rapporti tra PCS e disciplina dei contratti esclusivamente all’interprete.
29 Art. 11 comma 2: “Nel contesto delle disposizioni giuridiche di cui al paragrafo 1, gli Stati membri conferiscono all’organo giurisdizionale o amministrativo il potere, qualora ritengano necessari detti provvedimenti tenuto conto di tutti gli interessi in causa e, in particolare, dell’interesse generale: a) di far cessare le pratiche commerciali sleali o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per ingiungere la loro cessazione, o b) qualora la pratica commerciale sleale non sia stata ancora posta in essere ma sia imminente, di vietare tale pratica o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per vietarla, anche in assenza di prove in merito alla perdita o al danno effettivamente subito, oppure in merito all’intenzionalità o alla negligenza da parte del professionista. Gli Stati membri prevedono inoltre disposizioni affinché i provvedimenti di cui al primo comma possano essere adottati nell’ambito di un procedimento d’urgenza: — con effetto provvisorio, oppure — con effetto definitivo, fermo restando che compete ad ogni Stato membro scegliere una delle due opzioni. Inoltre, al fine di impedire che le pratiche commerciali sleali la cui sospensione sia stata ordinata da una decisione definitiva continuino a produrre effetti, gli Stati membri possono conferire all’organo giurisdizionale all’autorità amministrativa il potere: a) di far pubblicare tale decisione per esteso, o in parte, e nella forma che ritengano opportuna, b) far pubblicare inoltre un dichiarazione rettificativa”.
30 Va peraltro ricordato che il 27 dicembre del 2006 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale la direttiva 2006/14/Ce recante la versione codificata della dir. 84/450 a seguito delle modifiche apportate dalla Direttiva in esame e prima dalla (oggi abrogata) dir. 97/55/Cee.
infine (art. 16) della direttiva 98/27Ce in materia di provvedimenti inibitori a tutela dei consumatori e del regolamento Ce 2006/2004 sulla cooperazione per la tutela dei consumatori.
Come si avrà modo di osservare, l’introduzione di modifiche ad alcune delle discipline già in essere solleva questioni di coordinamento e di interpretazione delle varie norme non di poco momento sulle quali si tornerà oltre.
È necessario ora individuare l’ambito di applicazione della Direttiva in esame.
1.3 La direttiva 2005/29/CE e il suo ambito di applicazione: la nozione di “pratica commerciale” fra imprese e consumatori.
Una volta compresa la struttura ed individuati (per sommi capi in realtà) i contenuti del provvedimento, bisogna allora definire il campo di applicazione della Direttiva e individuare le fattispecie oggetto di disciplina.
La questione, come si accennava sopra, assume particolare importanza a causa delle possibili sovrapposizioni con altre normative comunitarie a cui la stessa può dare origine. Non solo, ma l’individuazione corretta delle fattispecie rileva anche se si tiene a mente che la Direttiva costituisce un provvedimento di armonizzazione massima e che pertanto con riferimento (e solo con riferimento) alle fattispecie oggetto della stessa gli Stati membri non potranno, alla scadenza del periodo di grazia (6 anni a decorrere dall’entrata in vigore della stessa, e cioè dal 12 giugno del 2007), adottare o aver adottato discipline diverse da quelle imposte dal legislatore comunitario. Per le fattispecie, al contrario, che non ricadono nello spettro di applicazione della Direttiva (si vedano per esempio, le pratiche commerciali, ed in particolare la pubblicità, che siano lesive solo degli interessi dei professionisti e dei concorrenti e che rientrano quindi nel raggio di applicazione della direttiva 2006/114/CE sulla pubblicità ingannevole e comparativa31), gli Stati membri restano liberi di applicare discipline difformi (purché queste garantiscano una più ampia tutela ai soggetti destinatari della protezione).
31 Art. 8 della direttiva 2006/114/CE. Sull’argomento e più specificatamente sui rapporti tra disciplina introdotta dalla Direttiva in materia di PCS e pubblicità ingannevole a seguito dell’entrata in vigore della Direttiva stessa si veda anche il § 1.4 del presente capitolo.
La nozione quindi che definisce l’oggetto e il campo di applicazione della Direttiva è, in prima battuta, quella che emerge dal combinato disposto degli artt. 2 lett. (d) e 3 comma primo: secondo l’art. 2 si deve intendere per pratica commerciale tra imprese e consumatori “ogni azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, ivi compresi il marketing e la pubblicità, posta in essere da un professionista e direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. Le analogie con la definizione di comunicazione commerciale e la derivazione della stessa da quella contenuta nel Libro Verde sono evidenti. Secondo l’art. 3, primo comma, che precisa e specifica la nozione di cui sopra, tali pratiche possono essere poste in essere “prima, dopo o durante un’operazione commerciale relativa ad un prodotto”.
La definizione merita dunque di essere analizzata attentamente in ogni sua parte. Diremo quindi, in primo luogo, che si tratta di una nozione estremamente ampia che tende ad abbracciare ogni tipo di comportamento dell’impresa volto ad influenzare, evidentemente a proprio vantaggio, le decisioni del consumatore, innanzitutto con riguardo all’acquisto o meno di un bene o servizio32.
Ma non solo: pare corretto sostenere che la fattispecie comprenda anche quei comportamenti che incidono sulle decisioni del consumatore connesse e/o successive a detto acquisto, e cioè, su quelle decisioni relative alle condizioni di acquisto, al modo in cui pagare il prodotto (se integralmente o parzialmente), alla decisione di tenere o meno il prodotto e/o di esercitare le azioni contrattuali eventualmente previste in relazione a tale acquisto (si veda in proposito l’art. 2 lett. k contenente la definizione di “decisione di natura commerciale”).
Inoltre, le condotte rilevanti sono tutte quelle riconducibili a rapporti business to cosumer, precontrattuali e contrattuali, aventi ad oggetto (o direttamente connessi con) l’offerta di un bene o servizio al consumatore, nonché i rapporti (business to consumer) contrattuali e post-contrattuali consistenti in azioni/omissioni del
32 Si veda Corte di Giustizia CE, I sez., 23.4.2009, cause C-261/07 e C-299/07 “le offerte congiunte costituiscono atti commerciali che si iscrivono chiaramente nel contesto della strategia commerciale di un operatore e rivolte direttamente alla promozione e allo smercio delle sue vendite.”.
professionista che possano scorrettamente influenzare la scelta del consumatore di esercitare un diritto o far valere una tutela in relazione al contratto stipulato.
A contrario, diremo invece, che non ricadono nell’ambito di applicazione della Direttiva le comunicazioni commerciali, o comunque le condotte del professionista volte a promuovere un bene o servizio, che siano rivolte esclusivamente ai professionisti così come anche le condotte finalizzate alla stipula di contratti fra professionisti.
Come vedremo, un tale criterio di definizione dell’ambito di operatività della disciplina, fondato essenzialmente sul destinatario del messaggio e sull’interesse di volta in volta solo potenzialmente leso, non pare essere particolarmente opportuno, considerato l’oggetto della normativa (più ampiamente si veda il § 1.4).
Proseguendo nell’analisi della definizione di pratica commerciale tra impresa e consumatore, l’art. 3 primo comma, fa riferimento a qualsiasi comportamento del professionista posto in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale, estendendo cosi la nozione di pratica commerciale e facendovi rientrare anche quei comportamenti dell’imprenditore che incidono su decisioni negoziali del consumatore posteriori alla conclusione del contratto.
Al di là della natura e delle caratteristiche della condotta, la norma suggerisce una connessione tra le pratiche commerciali oggetto di disciplina e il diritto dei contratti. Se, infatti, come pare assai verosimile, l’espressione “operazione commerciale” viene utilizzata in questo contesto come sinonimo di “contratto”33, la norma introduce una sorta di “campanello d’allarme” circa le possibili interferenze che le pratiche commerciali producono con il contratto e con la relativa disciplina. È evidente infatti come il comportamento posto in essere dal professionista nei confronti del consumatore al fine di indurlo ad una scelta commerciale in suo favore può trovare sbocco (e, normalmente trova sbocco) nella conclusione di un contratto col consumatore avente ad oggetto il prodotto/servizio prima oggetto della comunicazione commerciale, pubblicità o attività di marketing disciplinata dalla Direttiva in esame. Si potrebbe quindi pensare che il legislatore comunitario abbia
33 E così pare inequivocabilmente essere se si considerano anche le altre versioni linguistiche della Direttiva nelle quali ricorrono le espressioni “commercial practice”, “transaction commerciale”,”Handelsgeshaft”.
in qualche modo voluto disciplinare anche alcuni degli aspetti relativi alla conclusione ed esecuzione dei contratti, ed in particolare quegli aspetti relativi alla formazione della volontà negoziale e alla risoluzione del rapporto contrattuale.
In realtà, così non è. Quantomeno nella lettera della Xxxxxxxxx che si premura di precisare poco dopo all’art. 3, comma secondo, che essa “non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale ed in particolare le norme sulla formazione, validità o efficacia dei contratti”.
Sul significato e sulla portata esatta della locuzione “non pregiudica” (peraltro pedissequamente riportata dal nostro legislatore in sede di recepimento della normativa comunitaria) e sul rapporto tra pratiche commerciali sleali (o meglio scorrette, secondo la definizione interna) e diritto dei contratti, si avrà modo di tornare in seguito, quando si analizzerà l’impatto della Direttiva nell’ordinamento interno (Cap. 2). Ciò che si deve tenere presente sin da ora, tuttavia, e che appare peraltro coerente con la ratio e la logica della Direttiva evidenziata sopra (vale a dire, con il suo essere un provvedimento di armonizzazione e di tutela del mercato prima ancora che di tutela del consumatore) è che essa non si (pre)occupa direttamente né dei rapporti contrattuali eventualmente conseguenti alle pratiche commerciali sleali nè degli interessi ad essa direttamente sottesi, e cioè quelli del consumatore singolarmente considerato. Ed infatti, sul fronte dei rimedi, la Direttiva aggiunge che non sono pregiudicati i ricorsi individuali proposti dai soggetti lesi dalla pratica commerciale sleale (Considerando n. 9). E, d’altra parte, pur nella completa libertà di scelta, la Direttiva nella sua parte “procedurale” in ordine ai rimedi e all’applicazione delle norme sostanziali (art. 11), prevede come centrale ed assorbente il rimedio di carattere inibitorio - che, come noto, è finalizzato esclusivamente a impedire il compimento o la continuazione della pratica sleale - mentre nulla si dice circa i possibili rimedi di carattere contrattuale (xxxxxxxx di nullità/annullabilità, diritto di recesso, risarcimento del danno, risoluzione, etc…) volti a tutelare posizioni individuali dei singoli consumatori. Quanto detto peraltro non esclude affatto (e non potrebbe d’altra parte farlo) che, come vedremo, l’introduzione nel nostro ordinamento della disciplina oggetto di indagine possa avere delle ripercussioni sui rapporti contrattuali instaurati tra
professionisti e consumatori a seguito della realizzazione di una pratica commerciale scorretta e che in particolare la valutazione di “slealtà” fatta dal giudice nazionale in ordine alla scorrettezza della pratica possa avere una sua rilevanza ai fini del giudizio sulla validità e/o efficacia del contratto34.
Prima di passare oltre, non si può omettere infine di evidenziare la vicinanza della definizione di pratica commerciale fra imprese e consumatori contenuta nella Direttiva con quella di pubblicità contenuta all’art. 2 della dir. 450/84/Cee (versione codificata) secondo cui per pubblicità si intende: “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la fornitura di beni o servizi, compresi i beni immobili, i diritti e gli obblighi”.
Senza pretese di completezza, possiamo dire per il momento, che la nozione di pubblicità, la quale rappresenta la forma certamente più diffusa e importante di comunicazione commerciale, non sembra affatto esaurire il concetto di pratica commerciale fatto proprio dalla Direttiva, con la conseguenza che la stessa, come vedremo, non si sostituisce alla precedente disciplina sulla pubblicità ingannevole e comparativa, ma a questa si sovrappone e si affianca secondo un rapporto , se si vuole, di integrazione reciproca. D’altra parte, il concetto di pubblicità non assume, nell’ambito della disciplina sulle pratiche commerciali sleali, una sua autonoma rilevanza, come in altri provvedimenti, ma costituisce piuttosto un momento di una più ampia attività economica (la comunicazione commerciale) che fa da veicolo all’immagine del professionista e che risulta essere il vero oggetto della Direttiva.
Sotto altro profilo, merita un cenno anche la dottrina che sottolinea la somiglianza delle pratiche commerciali sleali con gli atti di concorrenza sleale, quanto meno con riferimento alle condotte tese ad indurre il consumatore alla conclusione di un
34 Sulle sorti del contratto e, più ampiamente, sulla relazione tra disciplina delle PCS e disciplina dei contratti, alla luce della ratio delle nuove norme, si rinvia nuovamente a CAMARDI C. Pratiche commerciali scorrette e invalidità, op .cit. p. 411. Per alcune interessanti considerazioni in argomento si veda anche MAGRI G., Gli effetti della pubblicità ingannevole sul contratto concluso dal consumatore. Alcune riflessioni alla luce dell’attuazione della Direttiva 05/29 CE nel nostro ordinamento Riv. Dir. Civ. 3/2011, p. 269. Più nello specifico, su pratiche commerciali ingannevoli e contrattazione on line, si veda da ultimo, RENDE F., Nuove tecniche di condizionamento delle scelte di consumo e rimedi conformativi del regolamento contrattuale, I contratti 8-9/2012, p. 735.
contratto relativo all’acquisto di un bene35. Con riguardo, invece, agli altri atti (atti che incidono sul comportamento del consumatore durante e dopo la conclusione del contratto), le condotte in questione sembrano avere certamente una valenza più ampia rispetto a quella degli atti di concorrenza sleale in senso stretto36. Ebbene al di là delle ricostruzioni dogmatiche, appare utile rifarsi all’interpretazione che della nozione è stata data in sede giurisprudenziale: sin dalle prime applicazioni la Corte di Giustizia si è quindi espressa confermando che la Direttiva è caratterizzata da un ambito di applicazione per materia “particolarmente ampio”, che si estende a qualsiasi pratica commerciale in collegamento diretto con la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto ai consumatori. In tal modo, sono escluse da detto ambito di applicazione soltanto le normative nazionali relative alle pratiche commerciali sleali che ledono «unicamente» gli interessi economici dei concorrenti o che sono connesse ad un’operazione tra professionisti37. Rientrano quindi a pieno titolo nel concetto di pratica commerciale, come anche ribadito dalla Corte di Giustizia nelle sue pronunce, tutte le promozioni dirette alla vendita di beni/servizi ai consumatori, ivi comprese le offerte congiunte, le operazioni/ i giochi a premio38, i cd. “gratta e vinci” e simili. In particolare
1.4 Segue: l’ambito di applicazione della Direttiva e gli interessi tutelati.
35 Per una ricostruzione della disciplina che si esamina in termini essenzialmente “concorrenziali” si veda XXXXXX P. “Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza slelae?”, in Xxxx Xxxxxxxx (a cura di) op. cit. pp. 1 ss.; XXXXXXXX X., op. cit., p.5 ss.; XXXXX P., Xxxxx concorrenza sleale alle pratiche commerciali scorrette, in Il dir. ind. 1/2011, p. 45.
36 Sul punto si veda DE CRISTOFARO G., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori, op. cit., 2007, pp. 1081, secondo il quale le condotte del professionista suscettibili di essere considerate pratiche commerciali alla stregua della Direttiva hanno un significato e una portata assai più ampia rispetto agli atti di concorrenza, e ciò, quantomeno, quando si tratti di condotte posteriori alla stipulazione dei contratti.
37 Ex multis, CGE, Sez. I, 14/01/2010, Sentenza C-304/08 e C-540/08.
38 C-261/07 (VTB-VAB), e C-299/07 (Galatea). In relazione ad una campagna pubblicitaria con la quale si subordinava la partecipazione gratuita ad una lotteria all’acquisto di determinati quantitativi di merci o servizi, sentenza Plus, cit. supra alla nota 5.
le offerte congiunte sono attività commerciali univocamente rientranti nella strategia commerciale di un professionista e direttamente connesse alla promozione e alla vendita di un prodotto.
Orbene, una volta definita la nozione di pratica commerciale fra imprese e consumatori che segna, almeno in prima battuta, l’ambito di applicazione della Direttiva, occorrerà ora soffermarsi su quei profili di slealtà delle pratiche commerciali, che ne comportano il divieto, e che appaiono direttamente connessi con la ricognizione degli interessi tutelati dal provvedimento in esame.
Se infatti, i diretti destinatari della protezione sancita dalla Direttiva appaiono essere esclusivamente i consumatori, quantomeno secondo il tenore di alcune disposizioni della stessa ed in particolare dell’art. 5 secondo comma, ciò non significa che accanto ad essi non sia dato di evidenziare altri e diversi destinatari a loro volta portatori di interessi specifici.
La precisazione è importante perché, come si avrà modo di vedere, la nuova disciplina sulle PCS segna la linea di confine fra il suo ambito di operatività e quello di altre normative comunitarie (id est, la disciplina sulla pubblicità ingannevole e comparativa) proprio sulla base della diversa natura degli interessi tutelati. Con la conseguenza che la Direttiva si applica a tutte e solo quelle pratiche che siano lesive degli interessi dei consumatori, mentre le altre norme trovano applicazione rispetto a quelle pratiche - messaggi pubblicitari - dirette ai soli “professionisti”.
Come detto sopra, dunque la nozione di slealtà proposta dal legislatore comunitario appare essenzialmente costruita sulla base di una clausola generale, che poi si articola nei due “sottotipi” di pratiche sleali, ingannevoli e aggressive. Al momento non appare rilevante concentrarsi su tali ultime due fattispecie, mentre appare opportuno soffermarsi sulla clausola generale di cui all’art. 5, ed in particolare, su una delle due condizioni che essa contempla nel definire sleale una pratica commerciale: non ci occuperemo, quindi, al momento della contrarietà a diligenza professionale39 della pratica, ma piuttosto dell’idoneità della pratica “a falsare in
39 Sul concetto di “diligenza professionale” quale elemento soggettivo costitutivo della fattispecie in esame ci si soffermerà in sede di analisi della normativa nazionale (novella al codice del consumo) per valutare anche l’interpretazione che di tale nozione è stata data in sede applicativa. Si rinvia pertanto al Capitolo 2, par. .
misura rilevante il comportamento economico dei consumatori40”, senza con ciò dimenticare che, ai fini della slealtà della pratica, pacificamente, si riconosce la necessaria ricorrenza di entrambe le condizioni.
Falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore significa dunque, secondo quanto stabilito, dall’art. 2 lettere k) ed e), “alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole inducendolo pertanto a prendere una decisione di natura commerciale (lett. k) che altrimenti non avrebbe preso”. Apparentemente quindi l’interesse tutelato che segna, si è detto, l’ambito di applicazione della Direttiva, è solo ed esclusivamente quello del consumatore, ed in particolare del consumatore “medio”.
Non sembrano, cioè, venire in rilievo, sulla base di una tale definizione, altri interessi che la Direttiva si premura di tutelare. In realtà, esattamente così non è. Ed infatti, come si è cercato di evidenziare anche sopra, da un punto di vista oggettivo, molti dei, se non tutti i, comportamenti di cui la Direttiva sulle PCS si occupa, possono essere ricondotti e qualificati come comportamenti o atti di tipo concorrenziale che avvicinano tale disciplina a quella della concorrenza sleale per finalità e contenuti41. A tale riguardo, si può aggiungere che le pratiche commerciali si configurano come comportamenti che l’imprenditore pone in essere al chiaro scopo di influenzare il comportamento e le decisioni commerciali dei consumatori al fine di spostare la loro domanda verso i suoi prodotti o servizi. Tali comportamenti sono leciti, ai fini della Direttiva, fintantoché non siano lesivi degli interessi dei consumatori, ed in particolare, dell’interesse di questi ultimi a non essere ingannati e/o a non essere indebitamente condizionati nelle loro decisioni commerciali.
40 Sono fatte espressamente salve dal considerando n. 6 della Direttiva, e dal principio di proporzionalità ivi richiamato, le pratiche commerciali che pur essendo sleali “hanno un impatto trascurabile” sui consumatori.
41 Si veda ancora la ricostruzione fatta da XXXXXX P., op.cit. Secondo tale Autore, anche se di fatto il legislatore comunitario non ha apertamente inteso affrontare il tema della repressione della concorrenza sleale forse anche per le difficoltà di giungere ad un’armonizzazione in materia, la disciplina introdotta dalla Dir. 2005/29 nel nostro ordinamento per il tramite del decreto legislativo 146/2007 sarebbe suscettibile di essere interpretata come un frammento della disciplina della concorrenza sleale che andrebbe ad integrarne il contenuto formando così un nuovo regime generale della concorrenza sleale.
Che questo abbia delle ripercussioni importanti anche sul piano della concorrenza fra i professionisti, e cioè, sul piano dei rapporti concorrenziali che fra questi si instaurano, pare evidente.
Se vero è infatti, che il divieto generale introdotto dalla Xxxxxxxxx si incardina sulla idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore in relazione al prodotto, è vero anche che una tale idoneità si riflette immediatamente nei confronti dei concorrenti del professionista “scorretto”, traducendosi in un comportamento anticoncorrenziale e sleale rispetto ad essi. Il fatto che la carica lesiva della pratica venga misurata con riferimento al solo consumatore non elimina quindi la natura anche concorrenziale della stessa.
Che peraltro la disciplina introdotta dalla Xxxxxxxxx non sia completamente estranea al regime della concorrenza sleale, e quindi anche della tutela dei professionisti dai comportamenti sleali dei concorrenti, è dato del quale il legislatore comunitario si dimostra ben consapevole. Ed infatti, basta scorrere i Considerando della Direttiva per ritrovare più di un riferimento alla tutela della concorrenza e dei concorrenti che rappresentano quindi, a loro volta, i destinatari di una qualche protezione, seppure indirettamente riconosciuta.
Così, il Considerando n. 6 statuisce che “le pratiche commerciali sleali ledono direttamente gli interessi dei consumatori e quindi indirettamente quelli dei concorrenti”. Di tenore e significato analogo appare essere il Considerando n. 8, secondo cui, la Direttiva, tutelando l’interesse dei consumatori a non essere ingannati o manipolati dal professionista, “tutela anche indirettamente le attività legittime dei concorrenti garantendo pertanto nel settore da essa coordinato una concorrenza leale”.
Se peraltro ciò non fosse vero, se cioè la Direttiva non avesse voluto ricomprendere nel suo ambito di applicazione comportamenti di natura concorrenziale, non si comprenderebbe perché l’art. 11 avrebbe attribuito anche ai concorrenti la legittimazione ad agire al fine di far cessare la pratica sleale.
Ciò che dunque si torna a mettere in luce è come la Direttiva, in conformità alla ratio che ne ispira l’adozione e che è stata evidenziata in apertura e contrariamente a quanto apparentemente potrebbe sembrare, è un provvedimento di tutela anche
della concorrenza e del mercato, in quanto detta regole e norme di comportamento alle quali gli imprenditori devono conformarsi. Che tali regole siano applicabili unicamente nei rapporti tra imprese e consumatori e non solo ai rapporti tra professionisti, è dato che desta alcune perplessità, in quanto si è visto, che oggetto della direttiva sono i comportamenti dell’impresa che hanno necessarie ed evidenti conseguenze, non solo nei confronti dei consumatori, con riguardo al loro diritto a non essere ingannati e ad autodeterminarsi rispetto alle scelte commerciali da compiere, ma anche nei confronti degli altri professionisti e concorrenti.
Xxx completezza, andrà menzionato anche il considerando n. 6 laddove si afferma che la Direttiva “lascia impregiudicate le norme nazionali riguardanti le pratiche commerciali che risultino lesive unicamente degli interessi dei concorrenti o siano connesse esclusivamente a contratti conclusi (o da concludersi) fra professionisti”. Ebbene certamente come si diceva la Direttiva non aspira ad essere un provvedimento meramente di tutela della concorrenza fra imprese, ma al di là del fatto che di un “considerando” e non di una disposizione normativa vera e propria si tratta, il riferimento al limite di applicazione della Direttiva in sede di recepimento da parte degli stati membri, non può essere interpretato in senso restrittivo sotto il profilo degli interessi che la Direttiva si propone di proteggere. La disposizione pertanto va intesa solamente nel senso che la Direttiva non intende introdurre negli stati membri un nuovo statuto della concorrenza sleale, applicabile pertanto direttamente e soltanto ai professionisti.
1.5 Segue: l’ambito di applicazione della Direttiva, gli interessi tutelati e i rapporti con la disciplina della pubblicità.
Analizzando l’ambito di applicazione, non si può tralasciare di fare cenno al fatto che la Direttiva si preoccupi di delimitare il suo ambito di applicazione rispetto ad altre discipline ad essa contigue; discipline delle quali, peraltro, la Direttiva si occupa, modificandone direttamente il contenuto Si è visto, infatti come a valle della articolazione delle nuove disciposizioni sulle PCS, l’art. 14 della Direttiva introduca modifiche alla dir. 84/450/CE in materia di pubblicità ingannevole e
comparativa. Come noto, la materia della pubblicità ingannevole e comparativa, alla quale si farà ora riferimento, trova specifica trattazione, prima ed anche dopo l’introduzione della Direttiva in esame, nella direttiva 84/450/Cee (oggi codificata dalla direttiva 2006/114/CE).
Xxxxxx, merita un breve cenno la questione concernente i rapporti fra gli artt. 1-13 della Direttiva e le norme contenute nella nuova dir. 2006/114 che codifica la dir. 84/450/CE, come modificata dall’art. 14 della Direttiva 2005/29/CE42 al fine di ricostruire i rapporti fra le due normative comunitarie. La necessità, peraltro sentita dal legislatore, di definire il campo di applicazione della nuova normativa da quella sulla pubblicità trova ragione in primo luogo, se si considera che è la stessa Direttiva all’art. 2 a far rientrare la pubblicità nel novero delle pratiche commerciali fra professionisti e consumatori che costituiscono l’oggetto della stessa
Le modifiche introdotte dalla Direttiva riguardano innanzitutto l’art. 1 della dir. 450/84/Cee, il quale nella sua novellata versione recita: “La presente direttiva ha lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”. Risulta quindi essere stato espunto dalla norma il riferimento ai consumatori e al pubblico in generale43.
Da un punto di vista dei rapporti quindi, ad una prima lettura, la questione parrebbe chiara e semplice: la Direttiva si applica alle pratiche commerciali (e quindi anche ai messaggi pubblicitari) idonei a danneggiare i consumatori, mentre la dir. 450/84/Cee (oggi dir. 2006/114/CE) trova applicazione rispetto a quei messaggi pubblicitari che siano pregiudizievoli per i “professionisti”, intesi come destinatari del messaggio che agiscono nell’ambito della loro attività professionale e non al fine di procurarsi un bene/servizio per finalità personali.
42 Come si vedrà, la questione non si esaurisce a livello di direttiva - quadro ma si traduce, in sede di recepimento, nell’adozione da parte del nostro legislatore di due provvedimenti autonomi e distinti, il decreto legislativo 146 e il 145 entrambi del 2 agosto 2007; il primo (oggi inserito nel Codice del consumo agli artt. 18-27quater) che dà attuazione alle nuove norme riguardanti le PCS (artt. 1-13 della Direttiva); il secondo, che è invece, espressamente rivolto a dare attuazione all’art. 14 della Direttiva. Sul contenuto e sulla portata dei due decreti si tornerà nel corso della trattazione allorché ci si concentrerà sull’impatto della Direttiva sull’ordinamento nazionale
43 Di seguito la versione originaria della Direttiva.
La separazione delle tutele si baserebbe quindi sul criterio della diversità degli interessi potenzialmente lesi (e quindi da tutelarsi): da un lato (PCS), l’interesse dei consumatori, dall’altro (pubblicità ingannevole), l’interesse dei professionisti, cioè, per il momento, di coloro che consumatori non sono.
Sul piano oggettivo, tuttavia, una distinzione “a monte” tra consumatori e altri destinatari non pare essere soddisfacente in quanto la qualità di “consumatore” (e di rimpetto, quella di “professionista”) è determinata dalla natura personale del bisogno da soddisfare la quale natura, si individua solo in concreto nel rapporto che di volta in volta si instaura in funzione dell’acquisto di un bene/servizio.
L’impostazione adottata dal legislatore comunitario (e recepita dal nostro legislatore) al fine di separare la disciplina della pubblicità sulla base di un criterio esclusivamente soggettivo è dunque criticabile perché tende ad operare la distinzione dell’interesse tutelato “a monte”, laddove invece come sottolineato dalla dottrina, il messaggio pubblicitario, astrattamente riconducibile sia ad una pratica commerciale idonea ad essere sleale ai sensi e per gli effetti della Direttiva, sia ad una pubblicità ingannevole ex dir. 2006/114/Ce, opera esso stesso a monte, quando cioè, il soggetto destinatario è ancora potenzialmente sia consumatore che professionista.
Essa così facendo peraltro dà luogo a non pochi problemi pratici in sede esegetica poiché la summa divisio tra consumatori e professionisti può essere a tratti essa stessa ingannevole44 data la difficile distinguibilità in concreto degli interessi tutelati.
In sintesi quindi, e per riassumere, le modifiche apportate dalla Direttiva sulle PCS alla direttiva 84/450/Cee con l’art. 14 riguardano:
a) La circoscrizione dell’ambito di applicazione della direttiva 84/450/Cee alla tutela dei soli interessi dei professionisti e dei concorrenti. Sparisce, cioè, ogni e qualsiasi riferimento al consumatore e ai suoi interessi, nonché al cd. pubblico in generale45.
44 DI XXXXX R. “La nuova disciplina della pubblicità commerciale: cenni preliminari” in DE CRISTOFARO, 2008, op. cit., pp. 479 ss.
45 Si veda in tal senso l’art. 1 della direttiva 84/450/Cee e l’art. 7.
b) Viene inserita la definizione, e con essa il concetto, di “responsabile del codice”, presente nella Direttiva e nel coevo decreto legislativo sulle PCS e quindi replicato, in modo uniforme, e per così dire secondo una logica di coerenza sistematica nella normativa sulla pubblicità (art. 1).
c) attraverso la definizione di pubblicità comparativa, si precisa il nuovo contenuto del termine “ingannevolezza” ai sensi della modificata disciplina sulla pubblicità che risulta ampliato a seguito dell’introduzione di ulteriori forme di comunicazione ingannevole ai sensi della Direttiva sulle PCS ed in particolare degli art. 5 e 646, limitatamente quindi ai consumatori.
d) Viene altresì ribadito, in materia di rimedi e di tutele previste, che spetta agli Stati membri scegliere fra la strada della tutela giurisdizionale e quella della tutela amministrativa, ma con la precisazione importante, che gli Stati membri possono stabilire la facoltà e il potere degli organi giurisdizionali e/o amministrativi di esigere il preliminare ricorso agli organismi eventualmente deputati all’autodisciplina47.
e) Ancora, viene prevista la possibilità, sempre in sede di attuazione nazionale, di promuovere un’azione legale contro il soggetto responsabile del codice – precedentemente definito – il quale abbia disatteso i suoi obblighi di legge, in particolare presiedendo alla formulazione e revisione di un codice di condotta che “incoraggia a non rispettare gli obblighi di legge”.
Le modifiche di cui sopra, come si vedrà, vengono riprese e inserite anche nella disciplina nazionale di recepimento, rappresentata dal d. legislativo 145/2007, intitolato appunto “Attuazione dell’art. 14 della Direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/Cee sulla pubblicità ingannevole”.
46 L’art. 3 bis al punto a).
47 L’art. 4 paragrafo 1, al punto 1. Si ricorda che una tale previsione in termini di facoltà degli Stati membri di esigere il ricorso preventivo agli organi di autodisciplina riconosciuti, era previsto dalla direttiva 450/84/CEE a livello solamente di Considerando.
2
LE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE NEL CODICE DEL CONSUMO. LE PRINCIPALI NOVITA’ INTRODOTTE.
SOMMARIO: Premessa. - 2.1 Il divieto di pratiche commerciali scorrette nel Codice del Consumo. La scorrettezza della pratica. - 2.2 Il giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale fra clausola generale e fattispecie tipiche. Portata della clausola generale di slealtà. - 2.3 La nozione di diligenza professionale ex art. 18 Cod. Cons nel giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale.- 2. 4 (Segue) La clausola generale e la “soglia di materialità” imposta dall’art. 20 Cod. cons. - 2.5 Il parametro consumatore medio. - 2.6 Le pratiche commerciali ingannevoli e la pubblicità ingannevole fra divergenze e similitudini. - 2.7 (Segue) La pubblicità prima dell’entrata in vigore della Direttiva. - 2.8 Pratiche ingannevoli e pubblicità ingannevole. 2.9 (Segue) Le omissioni ingannevoli e il dolo omissivo. - 2.10 Pratiche aggressive. - 2.11 Impegni e moral suasion.
Premessa.
Come si è visto nel capitolo precedente, con la Direttiva il legislatore comunitario ha inteso armonizzare le normative nazionali in materia di pratiche commerciali lesive degli interessi dei consumatori, creando negli Stati membri un regime uniforme, identico e non derogabile, neppure a favore dei consumatori, secondo l’impostazione nota come “armonizzazione massima” o “full target harmonization”. Nel contempo, ha mantenuto in vita la direttiva 2006/114/Ce (già direttiva 84/450/Cee) sulla pubblicità ingannevole e comparativa, lasciando in tale materia la facoltà agli stati membri di prevedere forme di tutela più stringenti e limitandone l’applicazione alle fattispecie idonee a pregiudicare gli interessi dei soli professionisti e dei concorrenti48.
48 A proposito di queste ultime si parla di pratiche cosiddette “business to business” (o “B2B”) per contrapporle alle cosiddette pratiche “business to consumer” (o “B2C”). Sulla scelta dell’armonizzazione non completa in tale settore si veda l’art. 7 par. 1 della direttiva 84/450/CEE come modificato dall’art. 14 della Direttiva: “La presente direttiva non si oppone al mantenimento o all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di
Su tale impostazione sistematica si è già rilevato come in realtà, la stessa riesca solo in parte a comprendere in modo veritiero ed efficace la realtà del fenomeno che si sta analizzando che, invero, si presenta come “integrato”. Ed infatti la distinzione fra atti che pregiudicano i consumatori e atti che pregiudicano i concorrenti non è sempre netta né attuabile concretamente49. Abbiamo evidenziato inoltre come di tale limitatezza si dimostri consapevole anche il legislatore comunitario, quando, oltre ad evidenziare nei considerando della Direttiva, che le pratiche sleali oggetto della stessa pregiudicano direttamente i consumatori, ma indirettamente anche i concorrenti e che, di conseguenza, la Direttiva tutela indirettamente “le attività legittime da quelle dei rispettivi concorrenti che non rispettano le regole previste dalla presente direttiva e pertanto garantisce nel settore da essa coordinato una concorrenza leale”50, riconosce espressamente la legittimazione ad agire contro le pratiche commerciali scorrette di cui alla normativa de qua anche ai concorrenti51. Sul fronte interno, la scelta sistematica fondata sulla separazione degli interessi tutelati, si è realizzata attraverso l’adozione di due decreti legislativi coevi, il n. 145 e il n. 146 del luglio 2007, con i quali la Direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento. In particolare, con il primo dei due il legislatore nazionale ha “asportato” dal Codice del consumo la disciplina della pubblicità ingannevole la quale, come si vedrà, resta valida per i soli rapporti tra imprese, così assecondando il dettato dell’art. 14 della Direttiva52. Con il secondo, d. lgs. 146/2007, invece, il
garantire una più ampia tutela, in materia di pubblicità ingannevole, dei professionisti e dei concorrenti.”.
49 DE XXXXXXXXXX, op. cit., p.1066 che valuta artificiosa e priva di utilità la distinzione fra tutela diretta e immediata di una categoria di interessi (i consumatori) e indiretta e mediata degli altri (quelli dei concorrenti). Analogamente XXXXXX, op. cit., p. 21 e ss., il quale partendo dall’assunto circa la fragilità della separazione attuata dalla Direttiva e dal legislatore nostrano, conclude che “il nuovo regime delle pratiche commerciali sleali e il tradizionale istituto della concorrenza sleale non sono nettamente distinti, ma si integrano reciprocamente a formare un generale regime della concorrenza o meglio della concorrenza sleale rivolto ad assicurare che la concorrenza si svolga in conformità a regole di correttezza nell’interesse dei concorrenti, dei consumatori e della collettività”.
50 Considerando n. 6 e n. 8.
51 Art. 11 sull’applicazione della Direttiva riconosce infatti alle persone o le organizzazioni che secondo la legislazione nazionale hanno un legittimo interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali, inclusi i concorrenti, la facoltà di agire in giudizio e/o di fronte all’autorità amministrativa designata.
52 L’art. 14 della Direttiva, modifica la direttiva 84/450/CEE il cui art. 1 viene modificato restringendo l’ambito di tutela dello stesso ai soli professionisti: il nuovo art. 1 della direttiva
legislatore nazionale è intervenuto sul Codice del Consumo con una novella, introducendo al Titolo III (“Pratiche commerciali pubblicità e altre comunicazioni commerciali”), della Parte II (rinominata “Educazione, informazione, pratiche commerciali e pubblicità”), al posto della suddetta disciplina della pubblicità, gli artt. dal 18 al 27 quater53. Tali articoli recano quindi attualmente la normativa in materia di PCS in vigore nel nostro ordinamento.
Nei successivi paragrafi ci si soffermerà sull’analisi di tali norme al fine di verifcare quali sono le principali novità introdotte a livello nazionale in materia di tutela del consumatore e in relazione alla repressione delle pratiche commerciali lesive dei loro interessi, oltre che dell’equilibrio concorrenziale del mercato54.
Ci si soffermerà, innanzitutto, sull’analisi delle fattispecie introdotte (pratiche commerciali scorrette, ingannevoli e aggressive) evidenziandone i profili di novità rispetto a quanto già previsto nel nostro ordinamento. In particolare, con riguardo alle pratiche ingannevoli, sarà d’obbligo un confronto con l’istituto della pubblicità commerciale.
Si passeranno poi brevemente in rassegna alcuni degli interventi dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, quale organo amministrativo cui il legislatore nazionale ha scelto di affidare, in xxx xxxxxxxxxx, x’xxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxx in esame, nonchè dei giudici amministrativi, di primo e secondo grado (TAR e Consiglio di Stato) competenti in via esclusiva a giudicare sui ricorsi contro i provvedimenti di AGCM55.
84/450/CEE recita: “La presente direttiva ha lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”.
53 È critico su tale collocazione DE XXXXXXXXXX X., op.cit., p.1068, il quale ritiene che, più opportunamente, la novella avrebbe dovuto essere inserita nella Parte III (“Rapporto di consumo”) del Titolo II (“Esercizio dell’attività commerciale”) del Codice del Consumo. È evidente che, optando invece per tale scelta, il nostro legislatore rivela la lettura di fondo, eminentemente pubblicistica, data alla recente disciplina. Dello stesso avviso XXXXXXXX X. in Obbl. e contr. 2011, p. 330, la quale ritiene che il nuovo focus della disciplina sia il concetto generale di lealtà quale tratto caratterizzante il rapporto di consumo (oltre che quale criterio di valutazione della condotta del professionista).
54 X. XXXX, Direttiva sulle pratiche commerciali sleali tra tutela del consumatore e disciplina della concorrenza nel mercato europeo, in Riv. dir. civ., 2008. p.486.
55 L’art. 27 del Codice del Consumo individua nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il soggetto competente ad accertare e sanzionare le pratiche commerciali scorrette. Peraltro, a seguito delle recenti modifiche apportate al Codice del Consumo dalla l. 24 marzo
Tale rassegna toccherà in particolare un settore, quello delle telecomunicazioni o comunicazioni elettroniche (TLC), che rappresenta attualmente – insieme al settore bancario e assicurativo – il campo di attività più rappresentativo della prassi applicativa56.
2012, n. 27, (in G.U., 24 marzo 2012, n. 71, s. o. n. 53), l’AGCM è titolare altresì della tutela amministrativa contro le clausole vessatorie contenute nei contratti con i consumatori (art. 37-bis Cod. Cons.). Come si vedrà, la competenza a giudicare sulle PCS fissata in capo all’AGCM si intreccia, non sempre in modo ordinato, con altre competenze di carattere sussidiario e/o alternativo. Così
56 Secondo la Relazione annuale sull’attività svolta dall’Autorità in materia di PCS in questi anni, e da ultimo, nell’anno 2011, emerge che quello delle telecomunicazioni e delle comunicazioni elettroniche (immediatamente seguito da quello creditizio) rappresenta il settore nel quale si sono registrati il maggior numero di interventi repressivi da parte dell’AGCM. Nell’ultima relazione annuale pubblicata sul sito ufficiale dell’Autorità sotto la sezione “Tutela del consumatore” si legge: “L’attività svolta dall’Autorità nel corso del 2011 riflette - come ogni anno - il particolare dinamismo che caratterizza il settore delle telecomunicazioni. Tale vitalità si è manifestata, peraltro, non solo a livello di promozione di offerte e tariffe sempre più articolate e complesse in mercati talvolta vicini alla saturazione, ma anche rispetto a condotte commerciali che interessano nuove tipologie di servizio che vedono una pluralità di professionisti a diverso titolo coinvolti.
Il riferimento più immediato è rappresentato dal televoto, meccanismo che consente ai telespettatori di interagire con un programma televisivo di intrattenimento, esprimendo, tramite chiamata o via SMS a pagamento, le proprie preferenze sui partecipanti alla trasmissione. Inoltre, alcuni servizi, considerati innovativi in un passato soltanto recente, hanno raggiunto rapidamente un grado di maturazione tale da essere percepiti come di uso quotidiano nonostante permangano criticità nella loro fruizione. Si pensi alla fornitura di servizi per la navigazione in internet in mobilità, alla radiodiffusione televisiva mediante la tecnologia digitale terrestre o al successo planetario dei cd. social network, che sono assurti al rango di canale pubblicitario di primaria importanza: tutte evoluzioni, queste ultime, che hanno inciso in maniera significativa sui contesti di mercato all’interno dei quali i professionisti si trovano ad operare e a elaborare le strategie di marketing. In virtù di tale naturale vivacità e nel rispetto del libero esplicarsi delle dinamiche di mercato e delle evoluzioni tecnologiche intervenute, l’attività di enforcement si è indirizzata a garantire una tempestiva ed efficace tutela dei sempre più numerosi consumatori che - grazie alla crescente diffusione di internet e di nuove tecnologie - si trovano a fronteggiare sistemi “di aggancio” più evoluti e claim prestazionali di difficile comprensione o verifica. Nell’anno di riferimento si è registrato un utilizzo sempre più mirato e consapevole, da parte degli operatori del settore, dell’istituto degli impegni, previsto dall’art. 27, comma 7, del Codice del consumo. L’Autorità ha considerato inammissibili gli impegni presentati laddove, per effetto di un intervento dell’Autorità di regolamentazione che ne esauriva il contenuto, non era rinvenibile un sostanziale interesse pubblico alla loro accettazione o laddove essi sono stati ritenuti inidonei a rimuovere i profili di scorrettezza contestati nella comunicazione di avvio del procedimento, mentre ha accolto impegni laddove le misure proposte determinavano un concreto miglioramento del livello di precisione e affidabilità delle informazioni fornite ai consumatori. Per quanto riguarda i filoni istruttori già approfonditi nel corso dei precedenti anni, i casi più rilevanti hanno avuto ad oggetto: la mancata attivazione di servizi telefonici e l’attivazione di servizi non richiesti mediante la tecnica del teleselling a distanza (telefonia fissa); le promozioni di tariffe subordinate a condizioni fuori dalla possibilità di controllo da parte degli utenti; le tecniche di aggancio relative alla promozione di abbonamenti per il download di contenuti multimediali per terminali mobili; la prospettazione fuorviante della velocità di navigazione internet in mobilità; i concorsi a premio (telefonia mobile); i finti quiz televisivi e le comunicazioni commerciali ingannevoli (televisione). Accanto ai filoni istruttori già consolidati, l’Autorità ha esaminato nuovi aspetti dei rapporti tra consumatori e professionisti, in linea con le evoluzioni tecnologiche e merceologiche che hanno caratterizzato il
Non solo, il settore appare interessante anche perché le pratiche commerciali in esso svolte prevedono una concorrente competenza di AGCOM (Autorità garante nelle comunicazioni) sulla quale da ultimo è intervenuto il Consiglio di Stato al fine di porre rimedio al problema del riparto di competenze fra le due autorità indipendenti57.
Infine, si verranno a considerare, seppur brevemente, alcuni istituti considerati di particolare interesse e introdotti dalla presente normativa, quali gli impegni, i codici di condotta e la cosiddetta moral suasion58.
Non verranno invece analizzate nello specifico, per evidenti ragione di sintesi, le modifiche introdotte dal d. leg. n. 146 rispettivamente all’art. 57 del Codice del Consumo relativo alla fornitura di beni e servizi non richiesti e all’art. 14 del d. lgs. 190/2005 sulla fornitura di beni e servizi finanziari non richiesti, al fine di adeguare tali normative alla nuova disciplina sulle pratiche commerciali scorrette.
settore. Si fa riferimento, in particolare, alle modalità scorrette di commercializzazione adottate presso i punti vendita (cd. “canale fisico”) degli operatori telefonici, al mancato riconoscimento della garanzia legale per i prodotti associati alla fornitura di servizi telefonici, alle informazioni incomplete fornite relativamente al servizio di televoto e alla mancata predisposizione di strumenti idonei a prevenire un utilizzo improprio del sistema, alle carenze delle procedure correlate al trasloco delle linee telefoniche e internet, agli ostacoli, nella fase post-vendita, alle richieste di cessazione delle forniture, con prosecuzione della fatturazione del servizio disdettato, ai contratti stipulati con modalità ingannevoli attraverso punti vendita itineranti”.
57 Ai sensi degli artt. 70 -98 del Codice delle Comunicazioni elettroniche (decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259) nonché della Delibera n. 664/06/cons. (“Adozione del regolamento recante disposizioni a tutela dell’utenza in materia di fornitura di servizi di comunicazione elettronica mediante contratti a distanza”), AGCOM gode di una competenza a giudicare e sanzionare le pratiche. Ai sensi dell’art. 27 comma 6, quando la pratica debba essere diffusa anche attraverso i mezzi di comunicazione (stampa, tv, radio) AGCM richiede un parere ad AGCOM (Autorità garante nelle comunicazioni) in merito al carattere scorretto della stessa. Sul riparto di competenze tra AGCM e AGCOM si veda oltre in questo scritto.
58 Merita ricordare che, mentre i primi due istituti menzionati (impegni e codici di condotta) vengono, come si vedrà, espressamente previsti dal Codice del consumo (art. 27 comma 7 e art. 27 bis), la cd. moral suasion, è invece strumento previsto esclusivamente dal Regolamento di attuazione delle norme sulle PCS (“Procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette - Provv. n. 17589 del 2007, di recente modificato e sostituito con il Regolamento intitolato “Procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette e clausole vessatorie” (Provv. n. 23788 del settembre 2012). Si veda l’art. 4, comma 5 (“Istanza di intervento”), a norma del quale, ad eccezione dei casi di particolare gravità, qualora sussistano fondati motivi tali da ritenere che il messaggio o la pratica commerciale costituisca una pubblicità ingannevole, una comparativa illecita o una pratica scorretta, il responsabile del procedimento può invitare per iscritto il professionista a rimuovere i profili di possibile ingannevolezza, illiceità della pubblicità o scorrettezza della pratica commerciale (“moral suasion”).
2.1 Il divieto di pratiche commerciali scorrette nel Codice del Consumo. La scorrettezza della pratica.
Come la Direttiva, anche la disciplina italiana di recepimento si astiene, almeno in apparenza (…), dal porre a carico dei professionisti obblighi di contenuto positivo e, per contro, si limita ad imporre loro un generale divieto avente ad oggetto, per l’appunto, la realizzazione di pratiche commerciali scorrette.
Secondo l’art. 20 comma 1 Cod. cons., cosi come modificato dal decreto legislativo
n. 146 del 2007, le pratiche commerciali scorrette sono vietate.
Va innanzitutto rilevato come, sul piano lessicale, il legislatore nazionale si sia discostato dalla terminologia utilizzata a livello comunitario nella qualificazione delle pratiche vietate, optando per l’aggettivo “scorrette” anziché “sleali”. Sul motivo di tale scelta, alcuna dottrina59 ha ritenuto di vedere l’espressa volontà di tenere separate le nuove disposizioni attuative della Direttiva dalla disciplina generale della concorrenza sleale di cui agli artt. 2598 ss c.c.60, ciò sulla base della oggettiva diversità delle due discipline. Circa la relazione intercorrente fra la scorrettezza della pratica commerciale (ai sensi dell’ art. 20 ss. cod. cons.) e la “slealtà” di un atto di concorrenza (ai sensi degli artt. 2598 c.c. ss.) la stessa dottrina ha ritenuto di dover tenere le due qualificazioni autonome e distinte in virtù, in primis, della diversa ratio che ispirerebbe le due discipline, da una lato
59 DE XXXXXXXXXX X. Xx pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori, in Studium iuris, 11, 2007, pp. 1081 ss.
60 Vale la pensa riportare il testo degli articoli rilevanti in materia di concorrenza sleale, ed in particolare il testo dell’art. 2598 c.c. (Atti di concorrenza sleale): Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie, con qualsiasi altro mezzo, atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo con conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Nonché quello dell’art. 2599 c.c. e 2600 c.c.: La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti. Risarcimento del danno. Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni (2056).In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume.
quella sulle pratiche commerciali sleali e, dall’altro, quella della concorrenza sleale, oltre che del diverso ambito di operatività delle stesse.
Certamente si deve riconoscere, come già rilevato sopra, che sotto tale ultimo profilo (ambito di operatività) le due norme sono solo parzialmente coincidenti: ed infatti, mentre il divieto di cui all’art. 20 cod. cons. ha ad oggetto tutti e soltanto quei comportamenti posti in essere dal professionista “prima dopo e durante” l’instaurazione di un rapporto contrattuale con il consumatore (art. 19 comma 1 cod. cons.), le norme sulla concorrenza sleale non comprenderebbero mai le seconde due species di condotte (condotte tenute dal professionista nei confronti del consumatore dopo e durante l’instaurazione di un rapporto commerciale). Per altro verso, il comportamento tenuto dal professionista o imprenditore esclusivamente allo scopo di instaurare rapporti economici con altri professionisti, integra gli estremi dell’art. 2598 c.c. ma non potrebbe certo integrare quelli dell’art. 18 Cod. cons. per le ragioni sopraddette. Inoltre, al fine di tracciare una linea di demarcazione netta fra la scorrettezza della pratica commerciale di cui al codice del consumo novellato e la slealtà di cui agli artt. 2598 c.c. ss., tale dottrina fa perno sulla diversità degli interessi tutelati dalle normative in questione, ribadendo che nel nostro ordinamento le norme sulla concorrenza sleale sono ancora oggi esclusivamente funzionali alla tutela dei concorrenti, e non anche a quella dei consumatori e/o del mercato61, come, invece, sono le nuove norme sulle PCS.
Ciò premesso, pare potersi, tuttavia, ritenere, concordando con altra dottrina di avviso contrario62, che la violazione delle norme che pongono limiti all’attività
61 Così in giurisprudenza SS.UU. Cass, 2207, 4 febbraio 2005.
62 In tale senso XXXXXX P., 2007, op. cit. p. 21; XXXXXXXX A. – DI XXXXXXX X., Manuale di diritto industriale, Xxxxxxx, 2006, p. 110; FLORIDIA in AA.VV. Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Xxxxxxxxxxxx, 2005, p. 308 ss. In particolare, XXXXXX richiamandosi alla ratio ispiratrice del provvedimento, ritiene che: a) la Direttiva di fatto armonizzi “una parte non trascurabile di atti di concorrenza sleale, e segnatamente di quelli che pregiudicano in modo diretto gli interessi dei consumatori, ma in modo indiretto anche quello dei concorrenti”;
b) a livello nazionale, sebbene di fatto il legislatore abbia optato per una “netta distinzione” fra atti di concorrenza sleale che pregiudicano in modo diretto i consumatori e atti di concorrenza sleale che pregiudicano in modo diretto i concorrenti, creando il cd. doppio binario di tutele (i decreti legislativi 145 e 146 del 2007), la suddetta distinzione non sia netta nè concretamente attuabile. Tale tesi viene sostenuta sulla base delle norme applicative, ed in particolare, dell’art. 27 cod. cons. che nell’attribuire la facoltà di sollecitare l’intervento di AGCM ai soggetti che hanno un “interesse legittimo a far cessare la pratica commerciale scorretta”, farebbe riferimento anche i concorrenti pregiudicati dalla suddetta pratica, e dell’art. 27 comma 15, che fa salva la
delle imprese sul mercato nell’interesse dei consumatori (e certamente tali sono le norme introdotte nel codice del consumo a seguito del recepimento della Direttiva) costituisce un atto non conforme ai principi di correttezza professionale e come tale idoneo ad essere inteso come atto di concorrenza sleale nei confronti dei concorrenti pregiudicati63.
In conclusione, si deve quindi riconoscere che, ferma la diversità del giudizio di scorrettezza di una condotta alla luce della disciplina sulla concorrenza sleale da quello svolto alla stregua degli art. 18 ss. cod. cons., assai difficilmente un comportamento imprenditoriale che integri gli estremi di una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 20 cod. cons. ss. potrebbe non rilevare affatto come atto di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. ss.. Laddove, per contro è possibile che un atto di concorrenza sleale fra professionisti non si presti affatto ad essere considerato come pratica commerciale scorretta (ad es. perché lesivo dei soli interessi economici dei concorrenti ma non anche di quelli dei consumatori.).
2.2. Il giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale fra clausola generale e fattispecie tipiche. Portata della clausola generale di slealtà.
Si è detto come il giudizio sulla scorrettezza di una pratica commerciale posta in essere da un professionista, ai sensi e ai fini dell’art. 20 cod. cons., risulta strettamente e inderogabilmente ancorato all’attitudine della stessa a ledere gli interessi economici dei consumatori (così l’art. 1 della Direttiva) e come ciò costituisca il tratto caratterizzante della nuova disciplina a tutela del consumatore. Vediamo quindi più nel dettaglio che cosa stabilisce il Codice del consumo in merito alla scorrettezza delle pratiche commerciali fra imprese e consumatori.
competenza del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale contro l’autore della pratica commerciale scorretta, cosi confermandone la natura anche di atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 e ss. Secondo tale Autore, in definitiva la disciplina introdotta dalla Dir. 2005/29 nel nostro ordinamento per il tramite del decreto legislativo 146/2007, “il nuovo regime delle pratiche commerciali scorrette e il tradizionale regime della concorrenza sleale si integrano reciprocamente fino a formare un generale regime della concorrenza imponendo di rileggere il regime della concorrenza sleale in termini esclusivamente privatistici.
63 Tale orientamento dottrinale troverebbe peraltro conferma nella giurisprudenza di merito, e segnatamente App. Milano 29.04.2006. in GADI 2006 794 e Trib. Roma 31.03.2003.
Ebbene, i commi 2 e 4 dell’art. 20 e gli artt. 21-26 dettano i parametri in forza dei quali è dato valutare se una certa pratica commerciale debba ritenersi o meno scorretta e quindi vietata.
Partendo dal dettato dell’art. 20 (comma secondo) cod. cons., “Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è64 falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta ovver del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta ad un determinato gruppo”.
Similmente a quanto visto nella Direttiva (art. 5 comma 2), anche la normativa interna delinea la fattispecie di pratica commerciale scorretta anzitutto attraverso una “clausola generale”, la quale si fonda sul ricorrere contestuale di due condizioni, e segnatamente: a) la contrarietà della pratica alla “diligenza professionale” e, b) l’idoneità della stessa ad alterare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio.
Tale definizione generale, sulla cui portata ora ci soffermeremo, va analizzata alla luce ed in riferimento alle specificazioni che di essa danno i successivi articoli.
La clausola generale di cui all’art. 20 comma 1 viene infatti, ancora una volta esattamente come nell’impianto della Direttiva, “concretizzata” nella enucleazione delle due macro categorie di pratiche scorrette, vale a dire, le pratiche ingannevoli (artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (artt. 24 e 25), nonché attraverso la individuazione di singole e specifiche tipologie di pratiche considerate in ogni caso scorrette. L’art. 23 prevede quindi la “lista nera” di pratiche considerate “in ogni caso ingannevoli”, mentre l’art. 26 riporta quelle pratiche considerate “in ogni caso aggressive”. In entrambi gli articoli, peraltro, trova fedele attuazione l’all. I della Direttiva65 che riporta le liste di pratiche in ogni caso considerate sleali in modo tassativo.
64Trattasi chiaramente di un refuso o di errore materiale che impone un’interpretazione correttiva idonea a renderla conforme alla norma comunitaria: correttamente quindi sarebbe “falsa o è idonea a falsare”.
65 Restano prive di riferimento comunitario invece le due statuizioni di cui al 2° e 4° comma dell’art. 21 cod. cons.
Per quanto concerne le pratiche ingannevoli, si tenga presente fin da ora che le stesse contemplano due distinte categorie, le azioni e le omissioni ingannevoli, alle quali il legislatore nazionale dedica due distinti articoli (rispettivamente l’art. 21 e l’art. 22 cod. cons.).
Si ricordi inoltre sin da ora che, sia nella definizione di pratica ingannevole, sia in quella di pratica aggressiva, l’elemento qualificante la scorrettezza della condotta del professionista resta sempre e comunque l’attitudine della stessa ad influenzare in modo apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. Ed infatti, l’art. 21 stabilisce che sono ingannevoli le pratiche commerciali che contengono informazioni non rispondenti al vero o che, sebbene di fatto corrette, inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore facendogli assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso.
Parimenti, l’art. 24 in riferimento alle pratiche aggressive, dopo aver messo in rilievo il ricorso a molestie coercizione e condizionamento indebito quali modalità di realizzazione della condotta, fa anch’esso riferimento alla idoneità della pratica a “limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio [..] inducendolo ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso”.
Ebbene, prima di affrontare nel dettaglio le sottocategorie previste dalle norme richiamate, specie nella lettura che di esse è stata data in sede applicativa dalle autorità preposte (AGCM, in primis), appare opportuno formulare alcune riflessioni sistematiche sul procedimento da seguire al fine di verificare la scorrettezza di una pratica commerciale. In proposito sia consentito dire che il problema verte sul ruolo e sulla portata da attribuire alla clausola generale di scorrettezza di cui al richiamato art. 20 comma 2 cod. cons. nonché sui margini di discrezionalità di cui gode l’interprete in sede di valutazione circa il carattere illecito della pratica.
Sul punto si registrano due diversi indirizzi dottrinari. Secondo alcuni66, la stessa avrebbe una portata residuale, starebbe, pertanto, in un rapporto di genere a specie
66 Trattasi della corrente di pensiero maggioritaria. DE CRISTOFARO G., Il Divieto di pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori, op. cit., 2007, 116 ss.; SACCO GINEVRI A., La direttiva 2005/29/Ce e la disciplina della concorrenza, in Le pratiche commerciali sleali, a cura di XXXXXXXXX – ROSSI XXXXXX, op.cit.; XXXXXXXX C., 2007,
rispetto alle fattispecie specifiche, con la conseguenza che, solo laddove la pratica commerciale oggetto di valutazione non fosse sussumibile nelle fattispecie tipiche di pratiche ingannevoli o aggressive, ed in particolare, non fosse prevista all’interno delle “black list” di cui agli artt. 24 e 26 Cod. cons., la stessa andrebbe vagliata alla luce, appunto, dell’art. 20 primo comma, al fine di verificare se ricorrono i presupposti dalla stessa previsti.
Tale dottrina ritiene dunque che il giudizio di scorrettezza debba partire necessariamente dalla verifica sul se la pratica si presti o meno ad essere inquadrata in una delle previsioni di cui alle liste «nere» contenute negli artt. 23 e 26 cod. cons. e, in caso di esito positivo di tale verifica, l’interprete sia senz’altro tenuto – senza alcuna possibilità di valutazione diversa o contraria – a considerarla scorretta, a prescindere dalle ripercussioni che essa in concreto abbia avuto sui consumatori nonché dalla sua concreta attitudine a falsarne in misura rilevante/apprezzabile il comportamento economico. Se ne desume che una pratica suscettibile di essere ricondotta ad una delle previsioni degli artt. 23 e 26 cod. cons. deve ritenersi scorretta anche se, in sé e per sé considerata, non si presterebbe ad essere qualificata come «ingannevole» a norma degli artt. 21, commi 1 e 2, e 22 cod. cons., né come «aggressiva» a norma dell’art. 24 cod. cons., né tanto meno come
«scorretta» ai sensi della «definizione generale» di cui al comma 2o dell’art. 20 cod. cons.: in particolare, una pratica commerciale che oggettivamente presenti gli elementi e le caratteristiche individuate in una delle previsioni contenute nelle «liste nere» dovrebbe reputarsi per ciò solo scorretta, a prescindere dalla (e conseguentemente, senza che si renda necessario accertare la) sua conformità alla
«diligenza professionale» nonché dalla sua attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore», essendo tali presupposti già contenuti in via presuntiva e impliciti nella disposizioni legislative particolari sopra richiamate 67.
op. cit., p.777; XXXXXXXXXXXX, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass. dir. civ., 2008, 267 ss.
67 In realtà, in base a tale impostazione, si rileva (MELI V., 2011, op.cit. p. 86), che qualora la pratica ricada nell’elencazione prevista, ciò che si rende superfluo, quanto meno con riguardo alle pratiche ingannevoli, è solamente il presupposto della contrarietà alla diligenza del professionista, poiché il requisito “generale” dell’idoneità a fare assumere al consumatore una
Secondo tale interpretazione la norma di cui all’art. 20 cod. cons. fungerebbe così da norma di chiusura e avrebbe altresì portata residuale e sussidiaria.
Venendo al secondo indirizzo68, invero autorevole ma minoritario, anche se di recente fatto proprio in sede applicativa da alcune pronunce del TAR69, lo stesso ritiene che la norma di cui all’art. 20 del Codice del Consumo lungi dall’essere di tipo residuale, costituirebbe una disposizione “di principio”. Tale dottrina, muovendo dalla considerazione che la definizione di pratica commerciale sleale di cui al par. 2 dell’art. 5 della Direttiva (riversata, con alcune rilevanti modificazioni, nel comma 2o dell’art. 20 cod. cons.) costituisce il fulcro centrale dell’intera disciplina, sul quale deve sempre e necessariamente imperniarsi il giudizio di
«slealtà»/«scorrettezza » delle pratiche commerciali, ritiene che una pratica commerciale suscettibile di essere ricondotta ad una delle previsioni dell’Allegato alla direttiva (ora artt. 23 e 26 cod. cons.) sarebbe colpita da una mera presunzione
«relativa» di slealtà, suscettibile di essere superata dimostrando che la singola pratica non è in concreto contraria alla diligenza consumatore medio cui è rivolta. La nozione generale rileverebbe pertanto – in sede e ai fini dell’applicazione delle liste «nere» – non solo per risolvere i dubbi interpretativi suscitati dalla formulazione testuale delle relative previsioni o per concretizzare le nozioni astratte e generiche professionale e/o non è suscettibile di falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del ivi utilizzate, ma anche come criterio integrativo (e eventualmente correttivo) di tale previsioni, idoneo a consentire all’interprete di sovvertire la valutazione di slealtà prima facie in esse compiuta dal legislatore (comunitario e interno) attraverso una ponderata valutazione delle peculiari circostanze del caso concreto. Rispetto alla clausola generale, quindi, le altre norme particolari si porrebbero non come specificazioni, bensì come disposizioni
decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso è già preso in considerazione dalla definizione generale di pratica ingannevole di cui all’art. 21 Cod. Cons.
68 Tale filone interpretativo è sostenuto da LIBERTINI M., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari, op. cit. p.37 ss., il cui orientamento viene condiviso da GENOVESE, 768 e, sostanzialmente, anche da MELI, 2007, 269 s.
69 Tar Lazio Sez. I marzo 2009 n. 3126, valorizzando l’argomento testuale: l’espressione “in particolare”, contenuta nell’art. 20, comma 4, Cod. cons. piuttosto che l’argomento sistematico individuato dalla dottrina maggioritaria.
applicative e/o esemplificative. La loro applicazione non avverrebbe quindi secondo la classica regola “lex specialis derogat generalis”. La clausola generale di scorrettezza ivi prevista, andrebbe letta pertanto come disposizione di principio su cui fondare l’interpretazione dell’intero corpus normativo sulle PCS e che, come tale, consentirebbe applicazioni cumulative e non alternative rispetto alle clausole di specie. Di talchè, ferma la presunzione di coerenza fra principio e disposizione speciali, sarebbe possibile individuare una condotta che, pur rientrando in queste ultime, non presentasse gli elementi costitutivi descritti dalla norma di principio70. Più precisamente, secondo questa ricostruzione, le definizioni intermedie e le black list previste dagli artt. 21 e ss. del Codice del consumo, forniscono un elenco di fattispecie la cui ricorrenza dà luogo ad una presunzione legale di conflitto con il principio generale regolante la materia (l’art.20 appunto). Ma non si tratta, si badi bene, come vorrebbe la teoria residuale, di una presunzione assoluta, bensì di una presunzione relativa che il professionista può superare fornendo la prova contraria sulla base degli elementi forniti dal principio generale medesimo. Secondo tale dottrina, questa sarebbe l’unica lettura sistematica possibile71. Diversamente, si giungerebbe ad una tacita abrogazione della norma generale di cui all’art. 20, in quanto la stessa si applicherebbe solamente ad un terzo tipo di pratiche commerciali, non compreso né fra quelle ingannevoli né fra quelle aggressive allo stato, meramente ipotetico. D’altra parte va evidenziato che, in base alla teoria della residualità, si potrebbero colpire quelle pratiche “nuove” che, anche se al momento non ipotizzabili, consentirebbero di aggiornare il novero delle pratiche colpite. Conseguentemente, tale interpretazione sarebbe da rifiutare in nome del principio di conservazione e di una lettura sistematica delle norme.
70 LIBERTINI M., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari, op. cit. p. 74: “Secondo la tesi sostenuta il divieto di PCS dovrebbe essere interpretato come un sistema unitario in cui le definizioni intermedie (pratiche ingannevoli e aggressive) costituiscono esplicazioni successive di una norma generale e unitaria, fondate su un meccanismo di presunzione legale relativa di appartenenza delle fattispecie più ristrette a quella più ampia generale.”.
71 Secondo Libertini: “L’interpretazione teleologico-sistematica è da preferire per la maggior
coerenza dei risultati finali (…). La linea interpretativa qui proposta non porta peraltro a svuotare di significato l’elencazione di fattispecie particolari. Il valore delle definizioni intermedie e degli elenchi di pratiche assolutamente vietate (liste nere) contenuti nella Direttiva sta nell’esprimere il risultato di una valutazione applicativa di principio fatta dal legislatore stesso”.
Ebbene, a parere di chi scrive e nonostante la con divisibilità della seconda teoria riportata, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi giurisprudenziali della Corte di Giustizia, parrebbe doversi optare per il primo dei due orientamenti segnalati che fa della clausola generale un norma di carattere residuale destinata ad avere, almeno inizialmente, applicazione marginale72. Alla nozione generale di pratica commerciale sleale si dovrà pertanto attingere ogni qual volta si pongano condotte con profili più o meno generici ed astratti73. Ma laddove la condotta si candidi ad essere qualificata come ingannevole o aggressiva secondo le black list la stessa andrebbe vietata de plano. Va specificata meglio l’interpretazione restrittiva data da Xxxxxxxxx VS estensiva di De Cristofaro.
2.3 La nozione di diligenza professionale ex art. 18 Cod. Cons nel giudizio di scorrettezza di una pratica commerciale.
Così individuata la portata e il valore precettivo della clausola generale di cui all’art. 20 cod. cons. nel suo rapporto con le fattispecie tipiche di cui agli artt. 21 - 26, appare ora necessario considerare ed analizzare quelli che sono gli elementi costitutivi o, se si vuole, i presupposti applicativi, di tale nozione generale.
Ebbene, la norma fonda il carattere scorretto di una condotta sul contestuale soddisfacimento di due condizioni o due elementi, l’uno di tipo soggettivo (id est, la contrarietà alla diligenza professionale) e l’altro di tipo oggettivo (id est, l’idoneità della condotta a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio). Tale ultimo elemento è poi suscettibile, come si vedrà, di essere ulteriormente scomposto in: a) un elemento caratterizzante la condotta del professionista, la quale, per rilevare sul piano della scorrettezza, deve essere dotata
72 In tal senso CGCE, I sez., 23.4.2009, cause C-261/07 e C-299/07 con nota di DE CRISTOFARO. In tale provvedimento la Corte nel ricostruire le caratteristiche del giudizio di «slealtà» di una pratica commerciale segue l’iter evidenziato nel primo dei due orientamenti (cfr. i punti 56 e 61 della citata sentenza), che si basa sulla presunzione assoluta di scorrettezza (rectius: slealtà) delle pratiche contenute nelle black list e conferma quindi il carattere meramente residuale della clausola generale di cui all’art. 5 della Direttiva.
73 Ciò è anche quanto si legge nella Relazione alla proposta di direttiva del 2003 della Commissione (p.14 n.52) laddove si dice che “probabilmente” il divieto generale cui all’art.5 par. 2 non sarà affatto invocato frequentemente in quanto la gran parte dei casi rilevanti rientra nelle due categorie di pratiche ingannevoli e aggressive.
di una certa carica lesiva (regola del de minimis) e, b) un elemento caratterizzante il destinatario della protezione che, come già visto, non è il consumatore come tradizionalmente inteso, bensì il consumatore medio.
Cominciamo con l’analizzare il primo dei due elementi previsti dalla norma, ossia quello della diligenza professionale.
Sul punto, vale la pena richiamare quanto stabilito dal legislatore comunitario, che all’articolo 2, lett. h) della Direttiva, richiamandosi, da un lato, al “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista”, definisce il concetto di diligenza professionale come “il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori” 74. L’articolo 18, lett. h, cod. cons., riprendendo la definizione offerta in sede comunitaria stabilisce che la diligenza professionale è rappresentata da “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista”.
Entrambe le norme utilizzano nozioni ed istituiti noti alla nostra tradizione civilistica, quali quelli di buona fede e correttezza e di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni.
Come noto, l’art. 1176 c.c., primo comma, dopo avere fatto riferimento alla “diligenza del buon padre di famiglia”75, al secondo comma, si riferisce, alla diligenza richiesta nello svolgimento di “un’attività professionale”, la quale viene utilizzata come parametro di valutazione dell’esattezza dell’adempimento di obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale ed, in questo secondo
74 La Commissione Europea ha precisato che la diligenza professionale è “la misura della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente ci si deve aspettare da parte di un professionista conformemente ai requisiti dell’onesta pratica di mercato e/o del principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista”. Sia consentito dire che nell’elaborazione del concetto di diligenza professionale che emerge dalla disciplina oggetto di analisi, il legislatore comunitario, nel tentare una sintesi degli elementi che concorrono a definire tale principio giuridico generale nell’ambito dei diversi ordinamenti nazionali ha di fatto, paradossalmente, messo a repentaglio il fine dell’armonizzazione massima.
75 Per diligenza del buon padre di famiglia s’intende l’impegno adeguato di energie e di mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore, tipico dell’uomo medio.
caso, come metro di valutazione dello “sforzo” richiesto al debitore76. L’art. 1176
x.x. xxxxxxxx poi letto in relazione con l’art. 1218 c.c. che, in tema di inadempimento delle obbligazioni, prevede la responsabilità del debitore nel caso in cui l’impossibilità sopravvenuta derivi da causa a lui imputabile (cd. responsabilità oggettiva del debitore).
Il normale grado della specifica competenza e attenzione richiama, d’altra parte, i concetti di perizia, prudenza ed attenzione che si riconducono alla nozione di colpa77.
76 Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza il criterio dell’imputabilità si identifica con quello della colpa benché l’idea della colpa come fondamento della responsabilità per inadempimento sia stata oggetto, in dottrina, di accesi dibattiti. Un’ampia parte di studiosi ha, in passato, sostenuto la tesi cd. soggettiva, alla luce della quale l’articolo 1176 c.c. avrebbe una portata sistematica in quanto indica la diligenza dovuta in caso di adempimento, ponendosi, anche se in maniera indiretta, quale fondamento della responsabilità per inadempimento sulla violazione di tale obbligo. Il codice, infatti, presenta una serie di norme che richiedono la diligenza definita dall’articolo 1176 c.c. che, se violate, sono fonte della responsabilità. Di recente, la dottrina ha preferito abbracciare l’interpretazione oggettiva degli articoli 1176 e 1218 c.c., considerando l’inadempimento come un fatto oggettivo e, di conseguenza, attribuendo all’articolo 1218 c.c. un ruolo prevalente rispetto a quella dell’articolo 1176 c.c. In conclusione, qualcuno ha sostenuto che, in sede di diritto applicato, la norma di cui all’articolo 1176 c.c. sarebbe stata, di fatto, abrogata, trovando applicazione unicamente la norma di cui all’articolo 1218 c.c., proprio in virtù del fondamento oggettivo riconosciuto alla responsabilità del debitore. Per la teoria soggettiva in base alla quale è necessario il requisito soggettivo, si vedano, tra gli altri, Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Xxxxxxx, II, p. 235; Xxxxxxx, Sistema istituzionale di diritto privato, II, Torino, 1951; Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Cod. Civ., a cura di Xxxxxxxx - Xxxxxx, Bologna Roma, 1979; Bianca, La colpa in Diritto civile – V La responsabilità, Xxxxxxx, 1994, pagg. 575 e ss. Per la concezione oggettiva in base alla quale è ritenuto sufficiente il solo requisito oggettivo dell’inadempimento ovvero “l’obiettiva in attuazione o difettosa attuazione della prestazione contrattuale”, si veda Xxxxxxx, voce “Responsabilità contrattuale”, Enc. Dir., Milano, 1988, p. 1072 e ss.; Xxxxxxx, in Rivista di diritto commerciale, 1954, pp. 185-209, pagg. 280-304 e pp. 305-320; Xxxxxxx, La responsabilità contrattuale: i contrasti giurisprudenziali, in Contratto ed impresa, 1989, p. 32 e ss.
77 Il legislatore, nel tentativo di dare una definizione di colpa, si richiama a quella prevista dall’articolo 43 c.p. qualificandola come “negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”; Sulla concezione di “colpa”, una parte autorevole della dottrina (Xxxxxx, Diritto Civile -, La responsabilità, cit., pag. 577) ha dato una definizione obiettiva di colpa, individuandola come “la deficienza dello sforzo diligente dovuto nell’interesse altrui. La colpa extracontrattuale è l’inosservanza della diligenza dovuta nei rapporti della vita di relazione”. Inoltre, la colpa è “l’inosservanza della diligenza dovuta secondo adeguati parametri sociali o professionali di condotta”. Ne consegue che ciò che influisce sulla colpevolezza o meno di un soggetto non è tanto la circostanza che questi abbia fatto del suo meglio per evitare il danno, senza tuttavia riuscirci a causa della sua inettitudine personale, ma il fatto che abbia tenuto un comportamento non conforme ai canoni oggettivi della diligenza. Qui le qualità soggettive/personali del soggetto agente rivestono una rilevanza solo qualora integrino una capacità di intendere e volere del soggetto stesso o se causate da infermità improvvise idonee
– per le modalità, la gravità e l’insorgenza repentina – ad impedire l‟adozione di cautele sufficienti per evitare il danno. Altri, aderendo a tale ricostruzione oggettiva, rectius obiettiva, di colpa, ha ritenuto di poter ravvisare la colpa nella mancanza di diligenza dovuta secondo
Per quanto attiene infine il principio generale di buona fede, è indubbio che il legislatore intendesse riferirsi alla “buona fede oggettiva”, con conseguente richiamo degli articoli 1337, 1175 e 1375 c.c., dettati, rispettivamente, in tema di trattative precontrattuali, di esecuzione e interpretazione del contratto. Con riguardo a quest’ultima, la buona fede è stata definita recentemente dalla Suprema Corte, “come impegno ed obbligo di solidarietà – imposto tra l’altro dall’articolo 2 della Costituzione – tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a rescindere altresì dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei (senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell’altra”, con la precisazione che si può parlare di violazione del principio di buona fede in sede di esecuzione del contratto “non solo nel caso in cui una parte abbia agito con il doloso proposito di recare pregiudizio all’altra, ma anche qualora il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociali, che integrano, appunto, il contenuto della buona fede”78.
Ebbene, nonostante un doveroso richiamo e confronto con le categorie civilistiche, a me pare che il concetto di diligenza professionale utilizzato nell’ambito della disciplina che qui interessa vada letto e interpretato alla luce di quelli che sono i principi e la ratio della stessa.
Secondo alcuna dottrina, andrebbe addirittura recisamente escluso ogni legame tra il concetto di diligenza professionale di cui alla normativa in esame e i concetti di
adeguati parametri sociali e professionali. Infatti, la giurisprudenza rimane legata ad un giudizio di colpa basato su standard obiettivi di adeguatezza, misurati su criteri sociali e tecnici, senza tener in considerazione la buona o cattiva volontà del soggetto. In tale ottica77, “la rilevanza della colpa ha ragione nell’esigenza di delimitare il dovere di rispetto altrui entro limiti di normalità e ragionevolezza, e nella idoneità della diligenza ad offrire modelli di condotta improntati a tali limiti”. E, ancora, la colpa “fa riferimento alla deficienza dello sforzo diligente quale criterio di responsabilità, ossia allo sforzo diligente inteso a salvaguardare l‟interesse altrui nelle concrete circostanze del contatto sociale. La mancanza di colpa così intesa esclude la responsabilità del soggetto, ma non esclude l’obiettiva antigiuridicità del comportamento se questo contrasti col modello di comportamento astrattamente appropriato alla salvaguardia dell’interesse altrui”. La colpa è considerata criterio di responsabilità (o imputabilità nel diritto penale) in quanto il soggetto agente risponde del fatto dannoso dal momento che questi non ha usato la diligenza dovuta per salvaguardare l‟interesse altrui. E salvaguardare l’interesse altrui null’altro significa se non prevenire il danno.
78 Cass. Civ. 16 ottobre 2002, n. 14726.
diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c., da un lato, e di colpa nell’illecito civile, dall’altro, ex 2043 c.c. in combinato disposto con l’art. 43 c.cp79.
La definizione di diligenza professionale di cui all’art. 20 cod. cons. sarebbe pertanto “una nozione autonoma e indipendente” sia dal concetto civilistico di diligenza professionale nell’adempimento delle obbligazioni (art. 1176 x.x., 0 xxxxx) xxx xx xxxxxx xx xxxxx. Secondo tale dottrina, le regole di diligenza professionale null’altro sarebbero, se non regole di condotta corrispondenti ad un particolare grado di conoscenze ed abilità specialistiche, di attenzione e di cura che ogni professionista ha l’obbligo di osservare nel porre in essere pratiche commerciali indirizzate ai consumatori. Certamente, l’identificazione del dovere di diligenza andrebbe fatta con riferimento al caso concreto ed, in particolare, alla specifica attività esercitata dal professionista, proprio in virtù del richiamo operato dal legislatore al grado di cura e competenza che rispecchia le ragionevoli aspettative del consumatore, collegate, nella Direttiva, alle “pratiche di mercato oneste” e al principio generale di buona fede.
È stato correttamente rilevato80 inoltre, come il riferimento alla diligenza professionale di cui al novellato art. 20 cod. cons., sancisca l’ingresso, nel giudizio di scorrettezza della pratica commerciale, di una censura di tipo soggettivo, segnando, così, un passaggio importante nella valutazione della condotta del professionista. Trattasi di una novità sopratutto con riguardo ai messaggi ingannevoli. Ed infatti, basti pensare alla pubblicità ingannevole per la valutazione della quale, secondo la vecchia disciplina, non aveva rilevanza alcuna la censura di tipo soggettivo81.
È stato altresì evidenziato che, a prescindere dalla configurazione del rapporto tra clausola generale di cui all’art. 20 cod. cons. e clausole tipiche di cui si è discusso sopra, una volta accertato che una pratica ha oggettivamente le caratteristiche per
79 DE XXXXXXXXXX, op.cit. p. 1092.
80 MELI V., “Diligenza professionale”,“consumatore medio” e regole di de minimis nella prassi dell’AGCM e nella giurisprudenza amministrativa, in X. XXXX - X. XXXXXX (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011.
81 MELI V., op. cit., 2011, parla di “metamorfosi” della fattispecie pubblicità ingannevole in pratica commerciale ingannevole.
essere considerata scorretta (o perche rientrante nelle black list, o perché è ingannevole/aggressiva ai sensi degli artt. 21 – 22 e 24 cod. cons.), sarebbe comunque necessario svolgere un’indagine sul requisito della diligenza professionale, in quanto lo stesso introdurrebbe quell’elemento di colpa che consente di verificare se la condotta scorretta è imputabile o meno all’imprenditore che l’ha posta in essere. Il giudizio sulla diligenza sarebbe quindi necessario in tale ottica, non tanto a valutare il carattere (già) scorretto della pratica ai sensi delle fattispecie tipiche e ai fini dell’inibitoria, quanto a valutare ulteriormente il comportamento del professionista in termini di colpa ed irrogare quindi le sanzioni amministrative previste.
In altri termini, una volta sposata la teoria secondo cui la norma di cui all’art. 20 cod. cons. è norma residuale, che si applica solo nel caso in cui la condotta non è sussumibile nelle species tipiche, una pratica rientrante in tali categorie specifiche si deve ritenere scorretta, a prescindere da ogni ulteriore analisi sulla ricorrenza della contrarietà a diligenza professionale (oltre che sulla sua idoneità lesiva della libera scelta del consumatore medio). Ciò nonostante, il giudizio sulla (assenza di) diligenza rileverebbe in termini di imputabilità della condotta all’imprenditore e quindi di colpa. Un tale giudizio, andrebbe comunque svolto, se non al fine di applicare il divieto e l’inibitoria di cui all’art. 27 cod. cons., a quello ulteriore di valutare la “gravità” della condotta del professionista e quindi al fine di irrogare (e quantificare) le sanzioni, così come anche a fini risarcitori.
L’impostazione sopra richiamata pare doversi condividere anche in ragione del fatto che la stessa pare trovare conferma in quanto stabilito dalla Direttiva all’art. 11.2, secondo cui la pratica va fatta cessare anche in assenza di prove sulla negligenza del professionista82.
82Art. 11 comma 2: Gli stati membri attribuiscono agli organi giurisdizionali o amministrativi il potere di far cessare le pratiche commerciali sleali o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per ingiungere la loro cessazione, o qualora la pratica commerciale sleale non sia stata ancora posta in essere ma sia imminente, di vietare tale pratica o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per vietarla, anche in assenza di prove in merito alla perdita o al danno effettivamente subito, oppure in merito all’intenzionalità o alla negligenza da parte del professionista .
Va peraltro detto che, nella prassi, in molti casi affrontati sino ad ora, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha fatto del giudizio sulla contrarietà a diligenza un passaggio quasi routinario83, facendo da un lato, coincidere l’assenza della diligenza professionale con la qualificazione stessa del vizio, dall’altro attribuendo, comunque al requisito generale una portata tutt’altro che residuale. In particolare, l’Autorità, ha utilizzato una formula ricorrente del seguente tenore: “Non si riscontra, nel caso di specie, il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente ci si può attendere da un operatore dello specifico settore di attività, avuto riguardo alla qualità del professionista ed alle caratteristiche dell’attività svolta. . .”. E si aggiunge: “Rispetto ai settori di riferimento la valutazione della completezza e della chiarezza delle informazioni fornite alla clientela si presenta particolarmente rigorosa in considerazione dell’asimmetria informativa tra operatori economici e consumatori da ricondurre alla recente liberalizzazione dei mercati coinvolti” 84.
Più volte l’AGCM nella definizione del canone di diligenza professionale, ha inoltre fatto riferimento al cosiddetto “agente modello”, sottolinenando la necessità che, nei settori interessati da un’endemica asimmetria informativa tra professionista e consumatore, il primo si attenga ad uno standard informativo “qualitativamente e quantitativamente particolarmente elevato”. In tali ipotesi, al professionista è richiesto un grado di diligenza ancora più stringente, con conseguente obbligo di mettere a disposizione del consumatore tutte le informazioni atte a consentirgli di compiere una scelta davvero consapevole.
L’asimmetria informativa, alla quale - secondo AGCM – è pertanto direttamente proporzionale l’espansione del dovere di diligenza, diviene particolarmente rilevante laddove il settore specifico in cui opera il professionista sia un settore caratterizzato da particolare complessità, in virtù di una molteplicità di fattori diversi (ampia offerta concorrenziale di prodotti, complessità delle dinamiche concorrenziali esistenti, combinazioni di offerte molto articolate, modalità delle
83 ZORZI N. Le pratiche scorrette a danno dei consumatori negli orientamenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Contratto e Impresa 2/2010, p. 433 ss.
84 Caso energia – Cambio di fornitore, XX/00, Xxxxx., 00000, Xxxx., 33/2008 cit. (supra, n. 2).
offerte di contrattazione, evoluzione tecnologica, emergenza di nuovi player intenti ad accrescere le proprie quote di mercato, ciascuno dei quali fattori può ritenersi idoneo ad incidere sull’indicata complessità del settore, ecc.).
In tali ipotesi di particolare complessità del contesto di riferimento (è certamente il caso della telefonia o delle telecomunicazioni85, ma anche del settore del credito o dei prodotti finanziari) il livello del comportamento esigibile da parte dell’agente modello, al fine di riequilibrare le asimmetrie informative, si alza inevitabilmente. Non solo, ma “in settori caratterizzati da continua evoluzione tecnologica...- ha precisato il Consiglio di Stato - l’onere di diligenza gravante sull’impresa deve essere costantemente adeguato”.
Il tema della corretta individuazione dell’onere di diligenza gravante sul professionista presuppone, peraltro, la corretta individuazione del soggetto in capo a cui collocare un tale onere, vale a dire il professionista medesimo. Il punto appare importante, poiché la ricostruzione del presupposto soggettivo che qui ci interessa è stata effettuata da AGCM e dal giudice amministrativo secondo parametri estremamente ampi. Se la definizione di professionista delineata per le pratiche commerciali scorrette all’art. 18 lett. a) del codice del consumo corrisponde sostanzialmente a quella usuale di matrice comunitaria, in forza della quale il professionista è “qualsiasi persona fisica o giuridica, che nelle pratiche commerciali agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”, certamente, secondo AGCM, deve essere considerato professionista anche colui che agisce in nome e per conto dello stesso, il cd. intermediario. Non solo, ma cosa bene più significativa è rappresentata dal fatto che AGCM ha da ultimo provveduto a specificare che professionista, è colui che comunque tragga benefici sia in termini economici che pubblicitari da una
85 Tra i molti, v., Caso Tele2 – Contratti a distanza, PS/19, Provv., 18995, Boll., 39/2008, cit; Caso Telecom – Fatturazione per chiamate satellitari e/o a numerazioni speciali, PS/24, Provv., 19051, Boll., 41/2008; Caso SMS Messaggi in segreteria – 899 da contattare, PS/86, Provv., 19087, Boll., 41/2008; Caso H3G – Disattivazione operatore lock, PS/88, Provv., 18698, Boll., 30/2008; Caso Neomobile suonerie gratis, XX/000, Xxxxx., 00000, Xxxx., 37/2008; Caso 10 SMS gratis, PS/457, Provv., 18779, Boll., 32/2008; Caso Tiscali – Attivazione servizi non richiesti, PS/463, Provv., 19353, Boll., 49/2008; Caso Fastweb – Apparati in casa d’utente, PS/572, Provv., 18575, Boll., 26/2008.
determinata pratica, anche se la stessa viene posta in essere da un terzo soggetto purchè questo agisca in nome o per conto del professionista o che, in ogni caso, risulti a questo legato sulla base di rapporti contrattuali implicanti un potere di controllo sul suo operato86.
Sulla base di tale principio, sono stati ritenuti co-autori di pratiche commerciali consistenti nella diffusione dei messaggi promozionali sui siti di loro partner contrattualie ritenute scorrette, i principali gestori di telefonia mobile nazionali (TIM, VODAFONE, H3G, WIND,) che avevano prestato il loro consenso all’utilizzo dei propri loghi e segni distintivi nelle operazioni pubblicitarie relative ai servizi reclamizzati da parte di cd. content provider. Una tale responsabilità (di tipo editoriale, ha precisato il giudice amminsitrativo) è stata ricondotta da AGCM:
a) alla previsione contenuta nei contratti con i content provider di un potere (preventivo e successivo) di verifica sul contenuto del messaggio pubblicitario diffuso e b) sul vantaggio economico, immediato e diretto, connesso alla attività di promozione e diffusione dei messaggi ritenuti ingannevoli87.
Tale indirizzo è stato confermato anche dal Consiglio di Stato con la sentenza 12- 04-2011, n. 2256, con cui il Collegio ha rigettato le doglianze delle società appellanti con riguardo alla presunta errata interpretazione della nozione di professionista. Il Collegio, di contro, ha confermato l’interpretazione (estensiva) data da TAR e AGCM secondo cui "professionistà è qualunque soggetto che partecipi alla realizzazione della pratica, traendone uno specifico e diretto vantaggio economico e/o commerciale”. Nella stessa pronuncia il Collegio ha, altresì, confermato la correttezza degli indici considerati dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato come rivelatori della richiamata qualificabilità degli operatori telefonici come co-autori delle pratiche vietate e quindi della loro “responsabilità editoriale”: trattasi, in primis, dunque, dell'esistenza di un potere di verifica e controllo sul contenuto dei messaggi pubblicitari, riconosciuta dai contratti stipulati con i content provider; in secondo luogo, della circostanza per cui i gestori telefonici avevano espressamente consentito l'utilizzo dei propri loghi e
86 Provv. 18779 del 21 agosto 2008. Nello stesso senso il TAR LAZIO, che ha confermato in primo grado la decisione dell’Autorità (sentenze n. 7122/09 - 7123/09 - 7558/09)
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segni distintivi nell’ambito delle operazioni pubblicitarie relative ai servizi reclamizzati, in tal modo palesando il proprio coinvolgimento diretto nell'ambito delle operazioni reclamizzate.
Dalla stigmatizzazione di quello che pare essere divenuto principio cardine conseguirà che la responsabilità del professionista potrà essere configurata ogni qual volta l’operatore non dimostri di avere posto in essere un sistema di monitoraggio effettivo sui contenuti delle iniziative promo - pubblicitarie realizzate e diffuse da soggetti terzi, anch’essi interessati alla pratica commerciale, eventualmente prendendo le distanze dalle eventuale scorrettezze della pratica, cosa che certo non si ravvisa in tutte le ipotesi di “tacito assenso”.
Come vedremo, peraltro, la ricostruzione in termini particolarmente ampi delle nozioni rilevanti nella materia che qui ci occupa88 rappresentano un leit motiv della prassi applicativa di AGCM e TAR che tradisce, se si vuole, quell’atteggiamento vagamente paternalistico denunciato in apertura.
È opportuno aggiungere infine che da un punto di vista procedimentale, con riguardo alla prova circa la diligenza professionale, va richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato che si rifà al consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. Civ., sez. lav., 26 agosto 2003, n. 12391) che interpreta la previsione di cui al primo comma dell'art. 3, l. 689/81 (applicabile a norma dell’art. 27 comma 13 cod. cons. e secondo cui nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa) nel senso di porre una praesumptio juris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l'abbia commesso, riservando poi a quest'ultimo l'onere di dimostrare di aver agito senza colpa89.
Il professionista dunque, chiamato rispondere di una pratica commerciale scorretta in sede di giudizio, sarebbe tenuto a provare in termini positivi la sua diligenza professionale, dimostrando di avere messo in atto tutte le accortezze e le
88 Non può sfuggire che altrettanto estensiva è l’interpretazione data da AGCM e confermata dai giudici con riguardo alle nozioni di “pratica commerciale”, “consumatore medio” e soglia di rilevanza.
89 Così da ultimo, Cons. Stato Sez. VI, Sent., 12-04-2011, n. 2256 e conformemente Cons. Stato 23-12-2010, n. 9329 nonché anche il provv. AGCM IP17/07 Vodafone servizio numero fisso.
precauzioni richieste dal caso concreto e dalle relative circostanze al fine di evitare il danno, o meglio, il pericolo di danno, trovandoci, come noto e come ribadito in più occasioni dal giudice amministrativo, nell’ambito di illeciti di pericolo. In particolare, ancora con riguardo alla responsabilità delle succitate compagnie di telefonia mobile per i messaggi pubblicati sui siti web dai loro partner contrattuali (internet provider), il Collegio ha ritenuto che le appellanti non fossero in condizione di vincere la richiamata presunzione di colpa, atteso che le stesse: “hanno coscientemente e volontariamente collaborato alla realizzazione dell'illecito [..]- esse sono operatori professionali del settore delle comunicazioni elettroniche, che disponevano di strumenti (contrattuali e conoscitivi) idonei ad prendere cognizione ed apprezzare il carattere illecito dei messaggi diffusi attraverso i propri mezzi tecnologici e che, cionondimeno, hanno consentito che la condotta illecita si realizzasse in tutta la sua portata lesiva; - le giustificazioni addotte, tendenti a dimostrare che esse hanno messo in opera ogni accorgimento necessario e sufficiente per evitare il prodursi della fattispecie illecita, non appaiono convincenti”.
La richiamata sentenza sembra sollevare inoltre un punto importante nella ricognizione concreta fatta dai giudici del dovere di diligenza riguardante l’obbligo per il professionista di porre in essere accorgimenti e misure al fine di scongiurare il possibile verificarsi di nocumento o pregiudizio nei confronti dei consumatori90. La rispondenza o meno a ‘‘diligenza’’ della condotta tenuta dall’operatore economico va quindi certamente ricercata anche nella adeguatezza delle misure di controllo, prevenzione e vigilanza da questi adottate in relazione alla pratica contestata. Dalle decisioni rese dal giudice amministrativo fino ad oggi, emerge inoltre il principio secondo cui l’obbligo di diligenza, così configurato, va valutato non alla stregua di criteri rigidi e predeterminati, ma tenendo conto delle cautele e degli accorgimenti che le circostanze del caso concreto suggeriscono o impongono. Evidente è peraltro che, tanto più il professionista si presenta sul mercato in posizione privilegiata e di potere, tanto più è esigibile un obbligo di vigilanza e controllo, nonché una
90 T.A.R. Lazio, 8.4.2009, n. 3722 (caso PS/91).
profusione di mezzi e risorse (economiche e non) al fine di garantire la corretta realizzazione della sua condotta sul mercato.
Ciò premesso, come si accennava, al di là della ricognizione e riconduzione esatta del concetto di diligenza professionale alle tradizionali categorie civilistiche, ciò che sembra maggiormente interessante è la lettura della nozione di diligenza professionale alla luce del nuovo spirito della Direttiva che si ritrova poi nelle norme interne del Codice del consumo. Ed infatti, come già si è avuto modo di rilevare, la Direttiva sulle PCS costituisce una novità, non solo dal punto di vista della nuova tutela che viene apprestata al consumatore, ma anche dal punto di vista del nuovo comportamento che viene richiesto alle imprese, che è sì, incentrato sul divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette, ma anche ispirato a nuovi obblighi di diligenza, appunto. Vi è, cioè, nel più ampio disegno della normativa, la formulazione in termini positivi di comportamenti virtuosi da parte dei professionisti, finalizzati allo sviluppo di pratiche leali, e non solo alla punizione di quelle sleali91, il tutto secondo un modello di rafforzata “responsabilità d’impresa”. In tale ottica, la correttezza e la lealtà richieste al professionista divengono un tratto generale e caratterizzante il suo rapporto con il consumatore e non più soltanto il suo rapporto con i concorrenti.
Il concetto di diligenza professionale che interessa in questa sede, pertanto va senz’altro letto attraverso la lente d’ingrandimento offerta dalla Direttiva e dai suoi principi ispiratori che, come si è detto, tendono a responsabilizzare il professionista e ad indurlo all’adozione di modelli di comportamento corretto e di azione leale.
Dall’altra parte, giova rilevare come, nella ricostruzione di tale dovere di diligenza, lo sforzo che si può e si deve esigere dal professionista non possa andare oltre una certa soglia. In sintesi, come sottolineato anche da una recente pronuncia dei giudici amministrativi, lo sforzo di diligenza richiesta al professionista va valutato tenendo a mente tutte le circostanze del caso (dimensioni dell’operatore economico, delicatezza dell’operazione, sofisticazione dei mezzi di vigilanza e controllo, etc…)
91 Si veda il Considerando n. 2 della Direttiva. Merita di essere sottolineato sin da ora che ispirati a tale ratio sono anche altri strumenti previsti dalla nuova disciplina, quali i codici di condotta e di autoregolamentazione di cui all’art. 10 della Direttiva e all’art. 27 bis del nostro codice, sui quali si tornerà oltre.
e bilanciando tale sforzo con l’onere di attenzione che viene pur sempre richiesto al consumatore. In altre parole, il professionista non potrebbe con il suo comportamento essere chiamato a sopperire alla carenza di attenzione/informazione che viene richiesta al consumatore92. Ma dall’altra parte, l’assimetria o il gap informativo che caratterizzano inevitabilmente certi rapporti non può essere colmato dal consumatore al punto da essere chimato lui stesso a colmare eventuali lacune informative da parte del professionista (e ciò vale in particolare per le cd. pratiche ingannevoli).
La questione allora, mi pare, stia nel rinvenire un punto di equilibrio fra obblighi/oneri imposti al professionista e diritti/oneri riconosciuti al consumatore nel corretto dispiegarsi del rapporto di consumo cui mira – a mio parere – la disciplina sulle PCS: da un lato, quindi, l’adesione del professionista a modelli comportamentali ispirati alle best practices, adeguati alle ragionevoli aspettative del consumatore, comunque mai astrattamente e rigidamente preconfezionati ma sempre parametrati e conformati sul caso concreto93; dall’altro, come si vedrà, non viene meno l’onere di attenzione, informazione che il nuovo sistema di regole esige dal consumatore che, per inciso, si ricordi, è il consumatore “medio”, nel suo atteggiarsi rispetto al mercato.
92 Si veda anche: Cons. Stato Sez. VI, Sent., 12-04-2011 n. 2256: al punto 12.6.1, in merito alle difese delle società di telefonia coinvolte nella sanzione per l’ingannevolezza di messaggi pubblicitari diffusi dai content provider, il Consiglio di Stato ha osservato che: “non può trovare accoglimento la tesi delle appellanti secondo cui non sarebbe stato esigibile nei loro confronti un comportamento tale da prevenire ed impedire il verificarsi della condotta sanzionata attraverso un adeguato (ma onerosissimo) sistema di controlli preventivi sui contenuti e le modalità delle campagne pubblicitarie. Ed infatti, pur non potendosi sottacere l'indubbia complessità tecnico organizzativa del sistema di controlli reso necessario dalla tipologia e dal numero delle attività pubblicitarie poste in essere, è altresì certo che non sussistesse nella specie alcun impedimento di carattere assoluto alla sua realizzazione. E' altresì certo che il quantum di esigibilità nell'attivazione di rimedi di tipo preventivo deve essere in concreto modulato tenendo in adeguata considerazione: a) la diretta cointeressenza economica delle odierne appellanti alla riuscita e diffusione dei messaggi pubblicitari oggetto di contestazione; b) la notevolissima dimensione organizzativa delle appellanti (primari operatori di mercato); c) la loro indubbia attitudine (in qualità di operatori del settore delle telecomunicazioni, a propria volta dotati di coacervata esperienza nel settore pubblicitario) ad apprezzare i profili di ingannevolezza contenuti nelle campagne oggetto di contestazione”.
93 Cfr. T.A.R. Lazio, 15.6.2009, n. 5625 (caso PS/24): “l’obbligo di diligenza, cosı` configurato, va valutato non alla stregua di criteri rigidi e predeterminati ma tenendo conto delle cautele e degli accorgimenti che le circostanze del caso concreto suggeriscono o impongono”.
Sul punto, merita certamente di essere segnalata, anche per il riferimento al “modello del consumatore medio”, la recente sentenza del TAR94 nella quale si legge: “[…]ricorda il Collegio che la Sezione ha ormai più volte affermato che le norme in materia di contrasto alle pratiche commerciali sleali richiedono ai professionisti l'adozione di modelli di comportamento in parte desumibili dalla disciplina posta dalla Autorità di regolazione, ove esistenti, in parte dall'esperienza propria del settore di attività, nonché dalla finalità stessa di tutela perseguita dal Codice del Consumo, purché, ovviamente, siffatte condotte siano dagli stessi concretamente esigibili, in un quadro di bilanciamento, secondo il principio di proporzionalità, tra l'esigenza di libera circolazione delle merci e dei servizi e il diritto del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale, secondo la logica alla base del modello, pur esso di derivazione comunitaria, del c.d. consumatore medio. Nel caso di specie, è perciò condivisibile l'argomentazione della società secondo cui occorre raggiungere un punto di equilibrio nella individuazione delle misure di tutela del consumatore, anche nei mercati oggetto di recente liberalizzazione, in quanto, diversamente, ne potrebbe risultare pregiudicato lo sviluppo di un mercato realmente concorrenziale […]95.
Ebbene, proprio su tale equilibrio poggia, a mio parere, non solo il dovere di diligenza imposto al professionista ai sensi delle nuove norme, ma forse anche la lettura più corretta di tutta la nuova disciplina sulle PCS.
2.4 (Segue) La clausola generale e la “soglia di materialità” imposta dall’art. 20 Cod. cons.
94 T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 26-01-2012, n. 866.
95 Il giudice amministrativo prosegue precisando che: “La definizione di tale punto di equilibrio spetta alla stessa Autorità antitrust, il cui giudizio non è, come ovvio, sindacabile nel merito, quanto, secondo i consueti parametri di valutazione del corretto esercizio della discrezionalità tecnica. Pertanto, in caso di corretta e completa acquisizione degli elementi di fatto rilevanti (nel caso di specie non contestata), siffatto giudizio non è criticabile se non sul piano della ragionevolezza e congruità della valutazione, con l'esclusione di interventi di carattere costitutivo incompatibili con l'opinabilità dei giudizi e con la non oggettività ed esattezza delle discipline di riferimento (così, da ultimo, Consiglio di Stato sez. VI, 24 agosto 2011, n. 4799). Il giudice, in definitiva, può solo verificare la correttezza dei parametri utilizzati e del procedimento seguito, ma non già sovrapporre un proprio modello di "professionista diligente" (ovvero, specularmente, di "consumatore medio") a quello delineato dalla competente Autorità”.
Dal ragionamento svolto finora con riguardo al primo degli elementi costitutivi la fattispecie “pratica commerciale scorretta” di cui all’art. 20 del Codice del consumo, emerge chiaramente che la prima parte della clausola generale, che fa capo al concetto della diligenza professionale, può essere correttamente compresa e “concretizzata” solo facendo perno: a) sulla ratio della Direttiva comunitaria dalla quale la stessa trae origine, b) sull’interpretazione che della stessa è stata data in sede applicativa (provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato) e giurisprudenziale. Trattasi infatti, come si diceva, di una clausola aperta ed elastica, la quale, se è vero che richiama concetti e istituti già noti alla tradizione civilistica nostrana, ciò non di meno, dagli stessi, per il contesto delle nuove norme oggetto di analisi in cui si inserisce, è destinata, almeno in parte, ad affrancarsi.
Similmente, possiamo dire, avviene con riguardo al secondo degli elementi che concorrono a definire la scorrettezza della pratica, vale a dire quello dell’idoneità della stessa a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore. In questo caso, tuttavia, pare potersi dire, anticipando quanto si vedrà, che l’apporto esegetico dato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato non sembra essere stato né determinante né, in verità, completamente conforme alle linee guida tracciate dalla Direttiva e dalla CGE. Ciò in quanto, da un lato, l’atteggiamento dell’Autorità nei confronti della cosiddetta regola di de minimis da utilizzare quale esimente della condotta scorretta, è stato sostanzialmente di indifferenza, dall’altro, l’Autorità nelle sue decisioni non ha di fatto dimostrato di aderire all’indirizzo tracciato dai giudici comunitari, che già avevano avuto modo di confrontarsi con siffatta clausola di rilevanza nell’applicazione della direttiva 84/450/Cee in materia di pubblicità ingannevole. Ciò nondimeno, va rilevato che ampio riferimento all’utilizzo della regola del de minimis si rinviene da parte delle imprese nelle loro tesi difensive al fine di dimostrare l’inidoneità della pratica, di fatto, ad incidere sulla decisione finale del consumatore. Il riferimento più immediato, come si vedrà, per rinvenire tale soglia di rilevanza è basato sulla diffusione della pratica.
Come è stato giustamente rilevato96, dunque, la soglia di materialità costituisce il “nucleo essenziale” della clausola di scorrettezza e quindi dell’antigiuridicità della pratica, laddove il criterio della diligenza professionale serve piuttosto a formulare un giudizio di colpevolezza dell’agente - professionista. Che si tratti di un aspetto normativamente preponderante nella valutazione della pratica, non pare poter essere messo in dubbio. Ed infatti, gli articoli oggetto di interesse che si occupano di definire la slealtà della pratica richiamano più volte, in modo sostanzialmente equivalente, l’idoneità della pratica ad incidere sulla capacità decisionale del consumatore medio quale presupposto fondamentale della slealtà97.
Ebbene, tale secondo elemento necessita di un ulteriore approfondimento che non pare possa partire se non dalle definizioni che, delle singole “voci” che compongono il parametro, fornisce la norma.
L’art. 20, 2° comma, cod. cons. parla così di “idoneità della pratica a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio”. A chiarire il significato della locuzione interviene l’art. 18 lett. e), in forza del quale, “falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatori” significa “alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo – continua la norma – ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso”. La definizione, tuttavia, ancora non fornisce parametri sicuri di indagine. Ed infatti, se si può correttamente ritenere che l’avverbio “sensibilmente”, che caratterizza l’alterazione rilevante, sia esplicitato di seguito, dall’attitudine della pratica ad indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che lo stesso altrimenti non avrebbe assunto, si pongono altre due questioni, a mio parere fondamentali: la prima, inerente la ricognizione della, a dir poco infelice, nozione di “decisione
96 LIBERTINI M., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari, op.cit. p.54.
97 Si veda, oltre al già richiamato art. 20 comma secondo, anche l’art. 18.1 lett. e e lett. l, nonché l’art. 24 cod. cons. in riferimento alle pratiche aggressive. E si noti che il concetto di decisione commerciale contiene in sé anche un contenuto negativo, relativo alla decisione cioè di non acquistare
commerciale”98; la seconda – più complessa – inerente la ricostruzione in concreto di una tale attitudine lesiva della pratica rispetto alla decisione finale99 del consumatore, che pare stia nella locuzione “che altrimenti non avrebbe preso”. Quando cioè, con riferimento a questo secondo aspetto, si può effettivamente ritenere che, in presenza di informazioni ingannevoli, ovvero, in assenza di alcune informazioni rilevanti, ovvero, ancora, in assenza di determinate coercizioni, molestie, il consumatore non si sarebbe determinato a porre in essere una certa decisione commerciale?
Ebbene, su tale questione, a me sembra, avrebbe dovuto incentrarsi la prassi applicativa dell’Autorità, cosa che in realtà non è, se non in parte, avvenuta.
Va premesso che, fermo restando che il bene giuridico tutelato è rappresentato, a mio modo di vedere, più che da una generica e astratta libertà di scelta del consumatore, dalla “scelta consapevole del consumatore medio”, cioè, dalla possibilità ad esso garantita di scegliere “con cognizione di causa” e sulla base di informazioni vere, chiare e complete (oltre che, certamente, in modo non condizionato da condotte “aggressive”100), bisogna tenere a mente che oggetto di indagine sono pur sempre comportamenti pubblicitari e promozionali, per natura “suggestivi” e pratiche di impresa destinate alla vendita di prodotti /servizi. Fondamentale quindi è a questo punto capire come tale requisito della soglia di materialità sia stato (o non) tradotto nella prassi.
Prima di passare ad analizzare alcune delle pronunce in tale senso rilevanti, va precisato il significato dell’espressione “decisione di natura commerciale” che il legislatore definisce all’art. 18 lett. m) come: “la decisione presa da un consumatore relativa al se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a
98 Xxxxxx si sarebbe dovuto parlare di decisione negoziale (DE XXXXXXXXXX, 2009, op.cit.), fermo restando che, come vedremo, rilevanti non sono solo le scelte del consumatore riferite al se stipulare o meno un contratto.
99 Secondo il Parlamento Europeo “le decisioni che non implicano un comportamento economico non sono un bene giuridico da proteggere”. Relazione sulla proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio.
100 Vero è senz’altro che con riguardo alle pratiche aggressive il legislatore parla di “limitare la possibilità di scelta” ed in questo caso, effettivamente, l’oggetto della tutela si dilata e coincide con quello della libera scelta del consumatore. Tuttavia anche qui non si tratta (o non dovrebbe trattarsi) di una generica libertà di scelta, posto che la norma non manca di evidenziare che la ricognizione della pratica aggressiva deve essere fatta, nella fattispecie concreta e tenendo conto di tutte le circostanze e caratteristiche del caso.
quali condizioni, se pagare integralmente o parzialmente, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto”. Trattasi di una nozione estremamente ampia, che risulta in realtà, perfettamente in linea con la definizione dell’ambito di applicazione della normativa in esame, la quale, ricordiamo, riguarda (art. 19, 1° comma, cod. cons.) tutte le pratiche commerciali tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto. La scelta su cui si appunta la riflessione riguarda, quindi, non solo l’an della conclusione di un contratto con il professionista, ma anche tutte le condizioni alle quali la stessa può essere effettuata, con riferimento alle singole clausole del regolamento contrattuale, relative anche a comportamenti tesi a risolvere tale rapporto o comunque conseguenti ad esso. Infine, l’esegesi della norma rende doveroso precisare come tra la pratica dedotta in giudizio e la scelta del consumatore debba sussistere necessariamente un nesso di causalità. La pratica commerciale potrà quindi ritenersi idonea ad indurre il consumatore ad assumere una certa decisione, solo se la stessa si può ritenere causalmente correlata allo stesso. La soglia di materialità dovrebbe quindi rappresentare un parametro idoneo anche ad essere assunto come nesso causale fra la condotta omissiva e/o commissiva del professionista e la decisione di acquistare del consumatore in assenza del quale non è dato applicare il divieto.
Ebbene, si diceva che l’interpretazione fornita da AGCM - e dai giudici amministrativi - non è stata pienamente in linea con la ratio della Direttiva, la quale chiaramente, al Considerando n. 6101, introduce la regola di de minimis ricollegandola, peraltro, al principio di proporzionalità quale campanello di allarme nel valutare la rilevanza della pratica e quindi l’interesse a reprimerla (oltre che a sanzionarla).
Una tale interpretazione, in particolare, è apparsa a molti iper-estensiva, specie con riguardo al fatto che, secondo un ormai consolidato trend applicativo, AGCM
101 Considerando n. 6: “[…]. Secondo il principio di proporzionalità, la presente direttiva tutela i consumatori dalle conseguenze di tali pratiche commerciali sleali allorché queste sono rilevanti, ma riconosce che in alcuni casi l’impatto sui consumatori può essere trascurabile”.
prescinde, nella definizione di pratica commerciale, da un criterio statistico o quantitativo.
Secondo AGCM infatti, la definizione di pratica commerciale ricomprende ogni condotta posta in essere da un professionista prima, durante o dopo un’operazione commerciale relativa ad un prodotto o servizio offerto che si connoti per caratteristiche tali da poter essere astrattamente replicata a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari e dalle vicende contrattuali circoscritte al rapporto tra il professionista ed un singolo utente”102. L’indirizzo pare essere peraltro totalmente avvallato dal TAR103.
Ebbene, come notato in dottrina104, se è vero che secondo la Direttiva sono escluse dal divieto solo quelle pratiche la cui rilevanza può dirsi “trascurabile” e che pertanto, viene da dire, la regola è la rilevanza di ogni comportamento scorretto, mentre la sua irrilevanza rappresenta l’eccezione, ciò non significa che il requisito della rilevanza dell’impatto di una certa pratica sui consumatori (e più precisamente sul consumatore medio) possa essere tralasciato o addirittura disapplicato. Sul punto appare evidente, anche alla luce delle pronunce del giudice comunitario, che il parametro da seguire nella ricognizione della soglia di materialità di cui ci si occupa, è rappresentato, innanzitutto, dal numero di consumatori coinvolti da una certa pratica e quindi dal dato della diffusione della stessa. Ciò, peraltro, avveniva anche nel previgente regime della pubblicità e in tale senso vanno lette le perizie e i sondaggi di opinione quali strumenti messi a disposizione del giudice nazionale per valutare l’impatto di una certa pratica sui consumatori105.
102 Si veda per tutti il caso PS/271-Fastweb Contratti a distanza.
103 TAR LAZIO sentenza Telecom n. 646/2010.
104 Il principio di proporzionalità regola l'esercizio delle competenze esercitate dall'Unione europea. Esso mira a inquadrare le azioni delle istituzioni dell'Unione entro certi limiti. In virtù di tale regola l'azione delle istituzioni deve limitarsi a quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi fissati dai trattati. In altre parole, il contenuto e la forma dell'azione devono essere in rapporto con la finalità perseguita.
104 Vedi MELI, 2008, op.cit. secondo il quale i potenziali effetti lesivi di una pratica andrebbero relazionati con il numero dei consumatori coinvolti nonché il valore dell’operazione che tale pratica induce nel consumatore e con i costi richiesti al professionista per evitare gli effetti potenzialmente lesivi della pratica.
105 In tal senso si vedano CGE 16 luglio 0000, X- 000/00, Xxx Springenheide e Xxxxx in Rdcc 1998, I 4657 e C-210/96 Xxxxx Xxxxxx x. Xxxxxxxxx, ivi, 2000, I – 117 in cui si afferma che il giudice nazionale dovrà valutare, in base al suo diritto, se la percentuale di consumatori indotti in errore sia sufficientemente significativa da giustificare il divieto di una certa pubblicità.
Guardando allo scenario della prassi nazionale si rileva invece che: a) l’Autorità garante della concorrenza e del mercato non pare – almeno per il momento - aver dato alcuna evidenza alla regola del de minimis, affermando, di contro, in più occasioni che il fatto che la pratica abbia avuto una diffusione esigua in termini di consumatori coinvolti, non è rilevante sul piano della liceità o meno della pratica quanto piuttosto su quello della diligenza professionale; b) similmente, il giudice di primo grado sembra avere optato per l’irrilevanza delle dimensioni del possibile impatto di una pratica sui consumatori al fine di valutarne la scorrettezza.
Così, in un caso relativo ad attivazioni non richieste di servizi da parte di Enel Energia 2, il giudice amministrativo ha sancito che “la significatività statistica del dato non assurge, ad avviso del Collegio, ad elemento legittimamente escludente la scorrettezza della pratica commerciale… la rilevanza numerica del dato può assumere significatività quale elemento aggravante della condotta”. La sentenza in esame ha aggiunto: “L’illiceità del comportamento, al fine di assumere rilevanza ai sensi delle riportate disposizioni del Codice del Consumo, non deve dimostrare una concreta attuazione pregiudizievole (per le ragioni dei consumatori), quanto, piuttosto, una potenzialità lesiva (per le scelte che questi ultimi… sono legittimati a porre in essere…) che consente di ascrivere la condotta nel quadro dell’illecito (non già di danno; ma) di mero pericolo”106.
Una successiva sentenza sembra confermare questo orientamento, ma in modo quasi incidentale, limitandosi ad affermare che “l’affermata sporadicità della vicenda… non integra idoneo fondamento giustificativo al fine di escluderne la sussumibilità in una tipologia di condotta” (nella specie, di pratica aggressiva) 107. Peraltro, in un noto caso relativo ai comportamenti delle banche in materia di portabilità dei mutui108, si può rinvenire un orientamento di segno contrario: “La mancata dimostrazione circa l’effettiva diffusione (sotto i profili quantitativo, geografico, della ripetizione in un arco temporale significativo, nonché della identità configurativa) di taluni comportamenti, pur effettivamente osservati da singole filiali, esclude che essi possano ex se assurgere al rilievo di ‘pratica’:
106 TAR Lazio – Roma, sez. I, 8 aprile 2009, n. 3722, Enel.
107 TAR Lazio – Roma, sez. I, 11 giugno 2009, n. 5570, Energas.
108 TAR Lazio – Roma, sez. I, 6 aprile 2009, n. 3692, Intesa Sanpaolo.
ovvero di una condotta reiteratamente posta in essere dall’operatore commerciale con carattere di apprezzabile omogeneità”.
Come si vede l’argomento centrale cui tende a fare ricorso l’AGCM per disapplicare l’esimente della rilevanza della condotta di cui all’art. 20 cod. cons. è quello della potenzialità diffusiva della stessa.
Come a dire, la pratica non ha in fatto avuto una rilevante diffusione109 e quindi un significativo impatto sui consumatori, ma avrebbe potuto averlo. L’argomentazione troverebbe giustificazione necessaria e sufficiente, secondo AGCM, nell’assunto per cui le pratiche scorrette integrano un illecito di pericolo e non di danno e come tali rilevano a prescindere da loro effettivo impatto lesivo.
In merito tuttavia, si potrebbe sostenere, come è stato giustamente sostenuto, che il giudizio e le argomentazioni di AGCM basate sulla natura di pericolo e non di danno delle pratiche commerciali scorrette, sono condivisibili nella misura in cui le pratiche oggetto di giudizio sono ripetibili e prorogabili nel tempo. Ma laddove così non fosse, bisogna prendere atto che di fronte a fenomeni che di per sé hanno una scarsa rilevanza il legislatore ha voluto espressamente non far scattare il divieto anche probabilmente in un ottica di equilibrio tra impatto lesivo della condotta e oneri (investimenti) richiesti all’impresa al fine di evitarla.
Ebbene, senza negare alle pratiche commerciali scorrette il carattere di illecito di pericolo, la soluzione adottata dai giudici nazionali che tende a svilire la regola de minimis tanto da disapplicarla, non può essere condivisibile.
In termini generali infatti, il legislatore ha chiaramente espresso l’intenzione di prevenire applicazioni formalistiche del divieto e quindi di tollerare pratiche che, seppur formalmente censurabili, risultano ininfluenti sul processo di scelta del consumatore stante la loro marginalità. La precisazione introdotta con il test di apprezzabilità della condotta non può essere ritenuta superflua in quanto la stessa assume importanza decisiva, da lato, perché in grado di delimitare lo spettro di azione del divieto che, altrimenti, sarebbe suscettibile di applicazioni
109 Altro elemento che dovrebbe rilevare in termini di rilevanza della condotta è quello della durata di una certa pratica nel tempo, anche se è ben possibile che una pratica che si sia esaurita in un unico episodio può aver avuto effetti gravissimi.
eccessivamente severe, dall’altro, anche perché il materiality test esprime una peculiare utilità nella creazione di un qualche standard e quindi nella semplificazione della prassi applicativa. Infine, non si dimentichi, il guadagno sistematico di aver previsto una “clausola di apprezzabilità” che sta nel consentire appunto una ragionevole disapplicazione del divieto di cui agli articoli 21 e 22 del Codice del consumo in casi in cui, teoricamente, lo stesso potrebbe trovare applicazione. Anticipare la tutela venendo a sanzionare indistintamente qualunque condotta, anche di portata irrilevante, significa infatti abrogare di fatto la regola imposta dal legislatore comunitario e presidiata dal principio di proporzionalità.
2.5 Il parametro del consumatore medio.
Veniamo quindi al secondo elemento costitutivo della fattispecie pratica commerciale scorretta.
Autorevole dottrina110 ha sostenuto come la novità introdotta dalla novella sulle PCS sta nell’aver attribuito “rilevanza giuridica” - si noti, non “aziendalistica”- “ad un possibile contatto fra impresa e consumatore, a prescindere dalla conclusione del contratto”, anticipando di fatto ad un momento, non solo pre-contrattuale, ma addirittura pre-negoziale, la rilevanza giuridica del comportamento/linguaggio dell’imprenditore.
In tale nuova visione del rapporto impresa /consumatori era necessario porre delle “focalizzazioni” al fine di evitare pericolose commistioni di tutele (individuali/collettive – civilistiche/amministrative) con conseguenti rischi di instabilità (e di costi) per il sistema amministrativo e giurisdizionale. Tali, opportunamente, sono state le precisazioni normative introdotte dal legislatore, comunitario e nazionale, in parte attraverso la regola del de minimis, vista sopra, ma soprattutto attraverso l’introduzione del parametro del cd. consumatore medio, nozione non nuova alla riflessione europea, ma mai prima d’ora utilizzata in sede legislativa.
110 CAMARDI C., op. cit. p. 409.
Ebbene, la “metamorfosi” del consumatore in “consumatore medio” e l’adozione di tale standard normativo ed oggettivo quale destinatario della tutela, costituisce un punto fondamentale al fine di comprendere, anche sul piano metodologico e sistematico, la disciplina oggetto di analisi.
Il legislatore comunitario non ha ritenuto neppure in questa occasione di inserire la nozione di consumatore medio fra le definizioni riportate nella Direttiva, ma tuttavia, ha ugualmente chiarito l’intento di prendere a riferimento, non il consumatore sic et simpliciter, bensì il consumatore medio. Così, al Considerando
n. 18, richiamandosi ancora una volta al principio di proporzionalità, ha stabilito che: “Conformemente al principio di proporzionalità, e per consentire l'efficace applicazione delle misure di protezione in essa previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici (…).” Precisando poi che: “La nozione di consumatore medio non è statistica” e che “Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno esercitare la loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie”. La nozione proposta rimanda alla giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia, a partire dagli anni Novanta, con riguardo alla materia della pubblicità ingannevole e dei marchi di impresa. Sia in proposito sufficiente richiamare la nota sentenza Xxxx Xxxxxx secondo cui il consumatore è “un soggetto ben informato, capace di elaborare le informazioni ricevute, e di agire in modo conseguente”111. Con tale sentenza la giurisprudenza comunitaria ha ritenuto di abbandonare quel
111 Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft ev c. Xxxx Xxxxxx Xxxx, caso 126/91, in data 18.5.1993. La definizione è stata confermata in diverse altre sentenze, successive, x. Xxxxx, Xxxxxxx, Rado c. DPMA, casi 53/01, 54/01, 55/01, in data 8.4.2003; Verband Sozialer Wettbewerb EV c. Clinique Laboratoires SNC e Xxxxx Xxxxxx Cosmetics GmBH, caso 315/92, in data 2.2.1994; Verein Gegen Unwesen in Handel und Gewerbke Koeln c. Mars GmbH, caso 470/93, in data 6.7.1995. Per una lettura esaustiva del concetto di consumatore medio alla luce della giurisprudenza comunitaria si veda: Foglia C., Il concetto di «consumatore medio» ed il ricorso all’indagine demoscopica (Nota a Cass., sez. I, 26 marzo 2004, n. 6080, Soc. Rovagnati
c. Soc. Parmacotto) Dir. ind., 2004.; X. XXXXXXXXX, La nozione di consumatore e d consumatore medio nella Direttiva 29/2005 Ce, in Le pratiche commerciali sleali, a cura di XXXXXXXXX - ROSSI XXXXXX, op. cit., p.10; PONCIBÒ C., Il consumatore medio, in Contratto e Impresa/Europa 2007, 734 ss.; XXXXX N., Il consumatore medio ed il consumatore vulnerabile nel diritto comunitario in Contratto e impr. - Europa, 2010, 54 ss.
criterio di precauzione paternalistica nei confronti del consumatore, quale soggetto debole da tutelare, per adottare invece lo standard del consumatore medio. Ciò già in forza di un approccio liberista e improntato a tutelare il consumatore nel più ampio gioco della libera concorrenza e della regolazione del mercato.
Sul punto, preme sottolineare, come per espressa indicazione del legislatore e del giudice europeo, il consumatore medio non è uno standard fondato su base statistica, bensì è uno standard qualitativo che va ricostruito in base a due criteri, cui il giudice nazionale dovrà conformarsi onde evitare di incorrere in valutazioni divergenti sulle pratiche commerciali scorrette: da un lato, quello dell’istruzione generale, e, dall’altro, quello dell’attenzione all’atto dell’acquisto112.
Ebbene, premesso che l’adozione dello standard europeo deve senz’altro ritenersi vincolante, il legislatore italiano, pur utilizzando la nozione di consumatore medio nell’individuazione di pratica commerciale scorretta113, si è astenuto dal fornirne un’espressa definizione, mantenendo invece la definizione generale di cui all’art. 3 cod. cons. ed inserendo all’art. 18, lett. a) la definizione comunitaria114, senza modificarla in alcun modo sostanziale, e, in realtà, in modo pleonastico rispetto all’articolo 3 lett. a) cod. cons. che già poneva tale definizione generale di consumatore115. Peraltro, la definizione inserita dalla novella all’art. 18 cod. cons. lett. a) si aggiunge ad un altro riferimento al consumatore, contenuto nel codice del Consumo, e segnatamente quello di cui all’art. 5, secondo cui, “ai fini del presente
112 Tralasciamo al momento le categorie rappresentate da quei “gruppi di consumatori chiaramente individuabili e particolarmente vulnerabili” (anziani e bambini per esempio) che vengono trattati in modo specifico e per i quali lo standard di valutazione si abbassa, per espressa previsione dell’art. 5.3 della Direttiva, a quello del consumatore vulnerabile.
113 Secondo infatti il già menzionato art. 20, secondo comma, del Codice del consumo il divieto scatta laddove la pratica sia idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. L’art. 20, terzo comma, continua poi stabilendo che, laddove la pratica sia idonea a colpire solo un gruppo di consumatori chiaramente individuabile e particolarmente vulnerabile, le pratiche in questione vengono valutate secondo il parametro del membro medio di tale gruppo.
114 Cosa peraltro fatta anche dal legislatore comunitario all’art. 3 della Direttiva (il consumatore è pertanto “qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto della presente direttiva, agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”), il quale però poi si preoccupa di introdurre con il citato considerando il concetto di consumatore medio.
115 La definizione di cui all’art. 3 Cod. cons., come noto, trova applicazione in tutti i casi in cui il consumatore non sia altrimenti individuato (in tale senso, è l’inciso iniziale, “ove non diversamente stabilito”).
titolo, si intende per consumatore o utente anche la persona fisica alla quale sono dirette le informazioni commerciali”. Si badi bene, tuttavia che, come già ricordato più volte con l’introduzione della Direttiva, viene introdotto anche il principio dell’armonizzazione massima, il quale non ammette applicazioni e/o interpretazioni estensive, neppure a livello meramente definitorio, delle norme comunitarie dettate con la Direttiva stessa. Conseguentemente, se mai fosse ancora ipotizzabile, la legittimità, sulla base dell’art. 5 Cod. Cons., di una lettura interna “allargata” del concetto di consumatore, tale dubbio, almeno con riferimento alle norme che qui ci occupano, viene fugato se si tiene a mente per l’appunto il divieto di regolamentazioni differenziate rispetto ai principi sanciti a livello comunitario dalla Direttiva.
Il consumatore, quindi, nell’impianto della Direttiva e della novella al codice del consumo, è un soggetto che si assume dotato di una discreta cultura generale, di capacità e competenze di livello medio, e al quale si richiede un certo grado/sforzo di diligenza al momento dell’acquisto e, in generale, nelle scelte di consumo. Un consumatore, cioè, che non pare essere più semplice spettatore rispetto al gioco della concorrenza, ma che diventa parte integrante e attiva di tale gioco, secondo un approccio, che lungi dall’essere di tipo paternalistico, vorrebe tendere, per converso, a “responsabilizzare” anche il consumatore nel momento in cui lo stesso scende sul mercato per mettere in atto le sue scelte di acquisto116.
Se il consumatore resta un soggetto le cui scelte di consumo meritano tutela, lo stesso cessa di essere visto come il contraente “che non contratta”, e comincia a delinearsi come parte attiva di un mercato regolato117.
Sul punto autorevole dottrina118 non ha mancato di evidenziare che “la tesi secondo cui solamente il consumatore ben informato e ragionevolmente cauto merita
116 LIBERTINI X., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari, op. cit. p.64.
117 Al riguardo è stato efficacemente osservato che “la Direttiva, [...] nel vietare pratiche commerciali scorrette, assume che il soggetto destinatario sarebbe, in loro assenza, capace di autotutelarsi: non mostra, quindi, di avere di mira la protezione di un soggetto debole, la cui autodeterminazione dovrebbe essere oggetto di paternalistiche limitazioni” X. Xxxxxxxx, Ruolo dei divieti di pratiche commerciali scorrette [...], op. cit. p. 53.
118 DENOZZA F., Aggregazioni arbitrarie v. "tipi" protetti: la nozione di benessere del consumatore decostruita, in Giur. Comm. 2009/6, parte I. Osserva, al riguardo, come la categoria
protezione” scaturisce dalla “visione del processo competitivo inteso come meccanismo per la produzione ottimale di incentivi” (ed ecco la ratio regolatoria), nella quale “il consumatore viene concepito proprio come un imprenditore di per sé stesso, e cioè come un individuo meritevole della protezione necessaria per garantirgli la possibilità di scambiare facilmente il suo reddito disponibile con beni di consumo (…), come un individuo che si confronta con un set di opportunità e rischi che deve saper sfruttare al meglio. Quindi,in definitiva “come ogni buon imprenditore, anche il consumatore è chiamato ad elaborare le strategie più appropriate che gli consentano di muoversi al meglio all’interno di un territorio insidioso”.
Le parole dell’Autore mi sembrano illuminanti sulla logica e confermano, aiutando a comprendere meglio. quanto già anticipato e ricordato più volte nella presente trattazione: la Direttiva sulle PCS (e la normativa di recepimento) si pone come un provvedimento di armonizzazione e regolazione del mercato, prima ancora che di tutela del consumatore.
La Direttiva e la riforma del codice del Consumo che ne consegue si inseriscono infatti in una nuova fase della tutela del consumatore, che tende ad andare oltre il diritto dei consumatori in senso stretto e privatistico e ad avvicinarsi sempre di più ad un modello di tutela e regolazione, allargato ed integrato, delle imprese e del mercato119. L’identificazione del consumatore secondo le categorie della debolezza contrattuale e strutturale non appartiene più a tale fase della politica comunitaria e viene quindi correttamente rifiutata.
del consumatore medio nella disciplina comunitaria delle pratiche commerciali scorrette sia “una categoria con finalità normative”.
119 Per una lettura dell’evoluzione delle politiche comunitarie a tutela del consumatore si veda ampiamente X. XXXX, Introduzione al diritto dei consumatori, Bari-Roma, 2006, p. 45 ss. Sinteticamente potrebbe dirsi che, ad una prima fase incentrata essenzialmente su una tutela individuale e di carattere successivo, legata alla sicurezza dei beni e dei prodotti e garantita dal diritto al risarcimento del danno, si passa ad una seconda fase, rivolta essenzialmente al contratto e alle modalità idonee ad offrire una protezione degli interessi economici dei consumatori, di carattere orizzontale e rappresentata dalla normativa sulle clausole abusive. Solo di recente, l’attenzione si incentra essenzialmente su quelle che potremmo definire “regole del mercato” e l’obiettivo si sposta, dunque, verso una tutela generale e di carattere preventivo in cui il consumatore non è più solo portatore di interessi individualmente protetti, ma è anche portatore di interessi diffusi.
Il modello legislativo, adottato nella nuova disciplina sulle PCS, si rivela, diversamente, come un modello di organizzazione dell’attività di impresa, e più in particolare del linguaggio dell’impresa, piuttosto che un modello di tutela individualistica dei consumatori120.
Quella del consumatore medio rappresenta quindi una scelta normativa che rispecchia il “nuovo corso” di cui la Direttiva - e la normativa di recepimento - sono espressione, che tende a passare dalla tutela del consumatore individuo alla tutela del consumatore – domanda.
Il consumatore cui è rivolta la tutela contro le pratiche commerciali scorrette, insomma, non è il singolo individuo, ma è espressione della generalità di una categoria, o meglio ancora, di una leva del mercato121. La logica di tipo individualistico pare scomparire per cedere il posto a quella di tipo concorrenziale. Come è stato osservato, infatti, a seguito delle integrazioni introdotte nel codice del consumo dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, “il consumatore
«persona fisica», parte di un concreto assetto di interessi, si astrae in un mero riferimento, un metro di valutazione della diligenza professionale atto a specificare i limiti entro i quali può esplicarsi liberamente la modalità delle offerte”. In questa prospettiva, il ruolo del consumatore, per certi versi esclusivamente potenziale, viene ad indicare “un aspetto macroeconomico”, che assume come riferimento non l’agire del singolo nella sua individualità, “ma l’agire del singolo come espressione della domanda in generale”122.
120 Così CAMARDI C., op.cit. p. 411.
121 Sul punto è stata rilevata - X. XXXXXXXX, “Ruolo dei divieti di pratiche commerciali scorrette e dei divieti antitrust nella protezione (diretta e indiretta della libertà di scelta) del consumatore”, in AIDA, 2008, pp. 297-303 - una certa complementarietà tra la normativa antitrust e le norme sulle PCS: “la possibilità di scegliere fra una vasta gamma di prodotti o di offerte, in concorrenza fra loro, sostenuta dai divieti antitrust, accresce lo spettro di autodeterminazione del consumatore protetto dai divieti di pratiche commerciali scorrette. E la possibilità di fare scelte di consumo non condizionate da pratiche commerciali scorrette, a sua volta, accresce la possibilità che la concorrenza abbia esiti di una qualche utilità sociale”.
122 X. XXXXX XXXXXX, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette in Europa e dir. privato, 2010, p. 68. L’Autore continua con queste parole “Suscita particolare interesse costatare che, malgrado l’operazione di riassetto normativo realizzata dal codice del consumo a seguito di una legge delega che prendeva espressamente a riferimento il “consumatore”, quale polo di aggregazione e quale figura (tendenzialmente) unitaria, le altre discipline di settore mostrano all’interprete una figura di consumatore frazionata e destrutturata, consentendo di rilevare la cifra della
Non solo, ma in questo contesto, escluso quindi che di consumatore si possa parlare come di una categoria in senso tecnico, vista anche la segmentazione che tale figura va via via incontrando (il consumatore è, non solo, il parametro di riferimento di tutta la disciplina oggetto di indagine, ma è, di volta in volta, il cliente, l’assicurato, l’invetsitore, il turista, etc….), emerge chiaramente l’insufficienza di una ricognizione del consumatore solo ed esclusivamente basata su criteri soggettivi123, e per contro, l’importanza di individuare il cd. “mercato di riferimento”. Così, la “nozione” di consumatore si concretizza e si specifica alla luce delle caratteristiche del mercato (e quindi dei prodotti e/o servizi) in cui agisce, assumendo varie connotazioni con riferimento alle regole applicative, di quel “mercato” nel quale la figura di volta in volta si colloca. In questa prospettiva si’inserisce il novellato Codice del consumo, in cui il criterio seguito nell’aggregazione di discipline frammentate (pratiche commerciali, pubblicità, operazioni di marketing, azioni o omissioni, ingannevoli o aggressive, etc…) non è incentrato sulla figura soggettiva, quanto piuttosto sul procedimento di consumo.
Ebbene, alla luce di quanto detto, pare potersi concludere che, con l’introduzione fatta dalla Direttiva della nozione di consumatore medio, più che due distinte elaborazioni dei soggetti meritevoli di tutela - da un lato, il consumatore sic et simpliciter, e dall’altro, il consumatore medio124, parrebbe emergere un duplice ordine di regole di tipo competitivo: le une appartenenti alla disciplina tradizionale della concorrenza sleale e tese a tutelare i professionisti e i concorrenti sul mercato, le altre, che traggono origine dall’evoluzione europea delle politiche pro consumeristiche e che sono tese a fare sì che nell’esercizio della competizione
modernità che, come è stato acutamente e autorevolmente detto, «non considera più l’uomo intero, ma l’uomo frazionario e vi adatta forme del diritto, del sapere, del fare».”.
123 X. XXXXX XXXXXX, op. cit., p. 88 “Il riferimento al solo criterio soggettivo come criterio idoneo a consentire la identificazione dell’ambito di applicazione di determinate discipline palesa, pertanto, la sua insufficienza”. E ancora “La disciplina del mercato – ancora una volta inteso non come entità a sé stante, ma come luogo in cui si creano, attraverso la «certezza del diritto», strumenti utili a comporre i potenziali conflitti di interessi anche ed essenzialmente attraverso la prevenzione – è sicuramente la prima forma di tutela del consumatore”.
124 X. XXXXXXXXX, op. cit., p. 143.
economica la rappresentazione dei prodotti e dei contratti che il mercato riceve sia conforme alle reali caratteristiche dei medesimi e sia veritiera125.
Premesso quanto sopra, appare ora interessante soffermarsi sull’interpretazione che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha dato della nozione finora esaminata di consumatore medio.
Ebbene, va rilevato che nella sua prassi decisionale, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato sembra, aver sposato una nozione ben più “ampia” del consumatore tutelato dalla normativa in materia di PCS, di fatto estendendo la tutela anche a quei consumatori che non compiono alcuno sforzo per attivarsi nella ricerca delle più basilari informazioni relative ai prodotti o servizi che vanno ad acquistare. Tale approccio tenuto in sede amministrativa ha peraltro, sino ad oggi, ottenuto il pieno avallo da parte del giudice amministrativo.
Così, ad esempio, in un caso avente ad oggetto la promozione commerciale di macchine da caffè, il TAR Lazio ha ritenuto che “la censura di carenza di istruttoria perché non vi sarebbe stata alcuna indagine sulla identificazione della tipologia concreta di “consumatore medio” da assumere a riferimento nel caso di specie non è persuasiva atteso che il bene oggetto delle promozioni è un prodotto di largo consumo e non un prodotto con caratteristiche tali da essere rivolto a consumatori dotati di particolari esperienze e conoscenze, per cui è da ritenersi ragionevole, a prescindere da altre specifiche attività istruttorie, che la promozione in discorso sia stata ritenuta idonea ad indurre in errore il consumatore medio”126. In verità, tale motivazione appare del tutto insoddisfacente, in quanto, proprio perché il bene oggetto delle promozioni in questione non richiedeva conoscenze superiori a quelle di un consumatore “normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”. L’Autorità avrebbe dovuto analiticamente verificare l’idoneità delle pratiche indagate ad influenzare il comportamento di un siffatto “consumatore medio”. È bene ricordare infatti, che solo nei casi in cui la pratica commerciale si rivolga a categorie “svantaggiate” di consumatori, il Codice del Consumo prevede (art. 20, comma 3) che debba tenersi conto di questa loro
125 Ancora CAMARDI C., op. cit., p. 411.
126 TAR Lazio, Sez. I, sentenza n. 5626 del 15 giugno 2009 Nespresso Italiana S.p.A. c. Autorità.
situazione di “inferiorità” nella valutazione della legittimità della pratica. D’altra parte, nella misura in cui al TAR sembra suggerire che, nel caso di specie, era ragionevole attendersi un abbassamento del livello di conoscenze dei consumatori destinatari delle attività promozionali in questione, poiché le stesse avevano interessato un numero vastissimo di consumatori (a ciò sembra, infatti, alludere il riferimento al fatto che “il bene oggetto delle promozioni è un prodotto di largo consumo”), tale pronunzia abbraccia una nozione statistica di “consumatore medio”, in palese contrasto con quanto precisato dalla Direttiva e dalla richiamata giurisprudenza comunitaria. Il riferimento a un consumatore medio inteso in senso statistico è, del resto, ancora più esplicito in altre decisioni dell’Autorità.
Così ad esempio, nel caso PS/333-Telecom-Retention Ingannevole, l’Autorità ha affermato che “per quanto riguarda l’individuazione del profilo del consumatore medio ritenuta applicabile nella fattispecie - l’enorme diffusione dell’attività svolta [...], che ha impattato su una larghissima platea di utenti, all’interno della quale non è riscontrabile soltanto un elevato grado di informazione, ma, neppure, un’omogenea diffusione della consapevolezza in ordine alle caratteristiche intrinseche dell’offerta”. In tal modo, però, anziché valutare il comportamento di un ideale “consumatore medio”, l’Autorità finisce per fare riferimento ad un concetto di consumatore medio inteso in senso statistico, contravvenendo così ancora una volta a quanto prescritto dalla Direttiva – che, come già ricordato, ha precisato che “la nozione di consumatore medio non è statistica”.
Analogamente insoddisfacente è la sentenza che ha ritenuto andare esente da censure, sotto il profilo del consumatore preso a riferimento, una decisione dell’Autorità che censurava le attività di vendita di biglietti aerei tramite internet da parte di uno dei principali vettori nazionali, ritenendo che non fosse possibile presumere che “il consumatore medio coincida con un modello di consumatore che abbia dimestichezza e frequentazione con siti internet e soprattutto con procedure automatizzate di acquisto”127. Tale affermazione sembra, invero, ribaltare la presunzione posta dal legislatore di un consumatore medio “normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”, peraltro rivelando un’intrinseca
127 TAR Lazio, Sez. I, sentenza n. 5809 del 19 giugno 2009, Meridiana S.p.A. c. Autorità.
contraddizione nella misura in cui – senza alcuna specifica ragione – suppone che chi faccia acquisti on-line non abbia dimestichezza con tale strumento. Nello stesso senso, in Fastweb c. Autorità128, il TAR ha affermato che “la nozione di consumatore medio [...] individua un tipo di consumatore [che] non coincide [...] con un ‘tipo’ riconducibile a un consumatore che abbia particolare dimestichezza e frequentazione di siti internet, che gli consentano di ‘districarsi’ tra ‘link’, ‘F.A.Q.’ ‘pop up’, rinvii da una ad altra sezione del sito”, con ciò immotivatamente ritenendo che, al fine di verificare la correttezza e completezza delle condizioni contrattuali di un’offerta commerciale riportate sul sito internet di un fornitore di servizi di telefonia, siano necessarie “particolare dimestichezza e frequentazione di siti internet”. Infine, anche l’unico caso di timidissima apertura nei confronti di una più attenta considerazione della rilevanza della prospettiva del “consumatore medio”. ai fini della valutazione della sussistenza di una PCS, si rivela in realtà del tutto insoddisfacente nelle motivazioni. Ci si riferisce alla sentenza in data 16 giugno 2009 n. 5695, Moby S.p.A. c. Autorità, con la quale il TAR Lazio, dopo aver rilevato “l’appurata percepibilità del costo finale nell’ambito dello stesso messaggio pubblicitario, per la cui apprensione il pretendibile livello di avvedutezza, diligenza ed attenzione da parte del consumatore non richiedeva particolari conoscenze e/o attitudini (ben potendo il messaggio, nella sua completezza, rivelarsi fruibile anche da un utente non particolarmente qualificato né sotto il generale profilo cognitivo e/o culturale, né per quanto concerne lo specifico settore merceologico in questione)”, ha poi contraddittoriamente ritenuto che tale circostanza consentisse di escludere, non già la sussistenza stessa di una PCS, ma unicamente “che la motivazione con la quale l'Autorità [aveva] sanzionato come ‘grave’ la violazione perpetrata [potesse] essere condivisa”.
Tale minima apertura non sembra, peraltro, avere avuto alcun seguito nelle successive pronunce del giudice amministrativo. In una recente sentenza129, il TAR ha, infatti, ritenuto irrilevante ai fini della valutazione sull’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario diffuso su un sito internet, il fatto che informazioni
128 TAR Lazio, Sez. I, sentenza n. 8673 del 14 settembre 2009 Fastweb c. Autorità.
129 TAR Lazio 21.01.2010 n. 646, Telecom Italia S.p.A. c. Autorità.
complete su costi e caratteristiche essenziali dei servizi offerti fossero rese “accessibili attraverso la consultazione dei vari link che, dalla pagina principale del sito, rinviano alle condizioni economiche dell’offerta” (ibidem). Il TAR ha, infatti, in proposito ritenuto corretto l’approccio dell’Autorità secondo cui “le informazioni di fondamentale importanza per i consumatori, ai fini della valutazione della convenienza dell’offerta, debbano comunque essere rese loro disponibili fin dal primo contatto pubblicitario130. Vale a dire che sebbene, in linea di principio, l’elaborazione di pagine web si presti, più agevolmente rispetto ad altri mezzi di comunicazione, ad un’informazione completa ed esauriente, l’analisi della correttezza della comunicazione commerciale va, anche in tali ipotesi, effettuata caso per caso, attraverso un’attenta analisi della struttura del sito, non potendosi escludere che, accanto a consumatori particolarmente smaliziati, in grado di accedere ad ogni informazione ivi presente, ve ne siano altri che, invece, si fermeranno al primo livello, senza volere, o sapere, effettuare ulteriori approfondimenti”..
Ad avviso del TAR, la tecnica del rinvio ad un link ipertestuale non esime il professionista dall’obbligo di rendere chiaramente accessibili e percepibili, “sin dalla prima pagina del sito web (o, comunque, sin dal primo livello di navigazione) le caratteristiche essenziali dell’offerta. Nel caso di specie, invece, non appare dubbia l’ambiguità del messaggio incentrato, come rilevato dall’Autorità, sulla possibilità di scaricare un dato contenuto e non anche sulla necessaria attivazione dell’abbonamento, mentre tutte le indicazioni circa costi, durata e modalità di disattivazione dell’abbonamento medesimo ‘sono celate all’interno delle sezioni relative ai singoli gestori di telefonia mobile che offrono i servizi di cui si tratta in collaborazione con la società Buongiorno.
In sostanza, con tale pronuncia, il TAR espressamente ha affermato che la normativa in materia di PCS tutela anche quei consumatori che, prima di procedere all’acquisto di un bene o servizio, non si informino – pur potendo agevolmente farlo – su costi e caratteristiche del bene o servizio che stanno per acquistare.
130 Similmente i procedimenti XX0000 - Xxxxxxxx Tariffe Ponte del 13.12.2001 e PI 3268 Poste Italiane – Posta Celere del 31.5.2001.
Davvero non è dato comprendere perché questa tipologia di consumatori, “distratti” e “sprovveduti”, meriti tutela da parte di un’autorità preposta al corretto funzionamento del mercato.
La lettura particolarmente ampia data dall’AGCM e dal TAR alla nozione di consumatore medio sembra andare di pari passo peraltro con un'altra fuorviante interpretazione, quella della cosiddetta asimmetria informativa tra consumatore e professionista. In sostanza, partendo dalla rilevazione dell’esistenza di un’asimmetria informativa, l’Autorità ha ritenuto, adottando anche in tal caso un atteggiamento “paternalistico”, che il professionista debba esser tenuto a colmare tutte le eventuali carenze informative dei consumatori. Tale approccio non tiene, tuttavia, conto del fatto che, in realtà, l’esistenza di asimmetria informativa è una caratteristica costante dei rapporti tra professionisti e consumatori e che, proprio a tale asimmetria, si propone di porre rimedio la normativa in materia di PCS. Di conseguenza, il mero rilievo dell’esistenza di un’asimmetria informativa non può costituire ragione sufficiente all’innalzamento del livello di tutela da parte dell’Autorità. Quest’ultima dovrebbe, infatti, sempre verificare, con riferimento ad ogni singolo caso concreto, se il “consumatore medio” sarebbe in grado di superare l’asimmetria informativa esistente, o se, invece, tale carenza di informazioni avrebbe potuto esser colmata solamente dal professionista. Di una tale valutazione e analisi non vi è traccia alcuna nella prassi decisionale dell’Autorità.
. (cfr., ad es., per il settore delle telecomunicazione, PS/1270-Vodafone-ostacoli alla migrazione e retention ingannevole e PS/333- Telecom-Retention Ingannevole; per il settore finanziario, PS/1192-Portabilità mutuo-Banca Antonveneta, PS/2294- Asfina-omessa indicazione tan e taeg, PS/2082- Finecobank-pubblicità tasso di interesse; nel settore energetico, PS/2498-ENI-10% di sconto per sempre; PS/376- Sorgenia-fornitura energia elettrica e PS/91-Enel Energia-Richiesta cambio fornitore).
L’analisi sin qui condotta dimostra che nella prassi decisionale e giurisprudenziale ad oggi sviluppatasi ha prevalso un’interpretazione particolarmente estensiva della normativa in materia di PCS, a partire dalle nozione centrale di consumatore
medio131. In primo luogo, si è visto come – anche attraverso il richiamo alla rilevanza del fenomeno dell’asimmetria informativa – l’Autorità mostri la tendenza a fornire tutela anche ai consumatori meno avveduti e responsabili. D’altra parte, la significativa e, a nostro giudizio, eccessiva dilatazione della nozione di “pratica commerciale” ha indotto l’Autorità ad occuparsi talvolta di isolati e sporadici episodi, che non sembravano davvero rappresentativi di un modus operandi del professionista. Sussiste dunque qualche perplessità in merito all’ortodossia, sul piano strettamente normativo, e alle soluzioni ermeneutiche adottate nella prassi decisionale dell’Autorità e, in larga misura, finora avallate dai giudici amministrativi. D’altra parte, queste ultime sembrano porsi in contrasto con la missione istituzionale affidata all’Autorità, che, anche attraverso il nuovo strumento della normativa a tutela dei consumatori, viene chiamata a intervenire per reprimere i fenomeni che possono mettere a rischio il corretto funzionamento del mercato. Al di là della dubbia opportunità, secondo alcuni, che le risorse dell’Autorità siano impiegate in attività di enforcement pubblicistico della normativa in materia di PCS rispetto a “pratiche” che, in alcuni casi, non hanno alcuna reale diffusione sul mercato, un tale orientamento sembra configgente con l’enforcement dato a tale normativa in altri paesi membri dell’Unione europea.
2.6 Le pratiche commerciali ingannevoli e la pubblicità ingannevole fra divergenze e similitudini.
Il Considerando n. 10 della Direttiva recita come segue:
“E’ necessario garantire un rapporto coerente tra la presente direttiva e il diritto comunitario esistente, soprattutto per quanto concerne le disposizioni dettagliate in materia di pratiche commerciali sleali applicabili a settori specifici. La presente direttiva modifica pertanto la direttiva 84/450/CEE (…)132”.
131 Altrettanto estensiva pare essere la ricostruzione del concetto di “pratica commerciale” operata dall’AGCM.
132 Si tenga presente, tuttavia, che la Direttiva in esame tocca e modifica anche altre normative di settore ed infatti il richiamato Considerando non omette di menzionare la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo in materia di contratti a distanza fra professionisti e consumatori e la direttiva 2002/65/CE sulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori.
Abbiamo visto sopra, come la Direttiva e i decreti legislativi di attuazione della stessa presentino numerose zone di sovrapposizione con altre normative comunitarie e nazionali già esistenti. In particolare, quando ci si accinga ad affrontare il tema delle pratiche commerciali ingannevoli, il confronto con la disciplina della pubblicità ingannevole diviene inevitabile.
Non può sfuggire, infatti, come la nozione di pratica commerciale ingannevole offerta dal Codice del consumo all’art. 21 richiami immediatamente quella di pubblicità ingannevole oggi contenuta all’art. 2 lett. b) del d. lgs. 145/2007: così l’art. 21 cod. cons. definisce una pratica commerciale come ingannevole, se la stessa “contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, che induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso” 133.
Similmente, la pubblicità ingannevole era (ed è tuttora) definita come: “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione induce o è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali essa si rivolge o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente” (2 lett. b) del d. lgs. 145/2007) 134.
Si è visto anche come l’attuale impianto legislativo sia il frutto della scelta del legislatore italiano di lasciar sopravvivere due distinte discipline, al momento dell’attuazione della Direttiva, l’una sulle PCS e l’altra sulla pubblicità ingannevole e comparativa, nonché di un lavoro, per così dire, di “taglia-e-incolla” a seguito del quale la Parte II, del Codice del Consumo - dedicata alla pubblicità ingannevole - è
133 Gli elementi cui si fa riferimento nel prosieguo del testo normativo sono sette e vanno dalla natura del prodotto, alle sue caratteristiche, agli impegni del venditore, al prezzo, alla necessità di manutenzione, alla qualifica del professionista, ai diritti del consumatore.
134 La definizione costituisce trasposizione fedele della definizione contenuta nell’art. 3 della Direttiva 84/450/CEE, oggi codificata nella direttiva 2006/114/CEE, entrata in vigore il 12 dicembre 2007, pubblicata nella G.U.C.E. n. L. 376 del 27 dicembre 2006, pag. 21 e ss. e dettata per sostituire i contenuti precettivi quali risultanti dalle modifiche apportate prima dalla Direttiva 97/55/CE e successivamente dall’articolo 4 della Direttiva 2005/29/CE parzialmente modificando la distribuzione degli articoli ed adeguando la formulazione dei considerando.
stata sostituita dal decreto legislativo 146/2007, recante la disciplina delle pratiche commerciali “scorrette” ed è confluita in un autonomo provvedimento, il decreto legislativo 145/2007, ad oggi ancora privo di una sua collocazione sistematica.
È corretto quindi dire che, anche a seguito dell’introduzione della disciplina sulle PCS, un’autonoma disciplina della pubblicità continua a vigere anche nell’attuale sistema, ma essa adesso è dedicata unicamente alle relazioni business to business, mentre per ciò che riguarda le relazioni business to consumer essa è stata in qualche modo inglobata nella disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, che come noto includono la pubblicità. Attraverso quindi l’escamotage della separazione degli interessi tutelati e dei soggetti destinatari delle norme e delle rispettive tutele, il legislatore ha creato il cosiddetto “doppio binario di tutela”135, dando vita ad una frattura rispetto al precedente sistema normativo in materia di pubblicità che sotto tale profilo si presentava assolutamente unitario. Xxxx è che, cosi facendo il legislatore del 2007 ha certamente posto rimedio ad un sostanziale errore “sistematico” in cui era incorso nel 2005, inserendo le norme in materia di pubblicità all’interno del codice del consumo, dall’altro lato, tuttavia, è venuta meno l’unitarietà della disciplina del fenomeno pubblicitario, quanto meno a livello di normativa applicabile. Prima di entrare nel dettaglio delle pratiche commerciali ingannevoli in rapporto con la vigente disciplina della pubblicità ingannevole, appare opportuno dedicare alcuni cenni generali alla disciplina della pubblicità, prima dell’attuazione della Direttiva, al fine di metterne in luce i tratti essenziali.
2.6 (segue) La pubblicità prima dell’entrata in vigore della Direttiva.
Come noto, la pubblicità, designa nell’accezione corrente, la comunicazione rivolta al pubblico per stimolarlo al compimento di un certo atto economico, in genere consistente nell’acquisto di beni o servizi136.
135 LEONE A., Pubblicità ingannevole e pratiche commerciali scorrette fra tutela del consumatore e delle imprese, in Il diritto industriale 3/2008, pp. 255 ss.
136 Per una completa e analitica lettura del fenomeno pubblicitario, in chiave normativa, ma non solo, si veda FUSI – TESTA, Diritto e Pubblicità, Lupetti, 2006. Per quanto concerne i profili aziendalistici della nozione di pubblicità, si veda PRATESI, “Il punto di vista dell’aziendalista”, in XXXXXXXXX E. E ROSSI XXXXXX L., op.cit.; XXXXXX P., La disciplina della pubblicità in XXXXXX,
Da un punto di vista più strettamente economico e/o aziendalistico, in particolare, la pubblicità è una forma di comunicazione al pubblico, adeguatamente veicolata, attraverso i mass media o comunque attraverso mezzi idonei a trasmetterla ad un numero indeterminato di persone, che “crea bisogni”, facendo insorgere nei consumatori il proposito commerciale.
Essa si configura, pertanto, come atto promanante dall’impresa e quindi, atto dell’impresa stessa, motivo per il quale la pubblicità è un atto rilevante non solo per l’economia, ma anche per il diritto137.
D’altra parte, la pubblicità non esaurisce la sua rilevanza giuridica nell’ambito del rapporto privatistico tra impresa e consumatori, al fine di indurre questi ultimi ad acquistare bene/servizi, ma gioca un ruolo fondamentale anche nell’ambito dei rapporti tra le stesse imprese, e in particolare fra imprese concorrenti, divenendo così materia di interesse anche sotto il profilo della concorrenza, e, più in particolare della concorrenza sleale (art. 2598 ss. c.c.).
Infine, il fenomeno pubblicitario, assume rilievo per l’intera collettività e anche da un punto di vista pubblicistico, essendoci, oltre all’interesse privato dei singoli consumatori e delle singole imprese di volta in volta coinvolti, interessi pubblici giuridicamente rilevanti, quali, il buon funzionamento del mercato, un’efficiente concorrenzialità dello stesso, l’ordine pubblico, la pubblica morale, la tutela dei minori, della salute, della sicurezza, la fruizione dei mass media, etc….
Orbene, quando ci si occupa di pubblicità, sotto il profilo giuridico, ci si occupa di tutti questi interessi, facenti capo alle diverse categorie di soggetti o, comunque, e di valori sopraddetti.
FLORIDIA, XXXXXXX, XXXXXXXX, XXXXXXX, SPADA, Diritto industriale Proprietà intellettuale e concorrenza, II ed, Torino. XXXX X., La repressione della pubblicità ingannevole - Commento al decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74”, 1994, Giappichelli. Si veda inoltre FUSI – TESTA – XXXXXXXXX, La pubblicità ingannevole, Milano, 1993, pp. 89 ss.
137 Da un punto di vista civilistico nella pubblicità è possibile ravvisare infatti una serie di atti, come dicevamo, d’impresa, assolutamente rilevanti per il diritto poiché posti in essere dall’impresa al fine ultimo di promuovere proposte di contratto da parte di altri soggetti: offerta al pubblico (art. 1336 cod. civ.), promessa al pubblico (art. 1989 cod.civ.), invito ad offrire.
137 Un tale atteggiamento di “incredibile benevolenza nei confronti dell’inganno commerciale” non ha mancato di suscitare ampie critiche da parte della migliore dottrina: XXXXXXXX, La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista di Diritto Civ., I, 1964, 608 e ss.
Il diritto quindi si occupa in primis di definire i confini di liceità della pubblicità al fine di presidiare i suddetti interessi/valori. È bene ricordare tuttavia che, fino a qualche decennio fa, il diritto del consumatore ad una pubblicità veritiera e trasparente era riconosciuto solo indirettamente, attraverso il richiamo all’art. 2598
n. 3 c.c. sulla concorrenza sleale. nonostante un atteggiamento complessivamente benevolo da parte della giurisprudenza verso il mendacio pubblicitario, fondato sulla teoria del dolus bonus138, non si dubitava, infatti, che qualsiasi comunicazione idonea a trarre in inganno il pubblico fosse contraria a correttezza professionale e fosse quindi atto di concorrenza sleale, e che tale condotta facesse venire meno uno dei presupposti fondanti del buon funzionamento del mercato che è appunto la libera e consapevole scelta del consumatore139. D’altro canto, come noto l’art. 2598
c.c. attribuisce la legittimazione ad agire solo e unicamente ai concorrenti e alle loro associazioni. Pur riconoscendo, quindi, un pregiudizio al diritto dei consumatori, l’ordinamento giuridico statale non riconosceva loro alcuno strumento di tutela e/o di reazione contro tale pregiudizio (idoneo peraltro a tradursi in un pregiudizio per il mercato stesso)140.
La prima disciplina legislativa nazionale che introduce un sistema di regole e appresta forme di tutela diretta ai consumatori è quindi il decreto legislativo 25
138 Un tale atteggiamento di “incredibile benevolenza nei confronti dell’inganno commerciale” non ha mancato di suscitare ampie critiche da parte della migliore dottrina: XXXXXXXX, 1964, op.cit.
139 Merita ricordare che la funzione riconosciuta alla concorrenza sta infatti nella selezione dell’offerta migliore che garantisce la migliore allocazione delle risorse.
140 Si noti però, che prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo sulla pubblicità ingannevole, esisteva il sistema autodisciplinare che dal momento della sua entrata in vigore (1966) fino al ’92 ha di fatto rappresentato l’unica forma di controllo della pubblicità. Il Codice di Autodisciplina pubblicitaria adottato, nella sua prima edizione dall’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, quale associazione non riconosciuta costituita dai rappresentanti delle varie categorie di operatori pubblicitari (agenzie pubblicitarie, mezzi di diffusione, loro concessionari, etc…) è giunto oggi, alla sua cinquantunesima edizione, entrata in vigore l’11 gennaio 2011. Secondo l’attuale versione la "comunicazione commerciale" (non più, quindi, la pubblicità), comprende la pubblicità e ogni altra forma di comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali che siano le modalità utilizzate, nonché le forme di comunicazione disciplinate dal titolo VI. Non comprende le politiche commerciali e le tecniche di marketing in sé considerate”. Si veda Testa P., Codice di autodisciplina pubblicitaria in L.C. UBERTAZZI (a cura di) Commentario breve alle leggi sulla proprietà intellettuale e la concorrenza, IV ed., Xxxxx; XXXXXXXX B., Autodisciplina pubblicitaria e ordinamento statuale, Xxxxxxx Editore, 2003.
gennaio 1992 n. 74, attuativo della Direttiva 84/450/CE141, avente ad oggetto la pubblicità, ed in particolare la pubblicità ingannevole.
Oltre a sancire i caratteri fondamentali della pubblicità (v. art. 1 comma secondo: “La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta” e art. 4 “Trasparenza della pubblicità”), il d. lgs. 74/92, vietava la pubblicità cd. ingannevole, vale a dire la pubblicità che in qualunque modo inducesse (o fosse idonea a indurre) in errore i suoi destinatari e che, per il suo carattere ingannevole, potesse pregiudicarne il comportamento economico ovvero ledere un concorrente. Esso, inoltre, prevedeva la competenza a dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato a decidere sui ricorsi in materia (art. 7), nonché la possibilità per le parti di adire preventivamente un organo autodisciplinare (Istituto di autodisciplina o altro organo autodisciplinare previsto), che già rivelava un timido tentativo di coordinamento fra le due procedure dinnanzi ai due distinti organi (art. 8) che vedremo replicato oggi sia con riguardo alle PCS che alla pubblicità ingannevole.
La disciplina di cui al d. lgs. 74/1992 è stata poi integrata alla luce di una nuova direttiva comunitaria (la n. 97/55/CE) che ha reso lecita, seppure entro certi limiti, la cd. pubblicità comparativa (poi recepita in Italia dal d.lgs. 67/2000) nonchè da altre normative142. L’attenzione rivolta al consumatore, in materia di pubblicità subisce quindi, dagli anni ’90 in poi, una sostanziale impennata, al punto da dettare alcune scelte sistematiche del nostro legislatore, non tutte completamente
141 Prima del ’92 era dato rinvenire in Italia alcune normative di settore aventi ad oggetto la disciplina della pubblicità, che si proponevano di tutelare il pubblico in generale ed anzi in prima battuta i consumatori, ma si trattava di interventi di settore (farmaceutico, alimentare, etc..) o comunque riguardanti particolari modalità/mezzi di diffusione del messaggio pubblicitario (quali radio, televisione, etc..). Secondo l’art. 2 lett. a), del richiamato decreto la pubblicità è “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi ovvero la prestazione di servizi”. Una definizione, peraltro di pubblicità, già si rinveniva nell’allora vigente Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, che confermando l’accezione di pubblicità allora data dalle raccolte di usi ufficiali avvallate dalle alcune delle più importanti Camere di Commercio italiane (quella di Milano in particolare del 1988, e successivamente quelle di Vicenza e Bari) definiva pubblicità “ogni comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni servizi quali che siano i mezzi utilizzati”.
142 Fra queste vanno menzionate la legge n. 281/1998, che ha riconosciuto alle associazioni dei consumatori accesso alla tutela degli interessi collettivi di questi ultimi al fine di ottenere l’inibitoria cautelare e la L. n. 49 del 29 aprile 2005 (c.d. legge "Giulietti"), conferendo il carattere di sanzione amministrativa alle violazioni delle sue prescrizioni, con la previsione di ammende pecuniarie da un minimo di € 1.000 ad un massimo di € 100.000.
condivisibili. Ed infatti, nel 2005, si assiste ad un intervento di risistemazione organica dell'intera disciplina in tema di tutela dei consumatori in un unico testo. Si tratta del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, c.d. Codice del consumo, che armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti. A seguito di tale intervento, il D.Lgs. n. 74/92 viene assorbito, trovando la sua collocazione nel Titolo III, Capo I e II, "Pubblicità e altre comunicazioni commerciali", negli articoli che vanno dal 18 al 27, senza alcuna modifica di natura sostanziale143. Ebbene, nonostante il ruolo, riconosciuto dal nostro legislatore al consumatore e alla tutela del suo diritto soggettivo ad essere correttamente informato e a non essere ingannato attraverso messaggi pubblicitari ingannevoli, è stato già rilevato come una tale collocazione, comprensibilmente, sia sembrata ad alcuni non completamente appropriata e in parte fuorviante144. In linea di principio, il Codice del consumo avrebbe dovuto contenere disposizioni esclusivamente a tutela del consumatore, mentre invece le norme in materia di pubblicità allora introdotte erano chiaramente e dichiaratamente finalizzate a tutelare interessi, non solo dei consumatori, ma anche dei professionisti e, del pubblico in generale145. Tant’è che, nelle norme sulla pubblicità introdotte, ed in particolare al precedente art. 18 del codice del consumo, veniva adottata una definizione di consumatore “allargata”, comprensiva anche delle persone giuridiche, rispetto a quella restrittiva data dall’art. 3 del codice del consumo, che comprendeva solo il consumatore persona fisica. Vi è di più, come è stato evidenziato, la disciplina della pubblicità, costituiva
143 Sugli artt. 19 – 27 del d. lgs. 205/2006 nei quali la disciplina della pubblicità ingannevole era stata trasfusa dal 2005, si vedano i commenti inseriti in AA.VV. Codice del consumo, ALPA E ROSSI XXXXXX (a cura di), Napoli, 2005; AA. VV. Commentario breve alle leggi sulla proprietà intellettuale e sulla concorrenza, a cura di XXXXXXXXX - XXXXXXXXX, 2007, Cedam e DE CRISTOFARO G., Il regime normativo generale della pubblicità, in Le nuove leggi civili commentate, 2008, p. 295 ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
144 Apertamente critico verso l’originaria collocazione della materia pubblicitaria all’interno del Codice del consumo è G. De CRISTOFARO, op.cit, p. 299, il quale, peraltro, se accoglie con favore la scelta del legislatore nostrano del 2007 di non disciplinare più la pubblicità commerciale nell’ambito del codice del consumo, tenuto conto dei destinatari ai quali tale disciplina è rivolta, pare ritenere che forse il decreto legislativo 145/2007, anziché restare isolato, avrebbe potuto trovare collocazione appropriata nell’ambito delle norme codicistiche in materia di concorrenza sleale (all’interno del capo I, titolo X, libro V).
145 Il testo originario dell’art. 19 del Codice del consumo che riprendeva l’art. 1 del decreto n. 74).
un “corpo estraneo” rispetto al codice del consumo perché, a prescindere dalla questione soggettiva, la stessa non è mai disciplina dei rapporti (nella fattispecie tra consumatori e professionisti), ma dell’attività che, come noto, viene censurata per la sua sola idoneità lesiva, trattandosi di illecito di pericolo146.
Ebbene, non ci soffermeremo ulteriormente sui contenuti del d.lsg. 74/92, ma ciò che si vuole sottolineare è l’importanza in un tale provvedimento sotto un duplice profilo: a) innanzitutto, esso riconosce e tutela in modo diretto il diritto del consumatore contro la pubblicità ingannevole. Prima di tale intervento normativo, come ricordato sopra, la tutela del consumatore contro la pubblicità ingannevole passava attraverso la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 cod. civ., il quale peraltro prevedeva (e prevede) che legittimati ad agire siano solamente i concorrenti e le loro associazioni147, mentre lascia esclusi da tale legittimazione i consumatori, i quali, in realtà, costituiscono i soggetti egualmente colpiti pubblicità ingannevole148; b) in secondo luogo e conseguentemente, esso si
146 Alcuna dottrina (MELI) ha ritenuto di dover spiegare una tale collocazione alla luce dell’azione “consumo – centrica”, scatenatasi a livello comunitario a partire dal 2001 (anno in cui vede la luce il Libro verde per la tutela dei consumatori).
147 Si veda l’ordinanza del 21 gennaio 1988, n. 59, Xxxxxxx x. Xxxxxxxxx e al. (in Foro it., 1988, I,
c. 2158), la quale escluse ogni contrasto con l'art. 3 Cost. della limitazione della legittimazione ad agire per concorrenza sleale alle associazioni imprenditoriali ex art. 2601 c.c., rifiutando l'ipotesi di emettere una pronunzia c.d. additiva che evidenziasse il contrasto di detto articolo con il principio di eguaglianza ‘per la parte in cui' non ammetteva, appunto, anche la legittimazione ad agire di associazioni di consumatori i cui interessi fossero direttamente lesi da un atto di concorrenza sleale, come nel caso di una pubblicità gravemente ingannevole — il caso oggetto dell'ordinanza di rimessione alla Corte del Tribunale di Milano (G.I. Xxxxxxx Xxxxxxxx). Colpisce, in particolare, il cuore della motivazione, che investe direttamente anche la clausola generale: “non appare neppure ipotizzabile il confronto” fra associazioni di consumatori “con enti od associazioni che abbiano finalità istituzionali diverse dal potenziamento del mercato”. E perché? Perché le prime “fanno valere interessi del tutto estranei alla correttezza dei rapporti economici di mercato” In assenza di una specifica norma che reprimesse la pubblicità ingannevole, dottrina e giurisprudenza facevano riferimento all’art. 2598 n. 3 c.c. che considera come atti di concorrenza sleale “il comportamento di chi si vale direttamente o indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi e alle regole della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
148 Per una ricostruzione della pubblicità nell’ambito del più ampio fenomeno della concorrenza sleale si veda in particolare FLORIDIA G., E XXXXXX P., IN AA.VV. Diritto industriale, Xxxxxxxxxxxx 2005, Parte IV, Concorrenza e Pubblicità, pp.289 e ss. L'emanazione di uno specifico provvedimento era stata da qualcuno ritenuta superflua, posto che sarebbe stato sufficiente l'ampliamento della tutela concorrenziale offerta contro la pubblicità menzognera, con la previsione di una fattispecie tipica e l'allargamento della legittimazione ad agire anche in capo alle associazioni di consumatori. Si veda in tal senso, di FLORIDIA G., in Corriere Giur., 1985, pp. 102 e ss.. Per un'analisi della regolamentazione della pubblicità ingannevole prima
configura come un provvedimento di carattere unitario e generale posto a tutela di tutti gli interessi coinvolti dalla pubblicità, tanto quelli dei concorrenti, quanto quelli dei consumatori e della collettività.
Stante quanto detto quindi, unico provvedimento assicurava la repressione nei confronti della pubblicità ingannevole, nell’interesse della generalità dei destinatari, di tutti i soggetti, cioè, presenti sul mercato ed in definitiva del mercato stesso149. E ciò secondo una logica perfettamente circolare, oramai avvallata dagli studi in materia di diritto della concorrenza e del mercato, secondo la quale la tutela del consumatore passa di necessità attraverso la tutela della concorrenza, e viceversa: se le imprese, cioè, agiscono correttamente e in maniera virtuosa sul mercato, la concorrenza funziona e il consumatore non potrà che dirsi ben tutelato150. La domanda (i consumatori) e l’offerta (le imprese, i competitors) si equilibrano reciprocamente e consentono la creazione di un mercato concorrenziale.
Orbene, una tale prospettiva è stata completamente modificata dalla Direttiva sulle PCS che, sulla base del dichiarato intento di perseguire in modo elevato e uniforme l’interesse dei consumatori, ha isolato la tutela economica dei consumatori rispetto a quella dei professionisti, creando in materia pubblicitaria il cd. doppio binario di tutela. Ai fini della protezione del consumatore, quindi, la pubblicità non forma più oggetto di autonoma considerazione, essendo rientrata, a pieno titolo, nel novero delle pratiche commerciali ingannevoli (artt. 22 e 23 del Codice del Consumo)151. D’altro canto, nel quadro disegnato dalla Xxxxxxxxx, i professionisti ricevono tutela solo nei confronti della pubblicità ingannevole e comparativa (d. lgs. 145/2007), salvo poi stabilire, la Direttiva, al Considerando n. 6, che la stessa “non riguarda e lascia impregiudicate le leggi nazionali sulle pratiche commerciali sleali che ledono unicamente gli interessi dei concorrenti”. Il criterio adottato dal legislatore,
dell'emanazione delle Direttive Comunitarie in materia GHIDINI G., Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, Milano, Xxxxxxx, 1968.
149 In tale senso ampiamente XXXXXX, op. cit. p. 343.
150 “La compresenza di finalità economiche e sociali non desta stupore: gli interventi comunitari in materia di consumi sono finalizzati a regolare il mercato e a strutturarlo in senso concorrenziale, sicchè il consumatore viene in rilievo più che come soggetto debole, come soggetto economico chiamato a svolgere un ruolo importante e decisivo per il corretto funzionamento di un mercato realmente concorrenziale” così, XXXXXXXXX, op.cit.
151 Non vi sono dubbi che la pubblicità costituisca una forma di pratica commerciale come riconosciuto espressamente dall’art. 18 lett. d) del codice del consumo novellato.
quindi, al fine di garantire coerenza sistematica, è di tipo “soggettivo”, ed in particolare viene individuato nell’interesse tutelato.
Una prima considerazione, dunque, circa l’impatto della nuova Direttiva sul regime della pubblicità riguarda il fatto che la stessa viene privata di uno dei suoi referenti naturali, vale a dire, il consumatore, e dirottata verso la sola tutela degli interessi dei professionisti. Come è stato giustamente rilevato152, ciò in parte stupisce se si riflette sull’origine storica della Direttiva 84/450/Ce e con essa della disciplina comunitaria in materia di pubblicità, poiché la stessa nasce proprio dalla volontà e dall’esigenza di identificare degli strumenti a tutela dell’informazione e dell’educazione del consumatore153 con il cd. “Programma Preliminare della CEE per una politica di tutela e informazione dei consumatori” in cui si fissano 5 diritti fondamentali del consumatore, fra cui quello all’informazione e all’educazione. D’altro canto, come si è visto, con riferimento al settore della comunicazione commerciale, o della pubblicità latu sensu intesa, il consumatore diviene “appannaggio” esclusivo della nuova disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, le quali di contro, apertamente non intendono occuparsi di quelle pratiche che ledono gli interessi dei soli professionisti. Non può tacersi peraltro, il fatto che, l’artificiosa separazione delle tutele che emerge a seguito dell’entrata in vigore e del recepimento della Direttiva viene in parte ridimensionata dalla legittimazione ad agire ex officio in capo alla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato, designata, da ultimo, nel nostro ordinamento come competente anche in materia di pratiche commerciali scorrette oltre che di pubblicità. Ciò che realmente si riscontra è peraltro un’inutile duplicazione dei procedimenti davanti all’AGCM, se si considera che fra l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario di cui all’art. 2 lett. b del decreto legislativo 145/2007, che sono legittimati ad invocare i soli professionisti, e l’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario inquadrabile come pratica commerciale ai sensi dell’art. 18, pare non passare alcuna differenza, se non in termini di destinatario del messaggio. In realtà, qualcuno sostiene che destinatario del messaggio non è sempre e solo necessariamente il consumatore,
152 MELI V., op. cit. p. 14.
153 In G.U.C.E. C 92/01 del 25 aprile 1975.
come naturalmente si potrebbe immaginare, ma in alcuni casi il messaggio si rivolge ai cosiddetti “soggetti intermedi”, vale a dire, a coloro i quali pur non essendo i diretti destinatari dell’offerta, sono comunque in grado di influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori finali (per es. gli stessi rivenditori)154.
2.7 Pratiche ingannevoli e pubblicità ingannevole.
Come visto sopra il decreto legislativo n. 74/92 aveva introdotto nel nostro ordinamento un divieto generale di pubblicità ingannevole, segnando peraltro il passaggio da un’ottica puramente privatistica (contrattuale e concorrenziale) a un’ottica anche pubblicistica, la quale riconosceva apertamente il fenomeno pubblicitario nella sua autonomia e nei suoi caratteri peculiari.
Ebbene, premessi tali cenni, vediamo in cosa la fattispecie pratiche ingannevoli si distingue dalla fattispecie pubblicità ingannevole e come la stessa abbia trovato applicazione nei provvedimenti del garante e del giudice amministrativo.
Sulla base del rilievo delle sopraddette similitudini nella definizione delle relative fattispecie alcuni Autori, hanno sostenuto, almeno inizialmente, che le pratiche commerciali ingannevoli (artt. 6 e 7 della Direttiva e artt. 21, 22 e 23 del Codice del Consumo novellato) altro non fossero che pubblicità ingannevole155.
Invero, alla luce delle richiamate definizioni appare evidente come il giudizio di ingannevolezza nell’ambito del decreto legislativo 74/92 esulasse completamente da qualsiasi valutazione di tipo soggettivo avente ad oggetto la condotta del professionista e si articolasse invece in una valutazione sulle caratteristiche oggettive del messaggio pubblicitario. Ciò sebbene l’elemento della colpa veniva spesso richiamato dalla Autorità ai fini della quantificazione della sanzione. Diversa appare invece oggi la fattispecie pratica scorretta la quale richiede fra i suoi
154 PRATESI, op.cit. p. 194 e ss.
155 Meli V., Le pratiche sleali ingannevoli, in AA.VV., “I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette - Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE”, 2008, op.cit., p. 87. Ma si veda anche più di recente (MELI V. – XXXXXX X. (a cura di), op.cit., 2011, p. ) la revisione da parte dell’Autore stesso della posizione sostenuta inizialmente in cui si propone una lettura della nuova disciplina sulle pratiche commerciali scorrette maggiormente incentrata sul rilievo delle differenze piuttosto che delle similitudini. Questa seconda lettura sembra peraltro la più condivisibile.
elementi costitutivi la contrarietà alla diligenza professionale introducendo così un elemento di tipo soggettivo nella valutazione della condotta.
Venendo quindi a considerare le due clausole che possiamo definire di “specie”, , occupiamoci delle cd. pratiche ingannevoli, tenendo conto che il legislatore comunitario e nazionale si premura di distinguere le ipotesi cosiddette di pratiche in ogni caso ingannevoli e/o aggressive, includendole in una sorta di “black list” sulla valenza della quale si tornerà più avanti. Non solo, con riferimento alle pratiche ingannevoli, il codice del Consumo, alla stregua della Direttiva, precisa che le stesse possono consistere in azioni ovvero in omissioni ingannevoli156.
L’art. 21 del Codice del Consumo dispone che sono azioni ingannevoli le pratiche commerciali che contengono informazioni non rispondenti al vero o che, sebbene di fatto corrette (cioè non false), inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore facendogli assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso. La falsità dell’informazione o, comunque, l’elemento su cui deve cadere l’errore viene dettagliatamente descritto dal legislatore in 7 punti che vanno dalla natura/esistenza del prodotto, inclusa la sua disponibilità, i rischi, i vantaggi, il metodo di fabbricazione (art. 21 lett. a e b) al prezzo e la modo in cui lo stesso è calcolato (art. 21 lett. d), alle dichiarazioni del professionista (art. 21 lett.c). Sempre secondo l’art. 21 secondo comma, la pratica è ingannevole se nella fattispecie concreta induce o è idonea ad indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso e comporti confusione e/o il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni assunti tramite un codice di condotta.
Abbiamo già visto come secondo alcuna dottrina il divieto di azioni ingannevoli come proposto dall’art. 21, altro non costituisce se non una specificazione esemplificativa della più generale categoria di pratiche scorrette previste dall’art. 20 del Codice del Consumo. Anche per i divieti contenuti nelle “liste nere”, basati su una presunzione di ingannevolezza o aggressività della pratica, la ratio resta quella
156 Sul punto, si veda X. XXXXX, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, in Le pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, (a cura di DE XXXXXXXXXX X.), op. cit., p. 147.
delineata dalle clausole generali di divieto delle pratiche ingannevoli, aggressive, o comunque scorrette.
Similmente a quanto avviene in materia di pubblicità ingannevole, pare ragionevole affermare che la ratio e il contenuto stesso del nuovo art. 21 ricalchino quello del d. lgs. 74/1992, e quindi del decreto 145/2007, vale a dire garantire la libertà di scelta consapevole del destinatario del messaggio anche a prescindere dall’effettivo pregiudizio economico subito. La tutela anche in questo caso è in tutto e per tutto preventiva e mira a sventare l’illecito “sul nascere”. Sul punto non paiono esservi dubbi e le sentenze amministrative hanno più volte ribadito che la pratica commerciale scorretta è un illecito di pericolo157 e non di danno. L’affermazione è condivisibile, e non entra in contrasto con la tesi relativa alla consistenza della pratica. Una cosa è l’attuazione o meno di una pratica (cioè il fatto che la stessa sia ancora limitata al livello degli atti preparatori), altro la dimensione della stessa.
Ebbene, prima di passare all’analisi applicativa delle norme sulle pratiche commerciali ingannevoli da parte delle competenti autorità è opportuno approfondire alcuni spunti di carattere civilistico offerti dalla evidente vicinanza della fattispecie che qui ci occupa (pubblicità o pratica commerciale ingannevole che sia) con alcuni istituiti e rimedi di carattere prettamente civilistico. In particolare, alla luce delle nozioni legislative sopra fornite, non sfuggirà la possibile connessione tra le pratiche scorrette in esame e l’eventuale annullamento del contratto vizi della volontà, dolo158 o errore159.
157 TAR Lazio – Roma, sez. I, 14 aprile 2009, n. 3778, RCS Quotidiani. Le statuizioni di questa sentenza (richiamata anche alle note successive) sono ripetute nella parallela sentenza n. 3779, emanata nei confronti di Xxxxxxx Xxxxxxxxx Editore S.p.A. X. xxxxx, xxxxx xxxx xxxx. 0000/00 (xx. 0), XXX Xxxxx – Roma, sez. I, 26 maggio 2009, n. 5249, Due Erre; TAR Lazio – Roma, sez. I, 3 luglio 2009, n. 6446, Elsacom. Sul punto relativo alla qualificazione della pubblicità ingannevole come illecito di pericolo v. anche TAR Lazio – Roma, sez. I, 11 marzo 2008, n. 2220, Wind Telecomunicazioni.
158 Art. 1439 c.c. il dolo: Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l'altra parte non avrebbe contrattato Quando i raggiri sono stati usati
da un terzo, il contratto è annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio
159 Art. 1428 c.c. Rilevanza dell'errore. L'errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall'altro contraente. Art. 1429 c.c. Errore essenziale. L'errore è essenziale: 1) quando cade sulla natura o sull'oggetto del contratto; 2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso;3) quando
In argomento non si deve dimenticare che peraltro il codice del consumo è chiaro all’art. 19 comma 3, nello stabilire che l’applicazione delle norme sulle PCS non pregiudica l’applicazione delle norme in materia contrattuale.
Ebbene, nelle ipotesi descritte dal codice del consumo, non v’è dubbio che il singolo consumatore, ingannato da un’informazione commerciale, possa agire alla luce degli articoli 1439 e 1440 c.c.160 dettati in materia di annullamento del contratto per dolo. Sul punto va piuttosto rilevato che il legislatore della novella sembrerebbe aver voluto escludere il cd. dolo incidente. La lettera della norma ritiene infatti ingannevole una pratica quando il consumatore, per effetto dell’inganno, abbia assunto una decisione che “non avrebbe altrimenti preso”.
In verità, la migliore dottrina ritiene di non condividere tale ultima lettura, proprio alla luce del significato da attribuire alla “decisione di natura commerciale”. Infatti, qui ravvisa non solo il “se” concludere il contratto, ma anche “il come”, ovvero, le condizioni alle quali concluderlo. La scorrettezza è valutata in relazione all’incidenza della pratica non solo sulla determinazione a concludere il contratto, ma anche sulle decisioni concernenti specifiche condizioni o clausole del contratto, con ciò assimilandosi quanto invece il codice civile distingue, e cioè il dolo determinante e il dolo incidente161. In altre parole, la novella attribuisce rilevanza a condotte del professionista che difficilmente lo sarebbero nell’ambito del codice civile. In verità, rare, sono state le occasioni in cui si è riconosciuta l’annullabilità del contratto per dolo derivante da pubblicità/pratica commerciale ingannevole162. Del resto la giurisprudenza rimane piuttosto restia a riconoscere rilevanza al dolo in
cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente, sempre che l'una o le altre siano state determinanti del consenso; 4) quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la ragione unica o principale del contratto. Art. 1431 c.c. Errore riconoscibile. L'errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo.
160 X. XXXXXXXX, op. cit., 782.
161 CAMARDI C., op.cit. p. 414.
162 Trib. Terni 6 luglio 2004, secondo il quale « il contratto che sia stato concluso a seguito di pubblicità di cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato abbia accertato la natura ingannevole è annullabile per dolo », in G. it., 2005, p. 1836, con nota di Perugini. In dottrina si è osservato come, sebbene le massime ammettano, con una certa frequenza, la possibilità che la semplice menzogna rilevi come dolo, si affrettano poi a precisare come si esiga, a tal fine, la rigorosa verifica di requisiti stringenti, per far così intendere che l’eventualità è contemplata come rara eccezione più che come regola operativa (ROPPO, op.cit. p.814)
quanto tale, ciò sulla base della teoria del cd. dolus bonus, già peraltro ampiamente criticata in dottrina163.
L’annullamento del contratto tra venditore e compratore ingannato è conseguibile poi anche attraverso la disciplina dell’errore. L’errore rileva in modo particolare in occasione della conclusione del contratto tra intermediario- rivenditore e consumatore, il quale si è determinato ad assoggettarsi al vincolo negoziale in virtù di una falsa o inesatta rappresentazione della realtà, causata dall’ingannevole comportamento pubblicitario del produttore autore della pubblicità/pratica commerciale mendace. Certamente la disciplina sull’errore pare di più agevole applicazione, rispetto a quella del dolo, per il fatto che l’area dell’errore riconoscibile è ben più vasta rispetto a quella dei raggiri « noti », rilevanti ai fini dell’annullamento del contratto per dolo. È quindi più semplice, per il consumatore, riuscire a fornire in giudizio la prova del vizio della volontà.
Ciò che tuttavia preme rilevare a questo punto è la circostanza per la quale, poiché come visto la novella “non pregiudica” l’applicazione delle norme sulla formazione del contratto ciò starebbe a significare che per ottenere l’annullamento di un contratto concluso a seguito di una pratica commerciale che si assume scorretta, non basterebbe il semplice giudizio di scorrettezza da parte di AGCM, ma il consumatore sarebbe tenuto senz’altro a provare l’effettiva realizzazione di tutti i presupposti richiesti dagli artt. 1428 - 1429 e 1431 c.c. ovvero 1439 c.c.. Non basterebbe, cioè, la prova circa l’idoneità della pratica ad ingannare un consumatore
163 VANZETTI, op. cit. In particolare, è stato sostenuto che il dolo rilevi in sé e per sé, in quanto vi sia un nesso eziologico tra il raggiro e l’effetto dello stesso sul consumatore, a prescindere dal fatto che quest’ultimo appartenga o meno alla categoria ipotetica del soggetto di ordinaria diligenza. È stato, tuttavia, precisato che non qualsiasi vanteria può essere considerata come integrante il presupposto per l’annullabilità del contratto per vizio del consenso, ma vengono considerate prive di valore giuridico le affermazioni basate su canoni di valutazione personali, non basate su criteri oggettivi. Pertanto, il dolo, rilevando in sé e per sé, dovrebbe suscitare la disapprovazione dell’ordinamento perché nel singolo caso concreto ha tratto in errore la vittima del raggiro. La variabile del grado di vulnerabilità della “vittima” del raggiro diventa irrilevante negli stessi termini in cui non assume significato l’eventuale inescusabilità dell’errore provato. Per quanto attiene alle pratiche sleali, tuttavia, pare evidente come l’articolo 6 della Direttiva non prenda in considerazione il cd. dolus bonus, dal momento che, tra gli elementi costituivi la fattispecie, vi è l’idoneità dell’azione ingannevole di trarre in errore il consumatore mediamente accorto, il quale pertanto non è influenzabile dalle suggestioni esercitate e dalle iperboliche vanterie, prive di ragionevole attendibilità.
medio, ma occorrerebbe dimostrare che ha ingannato ‘‘quel’’ consumatore, e che l’inganno è stato determinante del ‘‘suo’’ consenso.
Ciò premesso, veniamo quindi alle più recenti applicazioni delle pratiche in questione: un primo “filone” applicativo riguarda certamente la corretta comunicazione e rappresentazione, anche grafica, del prezzo finale del bene/servizio al consumatore.
Sulla definizione e la comunicazione del prezzo finale, quale elemento fondamentale nella scelta del consumatore, AGCM, così come il giudice amministrativo, si è espressa più volte, ed in modo (quanto meno la prima), a dire il vero, univoco. In particolare e con riguardo al settore del trasporto aereo, AGCM si è recentemente pronunciata, nei confronti del vettore spagnolo VUELING164 sanzionando il professionista per complessivi 70.000,00 euro per violazione degli artt. 20, comma 2, e 21, comma 1, lettera d) cod. cons. avendo il professionista omesso di rappresentare nel prezzo finale di acquisto di biglietti aerei on line l’importo di un supplemento dovuto al pagamento tramite carta di credito. Sul punto AGCM - conformemente a quanto già espresso in precedenti provvedimenti - ha chiarito che la modalità di comunicazione del prezzo del biglietto (così come di un altro servizio) al netto di supplementi (nel caso di specie il credit card surchage) è da considerarsi scorretta in quanto, non includendo ab origine nel prezzo del biglietto proposto un elemento di costo necessario e prevedibile dal professionista, fornisce un’ambigua e incompleta rappresentazione delle condizioni economiche richieste per l’acquisto del servizio,confondendo il consumatore rispetto all’esborso finale complessivo da sostenere per il volo prescelto”.
Secondo il consolidato orientamento dell’Autorità in materia165, lo scorporo dell’importo della tassa legata alle modalità di pagamento dal prezzo del biglietto non sarebbe giustificabile. Infatti, trattandosi di “un elemento di costo inevitabile e
164 PS7383 - Vueling Airlines - Commissioni pagamento con carta di credito- Provvedimento n. 23394 del 14 marzo 2012.
165 Provv. n. 22340 - PS3771 - Germanwings-Commisiioni cata di credito) e provv. n. 22341-
PS3773 - BLU-EXPRESS - COSTI ECCESSIVI PER PAGAMENTI CON CARTA DI
CREDITO) in Boll. n. 17/11 del 16 maggio2011. Provv. n. 22511 (PS892 – RYANAIR) in Boll.
n. 24/11 del 4 luglio 2011.
prevedibile”, esso costituisce parte integrante del prezzo del biglietto e deve essere di immediata percezione e comprensione per il consumatore.
Similmente nel corso del 2011 AGCM ha sanzionato i vettori Alitalia, Blu Express, Germanwings e Air Italy con multe per complessivi 285 mila euro ritenendo una pratica commerciale intrapresa dagli stessi scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2 e 21, comma 1, lettera d), del Codice del Consumo in quanto suscettibile, attraverso lo scorporo di un onere non eventuale, falsamente rappresentato come un costo non preventivabile ex ante ed esterno al controllo del vettore, di indurre in errore il consumatore medio circa il prezzo effettivo del servizio offerto. In particolare, premesso il contesto normativo di riferimento, le argomentazioni che seguono riguardano la riscontrata scorrettezza della pratica in contestazione rispetto: (i) ai principi di trasparenza informativa che devono essere osservati dal professionista, indipendentemente dal mezzo di comunicazione utilizzato, ai fini di una corretta rappresentazione del costo di un biglietto aereo; (ii) alla reale natura e alle modalità di calcolo del supplemento di 8 euro per transazione, addebitato dal professionista a titolo di credit card surcharge166.
Sul punto quindi è stata ribadita la necessità che l’indicazione del prezzo finale “sia comprensiva di ogni onere economico gravante sul consumatore, il cui ammontare sia determinabile ex ante, o presenti, contestualmente e con adeguata evidenza grafica e/o sonora, tutte le componenti che concorrono al computo (…), al fine di rendere chiara e compiuta l’informazione fornita al consumatore”. Il consumatore deve infatti potere “fin dal primo contatto pubblicitario disporre degli elementi essenziali per un’immediata percezione della portata economica dell’offerta pubblicizzata”. La prima informazione è quella che s’impone subito all’attenzione del lettore e va a rappresentare il principale elemento per la formazione della decisione di acquisto. Ciò assume rilevanza soprattutto quando la prima
166 Provvedimento n. 22340-PS3771: Il prezzo dei biglietti per il trasporto aereo deve essere chiaramente ed integralmente indicato, sin dal primo contatto con il consumatore in modo da rendere immediatamente e chiaramente percepibile l’esborso finale necessario per l’acquisto del biglietto aereo offerto. Tale principio trova conferma non solo nella giurisprudenza del giudice amministrativo, ma anche nella normativa nazionale (Legge n. 40/200774), negli orientamenti espressi dalla Commissione a seguito dell’indagine (sweep) condotta nel 2007 per l’applicazione della Direttiva sulle pratiche commerciali scorrette. e, più recentemente, nel Regolamento CE n. 1008/2008 (di seguito anche “il Regolamento comunitario”).
informazione consiste nella presentazione di un prezzo “d’impatto” in assoluto conveniente rispetto alle aspettative del cliente, al quale ultimo viene poi scaricato l’onere di calcolarsi il costo complessivo.
Del resto, anche i giudici amministrativi167avevano chiarito che sono da ritenersi ingannevoli i messaggi pubblicitari in cui “il prezzo finale ed effettivo del servizio non sia quello enfatizzato nel claim principale, ma a tale prezzo si debbano aggiungere ulteriori voci di costo in base ad indicazioni non contestuali e prive della stessa enfasi”. Nella medesima sentenza è stato sottolineato inoltre che “Se, in linea di massima, è l’omissione di alcuno degli elementi da cui dipende il prezzo del servizio pubblicizzato che può indurre in errore il consumatore e rendere ingannevole il messaggio con riguardo a tale profilo, anche le sole modalità di presentazione del prezzo possono indurre in errore il consumatore, e quindi porsi in contrasto con l’ampia previsione della norma richiamata, quando il messaggio pubblicitario enfatizza non il prezzo finale ed effettivo, ma un prezzo base a cui si aggiungono ulteriori costi ed oneri, e il prezzo finale ed effettivo non risulta di chiara ed immediata percezione da parte del consumatore, per la macchinosità del calcolo o per la non agevole percezione delle relative informazioni”.
Sulla presentazione del prezzo merita, tuttavia, di essere segnalata una pronuncia del TAR LAZIO dell’aprile 2010168, dalla quale pare emergere un orientamento parzialmente diverso, quanto meno nella misura in cui lo stesso, ricollegando la corretta informazione sul prezzo del bene/servizio al dovere di diligenza che incombe sul professionista, lega tale dovere di diligenza all’onere di diligenza/avvedutezza che viene parimenti richiesto al consumatore medio, e non solo al professionista, secondo quel (difficile) bilanciamento di oneri sul quale dovrebbe reggersi la corretta applicazione della normativa in esame. Particolarmente interessanti appaiono dunque alcuni passaggi del giudice di prime cure, che si premura di chiarire che, se la promozione di un tariffa dovrebbe essere inclusiva di ogni onere economico gravante sul consumatore (sempre che di ammontare quantificabile ex ante), sì da illustrare compiutamente il relativo
167 Tar. Sez. I, n. 276/2008.
168 Tar Lazio Sez. Prima - Sent. del 22.04.2010, n. 8263.
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esborso finanziario (e da rendere, conseguentemente, la scelta economica pienamente consapevole), tale orientamento merita alcune precisazioni. Premesso che non solo l’omissione di qualche elemento del prezzo può configurarsi come ingannevole, ma anche le semplici modalità di comunicazione del prezzo medesimo possono essere astrattamente idonee a trarre in inganno il consumatore (per esempio attraverso la scelta di enfatizzare con caratteri/colori di forte impato un prezzo base al quale non corrisponde il prezzo conclusivo), il TAR precisa che se la tecnica pubblicitaria preferibile è quella basata sull’indicazione di un prezzo finale omnicomprensivo, non è, tuttavia, permesso “spingersi al punto di qualificare come necessariamente ingannevoli - e quindi illecite - tutte le formule pubblicitarie che in qualsiasi misura e circostanza si discostino dal relativo modello.”169 Secondo il Collegio, premesso che “un’acritica equiordinazione dell’obbligo di diligenza facente capo all’operatore commerciale (e normativamente sancito) rispetto al grado di consapevole assunzione delle scelte commerciali (predicabile con riferimento al consumatore), è suscettibile di condurre a conseguenze distorsive, laddove si introduca, all’interno del paradigma di correttezza che deve normalmente assistere l’informazione commerciale, un elemento di eterointegrazione informativa quale componente aggiuntiva ed adeguatrice rispetto all’assolvimento di un obbligo che, invece, deve ritenersi precipuamente ascrivibile a fatto proprio (ed esclusivo) del professionista.(…)” il consumatore è comunque chiamato a comportarsi in modo avveduto e parzialmente attivo nella comprensione dell’offerta, pur senza che ciò si debba tradurre in una etero integrazione del messaggio pubblicitario oggettivamente lacunoso e/o poco chiaro. Viene quindi, in considerazione proprio quella “eterointegrazione” del contenuto del messaggio promozionale a fronte della quale la pur pretendibile (nei limiti sopra indicati) “diligenza” e/o “avvedutezza” del consumatore inevitabilmente recede in ragione
169 Cosi il Collegio:“non può tuttavia escludersi la legittimità della reclamizzazione (dell’offerta di una fornitura o di un servizio) in cui l’esborso finale richiesto scaturisca, con sufficiente immediatezza e con ragionevole percepibilità, dalla composizione addizionale di componenti di prezzo fornite in modo contestuale e con pari grado di enfasi espressiva; o, almeno, che abbia un rilievo grafico tale da rendere concretamente percepibile la presenza di siffatti elementi -ulteriori - rispetto a quello immediatamente visualizzabile per effetto dell’evidenza assunta dal claim principale”.
della lacunosità della comunicazione promozionale: la carente completezza della quale insanabilmente rivela contenuto ingannevole laddove si consideri che il potenziale utente non è, comunque, posto in grado di poter ricostruire il complessivo onere finanziario che è chiamato a sostenere ove intenda aderire all’offerta.
Il TAR ha quindi precisato in altra sentenza170 che “(…) il precetto sul divieto di ingannevolezza impone soltanto che sia consentito al consumatore di avere una percezione precisa e sufficientemente immediata dell'esborso finale: perciò se anche in una pubblicità non venga riportato il prezzo onnicomprensivo del prodotto o del servizio offerto, ma vi sia un chiaro riferimento alle voci variabili che lo compongono, il messaggio non è ingannevole”.
Oltre che con riferimento alla definizione e alla prospettazione del prezzo, l’ingannevolezza della pratica è stata più in generale ricollegata alla assenza di completezza e chiarezza del messaggio pubblicitario.
Sul punto va rilevato che la possibilità che il consumatore possa essere tratto in errore circa l’esatta portata dell’offerta non può essere esclusa dalla circostanza che l’utente sia in grado di conoscere le condizioni della stessa anche in un momento immediatamente successivo, quale quello della consultazione di un link recante le “ulteriori informazioni”, oppure, attraverso la fruizione del servizio di assistenza- clienti. Con riguardo a ciò AGCM ha ribadito che: “costituisce principio interpretativo consolidato dell’Autorità, confermato dalla giurisprudenza amministrativa, che il rinvio a fonti informative ulteriori rispetto al messaggio non è idoneo a sanare l’ingannevolezza di quest’ultimo”171.
Sempre in argomento, nel corso del 2011, l’Autorità ha concluso un’istruttoria per pratiche commerciali scorrette relative alla prospettazione ambigua e fuorviante della velocità di navigazione internet in mobilità. In particolare, l’Autorità ha sanzionato l’operatore di telefonia mobile H3G SPA, ai sensi degli articoli 20, comma 2, 21, comma 1, e 22 del Codice del consumo, con un’ammenda di 100 mila euro per aver pubblicizzato sistemi di navigazione in mobilità, riferendosi alle
170 TAR LAZIO sent. 06204/2011REG (SNAV – MOBY).
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