Edizione di martedì 14 maggio 2019
Edizione di martedì 14 maggio 2019
Comunione – Condominio - Locazione
La registrazione tardiva del contratto di locazione e le relative conseguenze, tra le “rivisitazioni” della giurisprudenza di legittimità
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Responsabilità civile
Il brokeraggio assicurativo
di Xxxxxxx Xxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
Gli effetti della notificazione della sentenza si producono anche per il notificante dalla data in cui la notifica viene eseguita
di Xxxxxxxx Xxxxxx
Esecuzione forzata
L’ordinanza di estinzione atipica e di liberazione dei beni pignorati va impugnata con opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Responsabilità civile
Risarcimento del danno da circolazione stradale: l’azione diretta del terzo trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore postula l’accertamento della corresponsabilità di quest'ultimo
di Xxxxxxx Xxxxxx
Comunione – Condominio - Locazione
La tutela della detenzione/ospitalità nei rapporti tra familiari: le vicende collegate al rilascio del bene immobile
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Diritto successorio e donazioni
Meritevole di tutela il vincolo di destinazione a favore dei chirografari
di Redazione
Diritto e reati societari
Fatti di bancarotta e scritture contabili: la Suprema Corte cassa con rinvio perché i bilanci “inattendibili” non possono costituire prova delle avvenute distrazioni
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati
Diritto Bancario
Chiarimenti sulla normativa applicabile all'assegno circolare
di Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto del Lavoro
Codatorialità, illegittimo il licenziamento intimato da un solo datore di lavoro
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Soft Skills
Misurazione dell'efficienza dell'approccio digitale nell'ambito della direzione legale
di Xxxxxxxx Xxxxxxx
Comunione – Condominio - Locazione
La registrazione tardiva del contratto di locazione e le relative conseguenze, tra le “rivisitazioni” della giurisprudenza di legittimità
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Corte di Cassazione – Terza sez. civile – Ordinanza n. 32934/2018
Locazione – registrazione tardiva – nullità – indebito oggettivo – art. 2033 c.c. – art. 1, c.346, l. 311/2004.
“…Le Sezioni Unite hanno, con la sentenza richiamata, riconosciuto effetto sanante alla registrazione tardiva ed hanno affermato che tale effetto sanante abbia efficacia retroattiva, il che consente di stabilizzare definitivamente gli effetti del contratto, assicurando piena tutela alla parte debole del rapporto, atteso che il conduttore non sarà esposto ad azioni di rilascio, godrà della durata come prevista ab origine dal contratto e non dalla sua registrazione, che, intervenendo a distanza di tempo dalla stipulazione, ne abbrevierebbe significativamente quanto arbitrariamente i termini di scadenza.[1]”
“…nel caso ora all’esame, la sanatoria per intervenuta registrazione, sia pure successiva, non può all’evidenza sanare la nullità del contratto di locazione anche per il periodo di durata dello stesso non indicato nel contratto di locazione successivamente registrato…”
CASO
Il caso in oggetto ha origine da un’intimazione di sfratto per morosità nei confronti del conduttore di immobile adibito ad uso abitativo derivante dal mancato pagamento di una mensilità (agosto 2012) il quale inizialmente si oppone all’intimazione, deducendo difetto di legittimazione passiva, nullità e inefficacia del contratto per il periodo anteriore alla sua registrazione, in particolare la morosità indicata; tuttavia in seguito al rinvio dell’udienza per pendenza di trattative e con salvezza di ogni diritto, rinuncia all’opposizione, invoca termine di grazia, che poi non rispetta e quindi rimane soggetto alla convalida.
Il conduttore interpone appello alla convalida di sfratto ed anche il giudice del secondo grado, conferma l’ordinanza-intervenuta risoluzione del contratto e rigetta l’impugnazione.
“L’impavido” conduttore impugna la sentenza del secondo grado con ricorso per cassazione, affidandosi a tre motivi, sostanzialmente evocando nel motivo principale – quello poi accolto – la nullità del contratto, in ragione della mancata registrazione dello stesso e/o quanto meno
per il periodo di mancata registrazione, con riferimento all’applicazione dell’art. 1, c.346, l. 311/2004, non avendo parte locatrice titolo a percepire i canoni per il periodo di effettivo inizio del contratto e comunque antecedente l’intervenuta registrazione, nella specie (agosto 2012).
SOLUZIONE
La Suprema Corte, richiamando l’interpretazione normativa data dalle Sezioni Unite[2], riteneva che l’intervenuta registrazione tardiva avesse effetto sanante con efficacia retroattiva, ma non riguardava il periodo intercorrente tra il reale inizio dell’occupazione dell’immobile e la data di inizio del rapporto locatizio così come attestata dal contratto (nel caso di specie nella registrazione è stata indicata come data di inizio locazione quella del 01.09.2012, mentre la locazione ha avuto inizio nel novembre 2011, per effetto dell’iniziale consegna dell’immobile e pagamento dei canoni corrispondenti).
Gli Xxxxxxxxx, quindi, accolgono parzialmente il ricorso – esclusivamente il primo motivo, ritenendo quindi che la parte di negozio non “coperta” da registrazione rimane non sanabile; il provvedimento impugnato è cassato con rinvio a diversa composizione della Corte d’Appello competente.
QUESTIONI
La nullità conseguente alla mancata registrazione
La sentenza in commento ha il merito di ripercorrere la dibattuta questione riguardante gli effetti dell’obbligo di registrazione del contratto di locazione, in ordine al quale si sono da ultimo pronunciate le Sezioni Unite, con la sentenza n.23601 del 9.10.2017, seppur riguardante locazione ad uso diverso da abitazione.
In effetti, prima dell’intervento di modifica all’art. 13 L.431/98, comma 1^ in materia di locazione abitative, il quadro legislativo si presentava “disarmonico”, registrando differenti e discrepanti interpretazioni della giurisprudenza di merito, in relazione agli effetti sananti ex nunc o ex tunc, da ultimo prevalendo la retroattività della sanatoria.
Le parti si sono confrontate sul tema della nullità contrattuale derivante da mancato adempimento fiscale, di cui all’art. 1, c. 346, l. 311/2004[3], norma applicabile a qualsiasi tipologia locatizia indipendentemente dall’uso abitativo o meno cui l’immobile sia destinato, rimasta indenne anche al giudizio di costituzionalità; e nella fattispecie in esame, i giudici della suprema corte accolgono il ricorso del conduttore, travolgendo gli effetti della convalida.
A rigore occorrerebbe interrogarsi sulle ragioni conseguenti all’introduzione del procedimento di convalida, in assenza di un contratto di locazione regolarmente registrato, ma evidente che l’indagine (ante riforma dell’articolo 13 L.431/98) non ha formato oggetto di attenzione delle Corti di merito.
La tesi sostenuta a favore della nullità contrattuale, quantomeno parziale, considera il contratto non registrato e dunque i pagamenti effettuati non dovuti per venire meno del titolo posto a suo fondamento. Conseguentemente, si ritiene che il locatore possa richiedere solo i canoni rientranti nel periodo risultante dal momento della registrazione del contratto, anche se tardiva e non dall’effettivo inizio del rapporto.
La Corte sulla questione della nullità contrattuale per la mancanza del suddetto adempimento richiama i principi espressi dalle Sezioni Unite, con la recente sentenza n.23601/2017: “il contratto di locazione ad uso non abitativo (anche abitativo), contenente ab origine la previsione di un canone realmente convenuto e realmente corrisposto (dunque in assenza di simulazione), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell’art.1, comma 346, legge n.311 del 2004, ma, in caso di sua tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, sanabile, volta che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” appare coerente con l’introduzione nell’ordinamento di una nullità “per inadempimento”.
La lettura della sentenza delle Sezioni Unite, unitamente ad una sua disamina non strettamente legata al significato letterale, permette di dare soluzione alla questione posta alla base della sentenza qui commentata. Benché la sentenza parli di locazioni ad uso non abitativo e di canoni maggiorati, rispetto a quanto scritto nel titolo, di comune accordo tra conduttore e locatore, è comunemente ritenuto che tale principio possa applicarsi alle locazioni ad uso abitativo. Tutte le somme percepite in eccesso, rispetto a quanto pattuito nel contratto registrato sono considerate non dovute e pertanto afferiscono alla sfera dell’indebito oggettivo ed in quanto tali sono pertanto suscettibili di restituzione.
Nel caso di specie era stato richiesto quanto pattuito, ma la morosità riguardava anche un periodo non ricompreso nel contratto registrato, operando gli ermellini una scissione di fatto, tra il periodo “ufficiale” di inizio della locazione ed il periodo “ufficioso” ante registrazione, considerando tali periodi come riguardanti due distinti contratti: uno registrato, l’altro verbale e quindi nullo ex art. 1 L.431/98.
Le ragioni di censura ad una sanatoria retroattiva tout court, muovono dalla necessità di tutelare maggiormente la parte debole del rapporto in quanto, se è pur vero che la registrazione sanante retroattiva è ammessa, consentendo una protezione della parte debole, assicurandogli stabilità del rapporto derivante dalla durata del contratto e non dalla sua registrazione, che intervenendo a distanza di tempo dalla stipulazione ne, “abbrevierebbe significativamente quanto arbitrariamente i termini di scadenza “ del contratto”[4]; tuttavia, secondo la sentenza in esame, tale sanatoria non può validare la nullità del contratto per una durata non stabilita e non indicata nel rapporto (nella specie, si è scritto dal 5.11.20111 al 31.8.2012, data di effettivo inizio della locazione per effetto dell’intervenuta registrazione del contratto).
Dunque, sarà solo il periodo stabilito nel contratto registrato ad evitare la sanzione della nullità contrattuale, per il resto considerandosi nullo e sottoposto alla disciplina ex art. 2033 c.c., il periodo antecedente la registrazione e conseguentemente ritenendo insussistenti le
ragioni della convalida, afferendo al pagamento di un mese (agosto 2012) antecedente la registrazione, rinvia la causa alla Corte d’appello, affinchè “annulli”/riformi, l’intervenuta risoluzione del rapporto.
[1] Corte di Cassazione, ord. n.20858/2017;
[2] Corte di Cassazione, SS.UU. n.23601/2017;
[3] “I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati.”
[4] Cass. ord. 6.9.2017 n.20858
Responsabilità civile
Il brokeraggio assicurativo
di Xxxxxxx Xxxxxx
Abstract
Il presente lavoro vuole analizzare, seppur brevemente, il ruolo del broker assicurativo nell’attività di distribuzione assicurativa e le regole di comportamento a cui deve attenersi alla luce delle recenti modifiche apportate al Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 7 settembre 2005, n, 209) dal d.lgs. 68 del 2018, nonché il contratto di brokeraggio assicurativo ponendo l’attenzione sia sulla sua qualificazione giuridica che sulle principali differenze con il contratto di mediazione.
***
L’art. 106 del Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) – d’ora in poi
c.a. – definisce l’attività di distribuzione assicurativa e riassicurativa come quell’attività volta a
«proporre prodotti assicurativi e riassicurativi o nel prestare assistenza e consulenza o compiere altri atti preparatori relativi alla conclusione di tali contratti o nella conclusione di tali contratti, ovvero nella collaborazione alla gestione o all’esecuzione, segnatamente in caso di sinistri, dei contratti stipulati. Rientra nell’attività di distribuzione assicurativa la fornitura, tramite un sito internet o altri mezzi, di informazioni, relativamente a uno o più contratti di assicurazione, anche confrontati o ordinati, sulla base di criteri eventualmente scelti dal cliente, in termini di premi ed eventuali sconti applicati o di ulteriori caratteristiche del contratto, se il cliente e? in grado di concludere direttamente o indirettamente lo stesso.»
Tale attività, ai sensi dell’art. 107 bis c.a., può essere esercitata dalle imprese di assicurazione e riassicurazione (anche attraverso propri dipendenti); da intermediari professionali come agenti, brokers, banche, SIM, intermediari finanziari, Poste Italiane s.p.a. – Divisione Bancoposta; da intermediari non professionali (intermediari assicurativi a titolo accessorio) – limitatamente ad alcune operazioni – ovvero da soggetti aventi residenza o sede legale in un altro Stato dell’Unione Europea in regime di stabilimento o di libera prestazione di servizi.
In particolare il broker (o mediatore) assicurativo, secondo la definizione contenuta nell’art. 1 della L. 28 novembre 1984, n. 792, era definito come «colui che esercita professionalmente attività rivolta a mettere in diretta relazione con imprese di assicurazione o riassicurazione, alle quali non sia vincolato da impegni di sorta, soggetti che intendano provvedere con la sua collaborazione alla copertura dei rischi, assistendoli nella determinazione del contenuto dei relativi contratti e collaborando eventualmente alla loro gestione ed esecuzione.»
A seguito dell’abrogazione della suddetta legge l’art. 109 c.a. definisce i broker come «gli intermediari che agiscono su incarico del cliente e senza poteri di rappresentanza di imprese di assicurazione o di riassicurazione» e la loro l’attività è delineata dall’art. 106 c.a. (sulla figura del broker in dottrina x. XXXXXXXX, Il broker di assicurazione e riassicurazione in Italia e in Inghilterra – Funzioni e responsabilità, in Rivista Assicurazioni, 2000; XXXXXXXX, Il broker, la mediazione, il nuovo codice delle assicurazioni, in Assic., 2005, II, 2, 203; LA TORRE, I mediatori di assicurazione, in Cinquant’anni col diritto, II, Milano 2008, 419 ss.; LA TORRE, Il broker di assicurazione in una indagine ricostruttiva, ivi, 505 ss.; FARENGA, Manuale di diritto delle assicurazioni private, 2019, 128).
Il broker, pertanto, può essere definito come un mediatore di assicurazione che mette in relazione l’assicurando e l’assicuratore per la conclusione di un contratto di assicurazione senza essere legato a nessuna delle parti da rapporti di collaborazione, di dipendenza, di rappresentanza (le caratteristiche di indipendenza e di imparzialità distinguono la figura del broker da quella dell’agente di assicurazione).
Il broker assicurativo si distingue, quindi, dal semplice mediatore ex artt. 1754 ss c.c. Il mediatore assicurativo, infatti, non si limita a mettere in relazione l’assicuratore con l’assicurando ma assiste quest’ultimo nella fase precontrattuale, ricercando la compagnia più adatta ad assicurare il rischio proposto e collaborando, quindi, alla formulazione del contenuto contrattuale, e, talora, anche nella fase post contrattuale, cooperando alla gestione ed esecuzione del contratto.
È evidente, quindi, che alla mediazione si aggiunge un’attività di prestazione di consulenza professionale a favore dell’assicurando.
Tale assunto è stato confermato anche dalle SS.UU. con la sentenza 8095 del 2007 nella quale è stato affermato che il broker non è un rappresentante delle parti che stipulano il contratto di assicurazione ma è parte del contratto di c.d. brokeraggio assicurativo stipulato con il soggetto che si è rivolto al professionista. (sul contratto di brokeraggio assicurativo e il relativo dibattito dottrina e giurisprudenziale v. in dottrina XXXXXXXXX, La qualificazione del contratto di brokeraggio assicurativo, tra professionisti intellettuali e contrattazione d’impresa, in Giur. comm., 2006, 2, 277; XXXXXXXX, Brokeraggio assicurativo e tipo contrattuale, 2001; PEDICINI, Il broker di assicurazioni, 1998; VERGANI, Il brokeraggio assicurativo: l’apertura della Cassazione sulla tipizzazione sociale del contratto, in Dir. econ. assicur., 1999. In giurisprudenza Cass. civ., 7 febbraio 2005, n. 2416; Cass. civ., 1° febbraio 2005, n. 1991; Cass. civ., 6 maggio 2003, n. 6874; Corte d’appello di Torino 8 marzo 2001, con nota di XXXXXXXX, Il broker di assicurazione ha diritto alla provvigione da parte dell’assicuratore-aggiudicatario a seguito di bando d’asta recante le condizioni di sicurtà predisposte dal broker su incarico dell’assicurando?, in Ass., 2001, II, 180).
Prima della citata pronuncia la qualificazione giuridica del contratto di brokeraggio assicurativo aveva suscitato un vivace dibattito dottrinale e dato corso a interpretazioni giurisprudenziali non univoche.
Una tesi riconduceva il contratto di brokeraggio alla figura della mediazione atipica o unilaterale stante la peculiarità del rapporto fiduciario intercorrente tra il broker e l’assicurando. Contrariamente a quanto avviene nella figura della mediazione il broker, infatti, non si trova in posizione di imparzialità ma agisce su incarico o nell’interesse di una sola delle parti e, precisamente, del soggetto assicurando.
La tesi oggi prevalente nella giurisprudenza, alla luce anche della pronuncia a SS.UU. del 2007, è quella che riconosce al brokeraggio la natura di contratto misto che presenta sia gli elementi della mediazione che del contratto d’opera intellettuale. (negli stessi termini anche Trib. Torino, 26 gennaio 2000, in Giur. it., 2001, 783).
Nella medesima pronuncia si è affermato, infatti, il diritto del broker alla provvigione in tutti i casi in cui questi abbia svolto un’attività di collaborazione intellettuale con l’assicurando in vista della copertura dei rischi assicurativi e per la stipula di futuri contratti di assicurazione, a nulla rilevando che l’assicurando, dopo essersi avvalso dell’ausilio del broker, abbia stipulato personalmente questi stessi contratti.
Il broker assicurativo nella attività di distribuzione di prodotti assicurativi e riassicurativi e, quindi, nella sua qualità di intermediatore professionale, deve rispettare alcune regole di comportamento.
Con il recepimento della direttiva europea IDD (Insurance Distribution Directive) in virtù dell’emanazione del d.lgs. 68 del 2018 sono state introdotte, infatti, nel Codice delle assicurazioni delle severe regole di comportamento a carico di tutti i soggetti che svolgono attività di distribuzione di prodotti assicurativi al fine di tutelare coloro che entrano in rapporto con l’intermediario per stipulare un contratto di assicurazione.
L’art. 119 bis c.a., infatti, sancisce il principio secondo cui «i distributori di prodotti assicurativi operano con equità, onestà, professionalità, correttezza e trasparenza nel miglior interesse dei contraenti» ed, inoltre, che le informazioni pubblicitarie inviate dai distributori ai contraenti o ai potenziali clienti devono essere «corrette, chiare e non fuorvianti, imparziali e complete.»
Il successivo articolo 119 ter c.a. contempla, invece, il principio di adeguatezza che impone a colui che propone un prodotto assicurativo non solo di rendere edotto il contraente di tutte le particolarità dell’operazione ma anche di offrire il prodotto più confacente alle esigenze patrimoniali e al profilo di rischio del contraente o dell’assicurato.
Tale articolo stabilisce infatti al primo comma che «prima della conclusione di un contratto di assicurazione, il distributore di prodotti assicurativi: a) acquisisce dal contraente ogni informazione utile a identificare le richieste ed esigenze del contraente medesimo, al fine di valutare l’adeguatezza del contratto offerto; e b) fornisce allo stesso informazioni oggettive sul prodotto assicurativo in una forma comprensibile al fine di consentirgli di prendere una decisione informata.»
Le summenzionate norme devono essere poste in relazione con l’art. 58 del Regolamento IVASS n. 40 del 2018 secondo il quale per soddisfare in maniera coerente le richieste e le esigenze di copertura assicurativa e previdenziale del contraente o dell’assicurato i distributori
«prima di far sottoscrivere una proposta o, qualora non prevista, un contratto di assicurazione, acquisiscono dal contraente le informazioni utili a valutare le sue richieste ed esigenze.»
In particolare chiedono notizie sulle caratteristiche personali e sulle esigenze assicurative o previdenziali del contraente o dell’assicurato che includono, ove pertinenti, specifici riferimenti all’età, allo stato di salute, all’attività lavorativa, al nucleo familiare, alla situazione finanziaria ed assicurativa e alle sue aspettative in relazione alla sottoscrizione del contratto, in termini di copertura e durata, anche tenendo conto di eventuali coperture assicurative già in essere, del tipo di rischio, delle caratteristiche e della complessità del contratto offerto.
Sulla base delle informazioni raccolte i distributori, tenuto conto della tipologia di contraente
e della natura e complessità del prodotto offerto, forniscono al contraente medesimo, in forma chiara e comprensibile, informazioni oggettive sul prodotto, illustrandone le caratteristiche, la durata, i costi, i limiti della copertura ed ogni altro elemento utile a consentirgli di prendere una decisione informata.
Il rifiuto da parte del contraente di fornire le suddette informazioni deve risultare da apposita
dichiarazione, da allegare alla proposta o alla polizza, sottoscritta dal contraente e dal distributore, dalla quale risulta la specifica avvertenza che tale rifiuto pregiudica la capacità
di individuare il contratto coerente con le richieste ed esigenze del contraente.
In sostanza, come specifica l’art. 54 del Regolamento IVASS 40/2018 i distributori, tra cui ovviamente i broker, nella loro attività di distribuzione devono:
1. comportarsi con equità, onestà, professionalità, correttezza e trasparenza nel miglior interesse dei contraenti e degli assicurati e in modo da non recare pregiudizio agli stessi;
2. osservare le disposizioni legislative e regolamentari, anche rispettando, nel caso di intermediari, le procedure e le istruzioni a tal fine impartite dalle imprese per le quali eventualmente operano;
3. acquisire le informazioni necessarie a valutare le esigenze assicurative e previdenziali dei contraenti ed operare in modo che questi ultimi siano sempre adeguatamente informati.
Nel far ciò sono tenuti a garantire la riservatezza delle informazioni acquisite dai contraenti o di cui comunque dispongano in ragione della propria attività e gli è precluso l’utilizzo delle stesse informazioni per finalità diverse da quelle strettamente inerenti allo svolgimento dell’attività di distribuzione salvo espresso consenso prestato dall’interessato a seguito di
apposita informativa fornita ai sensi della normativa vigente in materia di protezione dei dati.
È chiaro, quindi, che la ratio del d.lgs. 21 maggio 2018, n. 68 è quella di tutelare il cliente che si appresta a stipulare un contratto di assicurazione rafforzando da un lato il principio di adeguatezza del prodotto assicurativo e dall’altro responsabilizzando gli intermediari attraverso l’introduzione di regole di comportamento e obblighi informativi.
Procedimenti di cognizione e ADR
Gli effetti della notificazione della sentenza si producono anche per il notificante dalla data in cui la notifica viene eseguita
di Xxxxxxxx Xxxxxx
Cass. Sez. Un,, 4 Marzo 2019 n. 6278; Est. Lombardo
Notificazione della sentenza – Decorrenza del termine breve per il notificante – principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione – efficacia bilaterale sincronica della notifica – unicità del termine per impugnare – esecuzione della notifica nei confronti del destinatario – dies a quo del termine breve per impugnare (Cod. proc. civ. artt. 325 e 326)
In tema di notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c., il termine breve di impugnazione di cui al precedente art. 325 c.p.c., decorre, anche per il notificante, dalla data in cui la notifica viene eseguita nei confronti del destinatario, in quanto gli effetti del procedimento notificatorio, quale la decorrenza del termine predetto, vanno unitariamente ricollegati al suo perfezionamento e, proprio perché interni al rapporto processuale, sono necessariamente comuni ai soggetti che ne sono parti.
CASO
Il ricorrente denuncia, sulla base di un unico motivo, la nullità della sentenza impugnata e la violazione degli artt. 149, 170, 325 e 326 c.p.c., per avere la Corte territoriale, a suo tempo adita, ritenuto che il termine breve per l’impugnazione decorresse per la parte notificante dal momento del perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario, piuttosto che dal momento della consegna della copia della sentenza all’ufficiale giudiziario notificatore. Tale conclusione si porrebbe in patente contrasto sia col principio per cui il termine decorre dal momento in cui si ha conoscenza legale del provvedimento da impugnare, sia col principio fissato dall’art. 149 c.p.c., secondo cui la notifica si perfeziona per il notificante con la consegna del plico all’ufficiale giudiziario.
SOLUZIONE
La Suprema Corte, svolte le necessarie premesse sui profili ontologico e funzionale che – nell’attuale diritto positivo – connotano il termine breve per impugnare, ritiene che nella soggetta materia non possa trovare applicazione il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione (enucleato dalla giurisprudenza costituzionale e recepito dal legislatore) e che vada di contro affermata l’efficacia bilaterale “sincronica” della notifica della sentenza e la “unicità” (o “comunanza”) del termine per impugnare, nel senso che quest’ultimo
decorre per entrambe le parti dalla medesima data; pronunciandosi – conseguentemente – per il rigetto del ricorso e la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
QUESTIONI
La decisione delle Sezioni Unite in commento, componendo il contrasto giurisprudenziale, risolve la questione relativa all’individuazione del dies a quo del termine breve per l’impugnazione nei confronti della parte che procede alla notificazione della sentenza.
Nello specifico, la Suprema Corte viene chiamata a risolvere la seguente questione di diritto: se, in tema di notificazione della sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c., il termine di impugnazione di cui al precedente art. 325 c.p.c. decorra, per il notificante, dalla data di consegna della sentenza all’ufficiale giudiziario ovvero dalla data di perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario (per una generale disamina in argomento si vedano le interessanti osservazioni dottrinarie di X.XXXXXXX, Codice di procedura civile, Commentario, II, Milano 2018, pag. 1155 e, X. XXXXXXXXX – F. CARATTA, Diritto processuale civile, Torino 2017, II, pag. 437, F. P. LUISO, Diritto processuale civile, Milano 2017, pag. 310).
Premettendo alcune osservazioni, occorre ricordare come il codificatore processuale del 1940 ha previsto, in via generale, due termini per impugnare: uno c.d. “breve” di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c. ( che costituisce eredità del codice previgente del 1865 e la cui decorrenza è rimessa alla iniziativa delle parti) ed uno c.d. “lungo” di cui all’art .327 c.p.c., espressione quest’ultimo della visione pubblicistica del fenomeno processuale e, contemporaneamente, espressa manifestazione dell’interesse dello Stato alla sollecita formazione del giudicato nonché alla necessaria certezza dei rapporti giuridici. La decorrenza di quest’ultimo termine è invece indipendente dalla iniziativa dei contendenti (relativamente ai più recenti orientamenti sull’argomento si veda Cass. Civ. Sez. V; 8 Marzo 2017 n. 5946).
Per quanto riguarda la decorrenza del termine “breve”, inoltre, non va dimenticato, come la stessa non sia correlata né alla conoscenza legale della sentenza – già sussistente per il mero fatto della sua pubblicazione – né alla conoscenza effettiva della stessa (si veda Xxxx., Sez Un. 9 Giugno 2006 n. 13431); ma bensì al sollecito indirizzato da una parte all’altra per una decisione rapida, e cioè entro il termine appunto previsto dalla legge in ordine all’eventuale esercizio del potere di impugnare. Il tutto ovviamente attuabile nell’unico modo in grado di garantire il diritto di difesa ai fini impugnatori: la notificazione della sentenza al “procuratore costituito” ai sensi degli artt. 285, 326 e 170 c.p.c., (si veda inoltre, Cass., Sez. Un. 13 giugno 2011, n. 12898).
Volendo poi tornare alla soluzione della controversia come indicata nel principio di diritto enucleato in epigrafe, diversi sono gli argomenti che hanno indotto la suprema Corte ad addivenire a tale conclusione.
In primo luogo, viene rilevato, sotto il profilo letterale della principale norma di riferimento, che l’art. 326 c.p.c. nel collegare la decorrenza del termine breve di impugnazione alla
“notificazione della sentenza” – ossia all’evento della notificazione oggettivamente considerato – da un lato, non distingue tra la posizione del notificante e quella del destinatario, dall’altro lato, richiede che il procedimento “notificatorio” si sia perfezionato nel suo complesso, sicché “ prima del compimento di tale attività non si ha notificazione e, dunque, non può decorrere il termine per impugnare, neppure per il notificante” ( vedi Cass., Sez. Un. 19 Marzo 2013, n. 9535; Cass. Sez. Un., 06 Novembre 2014 n.23675).
La decorrenza unica del termine di impugnazione – tanto per la parte che effettua la notifica della sentenza, quanto per quella che la riceve – trova poi ulteriore fondamento nella impossibilità di applicare, in questo particolare ambito della materia notificatoria, il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione enunciato dalla Corte Costituzionale, che – com’ è noto – con la sentenza n. 477 del 2002, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c., e della L. 20 Novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3°, “nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario” (a favore della bilateralità degli effetti della notificazione della sentenza si veda in dottrina; A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1994, pag. 500; X. XXXXX-X.XXXXX Diritto processuale
civile, Padova 1992, pag. 462)
Il giudice delle leggi ha infatti ritenuto palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa, l’assoggettamento del notificante incolpevole al rischio di decadenze per gli eventuali ritardi dell’ufficiale giudiziario o per i possibili disservizi postali; conseguentemente, ha escluso che un effetto di decadenza possa discendere per il notificante dal ritardo del compimento di un’attività riferibile a soggetti da lui diversi (l’ufficiale giudiziario o l’agente postale) e, quindi, del tutto estranea alla sua sfera di disponibilità.
Ma se, giusta quanto appena osservato, l’introduzione nel sistema processuale del principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, ha trovato la sua ratio nella esigenza di tutelare il soggetto notificante e di sottrarlo al rischio di decadenze, a lui non imputabili, è evidente come esso presupponga la previsione di un termine perentorio a carico del notificante e la necessità di evitare che egli possa incorrere in decadenza qualora, entro il detto termine, abbia posto in essere tutte le attività che gli competono (Cass. Sez. Un. 19 Marzo 2013 n.9535; Cass. Sez. Un. 6 Novembre 2014 n.23675): ciò di cui, altrettanto evidentemente, non è possibile parlare con riferimento alla notificazione della sentenza su iniziativa della parte.
La Cassazione procede poi alla confutazione della sua precedente decisione n. 883 del 2014, nella parte in cui attribuisce rilievo, ai fini in discorso, alla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, siccome evento idoneo a rendere certa l’anteriorità della conoscenza della sentenza per l’impugnante, in applicazione analogica del principio dettato dall’art. 2704, comma 1°, c.c.
Viene infatti correttamente rilevato che la decorrenza del termine breve trova la sua ragion
d’essere non nell’acquisizione della conoscenza della sentenza, essendo quest’ultima già legalmente nota alle parti per il semplice fatto della pubblicazione, ma (come è stato anche dianzi sottolineato) in un sollecito che una parte indirizza all’altra per una più rapida decisione in ordine all’eventuale esercizio del potere d’impugnazione.
Ove poi si ritenesse condivisibile la scelta d’introdurre in via analogica la decadenza da un diritto di natura processuale, non ci sarebbero i presupposti per far ricorso all’analogia, poiché mancherebbe la lacuna normativa che ne legittimerebbe l’uso (essendo la materia compiutamente disciplinata dal codice), né vi sarebbe la eadem ratio (posto che la disposizione opera nel campo dei rapporti giuridici sostanziali: per ulteriori approfondimenti: X. XXXXXXX, Le Sezioni Unite confermano il principio della bilateralità degli effetti della notificazione della sentenza, in Giustizia xxxxxx.xxx, fasc., 12 Aprile 2019).
Infine, va osservato come una diversificazione della decorrenza del termine breve per impugnare, tra notificante e destinatario della notificazione delle sentenza, condurrebbe ad un assetto irrazionale del sistema delle impugnazioni.
L’unicità del decorso del termine delle impugnazioni tutela l’equilibrio e la parità processuale fra le parti; e garantisce, inoltre, la certezza dei rapporti giuridici, in quanto il giudicato si forma contemporaneamente nei confronti di tutte le parti stesse. Al contrario, la diversità del decorso del termine di impugnazione determinerebbe una sorta di disparità di trattamento nei confronti di una di esse.
Esecuzione forzata
L’ordinanza di estinzione atipica e di liberazione dei beni pignorati va impugnata con opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Cassazione, sez. VI, 20 settembre 2019, n. 4961 – Pres. De Stefano – Est. Tatangelo
Nelle ipotesi in cui il giudice dell’esecuzione dichiari l’improcedibilità della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza o inefficacia del titolo esecutivo, il provvedimento adottato a chiusura definitiva della procedura esecutiva è impugnabile solo con l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c.
CASO
T.A. proponeva opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Foggia dichiarava improcedibile l’espropriazione presso terzi promossa nei confronti dell’Inps, ritenendo estinto il credito fatto valere e disponendo la liberazione delle somme pignorate.
L’opposizione veniva accolta e il Tribunale dichiarava nulla l’ordinanza impugnata. Proponeva ricorso per cassazione l’Inps.
SOLUZIONE
La S.C. ha deciso di accogliere il ricorso dell’Inps esclusivamente con riguardo al motivo relativo alla liquidazione delle spese di lite ritenendo, viceversa, di rigettare il motivo con cui il ricorrente contestava la modalità di impugnazione del provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato l’improcedibilità della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo o della sua inefficacia.
QUESTIONI
Nel processo di esecuzione non vi sono “controversie da decidere ma diritti da attuare” (Xxxxxxxxxx, Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, 2ª ed., Torino, 1993, 1): nondimeno, parentesi di cognizione possono darsi ogni qualvolta vi sia la necessità di tutelare diritti soggettivi coinvolti nell’esecuzione ovvero si tratti di accertare la ricorrenza o meno di una causa di improcedibilità o la chiusura in rito del processo esecutivo.
L’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. concerne il quomodo dell’esecuzione: dalla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto alla notificazione del titolo esecutivo e del precetto, ai singoli atti esecutivi e ai provvedimenti che concernono l’esecuzione forzata.
Nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione dichiarava improcedibile l’esecuzione forzata basata su un titolo giudiziale, ritenendo estinto il credito fatto valere e disponendo la liberazione delle somme pignorate presso i terzi a carico dell’Inps.
Tale provvedimento di estinzione emesso dal g.e. veniva impugnato dal creditore procedente con opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., strumento impugnatorio che la S.C. individua come appropriato per tutte le ipotesi di c.d. estinzione atipica, escludendo sia il ricorso per cassazione (Cass., Sez. VI, 03/02/2011, n. 2674), sia il reclamo al collegio ex art. 630 c.p.c., che resta invece riservato alla sola estinzione della procedura per cause tipiche (x.
Xxxxxxxxxx, Note sull’estinzione del processo esecutivo, Salerno, 2004, 341 ss.).
È la stessa Suprema Corte che fornisce un criterio pratico che consenta di distinguere le due ipotesi sopra enunciate: occorre avere riguardo alla natura definitiva o meno del provvedimento mediante il quale sia disposta congiuntamente anche la liberazione dei beni pignorati.
Ove cioè sia stata proposta un’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., il giudice dell’esecuzione, con il provvedimento che sospende o chiude il processo, deve contestualmente fissare il termine per l’instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione (salvo che l’opponente stesso vi rinunzi) e, in mancanza, sarà possibile per la parte interessata chiedere l’integrazione del provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c. ovvero
procedere direttamente alla instaurazione del suddetto giudizio di merito (Cass. n. 22033/2011 e successive conformi, tra cui Xxxx., 24 maggio 2017, n. 13108).
Nel caso di specie, l’avvenuta liberazione dei beni pignorati (espressamente disposta dal giudice dell’esecuzione, è indice inequivocabile ed incontrastabile della definitività del provvedimento impugnato, della cui assoggettabilità all’opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., non può quindi dubitarsi.
In conclusione, laddove il processo esecutivo sia stato definito dal giudice dell’esecuzione (sia esso espresso come dichiarazione di improcedibilità, di estinzione cd. atipica o di assegnazione degli importi dovuti al creditore e di chiusura della procedura), il creditore potrà proporre esclusivamente l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c e non certamente il reclamo ai sensi dell’art. 624 c.p.c., che rimane riservato al provvedimento interinale di sospensione dell’esecuzione.
Responsabilità civile
Risarcimento del danno da circolazione stradale: l’azione diretta del terzo trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore postula l’accertamento della corresponsabilità di quest'ultimo
di Xxxxxxx Xxxxxx
Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4147 – Pres. Xxxxxxxx – Rel. Graziosi
[1] Contratto di assicurazione – Risarcimento del danno – Circolazione stradale – Caso fortuito
–Terzo trasportato – Responsabilità del vettore – Azione diretta
(D. Lgs. n. 209 del 7 settembre 2005: artt.140, 141, 144, 150; Cod. civ. artt. 2043, 2054; C.p.c.
art. 360)
[1] “L’art. 141 cod. ass., in conseguenza del riferimento al caso fortuito – nella giuridica accezione inclusiva di condotte umane – come limite all’obbligo risarcitorio dell’assicuratore del vettore verso il trasportato danneggiato nel sinistro, richiede che il vettore sia almeno corresponsabile del sinistro quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore; una volta accertato l’an della responsabilità del vettore, non occorre accertare quale sia la misura di responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, dovendo comunque l’assicuratore del vettore risarcire in toto il trasportato, salva eventuale rivalsa verso l’assicuratore di altro corresponsabile o di altri corresponsabili della causazione del sinistro. La totale assenza di responsabilità del vettore deve essere inoltre dimostrata dal suo assicuratore provando che il caso fortuito è stata l’unica causa del sinistro, salvo che l’assicuratore di un altro dei veicoli coinvolti non intervenga e non lo esoneri dall’obbligo risarcitorio dichiarando la esclusiva responsabilità del proprio assicurato, in tal caso il giudice dovendo subito estromettere l’assicuratore del vettore, la domanda risarcitoria attorea rivolgendosi ex lege verso l’assicuratore intervenuto.”
CASO
[1] A seguito di un sinistro stradale, il conducente di una delle due auto decedeva insieme ad uno dei passeggeri mentre gli altri due trasportati riportavano delle lesioni gravi.
I trasportati superstiti e i congiunti dell’uomo che era deceduto citavano in giudizio la compagnia assicuratrice del vettore ai sensi dell’art. 141 cod. ass.
Il Tribunale di Torino accertava la corresponsabilità dei due conducenti nella misura del 20% a carico del conducente deceduto e dell’80% in capo al guidatore sopravvissuto, condannandoli al risarcimento in egual misura.
La Corte d’appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, acclarava, invece, la responsabilità della causazione del sinistro nella misura del 100% in capo al conducente dell’auto ancora in vita e condannava la sua assicurazione a risarcire tutti i danneggiati e, parimenti, la compagnia assicurativa del vettore defunto a risarcire i trasportati sopravvissuti e i congiunti del trasportato defunto.
Ricorrono in Cassazione le due compagnie assicuratrici, i trasportati e gli eredi del passeggero defunto.
SOLUZIONE
[1] Per quanto di interesse l’assicurazione del vettore defunto con primo motivo di ricorso denunciava, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c., 329 co. 2 c.p.c. e 342 c.p.c., e l’omesso accertamento di giudicato interno attinente all’inapplicabilità dell’art. 141 cod. ass.
A sostegno della doglianza il ricorrente faceva presente che fin dal primo atto difensivo aveva eccepito che l’incapienza del massimale assicurativo dell’altra assicurazione e la messa a disposizione di quest’ultima senza riserve, con l’azione ai sensi dell’art. 140, co. 4 cod. ass., comportavano l’inapplicabilità dell’art. 141 cod. ass. e, di conseguenza, il venir meno dell’onere della compagnia assicuratrice del vettore di risarcire i trasportati.
Con il secondo motivo di ricorso la compagnia assicuratrice censurava la sentenza d’appello per violazione, ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., degli artt. 140 e 141 cod. ass. in quanto la Corte territoriale, pur avendo accertato la mancanza di responsabilità del vettore defunto, applicando l’art. 141 cod. ass., aveva comunque condannato entrambe le compagnie a risarcire i danni. Secondo il ricorrente, infatti, l’art. 141 cod. ass. non stabilirebbe un onere dell’assicuratore del vettore a risarcire i trasportati anche nel caso in cui il suo assicurato non è responsabile bensì lo delegherebbe soltanto a risarcire per conto dell’assicuratore del responsabile civile nei cui confronti potrebbe rivalersi dopo il pagamento. Inoltre i trasportati insoddisfatti dal massimale minimo potrebbero agire per il residuo risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile (e quindi anche nei confronti dell’assicuratore del vettore se il vettore è responsabile o corresponsabile civile) qualora il massimale sia superiore al minimo di legge. Non sussiste, infatti, alcuna forma di responsabilità oggettiva in quanto l’art. 141 cod. ass. non è applicabile in ipotesi di caso fortuito.
La Corte di Cassazione dopo aver analizzato dettagliatamente l’art. 141 cod. ass e la questione di diritto sottesa al caso ha accolto il primo e il secondo motivo di ricorso.
QUESTIONI
[1] Una delle peculiarità dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti è costituita dall’attribuzione al terzo
danneggiato di un’azione diretta, nei limiti del massimale, nei confronti dell’assicuratore del veicolo responsabile del sinistro e, in taluni casi, nei confronti del proprio assicuratore.
L’art. 141 cod. ass. disciplina tale azione nell’ottica di un più celere e sicuro ristoro del danno tenendo conto che il terzo danneggiato è estraneo al rapporto contrattuale tra assicurato- danneggiante ed assicuratore.
La Corte di Cassazione, in particolare, era stata chiamata a rispondere al quesito di diritto se l’assicuratore del vettore sia tenuto a risarcire il danno ai terzi trasportati, ai sensi dell’art. 141 cod. ass., anche qualora il conducente-vettore non abbia alcuna responsabilità nella causazione dell’incidente.
La Suprema Corte, anzitutto, ripercorre analiticamente la genesi della norma che sin dalla sua formulazione è stata oggetto di numerose critiche e questioni di legittimità costituzionale e, soprattutto, di disparate interpretazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Gli Xxxxxxxxx, tuttavia, ritenendo gli arresti giurisprudenziali e l’interpretazione dottrinale inadeguati a fornire risposta al quesito di diritto in esame, offrono un’interpretazione letterale dell’art. 141 cod. ass. da cui ne emerge la sua complessità ma non la sua contraddittorietà.
Ad avviso dei giudici l’interpretazione dottrinale si è troppo discostata dalla lettera della legge: l’orientamento dominante, infatti, considera l’art. 141 cod. ass. in maniera diametralmente opposta rispetto alla disciplina previgente (art. 18 legge 990/1969) sostenendo che tale disposizione avrebbe oggettivizzato la responsabilità dell’assicurazione del vettore. Tale lettura, seppur mossa dalla volontà di agevolare la vittima (favor victimae), tralascia un aspetto fondamentale: il bilanciamento degli interessi coinvolti. Infatti, «il diritto è lo strumento per relazionare interessi. Per identificare fino a che punto la bilancia pende da una parte – ovviamente, la “parte debole” secondo la scelta del legislatore – occorre valutare l’effettivo dettato normativo senza peraltro “correggerlo” nel senso di nullificare ogni bilanciamento e rendere il sistema non un equilibrio, bensì la concretizzazione senza limiti di un “monointeresse”».
Secondo la Terza Sezione, infatti, la lettura corretta della norma non può prescindere dal dato letterale che richiama il caso fortuito. Il comma 1 dell’art. 141 cod. ass. ha un incipit chiaro: l’assicuratore del vettore risarcisce il trasportato tranne nell’ipotesi in cui il caso fortuito abbia cagionato il sinistro (“salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito, il danno subito dal terzo trasportato è risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo…”). In tal modo il caso fortuito viene scelto dal legislatore proprio come parametro del bilanciamento degli interessi tra il trasportato e l’assicuratore del vettore.
E’ notorio che il caso fortuito identifichi un evento di origine puramente naturale che sfugge al controllo degli esseri umani ma, nel linguaggio giuridico, alle cause naturali (il “caso”, in questo senso, è causa) si aggiungono anche la condotte umane – compresa quella del danneggiato – cui l’autonomia e la imprevedibilità conferiscano appunto il ruolo di causa “assorbente” ovvero che elide il nesso causale con gli elementi antecedenti (ex plurimis cfr.
Cass. sez. 3, ord. 1° febbraio 2018 n. 2477; Cass. sez. 3, ord. 31 ottobre 2017 n. 25837; Cass.
sez. 3, 18 settembre 2015 n. 18317; Cass. sez. 3, 19 maggio 2011 n. 11016; Cass. sez. 3, 7
aprile 2010 n. 8229; Cass. sez. 3, 5 dicembre 2008 n. 28811; Cass. sez. 3, 30 ottobre 2008 n.
26051; Cass. sez. 3, 8 maggio 2008 n. 11227; Cass. sez. 3, 19 febbraio 2008 n. 4279).
Introdurre – come vorrebbe parte della dottrina – un concetto di caso fortuito per così dire “ristretto” ad una sorta di nucleo naturale (ossia emendato dalle condotte umane), tale da rendere la responsabilità del vettore oggettiva, sarebbe illogico in quanto se il legislatore avesse voluto stravolgere questo concetto giuridico lo avrebbe fatto espressamente. Al contrario, invece, il legislatore ha voluto impiegare il furtuitus casus come unico limite alla responsabilità dell’assicuratore del vettore.
L’elemento sostanziale del caso fortuito, infatti, precede, giuridicamente e logicamente, l’elemento processuale della responsabilità dei conducenti coinvolti nel sinistro: prima di tutto deve essere escluso il caso fortuito e, successivamente, in una situazione di corresponsabilità si procederà “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro”. Questa preposizione, infatti, si riferisce ad una responsabilità non di uno ma di più soggetti: la responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti. In altre parole se il legislatore avesse inteso oggettivizzare la responsabilità dell’assicuratore del vettore sarebbe stato logico che l’inciso in questione fosse stato: “a prescindere dall’accertamento della responsabilità del conducente“.
La Corte rileva, inoltre, che anche il diritto di rivalsa, previsto dal quarto comma dell’art. 141 cod. ass., depone contro una lettura oggettivizzante della responsabilità dell’assicuratore grazie al richiamo operato all’art. 150 dello stesso Codice delle assicurazioni.
L’art. 150 cod. ass. afferma, al primo comma, sub a), la necessità di “criteri di determinazione del grado di responsabilità delle parti anche per la definizione dei rapporti interni tra le imprese di assicurazione”.
Ai sensi del combinato disposto dei suddetti articoli i conducenti sono corresponsabili e deve esserne misurata la loro quota di responsabilità. Ciò significa che l’obbligo della compagnia di risarcire in toto il danno dipende dalla circostanza che non si sia verificata una causazione del sinistro del tutto esterna al vettore, oppure che il vettore abbia una percentuale di responsabilità del sinistro. In questi casi, la compagnia, tramite la rivalsa, recupera la percentuale non attribuibile al vettore nei confronti delle assicurazioni dei corresponsabili.
Nel caso, poi, opposto all’esistenza del caso fortuito, ovvero in quello in cui ogni responsabilità del sinistro è addebitabile al vettore, non vi è presupposto per rivalsa nei confronti di alcuno e la peculiarità dell’azione ai sensi dell’art. 141 si concentra sul profilo processuale/probatorio. Nessuna rivalsa è ovviamente configurabile se l’assicuratore del vettore risulta non responsabile per sussistenza di caso fortuito.
La regolazione della responsabilità dell’assicuratore del vettore mediante il criterio del caso
fortuito genera, quindi, due effetti, uno sostanziale e l’altro processuale.
L’effetto sostanziale è che la responsabilità dell’assicuratore del vettore non sussiste se la causa del sinistro non è la condotta dell’assicurato cioè del vettore.
L’effetto processuale è che, non emergendo che il legislatore abbia derogato all’ordinario paradigma dell’onere probatorio del caso fortuito, l’attore/trasportato non ha alcun onere di prova al riguardo perchè sarebbe altrimenti gravato di una prova negativa cioè di provare che non esiste il caso fortuito per dimostrare che esiste la responsabilità del convenuto. E’, quindi, il convenuto/assicuratore, se intende eccepire che la sua origine eziologica sta nel caso fortuito, che ha l’onere probatorio della ricostruzione della vicenda sotto il profilo causale.
Il che significa – e in ciò si concretizza un evidente favor verso il trasportato – che il trasportato non è avvinto al paradigma probatorio dell’art. 2043 c.c. e neppure a quello dell’art. 2054 co. 2 c.c., non essendo tenuto a dimostrare le modalità in cui si è verificato il sinistro (cfr. Cass. sez. 3, 30 luglio 2015 n. 16181 e, in motivazione, Cass. sez. 3, ord. 5 luglio 2017 n. 16477) dovendo soltanto provare la sua esistenza e il proprio conseguente danno. Sarà, invece, il convenuto, assicuratore del vettore, a dover dimostrare, per svincolarsi dall’obbligo ex adverso addotto come suo, che il caso fortuito è stata l’unica causa del sinistro.
In una siffatta struttura processuale generata dalla sua base sostanziale, secondo la Corte, è ancor più agevolmente logico che il successivo inciso dell’art. 141 cod. ass. “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti” deve essere coordinato con la prima parte della norma e dunque letto nel senso che: «se l’assicuratore del vettore non adempie all’onere impostogli dalla regola del caso fortuito di provare la totale derivazione dell’evento dannoso da questo, il processo non deve ulteriormente essere speso sul profilo della responsabilità, in quanto l’assicuratore del vettore è comunque tenuto a risarcire completamente il trasportato, la presenza di una eventuale corresponsabilità incidendo poi ai fini di rivalsa secondo il combinato disposto dell’art. 141, comma 4, e art. 150, comma 1, lett. a) del Codice.»
A maggior sostegno di tali statuizioni gli Ermellini ritengono che anche il co. 3 dell’art. 141 cod. ass. sia in perfetta armonia con la suddetta conformazione processuale poiché «se, infatti, per caso fortuito si deve intendere anche la condotta del conducente di un veicolo diverso da quello su cui l’attore è stato trasportato, qualora l’assicuratore dell’altro veicolo intervenga “riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato”, e così la propria, la legge consente un accertamento peculiare del caso fortuito, accertamento che si concretizza nella dichiarazione dell’assicuratore (che non avrà valore, per la sua natura dispositiva, nei confronti del suo assicurato) e la conseguenza è, al pari che nell’ipotesi in cui l’assicuratore del vettore abbia dimostrato egli stesso il caso fortuito, l’assenza di obbligo di risarcimento dell’assicuratore del vettore, in più con il trasferimento ex lege della pretesa attorea verso l’assicuratore dell’altro conducente quale assicuratore del responsabile.»
In definitiva, secondo la Corte di Cassazione, nel Codice delle assicurazioni del 2005 il legislatore non ha ritenuto di far pendere la bilancia dell’allocazione del rischio dei sinistri
stradali al punto di rendere oggettiva la responsabilità dell’assicuratore del vettore, limitandosi, sull’orma dell’art. 2054 c.c., comma 1, a renderla oggetto di una praesumptio juris tantum.
Sulla base di tutte le considerazioni riportate la Terza Sezione ha accolto il ricorso e ha affermato il principio di diritto riportato in epigrafe.
Comunione – Condominio - Locazione
La tutela della detenzione/ospitalità nei rapporti tra familiari: le vicende collegate al rilascio del bene immobile
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Tribunale civile di Bologna, ordinanza del 9.10.2018 – Sezione 2^, dott.ssa Gentili (inedita)
Articoli 700 – 669 bis cpc e segg.ti
“Il ricorso è da riqualificarsi come richiesta di provvedimento cautelare d’urgenza di liberazione dell’immobile ERP, detenuto da….in forza di contratto di locazione, nei confronti del figlio …, che lo occupa contro la volontà della conduttrice, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 700 e 669 septies, comma 6^ cpc.
Se è vero, infatti che il detentore, che non adempia ai propri obblighi verso il possessore, non interverte il possesso, allo stesso modo il detentore per ragioni di ospitalità che non libera l’immobile diventa semplicemente detentore sine titulo, essendo venuta meno la volontà che aveva legittimato l’originaria ospitalità”.
FATTO
La vicenda nasce da un’azione cautelare (reintegra possessoria) reiterata dalla legittima assegnataria in locazione di alloggio ERP, nei confronti del figlio, al quale aveva originariamente offerto ospitalità nell’immobile, ma che di fatto l’aveva privata del possesso “di fruire liberamente dell’alloggio”, adibito da quest’ultimo a officina e palestra personale.
La ricorrente aveva già interposto azione di reintegra, precedentemente rigettata dal Tribunale per insussistenza dei presupposti dell’azione (carenza di integrale spoglio), quindi reiterava il ricorso adducendo si fossero verificate “circostanze nuove”, da meritare il riesame dell’intera vicenda, finalizzata ad ottenere un provvedimento di immediato rilascio, nei confronti del figlio.
SOLUZIONE
Il Tribunale, differentemente da quanto dedotto dalla medesima autorità nel precedente giudizio possessorio, che come già scritto era stato rigettato, riqualifica l’azione come provvedimento cautelare d’urgenza ed accoglie il ricorso, disponendo l’immediata liberazione dell’immobile, mediante consegna delle chiavi di accesso ed in difetto, autorizzando la ricorrente alla sostituzione della serratura della porta di accesso all’appartamento.
QUESTIONI
La questione in esame investe lo “spinoso” terreno dei rimedi processuali concessi dall’ordinamento a fronte delle occupazioni degli immobili, in ragione della sussistenza di un titolo non altrimenti definibile come locazione, in quanto diversamente non sarebbe possibile ricorrere alla tutela d’urgenza.
Il fulcro dell’intera questione ruota intorno alla qualificazione dell’azione ed ai conseguenti presupposti per l’accoglimento della misura cautelare richiesta e/o riqualificata dal tribunale.
Differentemente dal giudice a quo, altro giudice del medesimo Tribunale, investito nuovamente della medesima questione da parte ricorrente, sebbene arricchita da fatti e circostanze “nuove” ed urgenti, involgenti un nuovo thema decidendum ed un chiaro periculum in mora, accoglie il ricorso e dispone l’applicazione della tutela d’urgenza ex articolo 700 cpc sulla liberazione del bene immobile, in ragione di un possesso precario, da parte di detentore non qualificato: ospite.
Di sicuro interesse per il giurista, la corretta interpretazione che il giudice riconosce alla detenzione per ragioni di ospitalità: “presta ospitalità chi accoglie per breve soggiorno presso di sé persona cui in genere legato da intimità parentela, amicizia, etc…”.
Sempre ai fini della qualificazione dell’azione come ricorso ex articolo 700 cpc, il tribunale rileva come risulta pacifico che la ricorrente non sia stata spogliata dell’immobile, in quanto può liberamente accedervi, tantomeno risulta qualificabile una specifica legittimazione del detentore qualificato rispetto all’azione di manutenzione nel possesso, avendo quest’ultimo, in qualche modo, titolo ad occupare il bene.
Da qui, correttamente il tribunale rileva nella condotta del resistente una situazione differente dalla semplice ospitalità, potendo sconfinare “nell’occupazione abusiva”, anche se non esclusiva del resistente, ma in guisa di ridurre consistentemente il potere di godimento della ricorrente, originaria assegnataria dell’alloggio.
Sicuramente ardita appare l’interpretazione ermeneutica che il giudice del cautelare fornisce, in ordine al titolo da cui derivi l’ospitalità e dalle conseguenti motivazioni del ricorrente, che comportano la caducazione di tale titolo e la restituzione del bene, ossia “il perdurare della volontà di ospitare”, al cessare della quale, si impone in capo al soggetto ospitante il diritto di vedersi restituito il bene.
In punto di accoglimento della misura cautelare – ricorso d’urgenza – potrebbe qui disquisirsi sulla residualità ed atipicità del rimedio e sull’esigenza che potesse invece diversamente invocarsi altra azione tipica, costituita dall’occupazione senza titolo e quindi dagli ordinari rimedi processuali: ricorso ex articolo 447 bis cpc per i fautori del collegamento funzionale con il rito delle locazioni ovvero introduzione di ricorso ex articolo 702 bis cpc e/o azione ordinaria, per chi, come chi scrive, ritiene il rito locatizio invocabile strictu sensu solo alle
locazione e non alle occupazioni senza titolo.
Ciò nondimeno, nella fattispecie in esame, il tribunale accoglie la misura cautelare richiesta, pur nella complessiva riqualificazione della domanda, anche per l’effettiva sussistenza del secondo requisito costituito dal periculum in mora, siccome ricollegabile alla necessità di evitare che la ricorrente si trovasse esposta al provvedimento di decadenza dell’assegnazione dell’alloggio ERP, da parte dell’Ente, nonché motivato da specifiche e comprovate esigenze di salute, sempre della ricorrente medesima, la quale “necessità di una sistemazione abitativa, dove poter trovare condizioni di serenità e di equilibrio in solitudine”.
Certo, gran parte del merito dell’accoglimento della misura cautelare va attribuito alla condotta contumaciale del resistente e dall’assoluta assenza di difese, che avrebbe potuto diversamente segnare la sorte del giudizio, specie in ordine ai presupposti della domanda ed alla residualità ed atipicità del rimedio cautelare dedotto, a fronte dell’esplicita sussistenza di altra azione tipica di rilascio del bene detenuto sine titulo.
Presenta carattere di originalità anche l’ordine disposto nella misura cautelare, consistente nell’immediata consegna delle chiavi di accesso e/o in difetto la sostituzione della serratura della porta di acceso all’appartamento ad opera della parte, come in una sorta di specifica “autotutela” immediata e senza necessità di ricorrere agli specifici rimedi giurisdizionali esecutivi.
Così come originale si presenta anche il provvedimento conclusivo sull’irripetibilità delle spese di lite, ciò a fronte della condotta contumaciale del resistente, dello stato d’incapienza del medesimo e considerato che la ricorrente godeva dell’ammissione del patrocinio a spese dello Stato.
Pur comprendendo le motivazioni a giustificazione dell’irripetibilità, si dissente dalla decisione, in quanto fattivamente la domanda risulta essere stata accolta nella sua interezza e quindi l’applicazione degli articoli 91 cpc e segg.ti avrebbero comportato quale diretta giuridica la soccombenza del resistente, a prescindere dalla condotta processuale e tantomeno dalle attuali condizioni reddituali del medesimo.
Diritto successorio e donazioni
Meritevole di tutela il vincolo di destinazione a favore dei chirografari
di Redazione
Il vincolo di destinazione ex articolo 2645-ter cod. civ. costituito da una società a responsabilità limitata anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo è meritevole di tutela, qualora sia finalizzato a consentire la soddisfazione proporzionale dei creditori non muniti di cause di prelazione. È questo il principio di diritto che la Corte di Cassazione ha enunciato nell’ordinanza n. 1260 del 18.01.2019.
La controversia in esame trae origine da un’opposizione avverso un decreto ingiuntivo, finalizzata anche ad ottenere la declaratoria di invalidità dell’ipoteca giudiziale iscritta su un’immobile della società debitrice, che veniva sottoposto, prima del summenzionato diritto reale di garanzia, ad un vincolo di destinazione ai sensi dell’articolo 2645-ter cod. civ..
È opportuno specificare che la segregazione patrimoniale ottenuta col vincolo in esame era finalizzata a garantire i creditori della debitrice che non avevano una causa legittima di prelazione. Essa, inoltre, dopo la costituzione del vincolo, aveva iniziato una procedura di concordato preventivo ai sensi dell’articolo 167 R.D. 267/1942.
Dopo l’esito infausto dei giudizi di primo e secondo grado, la debitrice decideva di proporre ricorso in Cassazione. Fra i vari motivi addotti a sostegno del gravame in analisi, meritano particolare attenzione le doglianze attinenti al contrasto fra l’ipoteca e il vincolo di destinazione.
In primo luogo, la ricorrente aveva eccepito la violazione del principio della domanda da parte del giudice di seconde cure. La Corte d’appello, infatti, aveva rigettato la domanda attinente alla cancellazione dell’ipoteca, ritenendola subordinata all’accoglimento di quella attinente alla dichiarazione di invalidità del decreto ingiuntivo. La ricorrente, invece, aveva sollevato la richiesta de qua in via autonoma ed in forza di un presupposto completamente slegato rispetto alla sorte del decreto ingiuntivo, cioè in base alla sussistenza anteriore del vincolo di destinazione.
La Suprema Corte ha censurato la sentenza oggetto dell’impugnazione, evidenziando come quest’ultima, nonostante la questione della prevalenza del vincolo di destinazione sull’ipoteca fosse stata espressamente riproposta con l’atto di appello, avesse illegittimamente ritenuto inammissibile la censura perché disancorata dalle conclusioni dell’atto introduttivo, unicamente rivolte all’accertamento dell’invalidità o dell’inefficacia ab origine del
provvedimento monitorio.
È evidente, dunque, l’esistenza di una violazione dell’articolo 112 c.p.c., il quale enuncia il principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato.
In secondo luogo, la società debitrice ha lamentato che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto valutare la questione della anteriorità della trascrizione del vincolo di destinazione sull’immobile, essendo questa una problematica sostanzialmente decisiva per la risoluzione della controversia.
La Corte di Cassazione, nel prendere in considerazione la vexata quaestio appena accennata, si è espressa sulla compatibilità della presente operazione con il requisito della meritevolezza dell’interesse sotteso al vincolo di destinazione, condizione richiesta dal citato articolo
2645-ter cod. civ..
Secondo i Xxxxxxx Xxxxxxx, «deve ritenersi meritevole di tutela il fine perseguito dall’impresa che, anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo, costituisca sul patrimonio un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter cod. civ. al fine di consentire la soddisfazione proporzionale dei creditori non muniti di cause di prelazione. Detta iniziativa consente, infatti, la conoscibilità dello stato di crisi e preserva il patrimonio da eventuali atti di distrazione o da iniziative destinate ad avvantaggiare solo alcuni creditori in pregiudizio degli altri.»
Detto diversamente, considerato che il vincolo di destinazione non era stato costituito a favore solo di alcuni creditori del concordato, non è possibile ipotizzare la lesione della par condicio nei confronti di alcuno dei questi, messi evidentemente sullo stesso piano.
In conclusione, quindi, i giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso, cassando l’impugnata sentenza di secondo grado con rinvio alla competente Corte d’Appello in diversa composizione.
Articolo tratto da “Euroconferencenews“
Diritto e reati societari
Fatti di bancarotta e scritture contabili: la Suprema Corte cassa con rinvio perché i bilanci “inattendibili” non possono costituire prova delle avvenute distrazioni
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati
Corte di Cassazione, V Sezione Penale, Sentenza n. 15789/2019 del 19 marzo 2019 (pubblicata il 10 aprile 2019)
Parole chiave: bancarotta fraudolenta patrimoniale – amministratore unico – distrazione patrimoniale – cassa – ammontare distrazioni – efficacia probatoria delle scritture contabili – inattendibilità
Massima: “Deve essere cassata con rinvio la sentenza d’appello che condanna l’amministratore della società per bancarotta fraudolenta patrimoniale per aver distratto dalla cassa della società la differenza fra l’importo risultante dalla situazione patrimoniale e la somma materialmente rinvenuta dal curatore fallimentare laddove la stessa sentenza che dichiara il fallimento evidenzia l’inattendibilità della voce “disponibilità di cassa” nelle scritture contabili mentre la responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione richiede l’accertamento della previa disponibilità, da parte dell’imputato, dei beni non rinvenuti in seno all’impresa”
Disposizioni applicate: art. 87 e 223 L.F. – artt. 2710 e 2740 c.c. – art. 192 c.p.p..
La Quinta Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 15789 del 19 marzo 2019, si è pronunciata sul reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e sull’efficacia probatoria delle scritture contabili societarie, laddove queste ultime siano incomplete o comunque prospettino una situazione patrimoniale inattendibile.
Ben si comprende, infatti, come una regolare e corretta tenuta dalla contabilità aziendale svolga un ruolo fondamentale nella vita della società sia nel momento, per così dire, fisiologico al fine di rappresentare ai soci, ma anche ai terzi e al mercato, lo “stato di salute” patrimoniale e reddituale di quest’ultima; sia – e ancor di più – nel momento “patologico” (stato di crisi ed eventuale fallimento) per ricostruire il patrimonio societario, le operazioni e soprattutto le dinamiche che hanno condotto al dissesto. Infatti, la dichiarazione di fallimento costituisce l’evento con il quale si “cristallizzano” e consumano eventuali condotte illecite perpetrate da parte delle figure apicali (organo amministrativo, amministratori delegati, direttori generali ecc.) con conseguenti possibili censure sia in termini di responsabilità civilistiche sia soprattutto in termini di reati fallimentari (bancarotta e così via).
I bilanci (e le altre scritture contabili) – in ragione della funzione assolta di rilevazione e rappresentazione, fra l’altro, della situazione di salute patrimoniale e finanziaria della società – sono dotati di un ruolo probatorio “previlegiato” per quanto concerne le vicende societarie, senza assurgere tuttavia a prove legali, essendo soggetti in ogni caso al libero apprezzamento da parte del Giudice (art. 116 c.p.c.) (cfr. ex multis Cassazione 25 ottobre 2018 n. 30516). Con la conseguenza che il soggetto che li ha prodotti in giudizio resterà diversamente onerato, mediante ulteriori e diversi strumenti probatori (cfr. in proposito, recentemente Cassazione 23 novembre 2018 n. 30516).
Xxxxxx, anche in materia di reati fallimentari commessi dalle figure apicali (nel caso di specie: bancarotta fraudolenta patrimoniale) una corretta e completa tenuta della contabilità nonché una rappresentazione veritiera dei fatti contabili sono la base per ricostruire il perimetro del patrimonio sociale e per relationem l’ammontare degli ammanchi, tant’è vero che in linea generale il calcolo del quantum delle distrazioni, di regola, si effettua dal raffronto fra la “cassa” così come risultante dalle voci bilancistiche (e dalle altre scritture) e quella effettivamente rinvenuta dal curatore al momento del fallimento. Si ricorda infatti che allorquando risulti che la figura apicale abbia compiuto dei prelievi extracontabili (ossia non annotati nella contabilità ufficiale), incombe sulla stessa, ai sensi dei principi generali, l’onere di fornire debita giustificazione, motivazione e prova della finalità sociale – e non invece personale ovvero extrasociale – del prelievo stesso (cfr. ex multis Cassazione 11 novembre 2010 n. 22911). In altre parole, secondo la Giurisprudenza, “pare evidente che la responsabilità della cassa grava sull’amministratore, sicché su di lui xxxxxxx l’onere di provare che le somme che, secondo la contabilità sociale, avrebbero dovuto costituire il saldo cassa ed invece non reperite al momento del fallimento, fossero comunque state utilizzate per scopi sociali” (cfr. Cassazione 16 giugno 2016 n. 12454).
Nella fattispecie posta all’attenzione della Quinta Sezione della Suprema Corte
l’amministratore unico di una S.r.l., dichiarata fallita, proponeva ricorso nei confronti della sentenza della Corte territoriale – confermativa di quella di primo grado – che lo aveva ritenuto responsabile dei fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per aver distratto dalle casse sociali ingenti somme di denaro.
Nel dettaglio, la società era stata dichiarata fallita in data 1 luglio 2009 e la situazione patrimoniale al 3 luglio 2009 rappresentava “disponibilità liquide” per decine di migliaia di euro, ma pochi giorni più tardi il Curatore nominato avrebbe rinvenuto nelle casse sociali solo poche centinaia di euro.
Avverso la sentenza di secondo grado, di conferma della condanna, l’amministratore unico della società ricorreva per Cassazione, evidenziando, in buona sostanza, come la Corte d’Xxxxxxx avesse travisato la situazione contabile della società, della quale il ricorrente aveva
prodotto in giudizio una nota esplicativa, finalizzata “a dimostrare … agli organi fallimentari che il bilancio in possesso degli stessi non era completo, nonché l’inattendibilità o incertezza dell’importo imputato come oggetto di appropriazione, alla luce del confronto tra la sentenza dichiarativa di fallimento e le mere scritture contabili”.
La Quinta Sezione, con la sentenza in commento, rileva subito come la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni di proprietà della società fallita – fatti questi integranti il delitto di bancarotta per distrazione – possa “esser desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti, posto che la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori … giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato” (cfr., conformi, Cassazione 22 settembre 2015 n. 8260; Cassazione 13 febbraio 2014 n. 11095).
Invero, pare opportuno ricordare come gravi sull’imprenditore sia la responsabilità per la conservazione della garanzia patrimoniale nei riguardi dei creditori (art. 2740 c.c.), sia l’obbligo di riferire il vero in sede di interpello da parte del curatore (art. 87 L.F.), circa la destinazione dei beni dell’impresa.
Alla luce di detti obblighi sarebbe giustificato, in caso di mancato rinvenimento dei beni aziendali o dei loro ricavati, l’inversione dell’onere della prova (ancorché solo apparante) a carico dell’amministratore della società imputato di bancarotta per distrazione.
Il principio sopra esposto, prosegue la Quinta Sezione, deve tuttavia coordinarsi con ulteriore accertamento prodromico – che costituisce finanche un presupposto logico – della responsabilità dell’amministratore per bancarotta, e ciò “indipendentemente da qualsiasi presunzione”, ossia quello della previa disponibilità, in capo alla società fallita, dei beni non rinvenuti al momento del fallimento.
Precisa la Corte che il detto accertamento della previa disponibilità da parte dell’imputato dei beni distratti “non può fondarsi sulla presunzione di attendibilità dei libri e delle scritture … dovendo invece le risultanze desumibili da questi essere valutate – soprattutto quando la loro corrispondenza al vero sia negata dall’imprenditore – nella loro intrinseca attendibilità … al fine di accertare la loro corrispondenza al reale andamento degli affari e delle dinamiche aziendali” (cfr. ex multis Cassazione 3 ottobre 2018 n. 55805).
Ad avviso della Cassazione, la Corte d’Xxxxxxx non avrebbe fatto “buon governo” dei principi esposti avendo, in particolare, “affidato la prova della previa effettiva disponibilità, in capo alla fallita, delle somme oggetto dell’imputazione di bancarotta per distrazione al dato contabile, la cui attendibilità, tuttavia, era stata oggetto di censure da parte dell’appellante” (il quale, per inciso, in sede di gravame aveva in particolare citato espressamente un passaggio della sentenza dichiarativa di fallimento che evidenziava l’inattendibilità della voce relativa alla “disponibilità di cassa”).
Ebbene, osserva la Corte di Cassazione, la sentenza dichiarativa di fallimento aveva correttamente rilevato l’inattendibilità della voce contabile relativa alla disponibilità di cassa, stante da un lato la conclamata incapacità della società di pagare i propri debiti e dall’altro che l’unico conto corrente della società presentava un saldo negativo per alcune centinaia di migliaia di euro.
La Quinta Sezione ha così statuito per l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla competente Corte d’Appello, per un nuovo esame nel merito alla luce degli esposti principi.
Diritto Bancario
Chiarimenti sulla normativa applicabile all'assegno circolare
di Xxxxx Xxxxxxxx
Con la recente ordinanza del 30 aprile 2019 n. 11387, la Cassazione ha operato alcuni chiarimenti in merito alla normativa applicabile all’assegno circolare (diversa da quella relativa all’assegno bancario). In particolare, i giudici di legittimità hanno dovuto valutare se, in riferimento a quattro assegni circolari portati all’incasso a quasi un anno di distanza dalla loro emissione, trovi applicazione il termine previsto per i soli assegni bancari, secondo un criterio di ragionevolezza e proporzionalità.
Al riguardo, la Cassazione ha escluso l’applicazione analogica degli artt. 32 e 35 del r.d. n. 1736 del 1933 all’assegno circolare, evidenziando quanto segue:
– nel caso in cui un assegno circolare non sia stato effettivamente riscosso dal beneficiario, il diritto al rimborso della provvista da parte del richiedente l’emissione del titolo si prescrive nell’ordinario termine decennale, che decorre dal momento in cui esso può essere fatto valere, cioè dalla scadenza del termine di tre anni previsto dall’art. 84 del r.d. n. 1736 del 1933, entro cui si prescrive l’azione del beneficiario dell’assegno contro l’istituto bancario emittente, come confermato dall’art. 1, comma 345 ter della 1. n. 266 del 2005, che prevede il versamento degli assegni circolari non riscossi al Fondo per indennizzare i risparmiatori rimasti vittime di frodi finanziarie, soltanto dopo che sia scaduto il detto termine triennale;
– la disciplina dell’assegno, art. 84, secondo xxxxx, r.d. n. 1736 del 1933, chiarisce che, riguardo agli assegni circolari, l’azione contro l’emittente istituto bancario si prescrive nel termine di tre anni dall’emissione. Mentre con riferimento all’assegno bancario, l’art. 32 prevede un termine assai stretto (otto giorni) per la presentazione dell’assegno stesso all’incasso, se pagabile nel medesimo comune in cui è stato emesso (termini più ampi, anche se sempre assai limitati, se il Comune è differente); dopo trascorso tale termine, l’intestatario dell’assegno può ordinare di non pagare la somma; in mancanza di tale ordine, l’assegno può comunque essere pagato anche successivamente (art. 35);
– per struttura e caratteri l’assegno bancario si distingue nettamente da quello circolare che costituisce un titolo di credito all’ordine, emesso da un istituto di credito a ciò autorizzato dall’autorità competente, per un importo che sia disponibile presso di esso al momento della emissione, e pagabile a vista presso tutti i recapiti indicati dall’emittente (Cass. n. 5889/2018). Deve dunque escludersi una applicazione analogica degli artt. 32 e 35 del r.d. n. 1736 del 1933 all’assegno circolare.
Diritto del Lavoro
Codatorialità, illegittimo il licenziamento intimato da un solo datore di lavoro
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 11 febbraio 2019, n. 3899
Licenziamento individuale – codatorialità – reintegra e risarcimento – in solido – responsabilità
MASSIMA
Qualora uno stesso dipendente presti servizio contemporaneamente a favore di diversi datori e l’attività sia svolta in modo indifferenziato, si configura l’unicità del rapporto di lavoro e tutti i fruitori dell’attività del lavoratore devono essere considerati solidalmente responsabili nei
suoi confronti per le obbligazioni relative, ai sensi dell’articolo 1294 c.c..
COMMENTO
Una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole dall’azienda presso cui era formalmente alle dipendenze, durante il periodo di gravidanza. L’azienda, pur non contestando la gravidanza faceva valere, ai sensi dell’art. 54, legge n. 151/2001, l’esonero dal divieto di licenziamento per cessazione dell’attività. La lavoratrice riteneva versarsi in una situazione di rapporto di lavoro di fatto contestuale con altre aziende facenti capo al medesimo centro di interessi. Il giudice di primo grado rigettava l’impugnazione, ma la Corte d’Xxxxxxx, decidendo il reclamo proposto dalla lavoratrice lo accoglieva, condannando le aziende resistenti in solido alla reintegrazione della lavoratrice ed al pagamento delle indennità risarcitorie conseguenti. Proponendo ricorso per cassazione, tutte le imprese ricorrenti sostengono che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere sussistente una situazione di unicità del rapporto di lavoro, dovendosi distinguere il concetto di codatorialità da quello di unicità del centro di imputazione del rapporto di lavoro – da intendersi, questo, come un’unica struttura organizzativa e produttiva, con integrazione delle attività esercitate dalle varie imprese, un interesse comune alle stesse, coordinamento tecnico e amministrativo e unicità d direzione. Il Supremo Xxxxxxxx adito ritiene che, a prescindere dall’esistenza nel caso in decisione di un vero e proprio gruppo societario, sia stato accertato in giudizio che la lavoratrice abbia reso la prestazione lavorativa per oltre dieci anni in favore, contestualmente, sia della società datrice di lavoro formale che delle altre aziende convenute. Secondo i giudici di legittimità si è dunque in presenza di una situazione di cosiddetta “codatorialità”; si ha unicità del rapporto di lavoro qualora uno stesso lavoratore presti contemporaneamente servizio per due o più datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta
nell’interesse di un datore di lavoro e quale nell’interesse dell’altro, con la conseguenza che tutti i fruitori della forza lavoro devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, ai sensi dell’art. 1294 c.c.. Tale disposizione stabilisce una presunzione di solidarietà in caso di obbligazione con pluralità di debitori, ove dalla legge o dal titolo non risulti diversamente. Lo stesso dicasi qualora tra più società vi sia un collegamento economico-funzionale tale da far ravvisare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti, quando si accerti l’utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società titolari delle distinte imprese. Il collegamento economico funzionale tra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo societario e l’utilizzo da parte delle stesse delle prestazioni lavorative, fanno sì che sia individuabile un unico rapporto di lavoro alle dipendenze di più datori di lavoro e tutti i fruitori dell’attività del lavoratore dovranno essere considerati solidalmente responsabili nei suoi confronti per le relative obbligazioni. Alla luce di tale ragionamento la Suprema Corte ha ritenuto che, nel caso de quo, essendo cessata l’attività soltanto per una delle imprese resistenti – ovvero quella che fungeva da datore di lavoro in senso formale – potrà essere invocato l’esonero dal divieto di licenziamento unicamente da quest’ultima. Mentre per le altre imprese, concludono i giudici, essendo incontestato che il recesso è stato intimato durante il periodo di maternità della lavoratrice, ricadranno su di esse le conseguenze derivanti dalla nullità del licenziamento. Il ricorso proposto è stato così ritenuto infondato e rigettato.
Soft Skills
Misurazione dell'efficienza dell'approccio digitale nell'ambito della direzione legale
di Xxxxxxxx Xxxxxxx
Al giorno d’oggi uno dei temi di maggior interesse per quanto concerne la direzione legale in ambito aziendale è certamente il grado di digitalizzazione raggiunto e la capacità di fronteggiare con tempestività tutte le problematiche che si pongono nell’ambito del processi produttivi e commerciali.
L’approccio digitale non può che essere (e in realtà è ormai da molti anni) l’unica strada percorribile per assicurare rapidità di intervento e canali sicuri per lo scambio di informazioni; per usare un termine molto in voga di questi tempi si pone dunque l’esigenza di definire un approccio digitale “by design” che sia in grado di rispettare al contempo la normativa in materia di protezione dei dati personali e di assicurare al contempo efficienza ed efficacia degli interventi operativi.
È bene dunque che l’approccio digitale connoti l’organizzazione della direzione legale sin dal momento della creazione; solo così potranno essere impartite precise direttive in materia di gestione documentale e si servizi di comunicazione sicuri.