Contract
CONTRATTI ATIPICI E FLESSIBILITA'
Il diritto
del lavoro italiano, a partire dagli interventi normativi di inizio
secolo, si è progressivamente edificato attorno alla figura del
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Le ragioni che
hanno portato a definire il contratto di lavoro a tempo indeterminato
come modello standard di riferimento per la regolamentazione dei
rapporti di lavoro, si trova certamente nella tutela dello statuto
giuridico del lavoro dipendente e nella migliore risposta
all'organizzazione della produzione di stampo fordista-tayloristico,
caratteristica base della produzione e organizzazione delle economie
occidentali. In particolare, questo modello consentiva di coniugare
l'esigenza delle imprese di disponibilità di manodopera con le
esigenze di tutela dei lavoratori.
Al giorno d'oggi, stante la notevole mutazione del mercato del lavoro caratterizzato da una forte offerta di lavoro femminile, considerata la modificazione dei modi di produzione e organizzazione del lavoro e il decadimento del modello fordista-tayloristico, osserviamo una diffusione di una vasta gamma di tipologie di lavoro che, possiamo genericamente definire "atipiche", in contrapposizione al prototipo normativo del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. D'altra parte sarebbe riduttivo circoscrivere il fenomeno del lavoro "atipico"ai rapporti di lavoro dipendente non a tempo indeterminato. Più coerente con l'evoluzione dei rapporti di lavoro in atto è invece l'individuazione di concetto di lavoro atipico come comprendente tutte le manifestazioni di lavoro conosciute dal diritto vivente al di là del loro inquadramento formale nei modelli predisposti dal legislatore.
Mentre in passato vi era quindi una corrispondenza tra le esigenze di tutela del lavoratore e le esigenze dei metodi di produzione, ora le mutate necessità delle imprese e dei mercati conducono a una fuga dal modello di lavoro "standard" e a una deregolamentazione serpeggiante del diritto del lavoro italiano.
L'adeguamento della normativa italiana rispetto ai
mutamenti è avvenuto attraverso una stratificazione di leggi di
diversa ispirazione, e spesso solo su sollecitazione dell'Unione
Europea e degli obblighi imposti dall'appartenenza ad essa. Le
indicazioni fornite dall'unione Europea sono a riguardo molto chiare:
gli stati Europei sono stati invitati a "modernizzare"
l'organizzazione del lavoro e ad esaminare l'opportunità di
introdurre nei rispettivi ordinamenti tipi di contratto più
confacenti che tengano conto della mutabilità delle forme di lavoro
assunte dall'occupazione. Questa indicazione, contenuta nella
conclusione della Presidenza del Consiglio del Lussemburgo, è alla
base della politica di convergenza sull'occupazione avviata con il
trattato di Amsterdam.
In rapporto alle mutate esigenze del
mercato del lavoro, le tipologie contrattuali "atipiche"
ormai più diffuse sono rappresentate dal lavoro interinale,
dal nuovo apprendistato, dai contratti di
formazione lavoro, dai tirocini formativi e di
orientamento, dal part-time, dal contratto di
lavoro ripartito o job sharing, dalle collaborazioni
coordinate e continuative, compresi i contratti di lavoro a progetto.
A questi lavoratori devono essere garantiti uguali diritti rispetto
ai lavoratori tipici, sia per ciò che riguarda la disciplina del
rapporto di lavoro sia per la tutela e la sicurezza sui luoghi di
lavoro.
PART TIME
La disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale è contenuta nel recente d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, emanato in sostituzione della preesistente normativa (v. art. 5 L. 863 del 1984) e in attuazione della direttiva n. 97/81/CE. Il d.lgs. 26 febbraio 2001, n. 100 recante "Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61" è poi intervenuto per correggere il procedimento traspositivo.
In ogni caso, ancor prima della legificazione, il contratto di lavoro a tempo parziale era considerato legittimo, nel rispetto dell'art. 36 Cost. e del r.d.l. 692/1923 che pongono limiti solo massimi e non minimi all'orario di lavoro.
Con la nuova legge si è provveduto a liberalizzare il ricorso all'istituto e a definirlo direttamente, in particolare stabilendo "rapporto di lavoro a tempo parziale" qualsiasi contratto in cui l'orario di lavoro sia inferiore a quello a tempo pieno, cioè le 40 ore settimanali ovvero l'eventuale minor orario definito dai contratti collettivi applicabili, anche con riferimento alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.
Il provvedimento legislativo che disciplina il part time funge da strumento di elasticizzazione delle regole di accesso al mercato del lavoro, incrementando l'occupazione e favorendo il soddisfacimento di quelle esigenze a carattere familiare, culturale o sociale che tendono a caratterizzare l'offerta di manodopera della società attuale.
Le tipologie di lavoro a tempo parziale individuate dal d. lgs 20 febbraio 2000 n. 61, sono:
- part time orizzontale: orario di lavoro ridotto su base giornaliera
- part time verticale: orario di lavoro ridotto su base di periodi predeterminati (settimana, mese, anno)
- part time misto o ciclico: orario di lavoro ridotto su base giornaliera ma con punte verticali in alcuni giorni della settimana, del mese o dell'anno (es.: 4 ore al giorno per quattro mesi l'anno). Solitamente questa forma di part time riguarda lavoratori assunti in settori particolari con forte presenza di lavoratori stagionali.
Il contratto di lavoro a tempo parziale può essere stipulato contestualmente all'assunzione oppure successivamente; in ogni caso deve obbligatoriamente essere stipulato per iscritto e contenere le indicazioni relative alle mansioni svolte e alla distribuzione dell'orario di lavoro. Può essere concluso anche a tempo determinato, ed in questo caso non è ammessa l'effettuazione di lavoro supplementare (v. infra) o l'apposizione di clausole di elasticità, a meno che l'assunzione non sia effettuata allo scopo di sostituire un lavoratore assente. Qualora il datore di lavoro intenda assumere personale a tempo parziale, la legge riconosce ai dipendenti assunti a tempo pieno, che vogliano passare a tempo parziale, una sorta di "interesse legittimo"; il datore di lavoro è pertanto obbligato a:
- dare tempestiva comunicazione ai lavoratori occupati in unità produttive site nello stesso ambito comunale
- considerare eventuali richieste di trasformazione
- motivare adeguatamente l'eventuale rifiuto su richiesta del lavoratore interessato.
Nel caso in cui il rapporto di lavoro si trasformi da tempo parziale a tempo pieno, nel silenzio della legge si deve ritenere che sia sufficiente il consenso del lavoratore, senza cioè la necessità della forma scritta o di altro onere di natura formale o procedurale; in ogni caso la trasformazione costituisce una fattispecie di natura consensuale.
Con il d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, sono state inoltre riconosciute legittime le cosiddette clausole flessibili o elastiche, cioè la possibilità di modificare la collocazione temporale della prestazione di lavoro nell'arco del giorno, settimana, mese o anno con le modalità individuate dai contratti collettivi di lavoro. La flessibilità si deve intendere in ordine alla sola "collocazione temporale" della prestazione lavorativa, escludendo la possibilità di variare la durata complessiva in aumento o in diminuzione. L'effettuazione di prestazioni flessibili è subordinata al preventivo consenso scritto da parte del lavoratore e deve essere richiesta con un preavviso di almeno 10 giorni, quando i contratti collettivi non prevedano un preavviso inferiore (in ogni caso non inferiore alle 48 ore). La prestazione flessibile dà luogo a una maggiorazione retributiva secondo le modalità dei contratti collettivi.
Il lavoratore può denunciare il patto sottoscritto col datore di lavoro e ripristinare la distribuzione rigida dell'orario solo qualora si verifichi una delle seguenti ipotesi:
- esigenze a carattere familiare
- esigenze di tutela della salute
- esigenze di attendere ad altra attività lavorativa subordinata o autonoma
- altre esigenze individuate dalla contrattazione collettiva.
Questo diritto di ripensamento deve effettuarsi in forma scritta, con un preavviso di almeno 5 mesi a seconda della motivazione addotta.
Il rifiuto da parte del lavoratore di svolgere prestazioni flessibili e l'esercizio del diritto di ripensamento non possono in alcun modo integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.
Ai contratti collettivi è inoltre devoluto il compito di definire (relativamente al numero massimo di ore effettuabili nell'arco della giornata e dell'anno, e circa le ipotesi che giustificano la richiesta del datore di lavoro) in dettaglio le modalità dell'utilizzo del lavoro supplementare, cioè quel lavoro svolto oltre l'orario concordato fra le parti ed entro il limite del tempo pieno. In attesa della conclusione degli accordi, il ricorso al lavoro supplementare è ammesso nella misura massima del 10% della durata dell'orario di lavoro a tempo parziale, in relazione a periodi non superiori a un mese. L'effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare richiede il consenso del lavoratore interessato e l'eventuale rifiuto non costituisce infrazione disciplinare e non integra gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.
Per quanto concerne la retribuzione, il lavoro supplementare è retribuito come le ore di lavoro ordinario; si ha diritto a una maggiorazione sulle ore di lavoro solo qualora esse superino di fatto il limite del tempo pieno. La maggiorazione è stabilita dagli accordi collettivi, in carenza dei quali vige una maggiorazione legale pari al 50% della retribuzione oraria globale di fatto.
Nel recepire una precisa volontà del legislatore comunitario, il d.lgs. n. 61 del 2000 ha sancito espressamente il principio di non discriminazione del lavoratore part time rispetto al lavoratore a tempo pieno. Questa previsione rafforza la tutela già desumibile dal nostro ordinamento relativa al divieto di discriminazione diretta e indiretta. L'art. 4 riconosce al lavoratore part time gli stessi diritti dei lavoratori a tempo pieno comparabili (cioè inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi) per quanto riguarda la retribuzione, il periodo di prova, le ferie, la sospensione del rapporto per malattia, infortunio e maternità, la sicurezza del lavoro, la formazione professionale e i diritti sindacali.
La nuova disciplina non ha innovato la disciplina relativa alla stipulazione di più contratti di lavoro part time con diversi datori di lavoro, che resta pertanto legittima.
Job Sharing
Il contratto di job sharing, o contratto di lavoro gemellato, è un contratto col quale due o più lavoratori, solitamente due, assumono in solido una obbligazione di lavoro subordinato corrispondente a un posto a tempo pieno, restando liberi di suddividere tra loro l'orario di lavoro con il vincolo a sostituirsi vicendevolmente in caso di impedimento dell'uno o dell'altro. In questo caso, la flessibilità dell'orario di lavoro dipende dagli interessi dei lavoratori coinvolti anziché dalle esigenze dell'impresa. Questa tipologia contrattuale rappresenta un importante strumento di flessibilità introdotto per la prima volta nell'ordinamento statunitense negli anni Sessanta e oggi largamente utilizzato in tutto il mondo, anche se con discipline largamente differenti fra loro. In Italia il contratto di job sharing è stato regolato in maniera atipica; la sola fonte legislativa in materia è la circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 7 aprile 1998, n. 43. La circolare fornisce un quadro normativo di base a tutela dei prestatori di lavoro coobbligati e a garanzia delle imprese che, in questo modo, si assicurano la continuità della prestazione lavorativa e una notevole riduzione dei livelli di assenteismo. Il contratto di job sharing richiede la forma scritta, con indicazione della ripartizione, in percentuale, dell'orario di lavoro fra i lavoratori interessati, peraltro modificabile in qualsiasi momento. La retribuzione di ogni lavoratore viene determinata in base alle ore effettivamente prestate.
I lavoratori sono tenuti a informare il datore di lavoro, con cadenza almeno settimanale, della distribuzione dell'orario di lavoro. In caso di assenza di uno dei contraenti, il datore di lavoro può pretendere dall'altro l'adempimento dell'intera prestazione, ovvero la contrattazione collettiva può stabilire modalità differenti.
LA BANCA ORE
L'art. 13 della L. 196 del 1997 prevedendo espressamente la possibilità di modulare l'orario di lavoro lungo un arco temporale ultrasettimanale non superiore all'anno, ha consentito alla contrattazione collettiva la sperimentazione di ulteriori forme di gestione flessibile dell'orario di lavoro.
L'istituto c.d. della Banca delle Ore prende spunto proprio da ciò per consentire al prestatore di lavoro di far confluire le ore di straordinario svolte in un monte ore che può essere pagato o trasformato in riposi compensativi.
LE TIPOLOGIE DI LAVORO TEMPORANEO:
Così come indicato dalla direttiva CEE/383/91, per lavoratori temporanei devono intendersi quei lavoratori aventi "un rapporto a durata determinata o un rapporto di lavoro interinale", cioè coloro che si discostano dal contratto di lavoro tipico a tempo indeterminato per la loro durata definita.
a) Il lavoro intermittente tramite agenzia
Il lavoro interinale consiste nella fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, ed è disciplinato dalla L. 196/97 che supera così il divieto di intermediazione della manodopera sancito dalla L. 1369 del 1960. L'impresa può, in sostanza, "affittare" i lavoratori da agenzie di fornitura di lavoro interinale debitamente autorizzate dal Ministero del Lavoro, previa la verifica della sussistenza di determinati requisiti (quali essere costituite in società di capitali o in cooperative, oltre all'obbligo di rispettare altri requisiti relativamente alla distribuzione sul territorio nazionale, alle somme da versare come capitale sociale, al deposito cauzionale per i primi due anni e alla fideiussione bancaria dal terzo anno in poi). Tali soggetti potranno svolgere l'attività solo in via esclusiva.
Solitamente la richiesta di lavoro interinale è dovuta a necessità determinate da un inaspettata esigenza gestionale dell'impresa utilizzatrice, la quale risparmia così sui costi di ricerca, selezione e formazione del personale, evitando l'onere di operare assunzioni definitive. I lavoratori restano perciò alle dipendenze delle agenzie, anche se ad essi è riservato lo stesso trattamento retributivo e previdenziale dei lavoratori indipendenti delle imprese utilizzatrici. Qualora venga loro richiesto di restare a disposizione dell'impresa utilizzatrice anche nei periodi di non lavoro, percepiranno una apposita indennità di disponibilità. Il servizio delle imprese fornitrici di lavoro temporaneo è, per legge, totalmente gratuito per i lavoratori.
Ammissibilità del lavoro temporaneo
La legge ha disciplinato i casi in cui il lavoro interinale è ammesso e i casi in cui è vietato, lasciando ampio spazio alla contrattazione collettiva. Di rilevante importanza la possibilità di determinare, in aggiunta a quanto già definito dalla L. 196/97, i casi di ammissibilità per il ricorso al lavoro interinale. Ciò consente un costante adeguamento alle esigenze del mercato del lavoro, attraverso uno strumento che non incorre nei tempi chiaramente più lunghi necessari al legislatore. I contratti collettivi sono inoltre chiamati a definire la percentuale massima di lavoratori interinali impiegati rispetto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato e la disciplina del rinnovo del contratto di fornitura con la stessa impresa fornitrice. Diversamente da altri paesi, in Italia non è definito con una durata minima o massima né il contratto di fornitura né il contratto di prestazione di lavoro interinale. La contrattazione collettiva è ancora chiamata a intervenire circa l'individuazione delle qualifiche di basso contenuto professionale per le quali non è possibile il ricorso al lavoro temporaneo, stemperando così la severità del divieto. Ancora da ricordare è l'intervento rimesso alla contrattazione collettiva di introdurre il lavoro interinale in via sperimentale in determinate aree geografiche, per un periodo di tempo circoscritto, nei settori edile e agricolo . Il disegno di Legge Delega in materia di Occupazione e Mercato del Lavoro prevede (cfr. art. 8) " la completa estensione al settore agricolo del lavoro temporaneo tramite agenzia, con conseguente applicabilità degli oneri contributivi".
La contrattazione è quindi intervenuta con un primo importante accordo Interconfederale, l'Accordo Interconfederale di Confindustria del 16 aprile 1998, il quale ha efficacia per tutte le imprese aderenti a Confindustria fin quando la contrattazione nazionale di categoria non provvede a intervenire in ottemperanza alla L. 196/97. Fino ad ora, oltre il sopraccitato Accordo, sono stati sottoscritti l'Accordo Interconfederale per il settore cooperativo, e successivamente per il terziario e commercio e per il settore artigianato (1998), e il Protocollo d'Intesa per l'introduzione sperimentale del lavoro interinale nel settore agricolo (1998).
In particolare gli accordi interconfederali (industria, artigianato, cooperative) hanno previsto la casistica per l'utilizzo del lavoro temporaneo, aggiuntiva rispetto a quella prevista per legge, con riferimento specifico ad attività incrementali non assolvibili con i normali assetti produttivi o ad attività che non trovino riscontro in livelli professionali interni o sul mercato del lavoro locale. Per quanto riguarda le percentuali di utilizzo viene precisato che il numero di lavoratori temporanei non potrà superare la media trimestrale dell'8% dei lavoratori occupati nell'impresa utilizzatrice. Ciò implica la possibilità, per periodi inferiori o uguali al mese, di poter superare il limite medio qualora compensato da un equivalente minor ricorso nel periodo precedente o successivo. In alternativa è fissato al numero di 5 il limite massimo dei prestatori temporanei purché non venga superato il totale dei contratti di lavoro a tempo indeterminato.
E' stato anche stipulato un accordo quadro per il pubblico impiego (Accordo Quadro ARAN del 9 agosto 2000), che consente anche in questo settore l'utilizzo del lavoro temporaneo nella misura massima del 7% dei lavoratori a tempo indeterminato, per soddisfare esigenze non continuative o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o con le normali modalità di reclutamento del personale.
In generale, possiamo dire che Il contratto di fornitura di lavoro temporaneo tra azienda utilizzatrice e azienda fornitrice può essere concluso nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali applicati nell'impresa utilizzatrice, nei casi di temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali, nei casi di sostituzione di lavoratori assenti. Sarà invece vietato per le mansioni individuate dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell'impresa utilizzatrice, con particolare riguardo alle mansioni il cui svolgimento può presentare maggiore pericolo per la sicurezza del prestatore o di soggetti terzi, per la sostituzione di lavoratori in sciopero, presso unità produttive che nei 12 mesi precedenti abbiano fatto ricorso a licenziamenti collettivi, o che abbiano in corso cassa integrazione, per imprese che non dimostrino di avere effettuato la valutazione del rischio ai sensi del decreto legislativo 626/94, per lavori pericolosi.
Il lavoratore e l'impresa fornitrice di lavoro temporaneo
Il datore di lavoro è rappresentato dall'azienda fornitrice anche se il lavoratore svolge la sua prestazione presso altre imprese; l'azienda fornitrice è infatti tenuta al pagamento della retribuzione ed ai versamenti previdenziali. Il rapporto tra lavoratore e azienda fornitrice è regolato dal contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, che ha forma scritta e contiene una serie di elementi, tra i quali i motivi del ricorso al lavoro temporaneo, l'indicazione dell'impresa fornitrice e dell'impresa utilizzatrice, le mansioni e l'inquadramento, il luogo e l'orario della prestazione lavorativa, la data di inizio e il termine della prestazione, il trattamento economico. Il trattamento retributivo corrisposto al lavoratore durante la prestazione lavorativa non può essere inferiore a quello cui hanno diritto i dipendenti di pari livello dell'impresa utilizzatrice, compreso l'accesso a tutti i servizi sociali e assistenziali. Al lavoratore temporaneo non può essere corrisposto il trattamento retributivo previsto per la categoria di livello più basso quando tale inquadramento, secondo il contratto collettivo, ha carattere esclusivamente transitorio
Nel novembre 2000 è stato costituito da Alai Cisl, Nidil Cgil, Cpo Uil, e Confinterim e Ailt (le associazioni di rappresentanza delle imprese fornitrici di lavoro temporaneo) un Fondo per la formazione dei lavoratori temporanei. L'azienda fornitrice ha l'obbligo, per legge, di versare un contributo pari al 4% delle retribuzioni erogate ai prestatori di lavoro temporaneo, finalizzato ad iniziative formative specifiche per i lavoratori temporanei. Tali risorse andranno a finanziare progetti formativi specifici per i lavoratori interinali, conformi a quanto stabilito tra le parti con l'accordo del 18 aprile 1999 .
Il Fondo ha un suo statuto ed un regolamento di funzionamento.
Il lavoratore e l'impresa utilizzatrice
L'impresa utilizzatrice ha degli obblighi precisi nei confronti del lavoratore: è tenuta ad informare il lavoratore se le mansioni assegnate comportano rischi particolari, è tenuta a tutti gli obblighi di protezione, risponde in solido con l'azienda fornitrice degli obblighi retributivi e contributivi.
Il prestatore di lavoro temporaneo ha diritto di esercitare presso l'impresa utilizzatrice i diritti di libertà e di attività sindacale.
b) il contratto di lavoro a tempo determinato
Il d.lgs. n. 368 sul "Lavoro a tempo determinato",
ha recepito l'accordo raggiunto in maggio dalle organizzazioni
sindacali CISL e UIL con le principali Organizzazioni
imprenditoriali.
Il decreto ha dato attuazione alla Direttiva
Comunitaria 1999/70/CE che prevedeva una omologazione della
normativa sul tempo determinato a livello comunitario. ll nuovo
quadro normativo consente l'utilizzazione di uno strumento
contrattuale che non rappresenta più un'eccezione rispetto al
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma che
costituisce una tipologia contrattuale autonoma più facilmente
praticabile in piena armonia con le disposizioni comunitarie ed
adeguata a quei parametri di flessibilità sui quali puntare per
garantire maggiori opportunità di lavoro.
La nuova normativa trova applicazione anche nel settore pubblico.
Il decreto legislativo afferma il principio della legittimità
dell'apposizione del termine alla durata del contratto di lavoro
subordinato per «ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo».
Come nella previgente
disciplina, l'apposizione del termine è inefficace se non risulta
direttamente o indirettamente da atto scritto, nel quale
devono essere specificate le ragioni che hanno portato alla
stipulazione del contratto a tempo determinato.
Il rapporto è comunque soggetto al periodo di prova salvo che l'atto
scritto non ne preveda l'esclusione.
Anche questa forma di
assunzione prevede alcuni casi in cui non è possibile utilizzare
lavoratori con contratto a termine, individuando i casi in cui esso è
vietato, ed in particolare:
- per la sostituzione di
lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
- presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei
mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi della L. 223/91,
secondo determinate modalità, salva diversa disposizione degli
accordi sindacali.
- presso unità produttive nelle quali sia
operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario,
con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino
lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a
termine;
- da parte delle imprese che non abbiano effettuato la
valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. 626/94.
Sono escluse dall'applicazione di questo istituto anche le assunzioni con contratto di lavoro temporaneo, con contratto di formazione e lavoro e con contratto di apprendistato, regolate dalla normativa di riferimento.
Quanto alle ipotesi di proroga, già precedentemente
modificate con la L. 196/97, il termine del contratto a tempo
determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato
solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre
anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a
condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla
stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato
stipulato a tempo determinato. In ogni caso deve essere rispettata la
durata massima di tre anni.
E' confermata l'applicazione di
sanzioni nel caso in cui il rapporto di lavoro continui dopo la
scadenza della proroga. Inoltre, se il rapporto di lavoro continua
oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a
sei mesi, ovvero oltre il trentesimo negli altri casi, il contratto
si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti
termini.
Quando si tratti di due assunzioni successive a termine (intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità) il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
Altra novità del nuovo decreto la precisazione del "principio di non discriminazione": sono riconosciute al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato, le ferie e la gratifica natalizia (o la tredicesima mensilità), il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili.
Totalmente innovativo, invece, è il contenuto dell'art. 7, il quale
prevede la necessità per il lavoratore assunto con contratto a tempo
determinato, di ricevere una formazione sufficiente ed
adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto,
al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del
lavoro. I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai
sindacati comparativamente più rappresentativi, possono prevedere
modalità e strumenti diretti ad agevolare l'accesso dei lavoratori a
tempo determinato ad opportunità di formazione adeguate, per
aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne
la mobilità occupazionale.
I
contratti collettivi nazionali possono inoltre prevedere ulteriori
limiti quantitativi
di utilizzazione dell'istituto del
contratto a tempo determinato.
Il D.Lgs. 368/2001 rimette la disciplina di un «diritto di
precedenza», ai contratti collettivi nazionali di lavoro, per
l'assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, a
favore dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con
contratto a tempo determinato in particolari ipotesi. In ogni caso il
diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla data di
cessazione del rapporto di lavoro ed il lavoratore può esercitarlo a
condizione che manifesti in tal senso la propria volontà al datore
di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto
stesso.
Tipologie di lavoro in alternanza con periodi di formazione professionale:
l'apprendistato, il contratto di formazione e lavoro, lo stage
Una tendenza ormai preminente nei diversi Paesi europei è quella di concepire la formazione professionale non più come un costo ma come un investimento non limitato alla fase di pre-inserimento nel mondo del lavoro, ma ad una fase che accompagna il lavoratore lungo tutto l'arco della vita lavorativa, la cosiddetta "formazione continua". Il sistema formativo può Inoltre rivolgersi a coloro che hanno perso i lavoro o hanno una occupazione a rischio. In particolare, il Pacchetto Treu (L. 196/97) ha dato un forte slancio innovativo alla formazione, incentivando gli aspetti formativi di istituti quali l'apprendistato, il contratto di formazione e lavoro, il tirocinio formativo e di orientamento e garantendo una maggiore tutela degli strumenti di formazione.
a) L'apprendistato
L'apprendistato è un tipo di contratto a causa mista destinato ai giovani che per la prima volta si rivolgono al mercato del lavoro e le sue finalità sono essenzialmente a carattere formativo. La sua origine risale al Medioevo, quando era usato come mezzo di insegnamento delle arti e dei mestieri. La legge del 1955, n. 25, definisce l'apprendistato come "uno speciale rapporto di lavoro, in forza del quale l'imprenditore è obbligato a impartire o far impartire, nella sua impresa, all'apprendista assunto alle sue dipendenze, l'insegnamento necessario perché possa conseguire la capacità tecnica per divenire lavoratore qualificato, utilizzandone l'opera nell'impresa medesima". La specialità del rapporto sta dunque nel fatto che il datore di lavoro ha sia l'obbligo retributivo, sia l'obbligo di impartire l'insegnamento professionale, mentre l'apprendista presta la sua opera non solo a vantaggio del datore di lavoro, ma anche a vantaggio proprio allo scopo di formarsi; l'apprendista ha sia un obbligo sia un diritto di lavorare.
Proprio per questa duplice valenza, l'apprendistato è diventato un istituto largamente diffuso nei Paesi dell'Unione Europea, ma anche molto discusso in ragione dell'utilizzo distorto che se ne fa, legato più ai vantaggi di natura fiscale e alle agevolazioni contributive che ai reali vantaggi formativi dell'istituto.
L'apprendistato interessa generalmente giovani dai 16 ai 24 anni che hanno adempiuto l'obbligo scolastico, e deve avere una durata minima di 18 mesi e massima di 4 anni (con un aumento di 2 anni nel caso di portatori di handicap): nella maggior parte dei casi dura dai due ai quattro anni. Al termine l'apprendista acquisisce lo status di lavoratore qualificato. La remunerazione varia tra il 25% e il 90% della remunerazione di un lavoratore adulto.
Con la legge 196 del 1997, si cercato di innovare l'istituto estendendo l'ambito di applicazione a tutte le categorie settoriali, vincolando le agevolazioni fiscali e contributive alla reale partecipazione dell'apprendista alle attività formative. La contrattazione nazionale e collettiva è chiamata a definire le caratteristiche funzionali e lo svolgimento del contratto di apprendistato.
b) Il contratto di formazione e lavoro
Il contratto di formazione lavoro rappresenta un altro strumento notevole di flessibilità, capace di dare un forte impulso all'entrata dei giovani nel mondo del lavoro. I datori di lavoro che vogliano assumere personale con questo contratto, devono:
- non avere in corso sospensioni di lavoro per CIG
- non avere proceduto a riduzione del personale nei 12 mesi precedenti per le stesse qualifiche da assumere
- aver mantenuto almeno il 60% dei lavoratori i cui contratti di formazione e lavoro siano scaduti nei 24 mesi precedenti.
Il contratto di formazione e lavoro è un contratto a tempo determinato a causa mista, che può essere utilizzato per giovani di età compresa tra i 16 e i 32 anni (nelle aree meridionali può essere disposto l'innalzamento di età, così come i profughi possono essere assunti senza limiti di età).
Particolari norme regolano il periodo di prova: qualora venga stabilita una durata del periodo di prova superiore a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, ciò porta a trasformare il contratto in un contratto a tempo indeterminato. La contrattazione collettiva disciplina inoltre la retribuzione dovuta.
Il contratto di formazione e lavoro, secondo la disciplina introdotta dalla legge 451 del 1994, si suddivide in due modelli:
1) contratto di formazione e lavoro: ha una durata massima di 24 mesi e prevede un numero di ore di formazione che va dalle 80 alle 130 ore a seconda delle qualifiche da acquisire:
2) Contratto di inserimento professionale: ha una durata massima di 12 mesi e prevede un numero di ore di formazione pari a 80 per acquisire le conoscenze di base. Gli accordi interconfederali hanno stabilito la definizione di professionalità alte, intermedie e basse con i relativi livelli.
Caratteristica del contratto di formazione e lavoro è la previsione legislativa che esso contenga un progetto formativo che, presentato alla Commissione Regionale per l'Impiego con richiesta, dà luogo all'assunzione previa approvazione della Commissione.
Il lavoratore assunto con questa tipologia di contratto può essere chiamato nominativamente; il contratto gode inoltre, anche secondo la natura giuridica del datore di lavoro e della collocazione territoriale dell'impresa, di forti incentivi contributivi, previdenziali e assistenziali. In ogni caso, il datore di lavoro che licenzi illegittimamente il lavoratore entro un anno dall'assunzione a tempo indeterminato, è tenuto al restituire i benefici contributivi goduti.
Nella prassi, previo consenso tra le parti, il contratto di
formazione e lavoro si trasforma in contratto a tempo indeterminato,
stante che il lavoratore sia posto a ricoprire una mansione
corrispondente alla attività formativa acquisita.
c)Tirocinio formativo, di orientamento o stage
Lo stage, spesso frequente sbocco dei giovani appena termina la formazione scolastica, è uno strumento di inserimento professionale al pari dell'apprendistato o del contratto di formazione e lavoro. La sostanziale differenza si ha nel fatto che l'attività lavorativa è un mero accessorio alla formazione, e ciò non configura un contratto di lavoro subordinato.
Ai sensi della L. 196/97 e del D.L. 142/98, lo stage non prevede alcuna retribuzione e non è qualificabile come rapporto di lavoro.
COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA
COLLABORAZIONE A PROGETTO
Le nuove forme contrattuali atipiche
La
legge 30 del 2003 sulla riforma del mercato del lavoro, e
successivamente il decreto attuativo 276/2003 e la circolare del
ministero del Lavoro n. 1/04, introducono e disciplinano nuove
modalità lavorative.
Alle collaborazioni coordinate e
continuative, che a differenza di quanto afferma il governo non
spariscono, si aggiungono le collaborazioni a progetto. Inoltre, alle
collaborazioni occasionali si aggiunge il lavoro occasionale
accessorio e le prestazioni occasionali, definite anche
collaborazioni coordinate e continuative occasionali.
Il
lavoro interinale (disciplinato dalla legge 196/97), invece è stato
sostituito dall’istituto della somministrazione.
Le
collaborazioni coordinate e continuative
La legge 30/2003 (legge Biagi) conserva la tipologia del
rapporto di lavoro nella forma della collaborazione coordinata e
continuativa, ma solo per le istituzioni pubbliche. Quelle private
devono inserire nel contratto il “progetto o programma” di cui
parleremo n seguito.
I
collaboratori coordinati e continuativi, a differenza dei lavoratori
autonomi, agiscono in assenza di rischio economico e senza mezzi
organizzati d’impresa. A differenza dei lavoratori dipendenti,
invece, i collaboratori hanno autonomia organizzativa e non sono
soggetti al potere direttivo e disciplinare del committente.
Per
le collaborazioni coordinate e continuative non è previsto l’obbligo
del contratto scritto. In questa modalità lavorativa è necessario,
però, sincronizzare l’attività del lavoratore e il ciclo
produttivo del committente. Quindi, il collaboratore gode di
autonomia circa le modalità, il tempo e il luogo dell’adempimento,
ma l’attività lavorativa deve collegarsi all’organizzazione
dell’impresa.
Il contratto di collaborazione, pur potendo prevedere l’esclusività, non prevede automaticamente l’unicità della prestazione, a meno che ciò non sia previsto un esplicito divieto nel suo contratto individuale.
Questi collaboratori sono obbligati a iscriversi al fondo Inps gestione separata, sono iscritti nel registro matricola ed hanno regolare busta paga essendo assoggettati alle medesime norme fiscali de lavoratori dipendenti (pertanto vengono anche denominati lavoratori parasubordinati).
Per i collaboratori iscritti ad altri fondi previdenziali obbligatori e i titolari di pensione indiretta o di reversibilità, l’aliquota è fissata al 10 %. Il committente deve versare i 2/3 e il lavoratore il restante terzo. Le aliquote qui indicate per la gestione separata INPS, per tutti i lavoratori parasubordinati, sono soggette ad aumenti annuali o biennali, secondo le previsioni delle varie leggi finanziarie.
Le collaborazioni coordinate e continuative possono essere svolte anche con partita Iva individuale. Anzi, spesso i committenti, per abbattere i costi e alleggerirsi di responsabilità, chiedono ai lavoratori l’apertura della partita Iva. È bene, invece, evitare di aprire partita Iva individuale sia perché offre minore tutele, sia perché richiede costi di gestione piuttosto alti.
La riforma del mercato del lavoro esclude esplicitamente dall’applicazione dei nuovi contratti a progetto i collaboratori iscritti a un albo professionale, i collaboratori di società sportive e associazioni di promozione sportiva riconosciute, i pensionati di vecchiaia, i collaboratori delle pubbliche amministrazioni, gli amministratori di società e i partecipanti a collegi e commissioni, gli agenti e i rappresentanti di commercio, chi svolge lavoro autonomo occasionale e tutti i collaboratori esentati dall’applicazione dei collaboratori a progetto da uno specifico accordo aziendale tra impresa e organizzazioni sindacali aziendali.
Le
collaborazioni coordinate e continuative occasionali
Con
la circolare del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
n.1/2004, è stata introdotta, di fatto, una ulteriore tipologia
contrattuale: il lavoro coordinato e continuativo occasionale.
Si tratta di collaborazioni coordinate e continuative che, nello stesso anno solare e con lo stesso committente, hanno una durata complessiva non superiore a 30 giorni e prevedono un compenso complessivo non superiore a 5000 (cinquemila) euro.
Come per le collaborazioni coordinate e continuative, il collaboratore coordinato e continuativo occasionale agisce in assenza di rischio economico e senza mezzi organizzati d’impresa.
Queste collaborazioni sono caratterizzate da un costante coordinamento tra l’attività del lavoratore e il ciclo produttivo del committente, ma il lavoratore gode di autonomia organizzativa circa le modalità, il tempo e il luogo dell’adempimento.
Nel caso in cui i limiti temporali e retributivi che caratterizzano queste collaborazioni di «portata limitata» non vengano rispettati, il rapporto di collaborazione è assoggettato alla disciplina del lavoro a progetto.
Le collaborazioni coordinate e continuative occasionali si distinguono sia dalle prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da soggetti svantaggiati (art. 70 e seguenti, dlgs. n. 276/03), sia dal lavoro occasionale, dove non è previsto né un coordinamento con il committente, né una continuità della prestazione.
I collaboratori coordinati e continuativi occasionali hanno l’obbligo di iscriversi alla gestione separata Inps e devono versare un’aliquota, ripartita tra committente e collaboratore, pari al 17,80% o al 18,80% (in base alla fascia di reddito). Il committente versa i 2/3 e il lavoratore il restante terzo.
Le
collaborazioni occasionali (o lavoro autonomo occasionale)
Il collaboratore occasionale svolge la sua attività in modo
autonomo e non è tenuto a rispettare orari rigidi e predeterminati.
In questo tipo di collaborazione, quindi, il lavoratore
agisce in assenza di rischio economico, non è tenuto a rispettare
uno specifico orario e la sua attività non è strutturale al ciclo
produttivo, ma è solo di supporto al raggiungimento di obiettivi
momentanei del committente.
Questa modalità lavorativa non prevede né il versamento di contributi previdenziali (a meno che il reddito annuo sia superiore a 5.000 euro), né un contratto scritto, né l’obbligo di applicare le regole sulla prevenzione degli infortuni o altre norme previste per gli altri lavoratori. Il lavoratore occasionale presta la propria attività dietro pagamento di un corrispettivo assoggettato a ritenuta d’acconto del 20%. Naturalmente la ritenuta d’acconto non esaurisce gli obblighi fiscali del lavoratore relativi al reddito complessivo annuo.
Il decreto legge 269/2003, convertito nella legge 236/2003, all’art. 44, prevede che dal 1 gennaio 2004 i collaboratori occasionali che hanno un reddito annuo superiore a 5.000 euro sono obbligati a iscriversi e a versare contributi previdenziali presso la gestione separata Inps dei lavoratori parasubordinati. In questo caso, i collaboratori occasionali dovranno versare la stessa aliquota prevista per i collaboratori coordinati e continuativi, ossia del 17,80% o del 18,80%, a seconda del reddito lordo percepito durante l’anno.
Le
consulenze professionali (prestazioni d’opera)
Si può parlare di prestazione d’opera quando una persona,
dietro corrispettivo, si impegna a compiere un’opera o un servizio
prevalentemente attraverso il proprio lavoro e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente.
Le consulenze professionali, dal punto di vista normativo, sono definite prestazioni d’opera e fanno riferimento agli articoli dal 2222 al 2228 del codice civile e, se si tratta di prestazioni d’opera intellettuali, agli articoli 2229-2230 e seguenti. Non esistono contratti, accordi o normative nazionali che disciplinano la prestazione d’opera.
Sebbene non sia obbligatoria la forma scritta, generalmente le parti firmano un «ordine di lavoro o contratto di prestazione d’opera». Questo documento, poiché è l’unico oggetto di riferimento in un eventuale contenzioso, è bene che comprenda una descrizione dettagliata dell’opera o del servizio richiesti; i tempi di consegna - da parte del committente - dei materiali necessari alla progettazione e/o realizzazione; i tempi di consegna del lavoratore; la data e le modalità di recesso; il prezzo pattuito; i tempi di pagamento e una penale in caso di ritardato. Infatti, in caso di tardivo o mancato pagamento è possibile per il lavoratore anche il ricorso alle vie legali.
Dopo l’approvazione del dlgs 276/03, i prestatori d’opera devono essere in possesso di partita Iva individuale. I prestatori d’opera iscritti al Fondo Inps del 10%, anche se la loro prestazione è occasionale, devono indicare nella fattura la rivalsa previdenziale del 4%. Si è esenti da tale obbligo solo se l’attività oggetto della consulenza (o prestazione d’opera) è differente dalla propria attività professionale prevalente.
Associazione
in partecipazione
E’ doveroso premettere che NIdiL-Cgil, insieme alla
Filcams-Cgil e all’Ufficio vertenze della Cgil nazionale, ritengono
i contratti di associazione in partecipazione un’elusione
sostanziale del contratto di lavoro subordinato. Pertanto tali
contratti vanno scoraggiati e contrastati. Il contratto di
associazione in partecipazione, disciplinato dall’articolo 2549 del
codice civile, stabilisce che l’associante (l’imprenditore)
attribuisca all’associato (lavoratore) una partecipazione agli
utili dell’azienda. L’apporto del lavoratore può essere sia una
prestazione di carattere patrimoniale sia una prestazione d’opera.
Il lavoratore (l’associato) ha diritto al rendiconto periodico della gestione dell’impresa. Il dlgs 276/03 introduce per l’associazione in partecipazione un’importante novità: ove manchino adeguate erogazioni a chi lavora o un’effettiva partecipazione all’impresa, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti per il lavoro subordinato per figure corrispondenti.
Contemporaneamente, però, la legge prevede che il committente attraverso attestazioni o documentazione può dimostrare che il lavoro dell’associato non ha natura subordinata ma rientra in altre tipologie di lavoro esistenti. In questo caso, dunque, l’equiparazione economica, contributiva e normativa al lavoro dipendente non esiste.
Dall’ 1/1/2004, gli associati in partecipazione non iscritti ad albi professionali e i cui compensi sono qualificati come redditi da lavoro autonomo, hanno l’obbligo di iscriversi all’Inps presso una loro specifica gestione, e versare un contributo previdenziale pari al 17,39% o al 18,39% del reddito complessivo (a seconda della propria fascia di reddito). Il fondo dedicato agli associati in partecipazione, però, non erogherà prestazioni sociali (indennità di malattia, infortunio e maternità), ma è finalizzato unicamente all’erogazione della pensione al raggiungimento dei requisiti.
Per il versamento del contributo obbligatorio, che viene calcolato in base al reddito imponibile ai fini Irpef, l’associato versa il 45%, e il restante 55% è a carico del committente.
Le
collaborazioni a progetto
Per i contratti a progetto è obbligatoria la forma scritta.
I collaboratori a progetto devono svolgere la loro
attività in base al progetto assegnatogli dal committente. Possono
gestire autonomamente la propria attività, e il committente non deve
esercitare su di lui il potere direttivo e disciplinare.
Ciò che differenzia le collaborazioni a progetto dai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, è l’indicazione di un progetto o programma di lavoro o fasi di esso determinati dal committente.
Infatti, qualora manchi questa indicazione il giudice può considerare il contratto a progetto lavoro subordinato (ma non automaticamente a tempo indeterminato) sin dalla data d’inizio dell’attività lavorativa.
Il collaboratore a progetto, anche se gode di autonomia organizzativa, deve sincronizzare la propria attività al ciclo produttivo del committente ed eventualmente ad un orario di lavoro concordato. Anche se teoricamente il lavoratore a progetto gode di autonomia nelle modalità di esecuzione della prestazione, all’interno del contratto individuale è possibile anche prevedere forme temporali vincolanti della prestazione lavorativa (vedi dlgs n. 276/03 e circolare ministero del lavoro n.1/04). In altre parole nel contratto individuale si può legittimamente definire anche un orario preciso della prestazione.
Il contratto deve prevedere la durata, determinata o determinabile, della collaborazione. Ma alla sua scadenza il contratto può essere prorogato o riattivato attraverso un altro progetto o programma di lavoro -anche identico a quello scaduto- per tutte le volte che il datore di lavoro lo ritenga opportuno quindi, teoricamente, senza limiti.
I collaboratori a progetto sono obbligati a versare al fondo Inps gestione separata un’aliquota del 17,80% o 18,80%, in base alla fascia di reddito. Per i collaboratori iscritti ad altri fondi previdenziali obbligatori e per i titolari di pensione indiretta o di reversibilità, l’aliquota è fissata al 10 %. Il committente deve versare i 2/3 dell’aliquota prevista e il lavoratore il restante terzo.
Le collaborazioni a progetto possono essere svolte anche con partita Iva individuale, ma, anche di fronte alle richieste dei committenti, è bene evitare di aprire una propria partita Iva, sia perché richiede scosti di gestione assai elevati, sia perché offre al collaboratore minori tutele.