AGGIORNAMENTI NORMATIVI
AGGIORNAMENTI NORMATIVI
Xxxxxxx Xxxxxxxxx
IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATO: UNA NUOVA OPPORTUNITÀ PER GLI ENTI ECCLESIASTICI1
Il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (cosiddetta Legge Biagi) ha introdotto una serie di novità, relative al mercato del lavoro, al fine di «aumentare, nel rispetto delle disposizioni relative alla libertà e dignità del lavoratore di cui alla legge 20 maggio 1970, n. 300, […] i tassi di occu- pazione e a promuovere la qualità e la stabilità del lavoro, anche attraverso contratti a contenuto formativo e contratti a orario modulato compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori».
Una di queste novità è il contratto di “somministrazione di lavoro” (artt. 20-28) che permette ad un utilizzatore di avvalersi delle prestazioni rese da un lavoratore assunto da un altro soggetto, denominato somministratore2.
Questa relazione coinvolge tre soggetti e si costituisce in forza di due contratti indipendenti ma – di fatto – correlati: il primo è il contratto di lavoro (rispondente alle ordinarie norme di diritto del lavoro) concluso tra il sommi- nistratore e il dipendente, il secondo è il cosiddetto contratto di sommini- strazione tra l’utilizzatore e il somministratore.
La peculiarità del contratto di somministrazione è rappresentata pro- prio dalla possibilità di scindere il soggetto che assume formalmente il lavo- ratore dal soggetto cui invece si riconosce il potere di dirigere e controllare il suo lavoro (art. 20, c. 2).
Questa novità è anche ciò che differenzia radicalmente tale contratto da altre figure giuridiche solo apparentemente analoghe, ovvero il contratto di appalto e il distacco.
1 Questo articolo fa seguito ed integra I limiti all’utilizzazione dell’appalto e della somministrazione di lavoro in exLege n. 2/2009, 17-37.
2 Considerate le giuste garanzie che devono essere assicurate al dipendente, l’art. 5, D.Lgs. 276/2003 elenca i requisiti che deve avere l’impresa che intende assume- re il ruolo di somministratore. Inoltre l'art. 21, c. 1, lett. a) del D.Lgs. 276/2003 impo- ne che nel contratto di somministrazione concluso con l’utilizzatore siano riportati gli estremi dell’autorizzazione ministeriale.
Nel contratto di appalto3, infatti, anche se è un terzo soggetto commit- tente ad avvalersi e beneficiare del lavoro dei dipendenti dell’appaltatore (ri- cevendo l’opera o il servizio oggetto dell’appalto), il potere di direzione e controllo su di essi è riservato esclusivamente all’appaltatore, tant’è che il committente non può assolutamente intervenire nell’organizzazione del la- voro e nella realizzazione dell’opera, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 16624. Proprio per evitare che il contratto di appalto sia utilizzato per dissi- mulare una somministrazione illecita, il legislatore ha prestato una crescen- te attenzione alle circostanze che accompagnano tale contratto così da im- pedirne ogni uso che trasferisca al committente5 il controllo e l’organizzazio- ne del lavoro dei dipendenti dell’appaltatore.
La somministrazione è diversa anche dalla fattispecie del distacco, di- sciplinata dall’articolo 30 del decreto legislativo n. 276/2003: «1. L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un pro- prio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa». Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con la Circolare n. 3 del 15 gen- naio 2004, ha così precisato tale differenza: «I requisiti di legittimità del dis- tacco ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 276 del 2003 sono: a) la temporanei- tà del distacco; b) l’interesse del distaccante. Il concetto di temporaneità co- incide con quello di non definitività indipendentemente dalla entità della du- rata del periodo di distacco, fermo restando che tale durata sia funzionale
3 Art. 1655 c.c.: «L’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizza- zione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’o- pera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro».
4 Art. 1662 c.c.: «Il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne a proprie spese lo stato. Quando, nel corso dell’opera, si accerta che la sua esecuzione non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un congruo termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il con- tratto è risoluto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno». Aver escluso il potere di intervento del committente sui dipendenti è coerente con la na- tura del contratto di appalto nel quale è previsto che la gestione e il rischio dell’ope- ra sono attribuiti e riservati all’appaltatore, il quale può esserne responsabile, tra l’altro, esercitando la direzione e il controllo sui dipendenti.
5 Eloquente è l’art. 1 della L. 1369 del 23.10.1960 “Divieto di intermediazione ed in-
terposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’o- pera negli appalti di opere e di servizi”: «1. È vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’e- secuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. […] I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro presta- zioni».
alla persistenza dell’interesse del distaccante. Quanto al profilo dell’interes- se, l’art. 30 del D.Lgs. n. 276 del 2003 ne consente una interpretazione piut- tosto ampia, tale che il distacco può essere legittimato da qualsiasi interes- se produttivo del distaccante che non coincida con quello alla mera sommi- nistrazione di lavoro altrui. […] Ciò che differenzia il distacco dalla sommini- strazione, infatti, è solo l’interesse del distaccante. Mentre il somministrato- re realizza il solo interesse produttivo della somministrazione a fini di lucro, il distaccante soddisfa un interesse produttivo diversamente qualificato, co- me l’interesse al buon andamento della società controllata o partecipata».
Infine è di particolare rilevanza per gli enti ecclesiastici quanto preci- sato dalla Circolare n. 7/2005: «per il ricorso alla somministrazione di lavoro non è necessaria la qualifica di imprenditore»; pertanto il contratto di som- ministrazione può essere utilizzato anche per le attività istituzionali e non solo per quelle commerciali (scuola, RSA, ospedale, ricettività complemen- tare).
1. La somministrazione a tempo indeterminato. Attività e servizi ammessi
Mentre la versione originaria dell’articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003 ammetteva sia la somministrazione a tempo determinato che quel- la a tempo indeterminato, a far data dal 1° gennaio 2008 quest’ultima ipote- si era stata cancellata6. Il legislatore è però tornato su questa scelta e ha reintrodotto la somministrazione a tempo indeterminato a decorrere dal 1° gennaio 20107.
Tale possibilità è però ammessa solo nei casi e nelle situazioni elen- cate al comma 3 dell’articolo 20:
«a) per servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, com- presa la progettazione e manutenzione di reti intranet e extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, carica- mento dati;
b) per servizi di pulizia, custodia, portineria;
c) per servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di tra- sporto e movimentazione di macchinari e merci;
d) per la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, non- ché servizi di economato;
e) per attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamen- to, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;
f) per attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della fun- zione commerciale;
6 Cf c. 46, art. 1, L. 247 del 24.12.2007.
7 Cf c. 143, art. 2, L. 191 del 23.12.2009.
g) per la gestione di call-center, nonché per l’avvio di nuove iniziative im- prenditoriali nelle aree Obiettivo 1 di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del 21 giugno 1999 del Consiglio, recante disposizioni ge- nerali sui Fondi strutturali;
h) per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, per particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e alla cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di lavorazione, l’impiego di manodope- ra diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nel- l’impresa;
i) in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali, ter- ritoriali o aziendali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di la- voro comparativamente più rappresentative;
i-bis) in tutti i settori produttivi, pubblici e privati, per l’esecuzione di servizi di cura e assistenza alla persona e di sostegno alla famiglia».
Un significativo chiarimento in ordine alla corretta interpretazione del- le voci di questo elenco è stato dato dalla Circolare n. 7/2005 che ha preci- sato come «l’attività di somministrazione a tempo indeterminato si estende a tutte le professionalità necessarie per la gestione dell’attività o del servizio indicato dal legislatore». Pertanto l’uso di tale contratto dovrebbe essere ammesso non solo per le figure professionali tipiche (per esempio, addetto ai percorsi culturali in un museo o contabile in un servizio di economato), ma anche per le figure più generiche (segretario, autista) applicate a tali at- tività e servizi.
2. Forme e contenuti del contratto di somministrazione
Al fine di evitarne un uso distorto, il legislatore ha dato precise indica- zioni circa la forma e il contenuto del contratto di somministrazione.
Innanzitutto è richiesta la forma scritta a pena di nullità (art. 21, cc. 1 e 4); qualora il contratto sia nullo per difetto di forma è inoltre previsto che il lavoratore sia considerato a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore, anche qualora il rapporto sia stato gestito come contratto di somministrazio- ne8. Accanto a questo caso esplicito di nullità del contratto, la Circolare n.
8 La Circ. n. 7/2005 ha esteso anche al caso di somministrazione nulla quanto pre- visto dall’art. 27, c. 2, ovvero che «[…] tutti i pagamenti effettuati dal somministrato- re, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal sommini- stratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione».
7/2005 ha precisato che la medesima sanzione debba essere applicata an- che in caso di contratto in frode alla legge (disciplinata dall’art. 28)9. In que- st’ultima ipotesi è altresì prevista l’ammenda di «20 euro per ciascun lavora- tore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione» (art. 28).
In secondo luogo l’articolo 21 prevede che nel contratto di sommini- strazione siano esplicitati i seguenti dati e obblighi:
«a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;
b) il numero dei lavoratori da somministrare;
c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sosti- tutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 20;
d) l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate;
e) la data di inizio e la durata prevista del contratto di somministrazione;
f) le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e il loro inquadramen- to;
g) il luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo delle presta- zioni lavorative;
h) assunzione da parte del somministratore della obbligazione del paga- mento diretto al lavoratore del trattamento economico, nonché del ver- samento dei contributi previdenziali;
i) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di rimborsare al somministra- tore gli oneri retributivi e previdenziali da questa effettivamente soste- xxxx in favore dei prestatori di lavoro;
j) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di comunicare al somministra- tore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili;
k) assunzione da parte dell’utilizzatore, in caso di inadempimento del somministratore, dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei contributi previ- denziali, fatto salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore».
L’utilizzatore deve prestare particolare attenzione agli elementi indicati alle lettere f) e g). È infatti necessario che abbia ben chiare le mansioni che intende affidare al lavoratore somministrato in quanto da esse dipendono sia l’inquadramento contrattuale (per es. mansioni, livello), sia la determina- zione della retribuzione dovuta. È pure necessario precisare la distribuzione dell’orario giornaliero lungo la giornata10.
Sempre in relazione alla necessità di precisare le mansioni, occorre
9 «Indipendentemente dal fatto che il soggetto sia o meno autorizzato (infra sommi- nistrazione irregolare) se il contratto di somministrazione di lavoro è posto in esse- re con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto col- lettivo applicato al lavoratore, il contratto, concluso in frode alla legge, è nullo e, per analogia rispetto all’ipotesi precedente, i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore».
10 Può essere opportuno che in sede di definizione del contratto di somministrazio- ne siano precisati gli eventuali modi e forme per permettere all’utilizzatore di am- pliare l’orario (per es. il lavoro straordinario) e di variare la sede di lavoro.
però sottolineare che il legislatore permette all’utilizzatore di variarle purché ne dia immediata comunicazione al somministratore11; in difetto di tale co- municazione rimangono a suo esclusivo carico sia le differenze retributive, sia gli eventuali danni per l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori. Per quanto riguarda la sicurezza dei luoghi di lavoro occorre distin-
guere due circostanze:
a) qualora l’utilizzatore non sia già tenuto ad applicare il decreto legisla- tivo n. 81/2008, Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavo- ro, prima di sottoscrivere il contratto di somministrazione è tenuto a ri- levare gli eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e pre- vedere le misure di prevenzione che devono essere adottate. Questo caso si verifica quando l’utilizzatore non impiega già alcun lavoratore (o figure assimilate)12;
b) qualora l’utilizzatore sia un’impresa può avvalersi del contratto di som- ministrazione solo se ha già effettuato «la valutazione dei rischi ai sen- si dell’articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 62613, e successive modifiche»14.
Il contratto di somministrazione concluso nell’inosservanza di quanto previsto dall’articolo 20 e dall’articolo 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e), si considera irregolare e il lavoratore può chiedere «mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzio- ne di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’i- nizio della somministrazione» (art. 27).
È di tutta evidenza l’incisività di questa sanzione e la sua capacita dis- suasiva!
11 « Nel caso in cui adibisca il lavoratore a mansioni superiori o comunque a man- sioni non equivalenti a quelle dedotte in contratto, l’utilizzatore deve darne imme- diata comunicazione scritta al somministratore consegnandone copia al lavoratore medesimo. Ove non abbia adempiuto all’obbligo di informazione, l’utilizzatore ri- sponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per l’eventuale risarcimento del danno derivante dalla asse- gnazione a mansioni inferiori» (art. 23, c. 6).
12 Cf. art. 21, c. 1, lett. d).
13 Il riferimento, oggi, è al D.Lgs. n. 81/2008.
14 Cf. art. 20, c. 5, lett. c). L’utilizzo del contratto di somministrazione pur in assenza del documento di valutazione dei rischi potrebbe essere configurato come “contrat- to in frode alla legge” (Circ. 7/2005).
3. Il potere direttivo e di controllo. Il potere disciplinare
Coma già anticipato il contratto di somministrazione suddivide i poteri direttivi, di controllo e disciplinari – ordinariamente concentrati nella figura del datore di lavoro – tra il somministratore e l’utilizzatore: al primo compete la direzione e il controllo (art. 20, c. 2), al secondo il potere disciplinare (art. 23, c. 7).
La ragione di questa eccezione nell’attribuzione dei poteri si fonda proprio sulla speciale funzione del contratto di somministrazione: l’utilizza- tore, in quanto si avvale delle prestazioni del lavoratore, deve poterlo dirige- re e controllare; il somministratore, in quanto datore di lavoro del dipenden- te, conserva il potere disciplinare.
Al fine di permettere al somministratore di esercitare il potere discipli- nare, il comma 7 dell’articolo 23 fa onere all’utilizzatore di comunicare «al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300». Pertanto nessun provvedimento disciplinare (richiamo verbale, ammonizione scritta, multa, sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, licenziamento cosiddetto disci- plinare) può essere immediatamente disposto dall’utilizzatore, ma qualora si verifichi un fatto riconducibile a quelli che possono giustificarne l’adozio- ne, l’utilizzatore deve informare il somministratore.
Infine va segnalato che il legislatore non ha vietato la possibilità di in- serire nel contratto di somministrazione una clausola che riconosce all’uti- lizzatore una sorta di facoltà “di gradimento” del lavoratore somministrato.
4. La tutela del lavoratore in relazione al D.Lgs. n. 81/2008
In analogia alla distinzione tra il soggetto titolare del potere di xxxxxxx- ne e controllo e quello titolare del potere disciplinare, il legislatore ha riparti- to gli obblighi relativi alla tutela della salute e sicurezza sul posto di lavoro.
Premesso che l’utilizzatore deve informare il somministratore degli eventuali rischi presenti e delle misure adottate per limitare il pericolo (art. 21, c. 1, lett. d), l’articolo 23, comma 5 provvede ad assegnare l’adempi- mento degli obblighi di cui al decreto legislativo 81/2008:
– il somministratore «informa i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la sa- lute connessi alle attività produttive in generale e li forma e addestra al- l’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento della attività lavorativa per la quale essi vengono assunti»; quest’obbligo può però es- sere assegnato, in sede di contratto di somministrazione, all’utilizzatore;
– l’utilizzatore, nel caso in cui le mansioni cui è adibito il lavoratore xxxxxx- xxxx una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici, de- ve informare il lavoratore medesimo in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo n. 81/2008; è inoltre responsabile delle violazioni degli obblighi di protezione previsti per i propri dipendenti.
5. Il contratto di lavoro tra il somministratore e il lavoratore
Se in forza del contratto di somministrazione il somministratore si im- pegna a mettere a disposizione dell’utilizzatore un lavoratore in grado di svolgere le mansioni precisate nel medesimo contratto, attraverso il contrat- to di lavoro acquisisce il diritto alle prestazioni del lavoratore.
La Circolare n. 7/2005 ribadisce che ai sensi dell’articolo 22, comma 1 del decreto legislativo n. 276/2003 «i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro sono soggetti alla disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali. La forma scritta – vuoi per la prova vuoi per la validità sostanziale del contratto – sarà pertanto xxxxxx- sta solo nei casi in cui tale requisito è stabilito dalla tipologia contrattuale utilizzata». Chiarisce, inoltre, che possono essere utilizzati diversi schemi negoziali (contratti a tempo indeterminato, a termine, a coppia, a tempo par- ziale, intermittente) e, in presenza di una somministrazione a tempo inde- terminato, anche il contratto di apprendistato e di inserimento purché siano consentiti dalle esigenze dell’utilizzatore.
Inoltre, in riferimento alla somministrazione a tempo indeterminato, il legislatore non chiede che il corrispondente contratto di lavoro sia a tempo indeterminato ma ammette anche l’utilizzo del contratto a tempo determina- to, qualora ricorrano tutti i presupposti previsti della legge n. 368 del 6 set- tembre 2001. È tuttavia probabile che ad un contratto di somministrazione a tempo indeterminato corrisponda (anche se non immediatamente) un con- tratto di lavoro a tempo indeterminato. Per questo motivo l’articolo 22, com- ma 3, si preoccupa di chiarire cosa può accadere alla conclusione del con- tratto di somministrazione.
Innanzitutto si esclude che il venir meno della somministrazione com- porti automaticamente la risoluzione del contratto di lavoro in quanto l’arti- colo 20, comma 2 precisa che se «i lavoratori vengono assunti con contrat- to di lavoro a tempo indeterminato essi rimangono a disposizione del som- ministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa pres- so un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato motivo di risoluzione del contratto di lavoro».
Che il lavoratore conservi il posto di lavoro anche alla conclusione del contratto di somministrazione è ribadito dall’articolo 23, comma 3 che rico- nosce al lavoratore un’indennità (al posto della normale retribuzione) per i tempi in cui rimane in attesa di ulteriore assegnazione.
Il successivo comma 4 precisa però che il somministratore può proce- dere, se ne ricorrono gli ordinari motivi, ai licenziamenti individuali ex artico- lo 3, legge n. 604/1966: «Il licenziamento per giustificato motivo con preav- viso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattua- li del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, al- l’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». La Circo- lare n. 7/2005 così commenta e spiega questo rinvio: «In tal caso, dunque, i lavoratori assunti dall’agenzia a tempo indeterminato potranno essere licen-
ziati per giusta causa, per giustificato motivo soggettivo o per giustificato motivo oggettivo. Quanto al giustificato motivo oggettivo, esso non può co- incidere con il venir meno del contratto di somministrazione, essendo confi- gurabile solo allorquando risulti l’impossibilità di avviare ad altra missione il lavoratore, tenuto conto anche dell’infruttuoso decorso di un congruo perio- do in disponibilità. Attesa, inoltre, la peculiarità del lavoro in somministrazio- ne e il consenso da questi prestato al momento della stipulazione del con- tratto di lavoro ad essere assegnato alle mansioni di volta in volta necessa- rie con riferimento alla singola missione deve ritenersi che il lavoratore in disponibilità potrà essere assegnato a mansioni coerenti con il proprio patri- monio professionale e compatibili con l’inquadramento contrattuale presso il somministratore».
Se dunque il contratto di lavoro permette al somministratore di dare esecuzione al contratto di somministrazione, è necessario che vi sia corri- spondenza tra il contratto di somministrazione e il contratto di lavoro relati- vamente alle mansioni, all’orario e alle capacità professionali del lavoratore nonché alla retribuzione.
In questa prospettiva si comprende l’attenzione prestata dal legislato- re all’effettivo pagamento della retribuzione al lavoratore, laddove, all’artico- lo 23, comma 1, dispone che «I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte»15.
6. Le ipotesi di utilizzo per gli enti ecclesiastici
Innanzitutto, come già accennato, la Circolare n. 7/2005 permette16 anche all’ente ecclesiastico (per esempio, regione ecclesiastica, diocesi, parrocchia, istituto di vita consacrata, fondazione di culto, associazione pub- blica di fedeli, seminario) di utilizzare il contratto di somministrazione oltre che per le attività commerciali (per esempio, scuola, RSA, attività sanitaria, sala della comunità) anche per quelle non commerciali (per esempio, ramo Onlus di beneficienza), nonché per quelle di religione e culto (ex art. 16, lett. a, L. 222/1985).
Tra le mansioni e i servizi che possono essere svolti attraverso il lavora- tore somministrato risultano di particolare interesse per l’ente ecclesiastico:
– l’addetto all’amministrazione (economato) e alla segreteria della parroc- chia, del Seminario o di una Fondazione di religione e culto;
– il responsabile di alcuni uffici della curia diocesana17;
15 Connesse con il trattamento economico, vi sono le disposizioni dell’art. 23, c. 3 e dell’art. 21, c. 1. lett. k), che prevedono la solidarietà tra utilizzatore e somministra- tore in riferimento al pagamento della retribuzione e degli oneri contributivi.
16 Laddove esclude che l’utilizzatore debba necessariamente essere un imprenditore.
17 Questi incarichi, infatti, sono generalmente affidati in forza di una nomina a tempo
– il responsabile organizzativo o del personale e l’economo di una fonda- zione di culto che gestisce un museo o una biblioteca;
– il collaboratore di un museo o di una biblioteca diocesana.
In prima battuta pare infatti che queste mansioni e servizi possano es- sere ricondotti ad una delle fattispecie elencate all’articolo 20, comma 3.
7. Il costo del contratto di somministrazione e la sua opportuni- tà per gli enti ecclesiastici
Il legislatore impone che nel contratto di somministrazione sia previ- sto l’obbligo per l’utilizzatore di «rimborsare al somministratore gli oneri re- tributivi e previdenziali da questi effettivamente sostenuti in favore dei pre- statori di lavoro»18 (art. 21, c. 1, lett. i).
In forza di questa disposizione è evidente che il contratto di sommini- strazione non può essere considerato uno strumento che consente all’utiliz- zatore un risparmio economico rispetto ai costi che dovrebbe invece soste- nere nel caso di assunzione diretta. Ciò è ancor più vero se si considera che a tale costo deve aggiungersi la remunerazione del servizio reso dal somministratore19.
D’altro canto l’utilizzatore non deve però sostenere né i costi connessi all’amministrazione del contratto di lavoro (elaborazione della busta paga, della dichiarazione 770, del modello F24, preparazione e spedizione del CUD), né quelli che emergono solitamente all’atto della (eventuale) risolu- zione unilaterale del contratto di lavoro subordinato20.
Ciò nonostante si deve riconoscere che questo contratto è significati-
determinato, la cui durata eccede però il triennio ammesso per il contratto a tempo determinato.
18 Tale disposizione è perfettamente coerente con il fatto che il lavoro reso dal di- pendente del somministratore è «nell’interesse dell’utilizzatore» (art. 20, c. 2).
19 Questa voce costituisce un’operazione soggetta ad IVA (aliquota 20%). Inoltre, al fine di contenere questa voce di costo, si potrebbe convenire che al momento della conclusione del contratto l’utilizzatore debba al somministratore un’una tantum, il cui importo è decrescente in relazione alla durata del contratto stesso, quale pena- le per il recesso. Questo importo sostituisce la parte del costo del servizio annuale relativo al “rischio di ricollocamento” del dipendente che deve essere sostenuto dal somministratore al momento della conclusione del contratto di somministrazione.
20 Al momento della risoluzione unilaterale del contratto di lavoro (licenziamento) è piuttosto frequente che i costi maggiori non siano economici ma emotivi e/o relazio- nali (ciò è però meno vero quando il datore di lavoro non ha provveduto, anno dopo anno, ad accantonare la quota di Trattamento di Fine Rapporto maturata; in questo caso all’atto della conclusione del rapporto di lavoro emerge un costo ulteriore che può anche essere assai significativo). Inoltre si deve anche considerare che un li- cenziamento può appesantire l’azione pastorale per le polemiche che si possono generare all’interno della comunità parrocchiale.
vamente più oneroso rispetto all’equivalente contratto di lavoro a tempo in- determinato. Tuttavia, l’opportunità del contratto di somministrazione non può essere valutata solo con riferimento al profilo economico.
In particolare deve essere considerato il fatto che già all’atto della sottoscrizione tutte le parti coinvolte sono consapevoli che il contratto po- trà aver termine in qualsiasi momento, pur in assenza di giusta causa o giustificato motivo21. La possibilità di interrompere unilateralmente il con- tratto di somministrazione è per l’ente ecclesiastico un elemento essenzia- le per poter gestire con tranquillità e correttezza alcune specifiche collabo- razioni.
Il contratto di somministrazione, infatti, può essere uno strumento op- portuno per regolare quei servizi-mansioni che sono altamente sensibili al variare delle condizioni pastorali. Il riferimento è, per esempio, alla figura dell’economo-segretario di una parrocchia in quanto la sua collaborazione con il parroco è caratterizzata essenzialmente da intuitu personae22; è infat- ti inimmaginabile che tra il parroco e tale collaboratore non vi sia un rappor- to di radicale fiducia23.
Per questo motivo le parrocchie si avvalgono assai raramente del con- tratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in riferimento a queste mansioni; infatti la risoluzione unilaterale del contratto di lavoro a tempo in- determinato nel momento in cui il parroco viene sostituito risulta davvero complessa da gestire24, mentre l’estinzione del contratto di somministrazio- ne può essere lecitamente già “messa in conto” all’atto della sottoscrizione del medesimo. Dunque è doveroso che l’ente ecclesiastico espliciti anche al lavoratore somministrato che la collaborazione potrebbe concludersi nel momento in cui si verificassero radicali mutamenti del contesto pastorale
21 Tale possibilità non è invece riconosciuta in presenza del contratto di lavoro a tempo indeterminato, la cui risoluzione unilaterale da parte del datore di lavoro è subordinata ad una giusta causa o ad un giustificato motivo.
22 Probabilmente la caratteristica dell’intuitu personae non è una delle ragioni che hanno motivato l’introduzione nell’ordinamento della fattispecie del contratto di somministrazione, tuttavia la sua rilevanza non è esclusa dalla norma e non è vie- tato che la scelta del dipendete cosiddetto “somministrato” avvenga anche conside- rando questa legittima esigenza (per es. nel caso del servizio di economo previsto dall’art. 20, c. 3, lett. d).
23 In tal caso la parrocchia verrebbe a trovarsi in una situazione di paralisi o, alme- no, di diarchia assolutamente non ammissibile.
24 In questa ipotesi la casistica rivela che al licenziamento segue frequentemente una controversia di lavoro. Inoltre altrettanto frequentemente né il parroco trasferito si sente in condizione di procedere al licenziamento, né può procedervi il nuovo parroco in quanto tale gesto è ritenuto una scelta capace di segnare negativamen- te e radicalmente la sua azione pastorale. Una conferma di tali difficoltà è data dal fatto che fino alla legge Biagi le parrocchie che avevano l’esigenza di assumere un dipendente a tempo indeterminato preferivano sceglierlo tra coloro che avevano un’età ormai prossima alla pensione.
(per es. sostituzione del parroco o nuove forme di collaborazione pastorale tra le parrocchie vicine).
È evidente che questa esigenza non ricorre per altre figure di lavora- tori per le quali gli enti ecclesiastici si avvalgono direttamente del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Da ultimo si può aggiungere una considerazione: il fatto che il sogget- to somministratore sia un ente di rilevanti dimensioni, presente su un vasto territorio, potrebbe permettere al dipendente che ha terminato la sua pre- stazione lavorativa presso il primo utilizzatore, di essere destinato ad altri utilizzatori, anche restando nell’ambito degli enti ecclesiastici, mettendo co- sì a frutto l’esperienza e le competenze maturate.
L’articolo integra quanto riportato in
“La gestione e l’amministrazione della parrocchia” al capitolo 8
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OBBLIGO DELLA GRATUITÀ PER LE CARICHE IN ORGANI COLLEGIALI. UNA LETTURA CRITICA
La gratuità per la partecipazione agli organi collegiali è stata introdotta dal decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica1, con lo scopo di ri- durre i costi degli apparati amministrativi. In particolare il comma 2 stabili- sce che
«A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la partecipazione agli organi collegiali, anche di amministrazione, degli enti, che comunque ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche, nonché la titolarità di organi dei predetti enti è onorifica; essa può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese soste- nute ove previsto dalla normativa vigente; qualora siano già previsti i gettoni di pre- senza non possono superare l’importo di 30 euro a seduta giornaliera. La violazio- ne di quanto previsto dal presente comma determina responsabilità erariale e gli at- ti adottati dagli organi degli enti e degli organismi pubblici interessati sono nulli. Gli enti privati che non si adeguano a quanto disposto dal presente comma non posso- no ricevere, neanche indirettamente, contributi o utilità a carico delle pubbliche fi- nanze, salva l’eventuale devoluzione, in base alla vigente normativa, del 5 per mille del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. La disposizione del presen- te comma non si applica agli enti previsti nominativamente dal decreto legislativo n. 300 del 1999 e dal decreto legislativo n. 165 del 2001, e comunque alle università, enti e fondazioni di ricerca e organismi equiparati, alle camere di commercio, agli enti del Servizio sanitario nazionale, agli enti indicati nella tabella C della legge fi- nanziaria ed agli enti previdenziali ed assistenziali nazionali, alle ONLUS, alle as- sociazioni di promozione sociale, agli enti pubblici economici individuati con decre- to del Ministero dell’economia e delle finanze su proposta del Ministero vigilante, nonché alle società».
Gli enti che «ricevono contributi a carico delle finanze pubbliche», quindi, non possono erogare compensi ai membri degli «organi collegiali, anche di amministrazione»: le uniche erogazioni ammesse sono i rimborsi
1 Art. 6, cc. 1-2.
delle spese sostenute dai partecipanti e, se previsti, i gettoni di presenza non superiori a 30 euro per ogni seduta giornaliera.
Il legislatore ha reso cogente l’obbligo della gratuità attraverso due di- verse “sanzioni”: in riferimento agli enti e agli organismi pubblici ha disposto la nullità degli atti adottati da organi collegiali “non gratuiti” (in aggiunta alla responsabilità erariale dei loro membri), per quanto riguarda, invece, gli en- ti privati prevede il divieto di ricevere, anche indirettamente, «contributi o utilità a carico delle pubbliche finanze, salva l’eventuale devoluzione, in ba- se alla vigente normativa, del 5 per mille».
Queste disposizioni, certamente innovative e con un significativo im- patto sull’autonomia organizzativa e gestionale degli enti, hanno però un’ef- ficacia piuttosto contenuta in quanto il legislatore ne ha limitato l’ambito di applicazione introducendo una serie di esclusioni soggettive; quelle di inte- resse degli enti non profit, sono indicate al comma 2:
– gli organismi previsti dal decreto legislativo n. 300 del 1999 (Governo della Repubblica) e dal decreto legislativo n. 165 del 2001 (pubbliche amministrazioni);
– le università;
– le camere di commercio;
– gli enti del Servizio sanitario nazionale;
– gli enti indicati nella tabella C della legge finanziaria;
– gli enti previdenziali ed assistenziali nazionali.
Se come detto l’efficacia della norma è stata limitata già all’atto della emanazione del decreto legge, il dubbio circa la sua effettiva capacità di contenere i costi amministrativi è ancor più cresciuto in sede di conversione in legge2 in quanto l’elenco dei soggetti esclusi è stato significativamente ar- ricchito, ricomprendendo anche:
– gli enti e fondazioni di ricerca e organismi equiparati;
– le Onlus;
– le associazioni di promozione sociale;
– gli enti pubblici economici individuati con decreto del Ministero dell’eco- nomia e delle finanze su proposta del Ministero vigilante;
– le società.
Alla luce della norma ora vigente si deve, dunque, rilevare che l’ambi- to di applicazione dovrebbe essere ormai limitato ad alcune fondazioni e as- sociazioni (diverse da quelle di ricerca e dalle Onlus).
E gli enti ecclesiastici? Se da un lato si deve ammettere che né i do- cumenti che hanno accompagnato il decreto legge n. 78/2010 né quelli pub- blicati in occasione della conversione in legge presentano alcun riferimento ad essi3, la loro esclusione dal novero dei soggetti tenuti ad osservare la
2 Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, L. 30.7.2010, n.122.
3 Relazione al disegno di legge: «Misure sanzionatorie sono stabilite anche per gli enti privati che non si adeguano a quanto disposto dal comma, prevedendo che es- si non possono ricevere, neanche indirettamente, contributi o utilità a carico delle
xxxxx non pare potersi fondare su alcun esplicito riferimento normativo, considerando che il legislatore fa riferimento agli enti privati in genere4.
Si deve però anche considerare che il principio concordatario per cui l’ordinamento civile è tenuto al «rispetto della struttura e della finalità di tali enti» (art. 7, c. 2, Accordo di revisione del Concordato Lateranense)5 po- trebbe – o dovrebbe – indurre ad approfondire la questione, al fine di verifi- care se l’eventuale decisione di remunerare i membri degli organi collegiali non sia una esplicitazione dell’originaria autonomia riconosciuta all’ordina- mento canonico. In tal caso, infatti, si dovrebbe concludere che anche gli enti ecclesiastici – nonostante il silenzio della norma – sono da includere tra gli enti privati non soggetti alla previsione del comma 2 dell’articolo 6.
Vi è però anche un altro elemento che concorre a mantenere ancora aperta la questione: il riferimento è al documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e dei Revisori Contabili, pubblicato il 16 febbraio 2011, relativo a «Il controllo indipendente negli enti non profit e il contributo professionale del dottore commercialista e dell’esperto contabile». Trattan- do della funzione di controllo negli enti non profit, la Commissione ha infatti affrontato anche la questione della gratuità delle cariche e ha concluso che tale previsione non possa applicarsi agli organi che svolgono funzione di vi- gilanza e revisione contabile in quanto «nuocerebbe all’autonomia e all’indi- pendenza dei soggetti che svolgono il controllo, inficiando l’attività svolta. In tale caso, l’incarico assume palesemente un profilo professionale e non onorifico. Il CNDCEC ha formulato un parere in merito all’applicazione del sopra richiamato art. 6, c. 2, della L. n. 122/2010, affermando che gli organi di controllo non devono essere ricompresi nell’asserzione organi collegiali, anche di amministrazione, in quanto, tra le altre cose, svolgono un’impre- scindibile funzione di tutela degli interessi pubblici»6.
Xxxxx però evidenziati altri due elementi certamente significativi: da un lato la difficoltà di individuare la ratio che ha guidato la scelta degli enti
pubbliche finanze, salva l’eventuale devoluzione, in base alla vigente normativa, del 5 per mille del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Rimangono esclusi dal campo di applicazione della disposizione gli enti previsti nominativa- mente dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, le università, le camere di commercio, gli enti del servizio sani- tario nazionale, gli enti indicati nella tabella C della legge finanziaria e gli enti previ- denziali ed assistenziali nazionali».
4 Per individuare l’ambito soggettivo il legislatore ha infatti scelto di includere tutti gli enti privati, salvo quelli nominativamente esclusi.
5 Si riconosce a tale disposizione anche la funzione di principio interpretativo ido- neo a verificare l’applicabilità delle diverse norme dell’ordinamento civile agli enti ecclesiastici.
6 La rilevanza di tale documento in riferimento all’individuazione delle situazioni soggettive tenute alla gratuità, dipende dal fatto che l’esclusione proposta dalla Commissione non si appoggia ad alcun dato normativo ma ad un elemento non te- stuale (la ratio della funzione di vigilanza).
da escludere dall’obbligo di gratuità7, dall’altro il dubbio che l’aver imposto la gratuità a prescindere dal diverso impegno richiesto ai membri degli or- gani collegiali dalle dimensioni e dal tipo di attività gestita da tali enti, sia una norma dalla razionalità un po’ fragile8.
In attesa che sia fatta maggior chiarezza è prudente che i titolari degli uffici canonici cui compete la vigilanza sugli enti ecclesiastici siano debita- mente informati circa il regime di gratuità o di retribuzione riconosciuto ai membri degli organi collegiali di amministrazione.
7 Non può infatti negarsi che rispetto alla norma originale il numero assoluto degli enti cui il divieto di applica si sia notevolmente ridotto (almeno per l’esclusione di tutte le società commerciali e le Onlus)… e con ciò anche l’oggettiva capacità della norma di ottenere un effettivo risparmio.
8 Non sono infatti rari i casi di enti che esigono dai membri dei loro organi collegiali una competenza professionale ed una dedizione di tempo difficilmente compatibili con la gratuità (in altri termini, non sempre il compenso attribuito ai membri dei con- sigli di amministrazione può essere ritenuto uno spreco di risorse, non solo pubbli- che). D’altro canto non si può negare che qualche caso presentato all’opinione pub- blica dai mass-media sia la prova provata che il costo degli organi collegiali non ap- porta alcuna utilità all’attività dell’ente. Queste situazioni tanto differenti dovrebbero però indurre a ricordare una regola aurea del diritto: è sommamente ingiusto tratta- re in modo uguale situazioni diverse. Infine si deve considerare che in sede di con- versione del decreto legge siano stati esclusi la maggioranza degli enti privati, ov- vero tutte le società e una buona parte del mondo non profit: questa scelta del le- gislatore vanifica l’intento di ridurre i costi degli apparati amministrativi e suscita un dubbio circa la legittimità dell’obbligo ormai imposto solo ad un numero limitato di enti privati.
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IL 5 PER MILLE 2011
Il 5‰ – come sinteticamente viene definita la possibilità di destinare una quota delle proprie imposte a favore di un ente o di una categoria di en- ti scelti tra quelli ammessi alla ripartizione dell’IRPEF – è ormai arrivato alla sua sesta versione, ma vive ancora nella precarietà dovuta all’assenza di una norma che lo disciplini in via continuativa, che lo “stabilizzi”. Ogni anno, quindi, occorre attendere una legge che ne disponga le modalità, i termini e, soprattutto, la copertura finanziaria.
Per quanto riguarda l’esercizio finanziario 2011 il meccanismo del 5‰ ha seriamente rischiato di restare poco più che un simbolo: la legge di stabi- lità1 aveva ridotto i fondi disponibili del 75% rispetto a quelli messi a disposi- zione nell’anno precedente, fissandoli a soli 100 milioni di euro. A rimediare è stato qualche giorno dopo il decreto milleproroghe2 che ha ripristinato l’en- tità dello stanziamento riportandolo a 400 milioni, di cui 100 sono però fina- lizzati ad interventi in tema di sclerosi laterale amiotroifica.
Va infatti tenuto presente che, nonostante la denominazione e mal- grado la convinzione della maggior parte di coloro che utilizzano la facoltà di dirottare una percentuale delle proprie tasse a favore di soggetti ritenuti meritevoli, i contributi che vengono assegnati ai diversi enti non raggiungo- no realmente il 5‰ dell’IRPEF incamerata dallo Stato nell’anno di riferimen- to perché ogni anno viene fissato un tetto3; qualora, come è regolarmente successo ogni anno, le scelte dei contribuenti superano il limite fissato, i contributi teoricamente assegnati con le scelte vengono proporzionalmente ridotti e la parte eccedente resta nelle casse dello Stato.
Un altro effetto della mancata stabilizzazione del 5‰ è il variare dei termini per la definizione degli elenchi contenenti gli enti ammessi alla ripar- tizione e, soprattutto, della tipologia dei soggetti che possono accedervi.
1 L. 13.12.2010, n. 220. La legge di stabilità è il provvedimento che, da quest’anno, dovrebbe sostituire la legge finanziaria.
2 Cf art. 2, c. 1, D.L. 23.12.2010, n. 225, conv. L. 26.2.2011, n. 10.
3 Solo la prima edizione del 5‰, quella a valere sull’esercizio finanziario 2006, non prevedeva alcun tetto di spesa.
Infatti, a fronte di un’impostazione che vede sempre presenti tre ambi- ti, quello definito del volontariato, quello della ricerca scientifica e universita- ria e quello della ricerca sanitaria, nel corso degli anni alcune volte è stato inserito un quarto settore, costituito da enti pubblici, nello specifico dai co- muni di residenza dei contribuenti, ed altre volte no. Inoltre la tipologia di enti rientranti nel “sostegno del volontariato” è stata identificata di anno in anno in modo differente: accanto ad alcune categorie sempre contemplate (le Onlus e le associazioni di promozione sociale), altre erano presenti solo in alcuni anni (ad esempio le fondazioni). Per non parlare delle associazioni sportive dilettantistiche, spesso incluse tra gli enti beneficiari solo grazie a provvedimenti di sanatoria.
A complicare ancor più il quadro, concorre la circostanza che la tipolo- gia dei soggetti ammessi in un certo anno è stata modificata successiva- mente, quando gli elenchi erano già stati definiti e le scelte operate. Esem- plare a questo proposito è la normativa sulle fondazioni in riferimento al 5‰ del 2007: inizialmente escluse dalla norma istitutiva del 20064, sono state incluse nell’anno successivo limitatamente a quelle «nazionali di carattere culturale»5 e, due anni dopo, l’ambito è stato ampliato fino a comprendervi tutte quelle che operano nei settori propri delle Onlus6.
1. Disposizioni per il 2011
Il decreto milleproproghe, oltre ad innalzare il tetto destinato al 5‰ per l’esercizio finanziario 2011, ha stabilito che varrà anche per quest’anno quanto previsto per il 2010.
Il riferimento normativo è quindi ancora il D.P.C.M. 23 aprile 2010, di cui vengono semplicemente aggiornate di un anno le scadenze fissate per i diversi step necessari al completamento delle procedure necessarie; l’A- genzia delle entrate con la Circolare n. 9/E dello scorso 3 marzo ha riassun- to la disciplina: i soggetti ammessi, i termini degli adempimenti richiesti, la formazione degli elenchi dei soggetti ammessi, l’obbligo di rendicontazione. Va inoltre tenuta presente anche la Circolare n. 56/E del 10 dicembre
2010 che offre «Chiarimenti in merito ai soggetti destinatari della quota del cinque per mille dell’IRPEF» per tutti gli anni dal 2006 al 2010, chiarimenti quanto mai utili considerando che condizioni richieste per l’accesso agli elenchi sono state ridefinite ogni anno e che in molti casi modificate quando i giochi erano ormai fatti, come nell’esempio delle fondazioni riportato so- pra.
4 Art. 1, cc. 1234-1237, L. 269/2006.
5 Art. 45, c. 1-bis, D.L. 248/2007, conv. L. 31/2008.
6 Art. 2, c. 4-xxxxxxxxx, D.L. 40/2010, conv. L. 73/2010.
2. I SOGGETTI DESTINATARI
Le quote di 5‰ dell’IRPEF sono destinate al sostegno e finanziamen- to di cinque categorie di soggetti; più precisamente:
a) gli “enti del volontariato”;
b) gli enti della ricerca scientifica e dell’università;
c) gli enti della ricerca sanitaria;
d) i comuni di residenza del contribuente per lo svolgimento di attività so- ciali;
e) le associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai fini sportivi dal CO- NI che svolgono una rilevante attività di interesse sociale.
In riferimento alle diverse categorie occorre innanzitutto individuare le tipologie di enti che vi rientrano e precisare le condizioni richieste per l’am- missione alla ripartizione.
2.1 Gli enti del volontariato
Rientrano nel cosiddetto ambito degli enti del volontariato:
a) le Onlus di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460:
– quelle totali, «le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società co- operative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica» che svolgono, nelle modalità e alle condizioni previste, esclusivamente attività nei settori dell’assistenza sociale e socio-sani- taria, dell’assistenza sanitaria, della beneficenza7, dell’istruzione, del- la formazione, dello sport dilettantistico, della tutela, promozione e va- lorizzazione delle cose di interesse artistico e storico soggette a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al D.Lgs. 42/2004, della tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente, con esclusione dell’attività, esercitata abitualmente, di raccolta e rici- claggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi, della promozione della cultura e dell’arte, della tutela dei diritti civili, della ricerca scientifica di particolare interesse sociale svolta direttamente da fondazioni o da esse affidata ad università, enti di ricerca ed altre fondazioni che la svolgono direttamente, in ambiti e secondo modalità definite con il
D.P.R. 20 marzo 2003, n. 135 (cf art. 10, c. 1, lett. a);
– quelle di diritto, «gli organismi di volontariato di cui alla legge 11 ago- sto 1991, n. 266, iscritti nei registri istituiti dalle regioni e dalle provin- ce autonome di Trento e di Bolzano8, le organizzazioni non governati-
7 Compresa la cosiddetta “beneficenza indiretta” come definita dal c. 2-bis dell’art. 10 del D.Lgs. 460/1997: «la concessione di erogazioni gratuite in denaro con utiliz- zo di somme provenienti dalla gestione patrimoniale o da donazioni appositamente raccolte, a favore di enti senza scopo di lucro che operano prevalentemente nei settori di cui al medesimo comma 1, lett. a), per la realizzazione diretta di progetti di utilità sociale».
8 Si tenga presente che la qualifica di Onlus di diritto si applica alle organizzazioni di
ve riconosciute idonee ai sensi della legge 26 febbraio 1987, n. 49 e le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, non- ché i consorzi di cui all’articolo 8 della predetta legge 381 del 1991 che abbiano la base sociale formata per il cento per cento da coope- rative sociali» (art. 10, c. 8);
– quelle parziali, «gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo stato ha stipulato patti, accordi o intese e le associazioni di promozione sociale [...] le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero degli interni» che hanno istituito un “ramo Onlus”9, per lo svolgimento, alle condizioni previste, di una o più attività tra quelle in- dicate dalla lettera a) dell’articolo 10 (cf art. 10, c. 9);
b) le associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionali, regio- nali e provinciali previsti dall’articolo 7, commi 1, 2, 3 e 4, della legge 7 dicembre 2000, n. 383;
c) le associazioni e le fondazioni riconosciute che operano nei settori delle Onlus di cui all’articolo 10, comma 1, lettera a), del citato decreto legisla- tivo n. 460 del 1997.
Circa quest’ultima tipologia di soggetti (associazioni e fondazioni non Onlus) la Circolare 56/E del 10 dicembre 2010 precisa che:
– il “riconoscimento” richiesto è quello della personalità giuridica, attestato dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche;
– il requisito della personalità giuridica deve intendersi riferito solo ai sog- getti con personalità giuridica di diritto privato, con esclusione, quindi, degli enti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico;
– è necessario «che tra i fini istituzionali sia previsto lo svolgimento di atti- vità nei settori indicati nel comma 1, lettera a), dell’articolo 10 del D.Lgs. 460 del 1997» e che gli enti «operino concretamente in uno dei settori previsti dal richiamato articolo 10», ma che non occorre che tali attività siano svolte in maniera esclusiva o prevalente.
2.2 Gli enti della ricerca scientifica e dell’università
Rientrano tra gli enti della ricerca scientifica e dell’università gli enti senza scopo di lucro, quali università e istituti universitari, statali e non sta- tali legalmente riconosciuti, consorzi interuniversitari, istituzioni di alta for- mazione artistica, musicale e coreutica, statali e non statali legalmente rico- nosciute, ovvero enti ed istituzioni di ricerca, indipendentemente dallo sta- tus giuridico e dalla fonte di finanziamento, la cui finalità principale consiste nello svolgere o promuovere attività di ricerca scientifica.
volontariato a condizione «che non svolgano attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto del Ministro delle finanze 25 maggio 1995» (art. 30, c. 5, D.L. 185/2008, conv. L. 2/2009).
9 Circa le condizioni da rispettare per l’istituzione e la gestione di un “ramo onlus” si veda la Ris. 79/E del 31.3.2003.
2.3 Gli enti della ricerca sanitaria
Rientrano tra gli enti della ricerca sanitaria:
a) gli enti destinatari dei finanziamenti pubblici riservati alla ricerca sanita- ria, di cui agli articoli 12 e 12-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502;
b) le fondazioni o enti istituiti per legge e vigilati dal Ministero della salute;
c) le associazioni senza fini di lucro e le fondazioni che svolgono attività di ricerca traslazionale, in collaborazione con le altre due tipologie di enti e che contribuiscano con proprie risorse finanziarie, umane e strumentali, ai programmi di ricerca sanitaria determinati dal Ministero della salute.
2.4 Le associazioni sportive dilettantistiche
Le associazioni sportive dilettantistiche ammesse alla ripartizione so- no state identificate con il Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 2 aprile 2009; si tratta delle «associazioni sportive dilettantistiche, in possesso del riconoscimento ai fini sportivi rilasciato dal CONI, nella cui or- ganizzazione è presente il settore giovanile, affiliate agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI, che svolgono prevalentemente attività di av- viamento e formazione allo sport dei giovani di età inferiore a 18 anni, ovve- ro di avviamento alla pratica sportiva in favore di persone di età non inferio- re a 60 anni, o nei confronti di soggetti svantaggiati in ragione delle condi- zioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari».
3. La specificità degli enti ecclesiastici
Anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono accedere alla ripartizione dei fondi del 5‰ ma solo a specifiche condizioni: se hanno formalmente istituito un “ramo Onlus” oppure, nel caso delle associazioni e fondazioni, se svolgono attività nei settori previsti per le Onlus10.
Pertanto la domanda di iscrizione nell’elenco può essere inoltrata:
– da qualunque ente ecclesiastico (parrocchia, diocesi, istituto religioso, fondazione, ecc.), ma solo se svolge attività di solidarietà sociale nel- l’ambito di un ramo Onlus, formalmente attivato (costituzione del ramo con regolamento registrato e iscrizione all’anagrafe delle Onlus);
– dalle associazioni e fondazioni canoniche civilmente riconosciute come enti ecclesiastici che non hanno un ramo Onlus ma operano in uno o più degli ambiti previsti per le Onlus (beneficenza, sanità, istruzione, ecc.).
In tutti gli altri casi gli enti ecclesiastici non possono concorrere alla ri- partizione del 5 per mille.
10 La categoria di appartenenza è, quindi, quella del volontariato.
3.1 Il ramo Onlus
Si ricorda innanzitutto che l’ente ecclesiastico in quanto tale non può mai assumere la qualifica di Xxxxx dal momento che esse debbono svolge- re in via esclusiva una o più attività tra quelle tassativamente previste dal decreto legislativo 460/1997, attività tra le quali non rientra quella di religio- ne e culto. Nel caso in cui però l’ente ecclesiastico svolga una o più delle at- tività tipiche delle Onlus, può gestirla utilizzando il regime fiscale delle On- lus, sempre che lo ritenga preferibile11.
Infatti il legislatore ha tenuto presente che, come naturale sviluppo degli ideali di natura religiosa e come concretizzazione dell’annuncio evan- gelico, gli enti ecclesiastici offrono spesso servizi sociali ai cittadini, in parti- colare a quelli svantaggiati, collaborando così attivamente con le istituzioni pubbliche e con tutti gli altri soggetti impegnati nel mondo del terzo settore. Per questo motivo ha previsto la possibilità per questi enti di essere considerati Onlus, ma solo limitatamente all’effettivo esercizio di una o più delle attività rientranti tra i settori tipici delle Onlus, assoggettando alle spe- cifiche disposizioni, agevolative e prescrittive, la sola attività interessata e
non il soggetto ente ecclesiastico in quanto tale12.
Di conseguenza l’ente ecclesiastico che svolge una delle attività Onlus deve assoggettare alle norme Onlus solo quello specifico “ramo” delle sue attività, non invece le altre attività esercitate – anzitutto quella di religione o di culto: attività liturgica, di catechesi, di educazione cristiana, eccetera –, che restano regolate dalle disposizioni loro specifiche (di natura canonica), e neppure se stesso in quanto “soggetto” che trova la sua regolamentazione nelle norme sugli enti ecclesiastici e in quelle sugli enti non commerciali.
In relazione alle attività Onlus l’ente ecclesiastico deve osservare tut- te le condizioni previste dalla legge; in particolare:
– tenere separatamente le scritture contabili previste all’articolo 20-bis del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600;
– rispettare i requisiti statutari e i vincoli sostanziali imposti dall’articolo 1013 (ferme restando le deroghe previste dal c. 7), nonché l’onere della comu- nicazione imposto dall’articolo 11.
11 Va infatti precisato che l’ente ecclesiastico che svolge un’attività “di solidarietà so- ciale” come definita dal D.Lgs. 460/1997 non è obbligato ad inquadrarla come ramo Onlus.
12 «Gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese [...] sono considerati Onlus limitatamente all’esercizio delle attività elencate alla lettera a) del comma 1; fatta eccezione per la prescrizione di cui alla lettera c) del comma 1, agli stessi enti [...] si applicano le disposizioni anche agevolative del presente decreto, a condizione che per tali attività siano tenute se- paratamente le scritture contabili previste all’articolo 20-bis del decreto del Presi- dente delle Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 , introdotto dall’articolo 25, com-
ma 1» (D.Lgs. 460/1997, art. 10, c. 9).
13 Ai fini dell’applicazione di tali vincoli, appare utile segnalare quanto precisato dal
In pratica, per istituire un ramo Onlus l’ente deve adottare un formale re- golamento, che dovrà essere registrato, e iscriversi all’anagrafe delle Onlus.
Il regolamento dovrà indicare i seguenti elementi:
– i settori di attività: l’attività esercitata deve essere compresa negli undici settori elencati nella lettera a) del primo comma;
– la finalità esclusiva di solidarietà sociale: tale finalità è considerata intrin- secamente connessa con alcuni settori di attività (ad esempio, quello della beneficenza in cui rientra la gestione di una mensa per i poveri), mentre per altri settori (ad esempio, quello dell’istruzione e quello sanita- rio) la finalità di solidarietà sociale risulta perseguita solo se l’attività è svolta a favore dei soggetti svantaggiati;
– lo svolgimento esclusivo di attività Onlus: il divieto di svolgere attività di- verse da quelle Onlus, salvo quelle connesse14;
– il divieto di distribuzione degli utili o avanzi di gestione anche in modo in- diretto;
– l’obbligo di reimpiego degli utili;
– gli obblighi in caso di estinzione: l’obbligo di devolvere il patrimonio ad al- tre Onlus o a fini di pubblica utilità, sentita l’Agenzia per le Onlus.
Si sottolinea infine che l’istituzione di un ramo Onlus potrebbe essere assoggettato all’autorizzazione da parte della competente autorità ecclesia- stica in quanto qualificato, ai fini canonici, come atto di straordinaria ammi- nistrazione15.
4. L’iscrizione negli elenchi
Per poter essere scelti dai contribuenti i soggetti appartenenti alle ca- tegorie sopra indicate devono iscriversi in un apposito elenco tenuto dall’A-
Ministero delle finanze nella Circ. n. 168 del 26.6.1998: «con riferimento agli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, va tenuto presente il documento conclusivo del- la Commissione paritetica italo-vaticana, pubblicato nel supplemento ordinario n. 210 alla Gazzetta Ufficiale del 15 ottobre 1997, n. 241 con il quale è stato stabilito che agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti “non sono... applicabili... le norme, dettate dal codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estin- zione delle persone giuridiche private. Non può dunque richiedersi ad essi ad esem- pio, la costituzione per atto pubblico, il possesso in ogni caso dello statuto, né la conformità del medesimo, ove l’ente ne sia dotato, alle prescrizioni riguardanti le persone giuridiche private”. Tali enti, tuttavia, hanno l’obbligo di predisporre un re- golamento, nella forma della scrittura privata registrata, che recepisca le clausole dell’articolo 10 del decreto legislativo n. 460 del 1997».
14 Le attività connesse possono essere svolte a condizione che non siano prevalen-
ti rispetto a quelle istituzionali e che i proventi derivanti dal loro svolgimento non su- xxxxxx il 66% delle spese complessive dell’organizzazione.
15 Le conseguenze della qualifica Onlus del ramo di attività, infatti, sono tali da poter recare pregiudizio all’assetto patrimoniale dell’ente (ad es. la destinazione del resi-
genzia delle entrate. Nessun elenco viene formato per i comuni in quanto la legge stabilisce che debba essere quello di residenza del contribuente che sceglie questa categoria di enti.
Le modalità di iscrizione sono differenti a seconda della categoria di appartenenza dell’ente.
4.1 Gli enti del volontariato e le associazioni sportive dilettantistiche
Gli enti appartenenti all’ambito definito del volontariato e le associa- zioni sportive dilettantistiche devono iscriversi, entro il 7 maggio, nell’appo- sito elenco tenuto dall’Agenzia delle entrate. L’iscrizione si effettua esclusi- vamente in via telematica, anche per il tramite di intermediari, utilizzando il modello reso disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xxx.xx (si veda il fac-simile a pag. 40).
Entro il 14 maggio l’Agenzia delle entrate pubblica sul proprio sito l’elen- co dei soggetti che hanno chiesto l’iscrizione indicando, per ciascun ente, de- nominazione, sede, tipologia di appartenenza e codice fiscale. Eventuali errori di iscrizione nell’elenco devono essere segnalati, entro il 20 maggio, alla Dire- zione regionale dell’Agenzia delle entrate nel cui ambito territoriale si trova la sede dell’ente. L’elenco corretto viene pubblicato entro il 25 maggio 2011.
4.2 Gli enti della ricerca
Gli elenchi degli enti della ricerca si formano presso il Ministero com- petente che li trasmette all’Agenzia delle entrate entro il 7 maggio 2011 e che li pubblica, insieme agli altri, entro il 14 maggio.
Gli enti della ricerca scientifica e dell’università devono effettuare l’i- scrizione, entro il 30 aprile 2011, esclusivamente in via telematica, anche attraverso un intermediario, utilizzando il modello reso disponibile sul sito del Ministero all’indirizzo: http//xxxxxxxxxxxxxx.xxxx.xx.
L’elenco degli enti della ricerca sanitaria sono tenuti dal Ministero del- la salute. Gli enti appartenenti a questa categoria, però, devono effettuare l’iscrizione solo se non sono già compresi nell’elenco dello scorso anno.
Le richieste di iscrizione dei nuovi enti devono essere inviate al Mini- stero della salute – Direzione generale per la ricerca scientifica e tecnologi- ca, cui devono pervenire entro il 30 aprile 2011.
5. Presentazione della dichiarazione sostitutiva
Gli enti che risultano iscritti negli elenchi (ad eccezione di quelli della ricerca sanitaria) devono trasmettere, entro il 30 giugno 2011, a pena di de- cadenza, una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà attestante la per- sistenza dei requisiti previsti dalla legge ai fini dell’iscrizione. Questo adem- pimento è condizione necessaria per l’ammissione al riparto del 5‰.
Le dichiarazioni devono essere rese utilizzando il modello previsto per ciascuna categoria di ente (si vedano i fac-simili alle pagg. 41-42) e de- vono essere inviate, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento:
– dagli enti del volontariato, alla Direzione regionale dell’Agenzia delle en- trate nel cui ambito territoriale si trova la sede dell’ente;
– dalle associazioni sportive dilettantistiche, all’Ufficio del CONI nel cui am- bito territoriale si trova la sede dell’ente;
– dagli enti della ricerca scientifica e dell’università, al Ministero dell’istru- zione, dell’università e della ricerca (MIUR).
La dichiarazione deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell’ente che deve allegare una copia del suo documento di identità.
La veridicità delle dichiarazioni sostitutive inviate sarà controllata, en- tro il 31 dicembre 2011, da ciascuno dei soggetti destinatari: dalle Direzioni regionali dell’Agenzia delle entrate per gli enti del volontariato, dal CONI per le associazioni sportive dilettantistiche, dal MIUR per gli enti di ricerca.
Entro il 15 marzo 2012 il CONI e il MIUR trasmetteranno all’Agenzia delle entrate l’elenco degli enti ammessi e quello degli enti esclusi.
Entro il 31 marzo 2012 l’Agenzia delle entrate pubblicherà gli elenchi definitivi dei soggetti ammessi e di quelli esclusi.
6. La rendicontazione
Ricordiamo infine che con la finanziaria 200816 è stato introdotto, per gli enti che hanno ricevuto il contributo del 5‰, l’obbligo di rendiconto per i fondi ricevuti, documento attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria si propone di monitorare l’effettiva destinazione dei contributi in modo da ave- re la garanzia che siano utilizzati per il perseguimento delle finalità istituzio- nali.
L’adempimento riguarda le somme relative all’anno 2008 e successi- vi17, indipendentemente dall’anno in cui è avvenuta la corresponsione (le quote relative al 2008 sono state liquidate nel 2010).
Fanno eccezione le associazioni sportive dilettantistiche, per le quali l’obbligo decorre già a partire dalle somme relative al 2006; a proposito di questi enti, infatti, il decreto ministeriale 2 aprile 2009 stabilisce che «i sog- getti destinatari delle somme relative agli anni finanziari 2006, 2007, 2008 e 2009 redigono, entro un anno, dalla ricezione delle stesse, un apposito e separato rendiconto...».
duo patrimoniale attivo in caso di cessazione del ramo Onlus non è nella disponibi- lità della parrocchia ma è riservata alla decisione della Autorità delle Onlus).
16 L. 24.12.2007, n. 244, art. 3, cc. 6 e 7.
17 Cf: per il 2009, l’art. 00-xxx, x. 0 xxx X.X. 000/0000, xxxx. L. 133/2008; per il 2010, l’art. 2, c. 4-undecies del D.L. 40/2010, conv. 73/2010; per il 2011, l’art. 2, c. 1 del D.L. 225/2010, conv. 10/2011.
Il rendiconto deve essere redatto entro un anno dalla ricezione delle somme e deve essere completato da una relazione illustrativa dalla quale risulti, in modo chiaro e trasparente, la destinazione dei contributi.
Come precisato dal D.P.C.M. 19 marzo 2008, i rendiconti e le relazio- ni dovranno essere trasmessi al Ministero che ha erogato gli importi18, ma solo se sono stati percepiti importi a partire dai 15.000 euro (per l’anno 2008)19 o da 20.000 euro (per gli anni successivi)20. Negli altri casi i docu- menti vanno solo predisposti. Il rendiconto e gli allegati devono essere con- servati, unitamente ai giustificativi di spesa, per almeno dieci anni (presso la sede legale o presso altra sede da notificare) ed essere messi a disposizio- ne del personale amministrativo incaricato di ispezionarlo.
Il decreto stabilisce inoltre che nel caso in cui i contributi siano stati ri- cevuti da federazioni o da soggetti con articolazioni territoriali e poi da que- sti girati alle proprie strutture locali, il rendiconto deve essere unico ed ela- borato dall’organismo che ha presentato la domanda di ammissione e rice- vuto le somme.
L’articolo 12 del D.P.C.M. chiarisce che il rendiconto deve essere re- datto utilizzando il modello reso disponibile da ciascuna delle amministra- zioni competenti all’erogazione delle somme.
Di seguito si esamina il rendiconto degli enti del volontariato e delle associazioni sportive dilettantistiche.
6.1 Le Linee guida per gli enti del volontariato
Per gli enti del volontariato il Ministero del lavoro e delle politiche so- ciali ha emanato le Linee guida per la predisposizione del rendiconto e ha predisposto un fac-simile di rendiconto.
L’utilizzo di questo modello non è obbligatorio: nel caso in cui l’ente abbia redatto il bilancio di esercizio secondo le Linee guida e schemi per la redazione dei bilanci di esercizio degli enti non profit elaborate dall’Agenzia per le Onlus, l’obbligo di predisporre il rendiconto è assolto con la compila- zione dello stesso bilancio di esercizio, che deve essere corredato dalla de- libera di approvazione dell’organo di amministrazione. Nel bilancio dovrà ri- sultare in modo chiaro ed inequivocabile la destinazione del 5‰, eventual- mente anche per mezzo di una relazione che illustri dettagliatamente le atti- vità svolte e i corrispondenti costi sostenuti. Le Linee guida ministeriali pre- cisano inoltre che «in considerazione del fatto che la riscossione della de- voluzione del “5‰ dell’IRPEF” può cadere in prossimità della chiusura della
18 Per gli enti del volontariato la competenza è del Ministero del lavoro e della soli- darietà sociale, per le associazioni sportive dilettantistiche è l’Ufficio per lo sport della Presidenza del Consiglio dei ministri, per gli enti della ricerca il Ministero dell’i- struzione, dell’università e della ricerca e il Ministero della salute.
19 Cf art. 8, c. 3, D.P.C.M. 19.3.2008.
20 Cf per il 2009: art. 11, c. 4, D.P.C.M. 3.4.2009; per il 2010 e il 2011: art. 12, c. 4,
D.P.C.M. 23.4.2010.
gestione sociale e che, pertanto, il bilancio di esercizio può non rendere conto dell’utilizzo dell’intero ammontare della quota percepita, l’obbligo è assolto integrando il documento contabile in questione con il bilancio di esercizio dell’anno successivo».
Il modello ministeriale, che adotta il criterio di cassa per l’imputazione delle voci, è costituto da due parti: la prima di carattere anagrafico, che ac- coglie le informazioni relative all’ente e al suo legale rappresentante; la se- conda propriamente destinata alla rendicontazione nella quale vanno inseri- ti i costi sostenuti.
Il D.P.C.M. del 23 aprile 2010, contenente la disciplina per la presen- tazione delle domande di ammissione all’assegnazione delle quote del 5‰ IRPEF per l’anno finanziario 2010, stabilisce che a partire da questa annua- lità «le somme erogate quali contributo del cinque per mille non possono essere utilizzate per coprire le spese di pubblicità sostenute per fare cam- pagna di sensibilizzazione sulla destinazione della quota del cinque per mil- le dell’imposta sui redditi delle persone fisiche, trattandosi di importi erogati per finalità di utilità sociale» (art. 12).
Le spese da indicare nel modello sono tutte quelle sostenute con rife- rimento ai fondi del 5‰, a prescindere dal fatto che le stesse siano state so- stenute prima o dopo la materiale erogazione del contributo21.
Il rendiconto è costruito con il sistema a scalare: all’ammontare del contributo percepito devono essere sottratte le diverse spese, distribuite per natura, in cinque macro classi:
– risorse umane: questa voce comprende i costi sostenuti per il personale che, a titolo oneroso o gratuitamente, svolge attività in modo continuativo presso l’ente (per es. la retribuzione per il personale dipendente a tempo determinato o a tempo indeterminato; i rimborsi per le spese riconosciute ai volontari o da altro personale; i costi per l’assicurazione dei collaboratori);
– costi di funzionamento: questa voce include sia i costi per la gestione della/e struttura/e dell’ente (canone di locazione; corrispettivi per la forni- tura di acqua, gas e luce; spese per le pulizie) sia le spese per lo svolgi- mento delle attività;
– acquisto beni e servizi: a questa voce si riconducono le spese per l’ac- quisto di beni (apparecchiature informatiche, macchinari) e servizi (affitto locali per eventi; noleggio attrezzature; compensi per occasionali presta- zioni di lavoro);
– erogazioni ai sensi della propria finalità istituzionale: in questa voce van- no indicate le erogazioni che vengono effettuate da quegli enti che svol- gono tale attività di sostegno a favore di altri soggetti secondo il proprio scopo istituzionale, anche non esclusivo;
– altre voci di spesa riconducibili al raggiungimento dello scopo sociale: è una voce di carattere residuale da utilizzare per inserire tutti quei costi
21 Il materiale è disponibile sul sito del Ministero del lavoro, quello dell’Agenzia per le Onlus e quello del forum del terzo settore.
che non possono essere ricompresi nelle voci precedenti (per esempio per indicare la spesa sostenuta per realizzare progetti o programmi).
Le Linee guida precisano che ne caso di inserimento di costi alla vo- ce: erogazioni ai sensi della propria finalità istituzionale oppure altre voci di spesa riconducibili al raggiungimento dello scopo sociale la relazione illu- strativa è obbligatoria.
6.2 Il rendiconto delle associazioni sportive dilettantistiche
La Circolare 3 marzo 2011, n. 9/E ricorda che «per quanto riguarda le associazioni sportive dilettantistiche, la rendicontazione deve essere effet- tuata secondo i criteri fissati dal decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 2 aprile 2009...».
Il decreto citato, però, si limita a stabilire che le associazioni destina- tarie «delle somme relative agli anni finanziari 2006, 2007, 2008 e 2009 re- digono, entro un anno dalla ricezione delle stesse, un apposito e separato rendiconto nel quale è rappresentato in modo chiaro e trasparente l’effettivo impiego delle somme percepite ed una relazione che illustri in maniera det- tagliata la destinazione delle somme attribuite, nonché le attività di interes- se sociale effettivamente svolte...» (art. 3) e che «il controllo sui rendiconti, di cui all’art. 3, verrà effettuato secondo le modalità previste nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 63-bis, comma 4, del de- creto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla leg- ge 6 agosto 2008, n. 133» (art. 4). Quest’ultima norma, a sua volta, rinvia ad un ulteriore decreto, non ancora emanato (cf c. 6).
In attesa di un modello specifico le associazioni sportive dilettantisti- che dovranno utilizzare quello predisposto per gli enti del volontariato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, come esplicitamente dispongo- no le Linee guida: «le associazioni sportive dilettantistiche, comprese per ragioni di carattere organizzativo nel settore “enti del volontariato” per le an- nualità 2006 e 2007, dovranno adempiere l’obbligo di redigere il rendiconto secondo le presenti Linee guida per le annualità 2006 e 2007».
7. Il recupero delle somme erogate
Le somme erogate possono essere recuperate dall’Amministrazione finanziaria nelle ipotesi previste dai decreti emanati di anno in anno per di- sciplinare il contributo22; si tratta dei casi in cui:
– l’erogazione delle somme sia stata determinata sulla base di dichiarazio- ni mendaci o basate su false attestazioni anche documentali;
22 La precisazione è contenuta nelle Linee guida: «I costi che devono comparire nel rendiconto sono unicamente quelli sostenuti con la quota del “5‰ dell’IRPEF” e possono derivare anche da obbligazioni che il soggetto beneficiario abbia assunto prima di aver riscosso il beneficio».
– le somme erogate non siano state oggetto di rendicontazione;
– gli enti che hanno percepito contributi di importo pari o superiore a 15.000 euro (per l’anno 2008) e a 20.000 euro (per gli anni successivi) non invii- no il rendiconto e la relazione;
– a seguito dei controlli l’ente beneficiario sia risultato non in possesso dei requisiti che danno titolo all’ammissione al beneficio23;
– gli enti che hanno percepito contributi di importo inferiore a 15.000 euro (per l’anno 2008) e a 20.000 euro (per gli anni successivi) non ottemperi- no alla richiesta di trasmettere, ai fini del controllo, il rendiconto, la rela- zione illustrativa e la ulteriore documentazione eventualmente richiesta.
Il Ministero competente previa contestazione, provvede a recuperare il contributo in esito a un procedimento in contraddittorio. Qualora il recupe- ro avvenga perché l’ente ha ottenuto le somme sulla base di dichiarazioni mendaci o basate su false attestazioni, il Ministero trasmette gli atti all’Auto- xxxx giudiziaria.
Il recupero del contributo comporta l’obbligo a carico del beneficiario di restituire all’erario, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del provvedimento contestativo, l’intero ammontare percepito, rivalutato secon- do gli indici ufficiali ISTAT e maggiorato degli interessi corrispettivi al tasso legale.
23 Il recupero dei contributi erogati è disciplinato, con riferimento alle diverse annua- lità, nei D.P.C.M. 19.3.2008, 3.4.2009 e 23.4.2010.
24 Questa ipotesi è contemplata solo nel D.P.C.M. 23.4.2010.
Xxxx Xxxxx*
LA PIANIFICAZIONE URBANISTICA: I PIANI ATTUATIVI
1. TRA IL DIRE E IL FARE… LA PIANIFICAZIONE ATTUATIVA
L’articolo 12 della legge regionale 11 marzo 2005, n. 121 stabilisce che:
«L’attuazione degli interventi di trasformazione e sviluppo indicati nel Docu- mento di Piano avviene attraverso i piani attuativi comunali, costituiti da tut- ti gli strumenti attuativi previsti dalla legislazione statale e regionale».
Poiché il Documento di Piano (DdP)2 – parte fondamentale del Piano di Governo del Territorio – pianifica lo sviluppo urbano e definisce il quadro generale della programmazione urbanistica, è chiaro che debba essere at- tuato; anzi, l’attuazione del DpP costituisce obiettivo di politica urbanistica comunale da realizzare, potenzialmente, nel quinquennio successivo alla sua approvazione.
La citata norma chiarisce che l’attuazione avviene «attraverso i piani attuativi comunali» senza però esplicitamente definire cosa si intenda per piani attuativi, limitandosi ad un rinvio a «tutti gli strumenti attuativi previsti dalla legislazione statale e regionale» ovvero ad una pluralità di tipologie di piani, variamente articolata dalla disciplina sia statale che regionale.
Stante la mancanza di una definizione generale di piani attuativi, la dottrina3 ha provato ad individuarla cercando di astrarre da «tutti gli stru- menti attuativi previsti dalla legislazione statale e regionale» gli elementi che li accomunano.
* Avvocato.
1 Fulcro centrale del presente scritto, come di quelli precedentemente pubblicati su questa Rivista, è la L.R. della Lombardia n. 12/2005, modificata innumerevoli volte con le L.R. n. 20/2005, n. 6/2006, n. 12/2006, n. 4/2009, n. 5/2009, n. 12/2010.
2 Sui contenuti e le funzioni del DdP, e più in generale del Piano di Governo del Ter- ritorio si rinvia a quanto illustrato in exLege 1-2/2010, pp. 71-80.
3 Per una definizione di “Piani attuativi” si veda: X. XXXXXXXX – M.F. VIAPIANA, Ele- menti per il governo del territorio, Milano, 2009, 306.
Tali elementi comuni sono:
– essere conforme (o meno) alla Pianificazione generale4;
– precisare gli interventi edilizi da realizzare in un determinato territorio5;
– organizzare e regolamentare gli interventi edilizi di attuazione.
Così enucleati gli elementi che qualificano la tipologia in commento, possiamo affermare che tra il dire (la Pianificazione Generale) e il fare (l’at- tività edilizia) c’è di mezzo… proprio la pianificazione attuativa.
2. IN PRINCIPIO FU… IL PIANO PARTICOLAREGGIATO
Nella legge 17 agosto 1942, n. 1150 (c.d. Legge Urbanistica – L.U.) – dalla quale ha avuto inizio un sistema organico di pianificazione dello svi- luppo urbanistico ed edilizio del territorio nel nostro ordinamento – la disci- plina della pianificazione era basata sulla “centralità” del Piano Regolatore Generale (PRG), quale strumento di pianificazione complessiva a livello co- munale, e del Piano Particolareggiato (PP), quale strumento, invece, di pia- nificazione di dettaglio.
La Legge Urbanistica6, si occupa dei PP di esecuzione definendoli gli strumenti di attuazione di iniziativa pubblica del PRG, contenenti la discipli- na dettagliata della singola zona e con valore di dichiarazione di pubblica utilità delle opere di urbanizzazione previste.
In particolare l’articolo 13 (Contenuto dei piani particolareggiati) stabi- lisce che nei PP di esecuzione debbano essere indicate in modo puntuale:
– le reti stradali e i principali dati altimetrici di ciascuna zona;
– le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze;
4 Gli strumenti attuativi “in variante” sono stati lo strumento maggiormente usato per modificare la Pianificazione generale per le parti del territorio considerate. Come criticamente osservato questo fenomeno determina due ordini di problemi: «Anzi- tutto il pericolo di un asservimento eccessivo dell’interesse pubblico all’interesse dei privati che finanziano e attuano l’intervento. In secondo luogo la perdita della vi- sione pianificatoria di più ampio respiro, con il rischio di una inadeguata valutazione delle esternalità negative rispetto alla zona di intervento» (P. XXXXXX XXXXXXX. Diritto Urbanistico, Milano, 2010, 59).
5 Alla pianificazione attuativa, nella Regione Lombardia, si riconosce un ruolo non di
mera “precisazione”, ma di vera e propria “definizione” delle potenzialità edificatorie dell’area interessata e di vincolo sul regime dei suoli. In particolare: «Nei piani at- tuativi vengono fissati in via definitiva, in coerenza con le indicazioni contenute nel documento di piano, gli indici urbanistico-edilizi necessari alla attuazione delle pre- visioni dello stesso» (art. 12, c. 3) e «Le previsioni contenute nei piani attuativi e lo- ro varianti hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli» (art. 12, c. 5).
6 L. 1150/1942. Per una panoramica sulla legislazione urbanistica del 1942 e delle sue successive modificazioni: X. XXXXXXXX, Evoluzione e tendenze della normativa statale e regionale in materia di pianificazione urbanistica, in Riv. Giur. Ed., 2003, 125 e ss.
– gli spazi riservati ad opere od impianti di interesse pubblico;
– gli edifici destinati a demolizione o ricostruzione ovvero soggetti a re- stauro o a bonifica edilizia;
– le suddivisioni degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano;
– gli elenchi catastali delle proprietà da espropriare o da vincolare;
– la profondità delle zone laterali a opere pubbliche, la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare prevedi- bili esigenze future.
Il PP deve inoltre rispondere ad una serie di caratteristiche non solo progettuali ma anche finanziarie ed amministrative. In particolare, deve es- sere corredato «dalla relazione illustrativa e dal piano finanziario», a garan- zia della copertura finanziaria delle spese occorrenti per le opere previste.
Dal punto di vista teorico i PP dovevano permettere di raggiungere un contemperamento degli interessi dei diversi componenti della collettività, soprattutto nella fase di acquisizione delle aree necessarie per gli interventi di recupero urbano ed ambientale.
Nella pratica, invece, i PP si sono dimostrati particolarmente onerosi per le casse dei Comuni che non sono state in grado di sostenere gli ingen- ti costi delle espropriazioni e per la realizzazione delle opere urbanistiche necessarie.
I PP, più di frequente, sono stati attivati ad iniziativa privata – con as- sunzione da parte dei promotori dei costi di esecuzione – e successivamen- te adottati/approvati dal Comune.
3. … MA SOPRATTUTTO: IL PIANO DI LOTTIZZAZIONE
A partire dal 1967, a seguito della modifica della L.U., un nuovo stru- mento – alternativo al piano particolareggiato – diviene il trait d’union tra la Pianificazione generale e l’attività edilizia: la «lottizzazione dei terreni a sco- po edilizio» (art. 28 L.U.).
La lottizzazione – in precedenza semplice strumento di eventuale ul- teriore specificazione delle previsioni del piano particolareggiato – nella prassi amministrava, è stata utilizzata enormemente per lo sviluppo urbani- stico in ambito comunale.
Il piano di lottizzazione (PdL) si attua necessariamente mediante una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario dell’area da lottizzare, all’esito di un’istruttoria condotta dall’Amministrazione comunale, Ammini- strazione che spesso vi apporta necessarie modifiche, concordate con il pri- vato, prima di procedere all’approvazione da parte del Consiglio Comunale. Contenuto indefettibile della convenzione7, assieme a tutti gli elabora-
7 Si tratta solo del contenuto “minimo” delle convenzioni, che nella prassi si sono ar- ricchite di una serie ulteriore di previsioni, obblighi ed impegni finalizzati alla migliore esecuzione ed implementazione dell’attività edilizia ed ogni ulteriore insediamento.
ti progettuali plano-volumetrici necessari, e alla descrizione degli interventi infrastrutturali, è l’assunzione da parte del privato di precise obbligazioni:
– cedere al Comune le aree dove dovranno sorgere le opere di urbanizza- zione primaria e secondaria;
– assumersi gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria, e una quota parte di quelli relativi alle opere di urbanizzazione secondaria;
– prestare una garanzia finanziaria per il mancato completamento delle opere suddette.
Questo strumento ha permesso all’iniziativa privata di integrarsi nel processo di pianificazione urbanistica, nel rispetto di alcune regole fonda- mentali: i privati “promotori” del PdL devono assicurare che nell’area dove attueranno la lottizzazione, ovvero su un territorio già parzialmente urbaniz- zato o non urbanizzato affatto, vengano realizzate, assieme agli interventi edificatori di interesse dei privati - insediamenti residenziali o produttivi - le
c.d. opere di urbanizzazione primaria e secondaria8.
Tali “opere”9 costituiscono l’insieme dei lavori necessari a rendere un’area idonea all’utilizzazione e a soddisfare le più elementari esigenze della collettività. La realizzazione delle opere di urbanizzazione, infatti, è strettamente collegata al concetto di “carico urbanistico”, ovvero alla do- manda di strutture ed opere di interesse collettivo prodotta (e variabile in base a) dal numero di soggetti che si insediano in un dato territorio.
Lo strumento urbanistico generale individua le aree soggette all’obbli- go di lottizzazione, le aree dove la lottizzazione è vietata, e le aree dove la lottizzazione è opportuna, ma non obbligatoria. La lottizzazione si configura necessaria non solo quando si tratta di urbanizzare un’area per la prima volta, ma anche quando in presenza di un’area, parzialmente urbanizzata, non sono state adeguatamente realizzate le necessarie opere di urbanizza- zione.
4. Ed oggi: i programmi integrati di intervento
Il sostanziale buon funzionamento della lottizzazione “convenzionata” ha portato, nel tempo, il legislatore – sia nazionale che regionale10 – a pre-
8 Per un approfondimento sul tema delle convenzioni di lottizzazione, si veda: X. XXXXXXXX, Gli accordi urbanistici tra P.A. e privati, in Riv. Giur. Urb., 2008, 449 e ss.
9 Nelle opere primarie rientrano quelle che rendono possibile l’utilizzo del suolo e degli edifici, come strade, spazi di parcheggio, fognature, rete idrica, rete elettrica e del gas e illuminazione pubblica, mentre fanno parte delle opere di urbanizzazione secondaria quelle che consentono di vivere ad una comunità in una data zona, co- me scuole, mercati, chiese ed altri edifici religiosi, aree verdi, centri sociali ed at- trezzature culturali e sanitarie.
10 Sulla competenza legislativa concorrente la materia di “governo del territorio” si rinvia a: A. XXXXX, La pianificazione urbanistica. Introduzione, in exLege 4/2009, 45 e ss.
vedere e disciplinare un’ampia gamma di strumenti attuativi ulteriori basati sulla collaborazione e sulla negoziazione dei contenuti tra la pubblica am- ministrazione ed i privati11.
Lo strumento che ha maggiormente riscosso successo negli ultimi an- ni è il Programma Integrato di Intervento (PII) che la legge regionale della Lombardia disciplina agli articoli 87 e seguenti12.
Nell’ambito delle previsioni del DdP, i Comuni promuovono la forma- zione di PII per riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del proprio territorio, con particolare riferimento ai centri storici, alle aree perife- riche e alle aree produttive da risanare.
La peculiarità del PII – che in questi anni ne ha decretato il successo rispetto ad altri strumenti di pianificazione – sta proprio nell’ampiezza di fun- zioni e di contenuti che con esso possono raggiungersi, in quanto persegue
«obiettivi di riqualificazione dei tessuti urbani, anche con riguardo all’aspet- to ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e risorse, pub- blici e privati, incidenti anche sulle opere di urbanizzazione e sulla dotazio- ne degli standard»13. Con esso si mira a conciliare l’interesse pubblico alla riqualificazione di vaste aree con l’interesse del privato alla valorizzazione e remunerazione dell’investimento.
Il PII si caratterizza per la presenza contemporanea di almeno due di questi elementi:
a) previsione di una pluralità di destinazioni e di funzioni14, comprese quelle inerenti alle infrastrutture pubbliche e d’interesse pubblico, alla riqualifi- cazione ambientale naturalistica e paesaggistica15;
11 Come osservato «È questo il diffuso fenomeno dell’urbanistica consensuale o “per accordi”, le cui motivazioni risiedono dunque per un verso nell’esigenza di rag- giungere, attraverso la partecipazione del privato interessato dalle trasformazioni previste dal piano, il migliore assetto degli usi del territorio e per altro verso nella possibilità di soddisfare così, contemporaneamente alle trasformazioni, la doman- da di opere di urbanizzazione che le amministrazioni locali non sono in grado di fi- nanziare totalmente con capitale pubblico» (P. XXXXXX XXXXXXX. Op.cit., 59).
12 Per una disamina sul tema dei PII si rimanda a: X.X. XXXXXXX, Xxxxxxx xx xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 439 e ss. e X. XXXXXX Xna riflessione sui programmi in- tegrati di intervento, in Vita Not., 2008, 118 e ss.
13 In giurisprudenza: Consiglio Stato, sez. IV, 22.6.2006, n. 3889, in www.giustizia- xxxxxxxxxxxxxx.xx.
14 Per pluralità di destinazioni si intende la compresenza nel Programma di inter- venti destinati ad usi diversi, mentre per pluralità di funzioni l’insieme degli obiettivi che il PII deve perseguire.
15 Gli obiettivi perseguibili dal PII potranno spaziare da quelli destinati alla residen- za, al commercio, alle funzioni terziarie e alle attività produttive, a quelli legali alla realizzazione e al potenziamento delle infrastrutture pubbliche e di interesse pubbli- co (come servizi scolastici o sanitari), finanche a quelli attinenti alla riqualificazione ambientale o naturalistica o paesistica.
b) compresenza di tipologie e modalità d’intervento integrate16, anche con riferimento alla realizzazione ed al potenziamento delle opere di urbaniz- zazione primaria e secondaria;
c) rilevanza territoriale tale da incidere sulla riorganizzazione dell’ambito ur- bano17.
La legge regionale lombarda non manca di specificare che il PII deve garantire, in corrispondenza dei miglioramenti del contesto urbano ed am- bientale previsti sul territorio in conseguenza della sua attuazione, una do- tazione globale di aree e di attrezzature pubbliche, calibrata ai carichi di utenza che le nuove funzioni indurranno sull’insieme delle attrezzature esi- stenti nel territorio comunale.
Soggetti pubblici e privati, sia singolarmente che riuniti in consorzi, e rappresentanti la maggioranza assoluta del valore degli immobili, possono presentare al Comune proposte di PII qualora abbiano nella propria dispo- nibilità aree o immobili compresi nell’ambito individuato dal Comune.
Anche per l’attuazione del PII i privati e il Comune sottoscrivono una convenzione, dai contenuti analoghi a quelli necessari per la convenzione di lottizzazione. Con la medesima convenzione, o con un atto ulteriore ad hoc, sono disciplinate le modalità di gestione delle attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale realizzate e gestite dai soggetti privati, in particolare prevedendo gli obblighi a carico del gestore e le relative sanzio- ni, e le modalità di trasferimento a terzi delle attrezzature.
5. Considerazioni
Il panorama completo di «tutti gli strumenti attuativi previsti dalla legi- slazione statale e regionale» ovviamente supera gli orizzonti di questo scrit- to, cionondimeno non si può nascondere che spesso gli strumenti attuativi hanno assunto – e sempre più assumeranno – un ruolo centrale nella piani- ficazione urbanistica.
Attraverso l’adozione ed approvazione di piani attuativi “in variante” ri- spetto alle previsioni della pianificazione generale, si è giunti ad un vero e proprio capovolgimento del rapporto tra pianificazione generale e quella at- tuativa, «nel senso che non è più il piano regolatore a vincolare la fase attua- tiva, ma l’attuazione a modificare, per quanto occorrente il piano»18 generale.
16 Il PII potrà ricomprendere organicamente tutte le tipologie edilizie e tutte le moda- lità di intervento ammesse in base alla legislazione vigente (demolizione e ricostru- zione, ristrutturazione edilizia ed urbanistica, nuova edificazione).
17 Il PII acquista rilevanza territoriale non necessariamente sulla base della sua estensione, ma sopratutto per la significatività degli interventi che comprende, tali da incidere sulla riqualificazione di un intero ambito urbano; ciò può accadere in esito al recupero di una situazione di degrado, di carenza di servizi, oppure per il carattere strategico dell’area di intervento.
18 P. XXXXXX XXXXXXX. Op.cit., 59.
Detto in altre parole il potere amministrativo in ambito urbanistico – fi- nalizzato alla cura dell’interesse generale – è sempre più esposto ad una logica di urbanistica contrattata che spesso si fonda sul puro scambio tra maggiori potenzialità edificatorie, concesse al privato “in variante” alla piani- ficazione generale, ed una migliore urbanizzazione dell’area, con costi a ca- rico del privato proponente19.
Le ormai scarse “casse” pubbliche – incapaci di far fronte all’esigenza di nuovi e/o migliori servizi – spingono, infatti, l’Amministrazione ad accetta- re, o addirittura incentivare, accordi sulla modifica delle prescrizioni urbani- stiche, con scambi di “beni” che – senza voler minimamente generalizzare
– possono comportare un pregiudizio dell’interesse pubblico generale.
19 Sull’argomento si veda: P. XXXXXX, Territorio e poterei emergenti. Le politiche di sviluppo tra urbanistica e mercato, Torino, 2007, 186.
Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx*
LE NOVITÀ DELLA RISCOSSIONE
Nell’intento dichiarato di potenziare l’attività di contrasto all’evasione, anche in adeguamento alla normativa comunitaria, il legislatore1 ha introdot- to, tra le altre misure, importanti novità nel procedimento della riscossione, razionalizzando e semplificando la relativa procedura e rendendo così più celere ed efficiente l’esazione dei tributi non versati dal contribuente.
Le novità, di indubbio rilievo, riguardanti principalmente i tributi richie- sti mediante avvisi di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, suggeriscono di fare il punto sull’argomento, tracciando le linee essenziali dell’attuale sistema della riscossione e mettendo in evidenza le modifiche contenute nella disciplina che entrerà in vigore nel corso del 2011.
1. La riscossione nel sistema attualmente in vigore
La riscossione dei tributi dovuti all’erario viene effettuata:
– mediante versamento spontaneo, come per le imposte dichiarate dai contribuenti o comunicate dall’Amministrazione, a seguito di controllo formale o liquidazione;
– mediante ritenuta alla fonte, ad esempio dal datore di lavoro sui redditi di lavoro dipendente;
– mediante lo strumento del ruolo, in via ordinaria, per i tributi che non so- no o non possono essere versati spontaneamente dai soggetti obbligati. Alla conclusione di controlli formali o di semplici liquidazioni, l’Ammini- strazione invita il contribuente a versare i tributi dovuti e, in caso di inadem- pimento, recupera gli stessi, con relative sanzioni ed interessi ove dovuti,
mediante il ruolo.
A seguito della notifica di un accertamento, il contribuente che voglia
* Avvocato, esperto nel contenzioso tributario.
1 Le modifiche sono state apportate con il D.L. 25.3.2010, n. 40, conv. L. 22.3.2010, n. 73 e, successivamente, con il D.L. 31.5.2010, n. 78, conv. L. 30.7.2010, n. 122.
versare le imposte richieste deve attendere la formazione del ruolo e la no- tifica della cartella esattoriale.
1.1 Accertamento definitivo
Più precisamente, nel caso in cui l’accertamento diventi definitivo per la mancata presentazione del ricorso entro i termini previsti per l’impugna- zione2, l’Ufficio provvede a formare il ruolo per l’intero importo delle somme accertate, delle sanzioni e degli interessi ed a consegnarlo all’esattore.
Quest’ultimo lo porta a conoscenza del contribuente mediante la car- tella esattoriale che deve essere notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è di- venuto definitivo3.
La cartella esattoriale può essere impugnata solo per vizi formali pro- pri o di notifica oppure per vizi di notifica dell’atto presupposto (ad es. ac- certamento) e non per far valere eventuali vizi dell’accertamento che devo- no essere eccepiti in sede di impugnazione di quest’ultimo.
Su richiesta del contribuente, che si trovi in temporanea situazione di obiettiva difficoltà, l’agente della riscossione può concedere la ripartizione del pagamento delle somme iscritte a ruolo fino ad un massimo di settanta- due rate mensili4.
1.2 Accertamento non definitivo
Anche nel caso in cui il contribuente abbia impugnato l’accertamento l’Ufficio procede alla formazione del ruolo che riporta l’iscrizione dei tributi accertati, con i relativi interessi, in forma frazionata nel tempo, in funzione del grado di giudizio, nel modo seguente:
– per la metà degli importi accertati, subito dopo la notifica del ricorso da parte del contribuente5;
– fino ai due terzi degli importi accertati, dopo la sentenza della Commis- sione Tributaria Provinciale che respinge il ricorso;
– fino all’intero ammontare deciso dalla sentenza della Commissione Tri- butaria Provinciale, che accoglie in parte il ricorso, e comunque non oltre i due terzi di quanto accertato;
– per l’intero ammontare deciso dalla Commissione Tributaria Regionale6.
Se l’importo dovuto dal contribuente, in forza di una sentenza di primo o di secondo grado, è superiore a quanto dallo stesso già versato, l’ecce-
2 Sessanta giorni dalla data di notifica o centocinquanta giorni (60+90) in caso di accertamento con adesione tentato ma non perfezionato.
3 Art. 25, D.P.R. 29.9.1973, n. 602.
4 Art. 19, D.P.R. 29.9.1973, n. 602.
5 Art. 15, D.P.R. 29.9.1973, n. 602.
6 Art. 68, c. 1, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546.
denza deve essere rimborsata d’ufficio, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza7.
Per la riscossione delle sanzioni bisogna attendere la sentenza di pri- mo grado:
– se la stessa respinge il ricorso, le sanzioni possono essere iscritte a ruo- lo nella misura di due terzi di quelle accertate;
– se accoglie parzialmente il ricorso, per l’importo deciso dalla Commissio- ne, ma non oltre i due terzi dell’accertato;
– per l’intero ammontare deciso, dopo la sentenza di secondo grado8.
In caso di accertamenti eseguiti sulla base della “clausola antielusiva” l’articolo 37-bis del D.P.R. 600/1973 prevede che le imposte e le relative sanzioni possono essere riscosse solo dopo la sentenza di primo grado sfa- vorevole al contribuente.
Sotto il profilo cautelare, secondo la maggior parte della dottrina e del- la giurisprudenza, non è ammessa la sospensione dell’efficacia degli accer- tamenti nel corso del processo tributario, in quanto gli stessi sono provvedi- menti privi di efficacia esecutiva e, quindi, non sono in grado di arrecare un pregiudizio immediato nella sfera personale e patrimoniale del contribuente.
1.3 Sospensione della cartella
Per la cartella esattoriale, che costituisce titolo esecutivo ed è quindi in grado di determinare nell’immediato un danno grave ed irreparabile, in quanto può dar corso ad espropriazione forzata sui beni del contribuente, è prevista invece la tutela cautelare.
Il contribuente, infatti, può chiedere alla Commissione Tributaria Pro- vinciale, davanti alla quale ha impugnato l’accertamento e in attesa della sentenza, la sospensione della cartella che gli è stata notificata, quando sussistono i seguenti requisiti:
– il ricorso avverso l’accertamento appare fondato ad un primo sommario esame da parte della Commissione, che lo valuterà in modo approfondi- to in sede processuale (fumus boni iuris);
– esiste il pericolo di un danno grave ed irreparabile, in caso di pagamento della cartella prima della pronuncia della Commissione (periculum in mora).
L’eventuale sospensione viene assorbita dalla pronuncia sul ricorso che decide nel merito.
Sulla base degli stessi presupposti, riferiti all’atto sul quale si basa il ruolo, è anche possibile chiedere la sospensione amministrativa della car- tella esattoriale, ai sensi dell’articolo 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. Tale facoltà dell’Amministrazione non riguarda tanto le somme iscritte a ruolo a seguito di un atto di accertamento, ma attiene, piuttosto, alla più ampia potestà di autotutela che le viene conferita dalla legge e deve essere
7 Art. 68, c. 2, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546.
8 Art. 19, D.Lgs. 18.12.1997, n. 472, che richiama l’art. 68 del D.Lgs. 31.12.1992, n.
546.
assoggettata alle regole dettate dall’articolo 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 e dal D.M. 11 febbraio 1997, n. 37.
L’Agenzia delle entrate, in merito, ha precisato che «Il potere di so- spendere l’efficacia dell’atto è, però, strumentale a quello di annullamento e dunque prima di accordare la sospensione della riscossione, che deve es- sere richiesta nell’ambito della procedura di autotutela, gli Uffici sono tenuti a valutare le concrete possibilità che l’atto che ha dato origine all’iscrizione al ruolo sia revocato o annullato in via amministrativa o contenziosa (valuta- zione del c.d. fumus boni juris). Inoltre occorre valutare il pericolo per il con- tribuente di subire un danno grave ed irreparabile a seguito della riscossio- ne coattiva (c.d. periculum in mora)»9.
1.4 Effetti del ruolo
Decorsi sessanta giorni dalla notifica della cartella l’Agente della ri- scossione può:
– disporre il fermo amministrativo dei beni mobili registrati;
– iscrivere ipoteca sugli immobili;
– promuovere misure cautelari e conservative (azione revocatoria ed azio- ne surrogatoria);
– procedere al pignoramento dei beni del contribuente debitore e dei coob- bligati, iniziando così l’esecuzione vera e propria sulla base del ruolo.
In questo sistema, pertanto, l’atto di accertamento, il controllo formale e la liquidazione arrivano a determinare le somme da pagare, mentre il ruo- lo, portato dalla cartella esattoriale notificata, costituisce titolo esecutivo sul quale si basa la successiva riscossione coattiva.
2. La riscossione in vigore dal 1° luglio 2011
2.1 Esecutività dell’accertamento e degli atti successivi
Secondo la riforma introdotta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, gli ac- certamenti emessi ai fini delle imposte dirette e dell’IVA ed i connessi prov- vedimenti di irrogazione delle sanzioni, relativi ai periodi d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, notificati a partire dal 1° luglio 2011, assumeranno la valenza di titoli esecutivi, decorsi sessanta giorni dal- la notifica10. In pratica gli accertamenti citati incorporeranno le funzioni at- tualmente tipiche del ruolo e pertanto permetteranno all’esattore di avviare la procedura esecutiva di riscossione senza dovere attendere la formazione e la notifica del ruolo.
Il legislatore, in relazione agli atti indicati, introduce un nuovo procedi- mento di riscossione che non prevede l’emissione della cartella esattoriale.
9 Ris. 7.2.2007, n. 21/E.
10 Art. 29, lett. b), D.L. 31.5.2010, n. 78.
La futura disciplina, dunque, accelera i tempi della riscossione dei tri- buti accertati, concentrandola nel procedimento di accertamento, pur facen- do salve le disposizioni sulla riscossione frazionata delle imposte e delle sanzioni derivanti dall’atto impugnato, prevista nel sistema attuale e descrit- ta nel precedente paragrafo.
A tal fine i distinti provvedimenti di accertamento e di irrogazione delle sanzioni, contenuti negli avvisi di accertamento relativi alle imposte dirette ed all’IVA, dovranno riportare anche l’intimazione ad adempiere, entro i ter- mini di proposizione del ricorso11, all’obbligo di pagamento degli importi indi- cati e, per il caso di tempestiva presentazione del ricorso, l’indicazione degli importi previsti dall’articolo 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ai fini della riscossione frazionata12. Dovranno contenere, inoltre, l’avvertimento che, decorsi ulteriori trenta giorni dal termine ultimo di pagamento, la riscos- sione dei tributi accertati verrà affidata agli agenti della riscossione ai fini dell’esecuzione forzata, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo.
L’intimazione ad adempiere al pagamento deve essere contenuta pu- re negli atti successivi da notificare al contribuente, anche mediante racco- mandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi originariamente comunicati mediante gli avvisi di accertamento ed i connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni13.
La norma fa esplicito riferimento a quei casi in cui attualmente l’Uffi- cio provvede con una iscrizione a ruolo: nel sistema prossimo venturo il ruolo non sarà più utilizzato e sarà sostituito appunto da un atto di intima- zione ad adempiere. Pertanto il contribuente che abbia perfezionato un ac- certamento con adesione con il versamento della prima rata ed abbia omes- so anche una sola delle rate successive, riceverà dall’Ufficio non più la car- tella con il ruolo14, ma un atto contenente l’intimazione ad adempiere al pa- gamento delle residue somme dovute, come previsto dall’articolo 29 del D.L. 78/2010.
Parimenti in caso di pendenza di processo tributario su un accerta- mento relativo ad imposte dirette e/o ad IVA, il contribuente riceverà dall’Uf- ficio, unitamente alla notifica della sentenza che potrà essere effettuata an- che mediante raccomandata con avviso di ricevimento15, un atto di intima-
11 I termini per ricorrere avverso un accertamento sono di sessanta giorni dalla data di notifica dell’atto; in caso di presentazione dell’istanza di adesione quei termini sono sospesi per novanta giorni.
12 Art. 29, lett. a), D.L. 31.5.2010, n. 78 che richiama l’art. 15 del D.P.R. 602/1973.
13 Art. 29, c. 1, lett. a) del D.L. 78/2010.
14 Come previsto dall’art. 8, c. 3-bis, D.Lgs. 19.06.1997, n. 218.
15 Secondo l’art. 38, c. 2, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546, come modificato dall’art. 3,
D.L. 25.03.2010, n. 40, la notifica della sentenza, oltre che per mano dell’ufficiale giudiziario, può essere effettuata dall’Ufficio a mezzo posta, con plico raccomanda- to senza busta con avviso di ricevimento o avvalendosi dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione stessa e, dal contribuente anche
zione ad adempiere contenente l’indicazione delle somme dovute per impo- ste, sanzioni ed interessi, in base alle regole sulla riscossione frazionata prevista dall’articolo 68 del decreto legislativo 546/1992, per le imposte e gli interessi, e dall’articolo 19 del decreto legislativo 472/1997, per le sanzioni. Ai fini della nuova procedura di riscossione, pertanto, i riferimenti con- tenuti in norme vigenti al ruolo e alla cartella di pagamento si devono inten- dere effettuati a tutti gli atti che assumono la veste di titoli esecutivi16 ed i ri- ferimenti alle somme iscritte a ruolo si intendono effettuati alle somme affi-
date agli agenti della riscossione.
2.2 Versamenti
Il versamento degli importi dovuti dovrà esser fatto entro i termini per la presentazione del ricorso (sessanta giorni dalla notifica dell’accertamen- to), salvo la concessione della sospensione dell’atto; il termine per il versa- mento rimarrà sospeso per novanta giorni anche nel caso di presentazione di istanza di adesione, ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo del 19 giugno 1997, n. 218.
Poiché l’obbligo per il versamento è legato al “termine per la presen- tazione del ricorso”, come precisa la norma, si ritiene sia applicabile anche la sospensione del termine durante il periodo feriale (dal 1° agosto al 15 settembre), sospensione che riguarda, appunto, anche il termine per la pre- sentazione del ricorso oltre che per l’acquiescenza17 e per la definizione agevolata delle sanzioni18.
I versamenti da eseguire in pendenza di giudizio, a seguito di senten- za, andranno effettuati entro sessanta giorni dalla intimazione ad adempie- re allegata alla notifica della sentenza, fatta a cura dell’Ufficio, secondo le modalità sopra descritte.
D’altra parte, in base alla disciplina in vigore, non modificata dalla nuo- va normativa, qualora gli importi già versati risultino superiori a quelli dovuti sulla base delle sentenze emesse, le somme eccedenti dovranno essere rimborsate d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza: ciò significa che non è necessaria la presentazione di una istanza ed il rim- borso spetta anche se la sentenza favorevole dovesse essere impugnata dall’Ufficio.
per posta, come previsto per l’Ufficio, o per consegna diretta dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia: una indubbia semplificazione sia per l’Agenzia delle entrate che per il contribuente.
16 Art. 29, lett. g), D.L. n. 78/2010, che fa riferimento agli atti indicati nella lett. a) del- lo stesso articolo: provvedimenti di accertamento, atti di irrogazione delle sanzioni ed atti successivi di rideterminazione degli importi previsti negli accertamenti, a se- guito di atti di adesione, atti di autotutela, sentenze delle Commissioni Tributarie, ecc.
17 Art. 15, D.Lgs. 218/1997; C.M. 8.8.1997, n. 235/E, capitolo IV, punto 1.
18 Artt. 16 e 17, D.Lgs. 18.12.1997, n. 472; C.M. 5.7.2000, n. 138/E.
Unitamente ai versamenti dei tributi dovuti, il contribuente dovrà ver- sare gli interessi per “ritardata iscrizione”, previsti dall’articolo 20 del D.P.R. 602/1973 nella attuale misura del 4% annuo, conteggiati per il periodo che va dal giorno in cui il versamento avrebbe dovuto essere eseguito al giorno di notifica dell’accertamento. Se il pagamento viene effettuato entro i ses- santa giorni dalla notifica dell’accertamento, secondo la nuova normativa non sono dovuti aggi di riscossione.
In caso di pagamento effettuato dopo i sessanta giorni dalla notifica dell’accertamento, oltre agli interessi sopra indicati, sono dovuti anche:
– gli interessi di xxxx, nella misura del 6,8358% annuo, a partire dalla data di notifica dell’accertamento;
– gli aggi esattoriali nella misura del 9% delle somme da riscuotere;
– le eventuali spese relative alle procedure esecutive.
2.3 Fondato pericolo per la riscossione
Si è visto sopra che l’accertamento e gli atti successivi devono conte- nere l’intimazione ad effettuare il versamento entro sessanta giorni dalla no- tifica e l’avvertimento che, decorsi ulteriori trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste sarà affidata agli agenti della riscossione, anche ai fini dell’esecuzione forzata.
Orbene, quando si verifica un fondato pericolo per la riscossione e, cioè, quando l’Amministrazione finanziaria abbia un giustificato timore di perdere il credito erariale, può affidare l’esazione dei tributi agli agenti della riscossione anche prima che decorra l’ulteriore termine dei trenta giorni19.
Ciò può accadere, ad esempio, nei casi in cui la situazione economi- ca e finanziaria del contribuente non offra garanzie idonee e adeguate a soddisfare la pretesa fiscale, o nel caso in cui il contribuente sia sottoposto a procedura fallimentare o a concordato preventivo ovvero, anche, quando si verifica una sproporzione fra il credito vantato dall’Amministrazione finan- ziaria e il valore dei beni facenti parte del patrimonio del contribuente e, inol- tre, ricorra l’eventualità che quest’ultimo possa disperderli o sottrarli alla ga- ranzia prima di avere soddisfatto la pretesa dell’erario.
La disposizione riproduce quella prevista per il ruolo straordinario da- gli articoli 11 e 15-bis del D.P.R. 602/1973.
2.4 Dilazione di pagamento
Secondo la nuova disciplina20 il contribuente può chiedere agli agenti della riscossione la dilazione di pagamento prevista dall’articolo 19 del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602. In base a questa norma, l’agente della ri- scossione, su richiesta del contribuente, può concedere, nelle ipotesi di
19 Art. 29, c. 1, lett. c), D.L. 78/2010.
20 Art. 29, c. 1, lett. g), D.L. 78/2010.
temporanea situazione di obiettiva difficoltà dello stesso, la ripartizione del pagamento delle somme dovute fino ad un massimo di settantadue rate mensili. Al riguardo Equitalia ha emanato una direttiva per fissare regole semplici ed omogenee per tutti i contribuenti che – trovandosi in una tempo- ranea situazione di difficoltà economica – non sono in grado di pagare in un’unica soluzione il debito verso l’erario.
Nello specifico, se l’importo da rateizzare è:
– inferiore a cinquemila euro, è sufficiente la semplice richiesta motivata;
– superiore a tale soglia, vengono fissati parametri di accesso e modalità di calcolo differenziate a seconda che i richiedenti siano:
• persone fisiche e titolari di ditte individuali di limitate dimensioni (si uti- lizzerà la certificazione ISEE – Indicatore della Situazione Economica Equivalente – del nucleo familiare);
• società (si farà riferimento a determinati indici di bilancio).
Gli Agenti della riscossione possono accordare la rateazione alle do- mande dei contribuenti giustificate da:
– motivi non prevedibili (per esempio, la cessazione del rapporto di lavoro per un lavoratore dipendente);
– l’insorgenza, nel nucleo familiare, di una grave patologia con cure costo- se, purché idoneamente documentate.
2.5 Esecuzione
Gli agenti della riscossione, trascorsi i termini concessi per i versa- menti, potranno procedere ad espropriazione forzata senza la necessità di una preventiva notifica della cartella esattoriale.
L’espropriazione dovrà essere avviata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento sarà divenuto definitivo. Tuttavia decorso un anno dalla notifica dell’accer- tamento, l’espropriazione forzata dovrà essere preceduta da un avviso contenente l’intimazione ad adempiere entro cinque giorni, ai sensi del- l’articolo 50 del D.P.R. 602/1973: detto avviso può essere impugnato per vizi suoi propri davanti alla competente Commissione Tributaria e perderà efficacia dopo centottanta giorni dalla notifica, trascorsi i quali dovrà esse- re rinnovato.
Ai fini dell’avvio dell’espropriazione rimangono tuttavia fermi i citati termini di decadenza21 che, in quanto tali, non possono essere interrotti o sospesi da atti di esercizio del potere come l’intimazione ad adempiere o la costituzione in mora.
Secondo la normativa in vigore, rimasta invariata, l’Agente della ri- scossione in procinto di avviare l’esecuzione ha la facoltà di esercitare i po- xxxx previsti dagli articoli 77 e 86 del D.P.R. 602/1973, e cioè iscrivere ipote- ca sugli immobili del contribuente, per crediti non inferiori ad ottomila euro, e disporre il fermo dei beni mobili registrati.
21 Art. 29, c. 1, lett. e), D.L. 78/2010.
2.6 Sospensione dell’atto impugnato
La nuova qualifica di titolo esecutivo che assumerà l’accertamento rela- tivo ad imposte dirette e/o ad IVA comporterà, sotto il profilo cautelare, la sicu- ra applicabilità dell’articolo 47 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, negata invece per gli attuali atti di accertamento: pertanto il contribuente che avrà proposto ricorso avverso l’accertamento, potrà chiedere alla Com- missione provinciale competente la sospensione dell’atto impugnato se dal- l’esecuzione dello stesso potrà derivargli un danno grave ed irreparabile. Il contribuente dovrà presentare apposita domanda da inserire nel ricorso o in un atto separato da notificare alle altre parti e da depositare in segreteria. Co- me per la richiesta di sospensione della cartella esattoriale, la Commissione tributaria per poter concedere la sospensione dell’accertamento, procederà ad una delibazione di merito circa la fondatezza del ricorso (fumus boni iuris) ed alla verifica della sussistenza del danno grave ed irreparabile, in caso di esecuzione dell’atto prima della sentenza (periculum in mora).
Anche l’Amministrazione ha la facoltà di concedere, su istanza del
contribuente, la sospensione dell’atto, in applicazione dell’articolo 39 del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, espressamente richiamato dall’articolo 29, lettera g), del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78.
Detta sospensione presuppone la presentazione del ricorso e l’assen- za di pericolo per la riscossione; anche l’Amministrazione, dal canto suo, per concederla, riscontrerà l’esistenza del fumus boni iuris, con riferimento alla fondatezza delle ragioni addotte dal contribuente, e del periculum in mora.
Per gli accertamenti antielusivi, previsti dall’articolo 37-bis del D.P.R. 600/1973, la disciplina della riscossione è rimasta invariata: le somme do- vute sulla base di detti accertamenti sia a titolo di imposta che a titolo di sanzione possono essere riscosse solo dopo la sentenza di primo grado fa- vorevole all’Amministrazione, secondo i criteri di cui all’articolo 68 del de- creto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, concernente il pagamento dei tri- buti e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio.
3. La riscossione dei crediti contributivi
Il decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 oltre ad occuparsi della riscos- sione delle imposte dirette e dell’IVA, ha disposto anche una nuova discipli- na del procedimento di esazione dei crediti contributivi da parte dell’INPS, in vigore dal 1° gennaio 2011.
Secondo la normativa vigente fino al 31 dicembre 2010, l’INPS si av- valeva dello strumento del ruolo sia per i crediti derivanti da omessi o ritar- dati pagamenti, sia per i crediti derivanti da accertamenti d’ufficio.
3.1 L’avviso di addebito sostituisce il ruolo
L’articolo 30 del decreto legge 78/2010 è intervenuto sulla relativa pro- cedura di riscossione ed ha disposto diverse modalità e termini per «il recu- pero delle somme a qualunque titolo dovute all’INPS».
Non è più prevista l’iscrizione a ruolo, ma l’emissione di un avviso di addebito, con valore di titolo esecutivo, da notificare al debitore.
L’avviso di addebito può essere notificato direttamente dall’INPS, tra- mite posta elettronica certificata o mediante invio di raccomandata con avvi- so di ricevimento, ovvero dai messi comunali o dagli agenti della polizia mu- nicipale.
Deve contenere a pena di nullità:
– il codice fiscale del soggetto tenuto al versamento;
– il periodo di riferimento del credito;
– la causale del credito;
– gli importi addebitati ripartiti tra quota capitale, sanzioni e interessi, ove dovuti;
– l’indicazione dell’agente della riscossione competente in base al domici- lio fiscale presente nell’anagrafe tributaria alla data di formazione dell’av- viso;
– l’intimazione ad adempiere l’obbligo di pagamento degli importi nello stesso indicati, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica;
– l’avviso che, in mancanza del pagamento, l’agente della riscossione pro- cederà ad espropriazione forzata, con i poteri, le facoltà e le modalità che disciplinano la riscossione a mezzo ruolo;
– la sottoscrizione del responsabile dell’Ufficio che ha emesso l’atto.
L’Ente previdenziale, dopo averlo notificato, consegna l’avviso di ad- debito all’agente della riscossione che, decorsi sessanta giorni senza che venga effettuato il pagamento, può procedere ad esecuzione forzata.
Ai fini del recupero delle somme dovute a qualsiasi titolo all’INPS, i ri- ferimenti contenuti in norme vigenti al ruolo, alle somme iscritte a ruolo e al- la cartella di pagamento si devono intendere effettuati al titolo esecutivo emesso dallo stesso istituto, costituito appunto dall’avviso di addebito22.
In base a tale rinvio, non essendo stata modificata la disciplina dei ri- corsi, le aziende possono impugnare, in via amministrativa, l’avviso di ad- debito davanti al Comitato amministratore centrale dell’INPS, entro 90 gior- ni dalla notifica.
Possono anche ricorrere, in via giudiziaria, entro 40 giorni dalla notifi- ca, al Giudice del lavoro23, che nel corso del giudizio di primo grado ed in at- tesa della emanazione della sentenza, può sospendere l’esecuzione per gravi motivi24.
22 Art. 30, c. 14, D.L. 78/2010.
23 Il giudizio di opposizione contro il ruolo per i motivi inerenti il merito della pretesa contributiva è regolato dagli artt. 442 e seguenti del codice di procedura civile.
24 Art. 24, c. 6, D.Lgs. 26.2.1999, n. 46.
3.2 Rateazione del debito contributivo
Rimane, inoltre, valida la possibilità da parte dell’azienda di sanare il debito INPS mediante la richiesta di rateazione.
Infatti, con la Circolare 3 agosto 2010, n. 106, l’INPS ha ribadito che il datore di lavoro, in quanto unico ed esclusivo responsabile dell’adempimen- to dell’obbligazione contributiva, può assolvere, anche in forma rateale, l’ob- bligo del versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sul- le retribuzioni corrisposte ai lavoratori. Tuttavia, anche in presenza di do- manda di dilazione definita con l’accoglimento, qualora sussistano le condi- zioni previste dalla legge, sarà inevitabile la denuncia di reato all’Autorità Giudiziaria competente.
Il contribuente per ottenere il pagamento in forma dilazionata della propria esposizione debitoria, anteriormente alla notifica dell’avviso di ad- debito, deve presentare un’istanza all’INPS che comprenda tutti i crediti contributivi in fase amministrativa, accertati alla data di presentazione dell’i- stanza stessa. Il pagamento della prima delle rate accordate, dovrà essere effettuato entro la data di sottoscrizione, per accettazione, del piano di am- mortamento.
La rateazione delle somme dovute, dopo la notifica dell’avviso di ad- debito, invece, dovrà essere chiesta esclusivamente all’Agente della riscos- sione che dovrà valutarne le condizioni per l’accoglimento e per il numero di rate, che potranno arrivare fino ad un massimo di settantadue.
3.3 Sospensione della riscossione dei contributi
Dopo l’abrogazione dell’articolo 25, comma 2, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, non è più consentito, invece, all’INPS, come agli al- tri enti previdenziali, di disporre la sospensione del titolo esecutivo e quindi dell’esecuzione del credito contributivo, in pendenza di gravame ammini- strativo avverso il titolo esecutivo stesso. In merito l’INPS ha precisato, con la Circolare 9 agosto 2010, n. 108, che «l’Istituto non può più disporre prov- vedimenti di sospensione derivanti dalla presentazione di un ricorso ammi- nistrativo, ovvero riguardanti ricorsi amministrativi ancora pendenti.
Al contrario, continueranno ad essere gestite con le consuete modali- tà le comunicazioni agli Agenti della Riscossione dei provvedimenti di so- spensione dell’attività di recupero dei crediti relativi a causali contabili (es. pagamenti già effettuati e non ancora contabilizzati, etc.), amministrative (es. crediti in dilazione iscritti a ruolo e non ancora cartellati e/o notificati, etc.) o giudiziarie (es. ordinanze di sospensione dell’esecutività della cartel- la etc.)».
Se il ricorso è stato, invece, proposto avverso l’accertamento, secon- do l’articolo 24, comma 4, del decreto legge 46/1999, la richiesta di assolvi- mento dell’obbligo contributivo (mediante appunto la notifica dell’avviso di addebito che sostituisce il ruolo) può essere effettuata solo dopo la decisio-
ne dell’organo amministrativo al quale il ricorso è stato presentato, comitato regionale o centrale, fatta salva la necessità di garantire il rispetto dei termi- ni di decadenza per l’iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali, fissati dal comma 1 dell’articolo 25 dello stesso decreto legge.
DOCUMENTAZIONE
GLI STUDI DEL NOTARIATO
Per gentile concessione del Consiglio Nazionale del Notariato la Rivi- sta intende pubblicare gli studi che interessano le attività e la gestione dei beni degli enti ecclesiastici.
La diffusione della conoscenza di tali studi, anche tra gli amministrato- ri e i professionisti che curano la gestione degli enti ecclesiastici, favorisce la corretta impostazione degli atti giuridici per i quali è richiesto o è opportu- no l’intervento di un notaio; inoltre permette una corretta impostazione delle operazioni di gestione e dei relativi atti giuridici sin dal momento iniziale.
Infine va anche considerato che gli istituti giuridici possono essere adeguati alla nuova realtà non solo da novità legislative ma anche dalla ri- flessione dottrinale, come è stato per esempio per le fondazioni in parteci- pazione e il trust.
Il Quesito n. 643-2010/C riveste uno speciale interesse in quanto, pur riguardando il caso del trasferimento di un bene immobile di proprietà di un istituto di vita consacrata, presenta in modo succinto e preciso, l’intero si- stema delle autorizzazioni canoniche richieste per l’alienazione dei beni ec- clesiastici (cann. 634-640 per gli istituti di vita consacrata, 1281, 1291-1295 per le altre persone giuridiche canoniche pubbliche).
In particolare considera poi la fattispecie dell’alienazione dei beni co- stituenti il patrimonio stabile di un ente canonico, di cui tratta il can. 1291. La riconducibilità di un bene a tale parte del patrimonio ecclesiastico è infatti decisiva in quanto il suddetto canone prevede la necessità della licenza del- l’autorità competente, che – in rapporto al fatto che il valore del bene superi un importo minimo o massimo – è il Vescovo diocesano (o altro soggetto previsto dagli statuti) oppure anche la Santa Sede.
Infine il Quesito tratta della rilevanza civile della licenza canonica (art. 18, L. 222/1985) e dei possibili rimedi giuridici qualora l’amministratore del- l’ente ecclesiastico abbia sottoscritto un’alienazione senza aver previamen- te ottenuto la suddetta licenza.
Il Direttore Responsabile
Per un’essenziale conoscenza dell’istituto del patrimonio stabile si ve- da il n. 53 dell’Istruzione in Materia Amministrativa 2005 della Conferenza Episcopale Italiana:
«L’insieme dei beni immobili e mobili, dei diritti e dei rapporti attivi e passivi della persona giuridica, unitariamente considerato, ne costituisce il patrimo- nio.
Particolarmente rilevante è la nozione di patrimonio stabile, che il codice non definisce espressamente, presupponendo la conferma del concetto classico, elaborato dalla dottrina canonistica, di «beni legittimamente assegnati» (cfr can. 1291) alla persona giuridica come dote permanente – siano essi beni strumentali o beni redditizi – per agevolare il conseguimento dei fini istituzio- nali e garantirne l’autosufficienza economica.
Patrimonio stabile tuttavia non significa patrimonio perennemente immobiliz- zato, in quanto lo stesso diritto ne prevede, a determinate condizioni e caute- le, l’eventuale trasformazione e persino l’alienazione.
D’altra parte, anche le economie di gestione, quando ci fossero motivi parti- colari, potrebbero essere dichiarate patrimonio stabile.
In genere si considerano patrimonio stabile:
– i beni facenti parte della dote fondazionale dell’ente;
– quelli pervenuti all’ente stesso, se l’autore della liberalità ha così stabilito;
– quelli destinati a patrimonio stabile dall’organo di amministrazione dell’en- te;
– i beni mobili donati ex voto alla persona giuridica.
Non sono invece configurabili come patrimonio stabile – a meno che vi sia una legittima assegnazione – i frutti della terra, del lavoro o di altre attività imprenditoriali, le rendite dei capitali e del patrimonio immobiliare, le somme capitalizzate temporaneamente per goderne un rendimento più elevato, gli stessi immobili destinati, per volontà del donante, a smobilizzo per l’imme- diata riutilizzazione del ricavato.
Si sottolinea la rilevanza di una “legittima assegnazione” (cfr can. 1291) per- ché un bene possa far parte del patrimonio stabile di una persona giuridica. È perciò opportuno che ogni persona giuridica disponga dell’elenco dei beni costituenti il proprio patrimonio stabile».
Per approfondire l’argomento si veda, invece:
– DE PAOLIS V., I beni temporali della Chiesa, EDB, 2001, 185-188
– XXXXXXX X., Patrimonio stabile: istituto dimenticato?, in Quaderni di diritto ec- clesiale (16) 2003, Milano
Xxxx utili:
xxxx://xxx.xxxxxxxxx.xx/xx/xxxxx-xxxxx/xxxxx-xxxxxxxxx xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxx_xxx_x0/x0xxxxxxxx/xxxxx0.xxx?xxXxxxxxx00 xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx/
Vendita e atti di straordinaria amministrazione di beni ecclesiastici: due casi concreti*
Quesito n. 643-2010/C
Si descrive le seguenti fattispecie:
a) preliminare di vendita di proprietà di immobili di vario genere (fabbricati e terre- ni) tra cui vi sono beni oggetto di verifica in corso ex art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004, nel quale parte promittente venditrice è un ente ecclesiastico civilmen- te riconosciuto avente la natura di istituto religioso di diritto pontificio. Il prezzo concordato è di euro 13.000.000.
Si chiede a codesto Ufficio Studi conferma circa il fatto che:
1. ai sensi del can. 638 § 3, siano necessarie la licenza del Superiore – con il consenso del Consiglio – e della Santa Sede (data la suddetta qualità di talu- no dei beni in questione e dato il valore eccedente 1 milione di euro fissato dalla delibera CEI n. 20);
2. tali licenze debbano essere precedenti al contratto preliminare;
3. quest’ultimo non possa condizionarsi sospensivamente al rilascio delle dette licenze;
b) vendita al prezzo di euro 271.000, avente ad oggetto beni immobili pervenuti al- l’attuale venditore da ente ecclesiastico civilmente riconosciuto avente la natura di istituto religioso di diritto pontificio.
Si chiede a codesto Ufficio Studi conferma del fatto che:
1. ai sensi del can. 638 § 3, fossero necessarie la licenza del Superiore con il consenso del Consiglio;
2. in mancanza di tali licenze la vendita precedente sia invalida, richiamando a sostegno le Istruzioni in Materia Amministrativa della CEI del 2005. Lei, quin- di, avanza dubbi sulla sanzione dell’annullabilità, perché la norma (can. 638,
§ 2) richiede la licenza per la “validità” e perché ritiene che l’annullabilità deb- ba essere espressa.
Individuazione dei concetti rilevanti
Prima di procedere oltre, è bene fissare alcuni concetti utili per poter fornire, infine, le dovute risposte.
Nel diritto canonico assume un rilevante ruolo la distinzione tra persona giu- ridica canonica pubblica e persona giuridica canonica privata (cfr. can. 116 § 1), nonché il concetto di patrimonio stabile; ciò, allo scopo di individuare il regime giu- ridico delle alienazioni dei beni degli enti in questione.
Entrambi i concetti – “persona giuridica pubblica” e “patrimonio stabile” – so- no richiamati, tra gli altri, nel can. 1291, secondo cui: «Per alienare validamente i beni che costituiscono per legittima assegnazione il patrimonio stabile di una per- sona giuridica pubblica, e il cui valore ecceda la somma fissata dal diritto, si richie- de la licenza dell’Autorità competente a norma del diritto».
Tuttavia, distinguere se l’ente possa essere qualificato come “persona giuri- dica pubblica” o, piuttosto, come “persona giuridica privata” si dimostra essere ope-
* Pubblicato in Rivista CNN Studi e Materiali, n. 1/2011.
razione necessaria, ma non sufficiente, per comprendere se lo stesso ente possa perciò stesso disporre dei suoi beni, rispettivamente, soltanto previa “autorizzazio- ne” o, invece, in maniera anche del tutto libera. Infatti, dopo aver accertato che ci si trova davanti ad una “persona giuridica pubblica”, occorre ulteriormente valutare se i beni di cui intende disporre fanno parte del suo “patrimonio stabile”.
Inoltre, secondo la Istruzione in Materia Amministrativa (IMA) della CEI del 2005: «Per la validità dei medesimi atti [alienazioni dei beni costituenti il patrimonio stabile (cfr. can. 1291) e dei negozi che possono peggiorare lo stato patrimoniale della persona giuridica (cfr. can. 1295)] di valore inferiore alla somma minima stabi- lita dalla Conferenza Episcopale, il codice, di per sé, non prevede alcun tipo di con- trollo canonico. Tali atti, tuttavia, come anche l’alienazione di beni che non rientrano nel patrimonio stabile dell’ente, possono essere soggetti a licenze previste da fonti normative diverse, quali il decreto generale del Vescovo diocesano, ai sensi del can. 1281 § 2, o le norme statutarie della persona giuridica stessa».
Persone giuridiche canoniche pubbliche e persone giuridiche canoniche private
Le persone giuridiche pubbliche sono costituite dalla competente autorità ec- clesiastica per i fini propri della Chiesa; le persone giuridiche private sono indivi- duate per esclusione, ossia sono tutte private le persone giuridiche che non sono pubbliche. Detto altrimenti, sono persone giuridiche pubbliche quelle previste come tali dallo stesso codice di diritto canonico, quelle costituite come tali con speciale decreto dell’autorità ecclesiastica competente, o quelle riconosciute successiva- mente come tali, sempre in virtù di speciale decreto dell’autorità ecclesiastica com- petente (cfr. can. 116 § 2). Ai sensi dei cann. 607 § 2 e 634 sono persone giuridiche pubbliche gli istituti di vita consacrata (sia di diritto pontificio che di diritto diocesa- no), le loro Provincie e le loro case religiose.
Dal n. 11 della IMA è dato evincere che la Santa Sede, la CEI (limitatamente alle associazioni pubbliche di fedeli di rilevanza nazionale), i Vescovi diocesani (li- mitatamente alla propria giurisdizione) e i Superiori Maggiori (limitatamente alle ca- se e province religiose) hanno la competenza ed il potere di erigere persone giuridi- che specificandosi, tuttavia, che: «è conveniente che l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto sia persona giuridica pubblica nell’ordinamento canonico, anche se ta- le requisito non è esplicitamente prescritto dall’art. 1 della legge n. 222/1985».
Pertanto, le persone giuridiche erette da altri organi devono ascriversi sicura- mente a quelle “private”, ma possono ottenere successivamente dai menzionati or- gani il riconoscimento della natura pubblica.
Patrimonio stabile
Su questo concetto non è dato riscontrare nel diritto canonico una vera e propria definizione: si accoglie ancora quella data dal can. 1530 del Codice del 1917 per il quale si tratta dei beni «quae servando servari possunt». Gli studiosi della materia parlano di «beni che, in forza della loro natura o della loro funzione o destinazione, possono e devono essere conservati» (cfr. X. XX XXXXXX, I beni tem- porali della Chiesa, Città del Vaticano, 1999, 186). Si tratta, ci pare di comprendere, di una dotazione permanente necessaria per poter conseguire i fini istituzionali del soggetto canonico.
Del “patrimonio stabile” possono far parte anche beni diversi dagli immobili, quali somme di denaro o prodotti finanziari (cfr. X. XXXXXXXXX, L’alienazione dei beni
immobili degli istituti religiosi: valutazione ecclesiale e prassi canonica, in Ex lege,
2009, 3, 13).
Dal can. 1291 si desume che sono beni del “patrimonio stabile” solo quelli oggetto di “legittima assegnazione”, cioè quelli identificati mediante un atto giuridi- co, quale, ad esempio, il decreto dell’Autorità con il quale si erige l’Istituto e lo si do- ta dei beni costituenti il suo patrimonio iniziale, o quelli che risultano tali sulla base di una volontà implicita, come, ad esempio, nel caso di acquisto di un edificio da destinare a sede della casa religiosa (cfr. X. XXXXXXXXX, op. cit, 14).
Al n. 53 dell’IMA si legge, tra l’altro, che: «Patrimonio stabile tuttavia non si- gnifica patrimonio perennemente immobilizzato, in quanto lo stesso diritto ne pre- vede, a determinate condizioni e cautele, l’eventuale trasformazione e persino l’a- lienazione. D’altra parte, anche le economie di gestione, quando ci fossero motivi particolari, potrebbero essere dichiarate patrimonio stabile. In genere si considera- no patrimonio stabile:
– i beni facenti parte della dote fondazionale dell’ente;
– quelli pervenuti all’ente stesso, se l’autore della liberalità ha così stabilito;
– quelli destinati a patrimonio stabile dall’organo di amministrazione dell’ente;
– i beni mobili donati ex voto alla persona giuridica.
Non sono invece configurabili come patrimonio stabile – a meno che vi sia una legittima assegnazione – i frutti della terra, del lavoro o di altre attività imprendi- toriali, le rendite dei capitali e del patrimonio immobiliare, le somme capitalizzate temporaneamente per goderne un rendimento più elevato, gli stessi immobili desti- nati, per volontà del donante, a smobilizzo per l’immediata riutilizzazione del ricava- to», concludendosi con la raccomandazione seguente: «È perciò opportuno che ogni persona giuridica disponga dell’elenco dei beni costituenti il proprio patrimonio stabile».
Dal n. 51 dell’IMA si evince che:
– «I beni posseduti dalle persone giuridiche canoniche pubbliche sono beni ec- clesiastici (cfr. can. 1257 § 1). La Chiesa ha il diritto nativo di acquistare, pos- sedere e alienare beni temporali per perseguire i fini che le sono propri (cfr. can. 1254 § 1). [...] I beni ecclesiastici sono disciplinati dai diritto universale (specialmente dal libro V del codice di diritto canonico), dal diritto particolare nonché dagli statuti delle singole persone giuridiche proprietarie (cfr. can. 1257
§ 1)»;
– «I beni delle persone giuridiche private sono disciplinati dai propri statuti e non dal libro V del codice, con le eccezioni espressamente previste (cfr. can. 1257
§ 2) e fatto salvo il diritto della competente autorità ecclesiastica di vigilare af- finché i beni medesimi siano utilizzati per i fini dell’ente e siano adempiute le pie volontà (cfr. can. 325)».
Ente ecclesiastico, regime delle autorizzazioni e ruolo della licentia
Come detto, per il diritto canonico non tutti gli enti ecclesiastici sono “perso- ne giuridiche pubbliche” (alle quali soltanto si applica il Libro V del codice canoni- co). È, quindi, possibile trovarsi innanzi ad un ente ecclesiastico senza, però, che ciò implichi il suo assoggettamento alla disciplina delle autorizzazioni canoniche preventive; le uniche autorizzazioni eventualmente richieste potrebbero risultare dallo statuto dell’ente che, quindi, è opportuno venga (preventivamente) consultato dal notaio rogante.
L’art. 18 della Legge n. 222/1985, Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in
Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi, dispone che:
«Ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiasti- ci non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazio- ni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche». In mancanza del ri- spetto di tale onere, al terzo di buona fede non sono opponibili le limitazioni di origine statutaria, al contrario di quelle derivanti dal codex che non deve essere pubblicizzato (cfr. XXXXX, La disciplina degli enti ecclesiastici nei nuovo assetto concordatario, in AA.VV., Enti ecclesiastici e attività notarile, a cura di Xxxxx, Napoli, 1989, 58 ss.).
Il can. 1292 distingue tra una somma minima e una somma massima (su cui
v. infra); tale distinzione non ha però rilievo per gli Istituti religiosi (cfr. incipit dal can. 1292 «Salvo il disposto del can. 638, § 3...») in quanto per essi, ai sensi del can. 638 § 3, rileva solo la somma fissata dalla Santa Sede.
Per la puntuale individuazione di quest’ultima – non avendo la Santa Sede emanato un provvedimento ad hoc – occorre ancora riferirsi al rescritto pontificio Cum Admotae n. 9 (cfr. J.B. XXXXX, Il diritto della vita consacrata, Milano, 1989, 283), che rinvia a quanto stabilito ex can. 1292 § 2 dalle diverse Conferenze Epi- scopali nazionali (per l’Italia attualmente la somma oltre la quale occorre la licenza della Santa Sede è pari ad 1 milione di euro).
Inoltre si deve anche considerare che il can. 638 § 3, pur non facendo riferi- mento al concetto di patrimonio stabile, è ritenuto applicabile soltanto agli immobili del patrimonio stabile, ritenendosi il corrispondente del can. 1291.
Schematicamente, ciò significa che:
– per gli enti soggetti al Vescovo diocesano, oltre ad aver rilievo il fatto di essere un bene immobile riconducibile al patrimonio stabile, rileva anche la somma mi- nima fissata dalla CEI. Pertanto:
a) fino a euro 250.000 non serve la licenza del Vescovo (o dell’autorità determi- nata negli Statuti);
b) tra i 250.000 e 1.000.000 serve la licenza del Vescovo (o dell’autorità deter- minata negli Statuti);
c) oltre 1.000.000 serve anche la licenza della Santa Sede.
– In via incidentale, occorre però precisare che le alienazioni che ai sensi dei cann. 1291-1295 non sono soggette a licenza del Vescovo (in quanto relative a beni non appartenenti al patrimonio stabile o di valore inferiore alla somma minima) potrebbero essere inserite dal Vescovo diocesano nel decreto di cui al can. 1281
– atti di straordinaria amministrazione – e dunque richiedere la licenza dell’Ordi- nario.
– Per gli Istituti religiosi, i livelli dei controlli sono i seguenti:
a) necessità della licenza del superiore competente (ai sensi delle Costituzioni) se l’immobile appartiene al patrimonio stabile, a prescindere dal valore (can. 638, § 3);
b) necessità anche della licenza della Santa Sede – ai sensi del can. 638 § 3 – se l’immobile appartiene al patrimonio stabile ed è di valore superiore ad eu- ro 1 milione;
c) non è richiesta alcuna licenza se il bene immobile non appartiene al patrimo- nio stabile (qualsiasi valore abbia), salvo che le Costituzioni/Statuti consideri- no queste alienazioni atti di straordinaria amministrazione.
Le Costituzioni o un loro estratto dovrebbero essere presenti nel fascicolo del Regi- stro Persone Giuridiche.
Perciò, il notaio, a tal fine, deve far riferimento alle norme di diritto canonico e al registro delle persone giuridiche (cfr. PICCOLI, La rappresentanza negli enti eccle- siastici, in Riv. not., 2000, 27).
La dottrina si è anche soffermata sul ruolo che tale licentia assume nella for- mazione del contratto. Tale elemento è stato ritenuto necessario ai fini della validità del contratto: la mancanza ne determinerebbe l’annullabilità (cfr. XXXXXXX, op. cit., 33) e l’ente ecclesiastico sarà l’unico legittimato all’impugnazione del negozio con- cluso in assenza di licentia.
Non è chiaro, invece, se possa estendersi al negozio invalido in questione l’i- stituto della convalida. In senso favorevole si è espresso FUCCILLO, Diritto ecclesia- stico, Torino, 2000, 58, che ha affermato come «l’ente ecclesiastico sarà l’unico le- gittimato all’impugnazione del negozio concluso, e di conseguenza l’unico abilitato alla convalida, che dovrà intervenire con le modalità di cui all’art. 1444 c.c., e con regolare e preventiva licentia canonica che autorizzi l’ente medesimo al negozio di convalida».
Occorre valutare come tale atto possa incidere sulle funzioni svolte dal no-
taio.
Se la licentia attiene alla capacità negoziale degli enti ecclesiastici e, in parti-
colare, integra i poteri di rappresentanza degli amministratori (in tal senso, cfr. F. FI- NOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Bologna, 385), ne consegue che è fatto divieto al notaio di ricevere il negozio in assenza della licentia, ancorché l’assenza di tale at- to non renda applicabile l’art. 28 legge notarile che si riferisce soltanto agli atti affet- ti da nullità (cfr. CASU, Dizionario giuridico del notariato, Milano, 2006, 336, che ha sottolineato che tutte le fattispecie disciplinate dall’art. 54 del regolamento notarile restano fuori dalla portata dell’art. 28 legge not. In ogni caso il notaio che viola l’art. 54 del regolamento ne risponde sul piano del risarcimento danni conseguente a violazione del contratto d’opera professionale).
Conseguenze e conclusioni
Alla luce di quanto sopra, si può affermare che, per individuare la disciplina da applicare in ipotesi di alienazione di beni appartenenti a detti enti ecclesiastici, si deve accertare, innanzitutto, se si tratta di una persona giuridica pubblica o privata. Nel primo caso, si dovrà poi verificare se i beni da alienare rientrano nel suo “patri- monio stabile”. Infatti, il can. 1291 – e, si ritiene, il can. 638 § 3 – dispone l’acquisi- zione dell’autorizzazione (rectius: licentia) ai soli fini dell’alienazione di beni del pa- trimonio stabile della persona giuridica pubblica.
Perciò, là dove si tratti di bene in quel patrimonio non rientrante, sarà possi- bile alienarlo senza necessità di autorizzazione, qualunque sia il suo valore, fatta però salva l’ipotesi che le Costituzioni/Statuti o – per gli enti soggetti al Vescovo diocesano – il decreto vescovile ex can. 1281, non comprendano queste alienazio- ni tra gli atti di straordinaria amministrazione.
La validità delle alienazioni da parte di persone giuridiche canoniche pubbli- che di beni costituenti il loro patrimonio stabile (cfr. can. 1291 e can. 638 § 3) e dei negozi che possono peggiorare la loro situazione patrimoniale (cfr. can. 1295) è dunque collegata, in forza del canone 1292, all’esistenza della licentia da rilasciarsi da parte del Vescovo diocesano o dell’autorità competente determinata nelle nor- me statutarie (cfr. can. 1292 § 1) o del superiore competente ai sensi delle Costitu- zioni.
Può, al contrario, affermarsi che non è necessaria alcuna autorizzazione an-
che se il bene rientra nella fascia di valore 250.000/1 milione di euro, quando il ce- dente è un ente ecclesiastico canonicamente qualificabile come “persona giuridica privata”.
Parimenti, non è necessaria alcuna licenza quando il cedente è “persona giuridica pubblica”, ma aliena beni non rientranti nel suo “patrimonio stabile”, sem- pre che tali alienazioni non siano fatte rientrare tra gli atti di amministrazione straor- dinaria.
Stante quanto sopra:
– nel caso sub A, stabilito che l’ente sia una persona giuridica pubblica ai sensi del diritto canonico, bisognerebbe capire se i beni di cui si intende disporre fan- no parte del suo “patrimonio stabile”. In caso negativo, non è richiesta alcuna autorizzazione ai sensi del can. 638 § 3 (salvo però che l’alienazione di tali be- ni sia considerata dalle Costituzioni/Statuti atto di amministrazione straordina- ria); in caso positivo, l’autorità ecclesiastica competente a concedere la licenza è indicata dalle Costituzioni/Statuto. Per ciò che concerne il tempo entro il qua- le ottenere l’autorizzazione, si è detto che deve essere precedente al negozio da concludere, mentre è stato affermato che «non sono nemmeno configurabili clausole che condizionino sospensivamente il negozio al suo rilascio» anche in presenza di contratto preliminare (cfr. XXXXXXX, op. cit., 33-34). Peraltro, sul pun- to, l’IMA n. 68, lett. c), precisa chiaramente che «il contratto preliminare può es- sere sottoscritto senza licenza purché sia espressamente condizionato alla concessione della licenza da parte dell’autorità competente»;
– nel caso sub B, inteso che l’istituto religioso di diritto pontificio sia una persona
xxxxxxxxx pubblica bisognerebbe capire se i beni di cui ha disposto facevano parte del suo “patrimonio stabile”. In quest’ultimo caso, là dove il valore abbia superato il limite previsto dal codice di diritto canonico (come pare essere avve- nuto), la licenza sarebbe stata necessaria. La sanzione dovrebbe essere quella dell’annullabilità, perché i controlli incidono sulla capacità dell’ente (cfr. FINOC- CHIARO op. cit., 385; nello stesso senso, CAVANA, Attività negoziale degli enti ec- clesiastici e regime dei controlli canonici, in Dir. fam., 2007, 1372 ss. che esclu- de che possa parlarsi di nullità) che potrà essere fatta valere dall’ente stesso nel termine quinquennale (cfr. can. 197) di prescrizione decorrente dal giorno della conclusione del contratto. Le norme in materia di annullabilità (artt. 1425, 1431, 1441 c.c.) risultano “canonizzate”, nel diritto della Chiesa vigente in Italia, perché il diritto canonico non dispone nulla in contrario e le norme civilistiche citate non sono in contrasto con il diritto divino (cfr. can. 1290) (cfr. FINOCCHIARO op. cit., 385). Gli Autori, sopra citati, che si sono occupati del tema hanno affer- mato che si possa applicare anche la norma contenuta nell’art. 1444 c.c. relati- va all’istituto della convalida.
Nel caso concreto, quindi, si tratta di compiere tutte le necessarie verifiche,
non ultima quella dell’eventuale prescrizione del termine quinquennale per l’annul- lamento. In caso contrario – ossia qualora il termine non fosse ancora trascorso – aderendo alla dottrina sopra richiamata, si potrebbe procedere alla convalida oppu- re, in alternativa, si potrebbe far intervenire in atto l’ente ecclesiastico, debitamente autorizzato, per prestare ogni più opportuno consenso alla rivendita del bene.
Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
ATTI CONVEGNI
Seminario Ambrosianeum
L’ente ecclesiastico a 25 anni dalla riforma concordataria
12 novembre 2010
Le caratteristiche proprie dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto
accolte dalla legge n. 222 del 20 maggio 1985
e la loro “ratio” nell’orizzonte della libertà religiosa
Prof. Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx*
1. Annotazioni preliminari
È noto che il Concordato del 1929, se venne ad innovare profonda- mente in diversi ambiti – come quello matrimoniale – la precedente discipli- na, per quanto riguarda la complessa materia degli enti ecclesiastici si limi- tò sostanzialmente ad apportare degli aggiustamenti alla disciplina giuridica ereditata dall’età liberale. Viceversa l’Accordo di Villa Madama del 1984, che mentre nella generalità delle materie già oggetto di disciplina concorda- taria si limitò in sostanza ad una mera armonizzazione costituzionale – si pensi, ancora, in materia matrimoniale, o di insegnamento della religione nelle scuole pubbliche –, per quanto riguarda gli enti, pose le basi per un definitivo superamento della situazione ereditata dall’età risorgimentale e post-risorgimentale. Su tali basi poi, la Commissione paritetica istituita gra- zie all’articolo 7 comma 6 dell’Accordo di revisione venne ad elaborare una normativa dettagliata ed assai innovativa, tradotta poi nella legge 20 mag- gio 1985, n. 2221, recante Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.
Dunque solo con questa legge si raggiunse un obbiettivo invano per- seguito dalla Legge delle Guarentigie (art. 18), dalla Commissione Xxxxxx- Gentili del 1925, dallo stesso Concordato fascista che se da un lato tende- va a congelare la normativa vigente, dall’altro lato apriva prospettive di rifor- me da perseguire attraverso nuovi accordi, come nel caso del sistema dei supplementi di congrua (art. 30, terzo comma).
Al fine di poter percepire con nettezza i caratteri innovativi della legge
n. 222 del 1985, giova richiamare, seppure brevemente, il quadro storico che la precedette.
Storicamente la categoria degli enti ecclesiastici, come la intendiamo oggi, viene fatta tradizionalmente risalire alle disposizioni del Concordato del 1929.
In realtà il Concordato costituì una tappa importante ma non definitiva
*Ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico Libera Università Xxxxx SS. Assunta – LUMSA.
1 Legge è riportata per intero a pag. 98 e ss.
di questo percorso: come s’è detto, esso guardava prevalentemente al pas- sato con l’intento di sanare una situazione di conflitto tra lo Stato e la Chie- sa cattolica.
Nella legislazione di epoca liberale quelli che noi denominiamo «enti ecclesiastici» erano qualificati come «istituti pubblici ecclesiastici», assimi- lati agli altri «corpi morali legalmente riconosciuti», e come tali soggetti alle
«leggi e gli usi osservati come diritto pubblico» (art. 2, cod. civ. del 1865). Non costituivano pertanto un’autonoma categoria di enti contraddistinta da un regime peculiare ed unitario, ma risultavano sottoposti, come le altre per- sone morali, ad esclusione delle società commerciali, alle norme di diritto pubblico specificamente previste per ciascuna di esse, tra cui quelle risa- lenti agli ordinamenti degli Stati preunitari, purché non abrogate o divenute incompatibili con la nuova legislazione.
Era emblematico in tal senso il testo dell’articolo 433 del codice civile del 1865: «I beni degli istituti civili od ecclesiastici e degli altri corpi morali appartengono ai medesimi, in quanto le leggi del regno riconoscano in essi la capacità di acquistare o di possedere», ove era evidente l’intento del le- gislatore civile di conformare la capacità patrimoniale di tali enti alle norme da esso stesso poste o riconosciute, escludendo pertanto ogni residua effi- cacia al sistema dei controlli canonici. Del resto la legislazione eversiva del- l’asse ecclesiastico (1848-1867) e la legge Crispi sulle opere pie (1890) previdero la soppressione ex lege, ovvero la laicizzazione e pubblicizzazio- ne, di tutta una serie di enti della Chiesa o comunque collegati al suo ordi- namento: si salvarono solo gli enti rispondenti alle esigenze religiose della popolazione, così come discrezionalmente valutate dall’autorità statale, non- ché gli enti ritenuti “socialmente utili”.
Si deve notare che con il Concordato del 1929 non si dette vita ad un’autonoma categoria di enti, sottratta al diritto comune, ma ci si limitò a riconoscere la personalità giuridica – nella sola forma conosciuta all’epo- ca: di diritto pubblico (cod. civ. 1865, salvo le società commerciali) – di en- ti ecclesiastici riconosciuti come tali dalla Chiesa, con il dichiarato obbiet- tivo di sanare gli effetti della precedente legislazione soppressiva (art. 29 Conc.).
In questa prospettiva l’articolo 4 della legge 27 maggio 1929, n. 848 disponeva: «Gli istituti ecclesiastici di qualsiasi natura e gli enti di culto pos- sono essere riconosciuti agli effetti civili con regio decreto, udito il parere del Consiglio di Stato. Tale riconoscimento importa la capacità di acquistare e di possedere» (commi 1-2)2; capacità che era quella stessa conferita dallo Stato a tutti gli enti morali, soggetti come tali alle norme di diritto pubblico
2 Commentando la xxxxx X. XXXXXXX, Commento della nuova legislazione in mate- ria ecclesiastica, Torino, 1932, p. 219, scriveva: «Gli enti ecclesiastici dal punto di vista sociale non sono creati dallo Stato: ma dal punto di vista giuridico sì. Come enti sociali sono un prodotto dell’attività della Chiesa: come enti giuridici, soggetti di diritto, persone giuridiche, sono un prodotto della volontà dello Stato». E continua- va: «questi enti, che esercitano la loro azione nell’ambito del territorio nazionale,
(art. 2, cod. civ.), come peraltro dimostravano i requisiti generali richiesti per il loro riconoscimento civile: la «necessità o l’evidente utilità dell’ente» e la
«sufficienza dei mezzi per il raggiungimento dei propri fini» (art. 7, c. 2, R.D. n. 2262 del 1929).
Sulla gestione di tali enti vennero altresì riconosciuti i controlli canoni- ci e mantenute, per alcuni di essi per i quali lo Stato interveniva a coprire le deficienze dei redditi (enti beneficiali), talune forme di controllo da parte di organi statali a tutela degli interessi finanziari dello Stato (art. 30 Conc.); for- me di controllo coincidenti in sostanza con quelle già in vigore nella prece- dente legislazione per gli enti non soppressi.
La novità data dalla normativa concordataria e di derivazione concor- dataria, dunque, era rappresentata non tanto dalla creazione di un’autono- ma categoria di enti, ma dal riconoscimento ex lege della possibilità di ac- quisire la personalità giuridica da parte di enti non dipendenti direttamente dallo Stato, realizzando uno strappo alla concezione statualistica del diritto allora imperante.
La materia degli enti, così come le altre materie specificamente disci- plinate nel Concordato del 1929, non fu direttamente incisa dalle nuove dis- posizioni costituzionali in ragione della decisione, assunta dall’Assemblea costituente, di richiamare l’intero contenuto degli Accordi del 1929 nel nuo- vo ordinamento costituzionale mediante la menzione esplicita dei Patti late- ranensi nel secondo comma dell’articolo 7. Anche se, occorre precisarlo, nella Costituzione furono affermati i principi ispiratori di una nuova disciplina del fattore religioso, potenzialmente destinati a riverberarsi pure sulla mate- ria degli enti ecclesiastici, così come delineata dal Concordato del 1929 e disposizioni di esecuzione ed attuazione.
2. Le norme costituzionali e la loro incidenza sulla materia degli enti ecclesiastici
A prima lettura sembrerebbe che l’unica norma costituzionale che pos- sa riguardare gli enti ecclesiastici sia quella contenuta nell’articolo 20 Cost., per il quale «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una as- sociazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività».
Si tratta di una disposizione che normalmente viene letta come em- blematica di quella comprensibile attitudine del Costituente, rilevabile in più punti del testo costituzionale, di guardare al passato onde evitare il ripetersi
sono bensì, giusta speciali pattuizioni del Concordato, esenti da tutela e da ogni al- tra ingerenza dello Stato sotto l’aspetto patrimoniale e amministrativo, ma non si sottraggono alle norme generali per cui la capacità civile trova la sua base giuridica in un riconoscimento da parte dello Stato italiano esplicito o implicito».
di fenomeni sostanzialmente illiberali; nel caso concreto, di porre un ostaco- lo costituzionale ad un eventuale, nuovo verificarsi di una legislazione ever- siva dell’asse ecclesiastico. A ben vedere tuttavia la disposizione, oltre a – negativamente – evitare il ripetersi del passato (divieto che l’identità religio- sa di un ente possa essere causa di speciali limitazioni legislative e di spe- ciali gravami fiscali), pone positivamente degli elementi nuovi, potenzial- mente capaci di incidere sulla disciplina dei soggetti ivi contemplati, ancor- ché lo faccia con una terminologia non priva di una qualche incertezza ed imprecisione.
In effetti il riferimento al “carattere ecclesiastico” ed al “fine di religione o di culto” dei soggetti ivi considerati introduce elementi nuovi di qualifica- zione degli stessi.
Come è noto, seguendo un criterio ermeneutico molto legato alla tradi- zione lessicale, la dottrina interpreta generalmente la norma nel senso che il “carattere ecclesiastico” sia diretto ad individuare quelli che storicamente si sono sempre chiamati enti “ecclesiastici”, cioè gli enti della Chiesa cattolica, mentre il “fine di religione o di culto” sarebbe residualmente chiamato ad in- dividuare gli enti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica.
Personalmente non condivido questa esegesi. Non entro in questa sede a ripetere le considerazioni fatte altrove; mi limiterò ad osservare con- clusivamente che l’articolo 20 Cost., il quale interdice trattamenti sfavorevo- li ma non proibisce trattamenti di favore per i soggetti ivi contemplati, indivi- dua la peculiarità dei destinatari della norma sia nel “carattere ecclesiasti- co”, vale a dire nell’origine e nel rapporto organico con l’istituzione ecclesia- stica, cioè la confessione religiosa, cattolica o meno; sia nel “fine di religio- ne o di culto”, vale a dire sul profilo teleologico dei soggetti in questione: profilo che ha una speculare ricaduta nelle attività. Giova notare che la dis- posizione costituzionale in esame, distinguendo, mostra di ritenere non ne- cessariamente coincidenti l’elemento del carattere e l’elemento del fine, in relazione ad alcune categorie di enti. Ci possono pertanto essere enti che hanno il carattere dell’ecclesiasticità, ma non quello – almeno direttamente ed esplicitamente – di religione o di culto, e viceversa.
A ben guardare, dunque, l’articolo 20 Cost. tutela tutta l’ampia catego-
xxx di enti individuabili vuoi in relazione al loro collegamento formale con l’ordinamento confessione di appartenenza; vuoi in relazione alle loro finali- tà. Con ciò il Costituente sembrerebbe mettere insieme la prospettiva tipica del regime pre-concordatario, che dava peso rilevante allo scopo di religio- ne o di culto di un ente, e la prospettiva concordataria del 1929, che dava peso soprattutto all’elemento della ecclesiasticità.
Se si guarda più in profondità il tessuto normativo della Carta costitu- zionale, bisogna però riconoscere che anche altre norme hanno incidenza sul terreno della disciplina degli enti.
Per limitarci alla Chiesa cattolica, si deve naturalmente richiamare in- nanzitutto il primo comma dell’articolo 7 Cost., secondo il quale «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovra-
ni». Questa disposizione comporta, come noto, il riconoscimento del carat- tere originario dell’ordinamento giuridico cui dà vita la Chiesa cattolica e che riflette l’ordine suo proprio. Il che non significa che automaticamente tutte le norme del diritto canonico acquistino rilevanza civile e producano effetti nel- l’ordinamento dello Stato, ma significa riconoscimento della sovrana auto- nomia della Chiesa di determinarsi, di organizzarsi, di regolare la vita delle persone fisiche e giuridiche esistenti nel proprio ordinamento, senza interfe- renza alcuna da parte dello Stato.
In questa prospettiva avranno effetti nell’ordinamento statale solo le norme canoniche esplicitamente richiamate, o quantomeno implicitamente presupposte, da disposizioni di origine bilaterale (si pensi appunto, in mate- ria di enti, l’art. 7 Conc. e la L. n. 222) od anche di origine unilaterale statale (si pensi ancora, sempre in materia di enti, all’art. 831 cod. civ.).
Sono poi da richiamare gli articoli 19 ed 8, primo comma, Cost., che nel loro combinato disposto riconoscono la libertà religiosa come diritto indi- viduale, collettivo, istituzionale. Si tratta di un riconoscimento che ha parti- colare rilevanza in materia di enti ecclesiastici, sia dal punto di vista sogget- tivo, nella misura in cui postula implicitamente il riconoscimento civilistico di enti di struttura (in cui si esprime la libertà religiosa istituzionale) e di enti di libertà (in cui si esprime la libertà religiosa individuale e collettiva); sia dal punto di vista oggettivo, nella misura in cui gli enti ecclesiastici sono diretti al soddisfacimento dei bisogni religiosi e, dunque, sono strumentali all’effet- tiva fruizione del diritto in questione.
Il primo comma dell’articolo 8 Cost., d’altra parte, pone un divieto di discriminazioni tra confessioni religiose quanto a spazi di libertà effettiva- mente goduti. La portata della disposizione si percepisce appieno se colta nel rapporto con il secondo comma dell’articolo 7 Cost. e con il terzo com- ma dello stesso articolo 8 Cost., attraverso i quali è stato introdotto nell’ordi- namento italiano il principio della c.d. “negoziazione legislativa” per la pro- duzione delle norme riguardanti la vita delle confessioni religiose nello Sta- to. Il sistema delineato dalle varie disposizioni costituzionali in sostanza contempla – ancorché non sempre e necessariamente – che a salvaguar- dia del diritto a veder rispettata la propria identità (o “diritto alla differenza”), le singole confessioni religiose possano ottenere dallo Stato un regime giu- ridico peculiare e differenziato, con il solo limite inderogabile dato dal fatto che la diversità di regime non incida sull’eguaglianza degli spazi di libertà assicurati a tutte le confessioni religiose.
Si tratta di un paradigma normativo assai rilevante in materia di enti,
perché permette una diversità di disciplina fra le diverse confessioni religiose. L’articolo 3 Cost. ha poi il più evidente rilievo nel divieto posto a discri- minazioni per ragioni religiose, il che significa che la possibile diversità di di- sciplina degli enti che traggono vita dalle confessioni religiose non deve, an- che qui, riverberarsi in spazi più o meno ampi di libertà religiosa assicurata,
o in limitazioni più o meno consistenti della sua concreta fruibilità.
3. L’ente ecclesiastico nella legge n. 222
Dalla disciplina concordataria, contenuta nelle disposizioni di principio di cui all’articolo 7 del Concordato revisionato e poi soprattutto nella legge
n. 222 del 1985, si desumono chiaramente alcuni caratteri distintivi dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Il primo elemento caratterizzante è dato dal fatto che ci si trova di fron- te ad entità che traggono vita in un ordinamento diverso da quello dello Sta- to: un ordinamento sovrano e, quindi, esterno a quello statale. Si tratta di entità distinte sia dagli enti pubblici sia dagli enti privati, che peraltro risulta- no anche distinte dagli enti stranieri. La diversità, che si esprime in una di- sciplina giuridica peculiare sia sotto il profilo soggettivo, vale a dire della di- sciplina dell’ente in sé, che sotto quello oggettivo, vale a dire della disciplina delle sue attività, è segnalata dalla denominazione, nuova, di “enti ecclesia- stici civilmente riconosciuti”. Questa denominazione, dunque, individua nel- l’ordinamento italiano un ente retto da una disciplina singolare.
Un secondo elemento caratterizzante si coglie nel fatto che il regime giuridico dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto non è prodotto in via unilaterale statale, ma in via convenzionale da parte di due soggetti indipen- denti e sovrani. Anche la legge n. 222, in quanto avente contenuto identico alla legge 20 maggio 1985, n. 206, di ratifica ed esecuzione del protocollo del 15 novembre 1984, ha sostanzialmente un contenuto vincolato a quan- to convenuto in sede internazionale e costituzionalmente protetto a norma dell’articolo 7, secondo comma, e 10, primo comma, della Costituzione. Ciò dovrebbe significare, tra l’altro, che le norme sugli enti ecclesiastici civil- mente riconosciuti non possono essere modificate o soppresse se non at- traverso il medesimo procedimento attraverso il quale sono state prodotte.
Un terzo elemento caratterizzante è dato dal regime giuridico dell’en- te ecclesiastico civilmente riconosciuto, il quale riflette, nell’ordinamento ita- liano, un riparto di competenze fra legislatore canonico e legislatore civile, per quanto attiene sia ai profili soggettivi che a quelli oggettivi.
Detto riparto di competenza appare con evidenza nel momento gene- tico. Perché gli enti in questione, pur traendo vita in un ordinamento estra- neo, indipendente e sovrano rispetto all’ordinamento italiano, cioè in un or- dinamento straniero, sono soggetti nel nostro ordinamento ad un riconosci- mento con effetti costitutivi. Da questo punto di vista si deve registrare una diversità di trattamento con gli enti stranieri – e quindi anche con gli enti confessionali stranieri –, i quali godono nell’ordinamento italiano dello stes- so trattamento giuridico fatto da questo alle persone giuridiche italiane, qua- lora la personalità giuridica sia stata ad essi riconosciuta dallo Stato sul cui territorio è avvenuta la costituzione dell’ente. In questo caso gli enti stranie- ri hanno automaticamente piena capacità giuridica e di agire.
Si deve peraltro notare che, in base all’articolo 25 della legge 31 mag- gio 1995 n. 218, agli enti stranieri si applicano le norme italiane se la sede dell’amministrazione è in Italia o se in Italia si trova il principale oggetto so- ciale.
D’altra parte, a differenza degli enti italiani, sia pubblici che privati, il riconoscimento civile di un ente ecclesiastico presuppone necessariamente la sua esistenza nell’ordinamento canonico (il c.d. “carattere ecclesiastico”), anche se talora senza il possesso in questo della personalità giuridica (cf art. 2, c. 2, L. n. 222).
Una questione interessante al riguardo è quella relativa alla configu- rabilità o meno di un diritto al riconoscimento.
Xxxxx notare come alla luce dell’originaria disciplina del codice civile, non si potesse parlare di un diritto al riconoscimento della personalità giuri- dica (oggi la situazione sembrerebbe cambiata). La stessa cosa pare dire la legge n. 222 allorché, all’articolo 1, dice che gli enti in oggetto «possono es- sere riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili». In realtà un’at- tenta considerazione dell’insieme delle norme contenute nella legge parreb- be dire il contrario. Ciò vale per gli “enti di struttura”, per i quali il fine di reli- gione e di culto è presupposto ex lege e che non potrebbero vedere rifiutata la personalità giuridica civile una volta eretti nell’ordinamento canonico; ma ciò parrebbe anche per gli “enti di libertà”, nella misura in cui il potere dis- crezionale della Pubblica Amministrazione si rivolge all’accertamento della ricorrenza del fine suddetto e del suo carattere costitutivo ed essenziale, non essendo prevista – fatta eccezione per le fondazioni di culto (art. 12 L.
n. 222) – una valutazione discrezionale della rispondenza dell’ente a ob- biettive esigenze religiose della popolazione.
Un quarto elemento caratterizzante si può cogliere nel fatto che, per disposto costituzionale, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono assoggettati ad una disciplina giuridica che non può essere discriminato- ria rispetto a quella prevista per le altre persone giuridiche che agiscono nell’ambito dell’ordinamento statale; ma, allo stesso tempo, la norma co- stituzionale non fa divieto di una loro sottoposizione ad un regime più fa- vorevole.
In effetti gli enti in questione sono ammessi ad un regime più favore- vole, in particolare dal punto di vista fiscale, per le attività qualificabili come di religione e di culto. Si tratta di un regime giuridico che rientra nella tradi- zione, risalente nel tempo, di equiparare le attività di religione o di culto alle attività di assistenza e beneficenza. Come è facilmente intuibile, l’equipara- zione nasce dalla esigenza da un lato di non ignorare la strutturale ed onto- logica differenza tra attività spirituali o direttamente connesse con lo spiri- tuale, ed attività più propriamente secolari (quali sono quelle tipiche delle persone giuridiche italiane o straniere); dall’altro di trovare un paradigma cui attività che finalisticamente esorbitano dall’orizzonte temporale possano essere in qualche modo accostate. In altre parole, nella tipologia di tutte le
attività possibili, riconducibili a persone giuridiche pubbliche o private, italia- ne o straniere, quelle di assistenza e beneficenza risultano essere – pur nella loro diversità – analogicamente più prossime a quelle di religione e di culto.
È evidente che siffatta diversità di trattamento non viola il principio di eguaglianza: sia formalmente, perché non interdetta – come s’è accennato
– dal disposto costituzionale; sia sostanzialmente, perché riflette l’esigenza, che di quel principio è propria, che il legislatore tratti in maniera diversa si- tuazioni diverse.
Un quinto elemento caratterizzante è dato dal fatto che per potersi avere un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto debbono ricorrere due requisiti: la sua ecclesiasticità, dunque dell’origine dell’ente nell’ordinamen- to canonico, e la sua orientazione a finalità di religione o di culto. Il mero ca- rattere ecclesiastico di un ente, cioè il suo collegamento organico con la istituzione ecclesiastica, non è sufficiente perché possa essere riconosciuto nella specifica categoria di enti civili. Una unica eccezione al riguardo po- trebbe forse cogliersi nel caso degli Istituti per il sostentamento del clero (can. 1274 c.i.c.), che certamente hanno carattere ecclesiastico ma le cui attività più problematicamente potrebbero essere ricondotte – stando ai cri- xxxx distintivi sussistenti nell’ordinamento italiano – nella categoria della reli- gione o del culto. Ma tali Istituti hanno ex lege personalità giuridica civile co- me enti ecclesiastici civilmente riconosciuti in base al disposto dell’articolo 22, comma 1, della legge n. 222.
D’altra parte la sola finalità di religione o di culto, in assenza del carat-
tere ecclesiastico, interdice ad un ente il riconoscimento ai sensi della legge
n. 222: si pensi da un lato al caso di formazioni sociali distaccatesi dalla Chiesa (es. le “comunità di base” o “del dissenso”); ovvero, dall’altro, alle
c.d. “istituzioni cristiane” che, a differenza delle istituzioni ecclesiali (es. gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa) e delle isti- tuzioni ecclesiastiche (es. le istituzioni educativo-assistenziale con finalità apostoliche), nascono ed operano direttamente ed esclusivamente nell’ordi- namento statale, sia pure nell’intento di comunicare alla società valori cri- stiani (es. un partito o un sindacato di ispirazione cattolica: LG § 36; GS §§ 43 e 76; AA § 7).
Un sesto elemento caratterizzante è nella rigorosa distinzione tra fina- lità di religione o di culto e finalità di carattere caritativo. Essa marca decisa- mente la differenza tra gli enti canonici e gli enti ecclesiastici civilmente rico- nosciuti. Per il diritto canonico è costitutivo e caratterizzante di una persona giuridica la sussistenza di fini attinenti ad opere di pietà, di apostolato o di carità sia spirituale che temporale (can. 114 §§ 2-3); lo stesso dicasi per quelle entità a base associativa che non abbiano personalità giuridica, ma che comunque per poter sussistere nell’ordinamento canonico debbono perseguire, tra l’altro, opere di apostolato, tra cui quelle di pietà e di carità,
oltre che di animazione cristiana dell’ordine temporale (can. 298 § 1). Si tratta, nell’un caso come nell’altro, di fini che spesso risultano intrinseca- mente connessi tra di loro, al punto da costituire una finalità unitaria. Si può dunque dire che, dal punto di vista canonistico, la finalità caritativa entra a costituire la finalità di religione.
Per il diritto italiano al contrario, e seppure anche a seguito di disposi- zioni concordate, la finalità caritativa è diversa dalla finalità di religione o di culto. Questa distinzione costituisce un elemento caratterizzante degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti rispetto, ad esempio, agli enti ecclesia- stici valdesi, i quali possono ottenere il riconoscimento civile solo a condi- zione di avere congiuntamente fini di culto, di istruzione e di beneficenza (art. 12, primo comma, L. 11.8.1984, n. 449). Ma essa sta a significare che un ente il quale nascesse nell’ordinamento canonico con finalità esclusive o costitutive ed essenziali di carità non potrebbe ottenere personalità giuridi- ca in Italia come ente ecclesiastico civilmente riconosciuto: infatti l’articolo 2, comma 3, della legge n. 222 dispone che l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto possa avere finalità caritative, fermo restando il possesso co- me costitutivo ed essenziale del fine di religione o di culto.
Da questa distinzione discende un altro, settimo elemento caratteriz- zante degli enti in esame, che attiene ai profili oggettivi delle attività. Nel senso che il legislatore, volendo superare le incertezze del passato al ri- guardo, ma anche una eccessiva discrezionalità delle competenti autorità statali, ha inteso fornire indicazioni più precise circa ciò che si intende per attività di religione o di culto ed attività diverse da queste. Al riguardo il noto disposto dell’articolo 16 della legge n. 222 pone indicazioni assai dettagliate che, pur riguardando le attività, finiscono per essere un canone ermeneuti- co per precisare il generico riferimento di cui al precedente articolo 2 circa i fini di religione o di culto, che come s’è veduto costituiscono requisito ne- cessario per la riconoscibilità di un ente canonico.
Dunque la legge non deroga al principio generale sussistente nell’or- dinamento italiano per il quale le persone giuridiche, quantomeno le perso- ne giuridiche private, possano svolgere qualsivoglia attività nell’ambito di ciò che è giuridicamente lecito, a prescindere dalle qualificazioni soggettive (associazioni riconosciute, fondazioni, società, ecc.) ed dalle finalità statuta- riamente definite. Anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti posso- no svolgere attività le più diverse, oltre alle necessarie attività di religione o di culto; ma queste “attività diverse” sono assoggettate al medesimo regime giuridico previsto, nell’ordinamento italiano, per le varie tipologie di attività non qualificabili come di religione o di culto (art. 7, n. 3, Conc.). Ciò com- porta che ogni eventuale mutamento della legislazione italiana riguardante le “attività diverse” si estende, ovviamente, anche agli enti ecclesiastici civil- mente riconosciuti, qualora le esercitassero.
Qui però si ha un ulteriore, ottavo elemento caratterizzante degli enti
in esame, perché l’assoggettamento alle leggi ed al regime tributario pro- prio delle “attività diverse” da quelle di religione o di culto non è pieno, in quanto è applicabile compatibilmente con la struttura e le finalità degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti (art. 7, n. 3, Conc.). Ciò non significa che, nel caso di disciplina di una “attività diversa” che sia oggettivamente in contrasto con la struttura e le finalità di uno degli enti in questione, a questo sia interdetto lo svolgimento di tale attività. Significa al contrario che il diritto comune per quella specifica attività si applica solo in quanto applicabile, cioè in quanto compatibile con l’identità dell’ente ecclesiastico.
Un nono elemento caratterizzante è, nella legge, il rapporto tra proce- dura di riconoscimento dell’ente ecclesiastico e registrazione dell’ente rico- nosciuto nel registro generale delle persone giuridiche (rapporto che ha ri- lievo anche per quanto attiene a mutamenti nel fine, nella destinazione dei beni, nel modo di esistenza di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, ovvero nella sua soppressione o estinzione: artt. 19-20, L. n. 222). Perché se la nascita della persona giuridica, e quindi il sorgere della sua capacità giuridica, origina dal decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato3, l’acquisto della capacità di agire è legata all’iscrizio- ne nel registro delle persone giuridiche. Qui si coglie una differenza con le persone giuridiche private che oggi, in base al disposto dell’articolo 1, n. 1, del D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, «acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento determinato dall’iscrizione nel registro delle per- sone giuridiche» (a norma delle disposizioni previgenti [artt. 12, 33-35 cod. civ., e art. 22 ss. delle disposizioni di attuazione del cod. civ.] la iscrizione nel registro delle persone giuridiche aveva effetti meramente dichiarativi- pubblicità, distinguendosi tra decreto di riconoscimento e iscrizione nel regi- stro. Non a caso l’omissione della pubblicità non comportava nullità o ineffi- cacia dell’atto posto in essere dalla persona giuridica, ma solo l’inopponibili- tà dell’atto stesso a terzi, a meno che non si provasse che costoro ne fosse- ro ugualmente a conoscenza [art. 34 c.c.]).
Nella volontà del legislatore, l’iscrizione dell’ente ecclesiastico civil-
mente riconosciuto nel registro delle persone giuridiche è posta a tutela dei terzi che entrino in rapporti negoziali con l’ente; ma, a ben vedere, essa è posta anche a tutela dell’ente e della autonomia della Chiesa, perché dalla avvenuta iscrizione discende l’indiscutibilità del rilievo civilistico dei con- trolli canonici.
La conseguenza dunque è che la mancanza di iscrizione è generatri- ce di nullità – o, meglio, di annullabilità – dei negozi conclusi da parte di en- ti non registrati. Si deve dire però che su questo punto la letteratura non è concorde: secondo diversa posizione dottrinale, infatti, la mancata iscrizio- ne nel registro delle persone giuridiche non inciderebbe sulla capacità di
3 Oggi si provvede con decreto del Ministro dell’interno (L. 12.1.1991, n. 13), senza obbligo di parere del Consiglio di Stato (art. 17, n. 26, L. 15.5.1997, n. 127).
agire dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, ma avrebbe solo come conseguenza la responsabilità personale e solidale degli amministratori per le obbligazioni assunte4.
Altro elemento caratterizzante è dato, infine, in materia di controlli sul- la vita patrimoniale e sull’amministrazione dei beni degli enti ecclesiastici. In base alla legge n. 222, infatti, i controlli previsti dal diritto comune per le per- sone giuridiche private (art. 19 ss. cod. civ.) sono sostituiti dai controlli e dai limiti di rappresentanza previsti dal codice di diritto canonico (oltre che dagli statuti così come risultanti dal registro delle persone giuridiche), con la con- seguenza che, nel caso della loro omissione, l’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto potrà far valere nei termini di legge l’invalidità del negozio giuri- dico oppure, nel caso sia parte convenuta, eccepirla (art. 18 L. n. 222). Gli unici controlli civili previsti, originariamente, dalla legge n. 222 erano quelli relativi alla autorizzazione agli acquisti per tutte le persone giuridiche (art. 17 L. n. 222; ma tali controlli sono stati abrogati dall’art. 13 della L. 15.5.1997, n. 127, modificato dalla L. 22.6.2000, n. 192).
4. Conclusioni
Le prospettive aperte dal dettato costituzionale orientavano, dunque, verso la considerazione degli enti ecclesiastici come un “tertium genus” tra gli enti pubblici e le persone giuridiche private, o se si vuole un “quartum ge- nus”, se si considerano le persone giuridiche straniere operanti in Italia. Detta categoria, dopo la legge n. 222, appare regolata da una disciplina giu- ridica peculiare sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, ca- ratterizzata da un riparto di competenze tra legislatore canonico e legislato- re civile.
Le caratteristiche proprie dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciu- to, ricavabili dall’ordito originario della ricordata legge del 1985, risultano sostanzialmente in attuazione di principi costituzionali:
a) innanzitutto il principio dualistico per cui, posta la distinzione fra ordina- menti indipendenti e sovrani ciascuno nel proprio ambito, da un lato si nega la sussistenza di una “competenza delle competenze” a favore di un ordinamento rispetto all’altro, e dall’altro lato si pone la regola della sana collaborazione per la determinazione della regolamentazione di materie di comune interesse;
b) in secondo luogo il principio della libertà religiosa istituzionale, che signi- fica libertà per la Chiesa di modellare le proprie strutture interne secondo
4 E ciò similmente agli enti di fatto di cui all’art. 38 cod. civ. Inoltre, nel caso di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti ma non registrati, non potrebbero essere oppo- ste a terzi le limitazioni del potere di rappresentanza non risultanti a causa della mancata iscrizione e salva prova contraria della loro conoscenza (art. 19 cod. civ.). In tal senso X. XXXXXXXX, Enti e beni religiosi in Italia, Bologna 1992, p. 87 ss.
la propria natura e le proprie finalità, vedendole così come sono ricono- scibili nell’ordinamento civile;
c) in terzo luogo il principio della libertà religiosa individuale e collettiva, che se da un lato postula il riconoscimento civile delle forme aggregative e fondazionali nate per finalità religiose, con una disciplina giuridica rispet- tosa della loro identità; dall’altro lato postula quel riconoscimento come strumentale al soddisfacimento dei bisogni religiosi e alla rimozione degli ostacoli che , in concreto, possono impedire la fruizione delle libertà in materia religiosa.
In sostanza il legislatore del 1985, esprimendo chiaramente il proces- so di armonizzazione delle disposizioni concordatarie sugli enti al quadro costituzionale, si è sforzato di forgiare una disciplina peculiare, riflesso della peculiarità data dal fatto insolito della sussistenza di due sovranità sullo stesso territorio e – almeno potenzialmente – sugli stessi soggetti giuridici.
Cenni di bibliografia
Sulla genesi della legislazione piemontese-sarda e del Regno d’Italia in tema di proprietà ecclesiastica cf A.C. JEMOLO, La questione della pro- prietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia (1848-1888), con premessa di X. Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Il Mulino, Bologna 1974.
Per una prima interpretazione sistematica delle norme pattizie del 1929, particolarmente rilevante perché a cura del Direttore Generale del Fondo per il culto del tempo, vedasi: X. XXXXXXX, Commento della nuova le- gislazione in materia ecclesiastica, con prefazione di Xxxxxxx Xxxxx, UTET, Torino 1932.
Una ampia e precisa sintesi critica della normativa pattizia del 1929 sugli enti in X. XXXXX, Enti ecclesiastici (diritto ecclesiastico), in Enciclope- dia del diritto, pp. 1000-1039, con numerosi riferimenti bibliografici. Xxx Xxx- xx, che fu certamente il migliore studioso degli enti ecclesiastici, si veda an- che, per le necessarie correlazioni, Enti ecclesiastici (diritto canonico), ivi, pp. 982-999.
Una lettura delle disposizioni costituzionali in materia ecclesiastica in
X. XXXXX XXXXX, Il fattore religioso nella Costituzione. Xxxxxxx e interpretazio- ni, 2ª ed., Giappichelli, Torino 2003.
Per il procedimento di revisione della legislazione ecclesiastica si rin- via a X. XXXXX XXXXX, La riforma della legislazione ecclesiastica. Testi e do- cumenti per una ricostruzione storica, Patron, Bologna 1985, in cui sono tra l’altro pubblicate le diverse bozze dei testi di revisione del Concordato del 1929.
Per il diritto vigente, oltre alla manualistica di diritto ecclesiastico e le voci delle maggiori enciclopedie, assolutamente fondamentali i contributi di
X. XXXXXXXX, Enti e beni religiosi in Xxxxxx, Xx Xxxxxx, Xxxxxxx 0000; P. CAVA- NA, Enti ecclesiastici e controlli confessionali, vol. I, Gli enti ecclesiastici nel sistema pattizio, vol. II, Il regime dei controlli confessionali, Xxxxxxxxxxxx, To- rino 2002; X. XXXXXXXXX, Gli enti e i beni ecclesiastici. Art. 831, in Commenta- rio del codice civile a cura di X. Xxxxxxxxxxx e F. D. Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano 2005.
Si vedano inoltre: AA.VV., Enti ecclesiastici e attività notarile, a cura di
X. Xxxxx, Xxxxxx, Xxxxxx 0000; X. XXXXXXXX, Il riconoscimento degli enti ec- clesiastici, Xxxxxxx, Milano 1990; P. PICCOZZA, L’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, Xxxxxxx, Milano 1992; AA.VV., Il nuovo regime giuridico degli enti e dei beni ecclesiastici, a cura di X. Xxxxxxxxx, Vita e Pensiero, Milano 1993; AA.VV., L’autorizzazione agli acquisti degli enti ecclesiastici, a cura di
X. Xxxxxxxxx, Vita e Pensiero, Milano 1993; X. XXXXXXXX-X. XXXXXXX-C. RE- DAELLI, Gli enti religiosi. Natura giuridica e regime tributario. Le attività istitu- zionali e commerciali. La contabilità e il bilancio, Il Sole-24 Ore, Milano 1999;
X. XXXXXXXX, Le nuove frontiere dell’ecclesiasticità degli enti. Struttura e fun- zione delle associazioni ecclesiastiche, Novene, Napoli 1999; P. LO XXXXXX, La natura funzionale della personalità giuridica nel diritto ecclesiastico, No- vene, Napoli, 2000; X. XXXXXXX, Il regime tributario degli enti ecclesiastici, Cedam, Padova 2000; X. XXXXXXX, La disciplina tributaria degli enti ecclesia- stici. Profili di specialità tra attività no profit o for profit, 2ª ed., Xxxxxxx, Mila- no 2008; M.C. FOLLIERO, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community. La transizione, 2ª ed., Giappichelli, Torino 2010.
Con un taglio più pratico X. XXXXXXXXX-X. XXXXX, Manuale degli enti ecclesiastici, Buffetti Editore, Roma 2009.
L. 20 maggio 1985, n. 222
Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostenta- mento del clero cattolico in servizio nelle diocesi
TITOLO I
Enti ecclesiastici civilmente riconosciti
1. Gli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o di culto, possono essere riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili con decreto del Presidente della Repubblica, udito il pare- re del Consiglio di Stato.
2. Sono considerati aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi e i seminari.
Per altre persone giuridiche canoniche, per le fondazioni e in genere per gli enti ec- clesiastici che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della Chiesa, il fi- ne di religione o di culto è accertato di volta in volta, in conformità alle disposizioni dell’articolo 16.
L’accertamento di cui al comma precedente è diretto a verificare che il fine di reli- gione o di culto sia costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico.
3. Il riconoscimento della personalità giuridica è concesso su domanda di chi rap- presenta l’ente secondo il diritto canonico, previo assenso dell’autorità ecclesiasti- ca competente, ovvero su domanda di questa.
4. Gli enti ecclesiastici che hanno la personalità giuridica nell’ordinamento dello Stato assumono la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
5. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche.
Nel registro, con le indicazioni prescritte dagli articoli 33 e 34 del codice civile, de- vono risultare le norme di funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza dell’ente. Agli enti ecclesiastici non può comunque essere fatto, ai fini della registra- zione, un trattamento diverso da quello previsto per le persone giuridiche private.
I provvedimenti previsti dagli articoli 19 e 20 delle presenti norme sono trasmessi d’ufficio per l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche.
6. Gli enti ecclesiastici già riconosciuti devono richiedere l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche entro due anni dalla entrata in vigore delle presenti norme. La Conferenza episcopale italiana deve richiedere l’iscrizione entro il 30 settembre 1986. Gli Istituti per il sostentamento del clero, le diocesi e le parrocchie devono ri- chiedere l’iscrizione entro il 31 dicembre 1989.
Decorsi tali termini, gli enti ecclesiastici di cui ai commi precedenti potranno conclu- dere negozi giuridici solo previa iscrizione nel registro predetto.
7. Gli istituti religiosi e le società di vita apostolica non possono essere riconosciu- ti se non hanno la sede principale in Italia. Le province italiane di istituti religiosi e di società di vita apostolica non possono essere riconosciuti se non sono rappresen-
tati, giuridicamente e di fatto, da cittadini italiani aventi il domicilio in Italia. Questa disposizione non si applica alle case generalizie e alle procure degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica.
Resta salvo quanto dispone l’articolo 9.
8. Gli istituti religiosi di diritto diocesano possono essere riconosciuti soltanto pre- vio assenso della Santa Sede e sempre che sussistano garanzie di stabilità.
9. Le società di vita apostolica e le associazioni pubbliche di fedeli possono esse- re riconosciute soltanto previo assenso della Santa Sede e sempre che non abbia- no carattere locale.
10. Le associazioni costituite o approvate dall’autorità ecclesiastica non riconosci- bili a norma dell’articolo precedente, possono essere riconosciute alle condizioni previste dal codice civile.
Esse restano in tutto regolate dalle leggi civili, salvi la competenza dell’autorità ec- clesiastica circa la loro attività di religione o di culto e i poteri della medesima in or- dine agli organi statutari.
In ogni caso è applicabile l’articolo 3 delle presenti norme.
11. Il riconoscimento delle chiese è ammesso solo se aperte al culto pubblico e non annesse ad altro ente ecclesiastico, e sempre che siano fornite dei mezzi suffi- cienti per la manutenzione e la officiatura.
12. Le fondazioni di culto possono essere riconosciute quando risultino la suffi- cienza dei mezzi per il raggiungimento dei fini e la rispondenza alle esigenze reli- giose della popolazione.
13. La Conferenza episcopale italiana acquista la personalità giuridica civile, qua- le ente ecclesiastico, con l’entrata in vigore delle presenti norme.
14. Dal 1° gennaio 1987, su richiesta dell’autorità ecclesiastica competente, può essere revocato il riconoscimento civile ai capitoli cattedrali o collegiali non più ri- spondenti a particolari esigenze o tradizioni religiose e culturali della popolazione. Nuovi capitoli possono essere civilmente riconosciuti solo a seguito di soppressio- ne o fusione di capitoli già esistenti o di revoca del loro riconoscimento civile.
15. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto, alle condizioni previste dall’articolo 7, n. 3, secondo comma, dell’accordo del 18 febbraio 1984.
16. Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque:
a) attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla cateche- si, all’educazione cristiana;
b) attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficen- za, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro.
17. Per gli acquisti degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche.
18. Ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ec-
clesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscen- za, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridi- che.
19. Ogni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione dei beni e nel modo di esistenza di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto acquista efficacia civile mediante riconoscimento con decreto del Presidente della Repubblica, udito il pa- rere del Consiglio di Stato.
In caso di mutamento che faccia perdere all’ente uno dei requisiti prescritti per il suo riconoscimento può essere revocato il riconoscimento stesso con decreto del Presidente della Repubblica, sentita l’autorità ecclesiastica e udito il parere del Consiglio di Stato.
20. La soppressione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e la loro estin- zione per altre cause hanno efficacia civile mediante l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche del provvedimento dell’autorità ecclesiastica competente che sopprime l’ente o ne dichiara l’avvenuta estinzione.
L’autorità ecclesiastica competente trasmette il provvedimento al Ministro dell’inter- no che, con proprio decreto, dispone l’iscrizione di cui al primo comma e provvede alla devoluzione dei beni dell’ente soppresso o estinto.
Tale devoluzione avviene secondo quanto prevede il provvedimento ecclesiastico, salvi in ogni caso la volontà dei disponenti, i diritti dei terzi e le disposizioni statuta- rie, e osservate, in caso di trasferimento ad altro ente, le leggi civili relative agli ac- quisti delle persone giuridiche.
TITOLO II
Beni ecclesiastici e sostentamento del clero
21. In ogni diocesi viene eretto, entro il 30 settembre 1986, con decreto del Vesco- vo diocesano, l’Istituto per il sostentamento del clero previsto dal canone 1274 del codice di diritto canonico.
Mediante accordo tra i Vescovi interessati, possono essere costituiti Istituti a carat- tere interdiocesano, equiparati, ai fini delle presenti norme, a quelli diocesani.
La Conferenza episcopale italiana erige, entro lo stesso termine, l’Istituto centrale per il sostentamento del clero, che ha il fine di integrare le risorse degli Istituti di cui ai commi precedenti.
22. L’Istituto centrale e gli altri Istituti per il sostentamento del clero acquistano la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’interno, che conferisce ad essi la qualifica di ente ecclesia- stico civilmente riconosciuto.
Il decreto è emanato entro sessanta giorni dalla data di ricezione dei relativi provve- dimenti canonici.
La procedura di cui ai commi precedenti si applica anche al riconoscimento civile dei decreti canonici di fusione di Istituti diocesani o di separazione di Istituti a carat- tere interdiocesano emanati entro il 30 settembre 1989.
23. Lo statuto di ciascun Istituto per il sostentamento del clero è emanato dal Ve- scovo diocesano in conformità alle disposizioni della Conferenza episcopale italiana.
In ogni caso, almeno un terzo dei membri del consiglio di amministrazione di cia- scun Istituto è composto da rappresentanti designati dal clero diocesano su base elettiva.
24. Dal 1° gennaio 1987 ogni Istituto provvede, in conformità allo statuto, ad assi- curare, nella misura periodicamente determinata dalla Conferenza episcopale ita- liana, il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della diocesi, salvo quanto previsto dall’articolo 51.
Si intende per servizio svolto in favore della diocesi, ai sensi del canone 1274, para- grafo 1, del codice di diritto canonico, l’esercizio del ministero come definito nelle disposizioni emanate dalla Conferenza episcopale italiana.
I sacerdoti che svolgono tale servizio hanno diritto a ricevere la remunerazione per il proprio sostentamento, nella misura indicata nel primo comma, da parte degli en- ti di cui agli articoli 33, lettera a) e 34, primo comma, per quanto da ciascuno di es- si dovuto.
25. La remunerazione di cui agli articoli 24, 33, lettera a) e 34 è equiparata, ai soli fini fiscali, al reddito da lavoro dipendente.
L’Istituto centrale opera, su tale remunerazione, le ritenute fiscali e versa anche, per i sacerdoti che vi siano tenuti, i contributi previdenziali e assistenziali previsti dalle leggi vigenti.
26. Gli istituti religiosi, le loro province e case civilmente riconosciuti, possono, per ciascuno dei propri membri che presti continuativamente opera in attività commer- ciali svolte dall’ente, dedurre, ai fini della determinazione del reddito di impresa, se inerente alla sua produzione e in sostituzione degli altri costi e oneri relativi alla pre- stazione d’opera, ad eccezione di quelli previdenziali, un importo pari all’ammonta- re del limite minimo annuo previsto per le pensioni corrisposte dal Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dell’Istituto nazionale di previdenza sociale.
Con decreto del Ministro delle finanze è determinata la documentazione necessaria per il riconoscimento di tali deduzioni.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano dal periodo di imposta suc- cessivo a quello di entrata in vigore delle presenti norme.
27. L’Istituto centrale e gli altri Istituti per il sostentamento del clero possono svol- xxxx anche funzioni previdenziali integrative autonome per il clero.
Gli Istituti diocesani destinano, in conformità ad apposite norme statutarie, una quo- ta delle proprie risorse per sovvenire alle necessità che si manifestino nei casi di abbandono della vita ecclesiastica da parte di coloro che non abbiano altre fonti sufficienti di reddito.
28. Con il decreto di erezione di ciascun Istituto sono contestualmente estinti la mensa vescovile, i benefici capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque de- nominati, esistenti nella diocesi, e i loro patrimoni sono trasferiti di diritto all’Istituto stesso, restando peraltro estinti i diritti attribuiti ai beneficiari dal canone 1473 del codice di diritto canonico del 1917.
Con il decreto predetto o con decreto integrativo sono elencati i benefici estinti a norma del comma precedente.
Il riconoscimento civile dei provvedimenti canonici di cui ai commi precedenti avvie- ne con le modalità e nei termini previsti dall’articolo 22.
L’Istituto succede ai benefici estinti in tutti i rapporti attivi e passivi.
29. Con provvedimenti dell’autorità ecclesiastica competente, vengono determi- nate entro il 30 settembre 1986, la sede e la denominazione delle diocesi e delle parrocchie costituite nell’ordinamento canonico.
Tali enti acquistano la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’interno che conferisce alle singole diocesi e parrocchie la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Il decreto è emanato entro sessanta giorni dalla data di ricezione dei relativi provve- dimenti canonici.
Con provvedimenti del Vescovo diocesano gli edifici di culto, gli episcopi, le case canoniche, gli immobili adibiti ad attività educative o caritative o ad altre attività pa- storali, i beni destinati interamente all’adempimento di oneri di culto ed ogni altro bene o attività che non fa parte della dote redditizia del beneficio, trasferiti all’Istitu- to a norma dell’articolo 28, sono individuati e assegnati a diocesi, parrocchie e capi- toli non soppressi.
30. Con l’acquisto, da parte della parrocchia, della personalità giuridica a norma dell’articolo 29, si estingue, ove esistente, la personalità giuridica della chiesa par- rocchiale e il suo patrimonio è trasferito di diritto alla parrocchia, che succede al- l’ente estinto in tutti i rapporti attivi e passivi.
Con il provvedimento di cui al primo comma dell’articolo 29, l’autorità ecclesiastica competente comunica anche l’elenco delle chiese parrocchiali estinte.
Tali enti perdono la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gaz- zetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’interno, che priva le singole chiese par- rocchiali della qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Il decreto è emanato entro sessanta giorni dalla data di ricezione dei relativi provve- dimenti canonici.
Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche all’estinzione di chiese cattedrali e al trasferimento dei loro patrimoni alle rispettive diocesi qualora la auto- xxxx ecclesiastica adotti i relativi provvedimenti canonici.
31. Fino al 31 dicembre 1989 i trasferimenti di cui agli articoli 22, terzo comma, 28, 29, 30 e tutti gli atti e adempimenti necessari a norma di legge sono esenti da ogni tributo e onere.
Le trascrizioni e le volture catastali relative ai trasferimenti previsti dagli articoli 29 e 30 avvengono sulla base dei decreti ministeriali di cui ai medesimi articoli senza necessità di ulteriori atti o documentazioni, salve, per le iscrizioni tavolari, le indica- zioni previste dalle leggi vigenti in materia.
Nelle diocesi per il cui territorio vige il catasto con il sistema tavolare, i decreti di cui all’articolo 28 possono provvedere alla ripartizione dei beni immobili degli enti estin- ti tra l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero e gli altri enti indicati nell’arti- colo 29, ultimo comma, che ad essi succedono.
Analogamente si procede per i trasferimenti di cui agli articoli 55 e 69.
32. Le liberalità disposte con atto anteriore al 1° luglio 1987 a favore di un benefi- cio ecclesiastico sono devolute all’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, qualora la successione si apra dopo l’estinzione del beneficio o la donazione non sia stata da questo accettata prima dell’estinzione.
Analogamente le liberalità disposte a favore di una chiesa parrocchiale o cattedrale sono devolute rispettivamente alla parrocchia o diocesi che ad essa succede a nor- ma dell’articolo 30.
33. I sacerdoti di cui all’articolo 24 comunicano annualmente all’Istituto diocesano per il sostentamento del clero:
a) la remunerazione che, secondo le norme stabilite dal Vescovo diocesano, senti- to il Consiglio presbiterale, ricevono dagli enti ecclesiastici presso i quali eserci- tano il ministero;
b) gli stipendi eventualmente ad essi corrisposti da altri soggetti.
34. L’Istituto verifica, per ciascun sacerdote, i dati ricevuti a norma dell’articolo 33. Qualora la somma dei proventi di cui al medesimo articolo non raggiunga la misura determinata dalla Conferenza episcopale italiana a norma dell’articolo 24, primo comma, l’Istituto stabilisce la integrazione spettante, dandone comunicazione all’in- teressato.
La Conferenza episcopale italiana stabilisce procedure accelerate di composizione o di ricorso contro i provvedimenti dell’Istituto. Tali procedure devono assicurare un’adeguata rappresentanza del clero negli organi competenti per la composizione o la definizione dei ricorsi.
Contro le decisioni di tali organi sono ammessi il ricorso gerarchico al Vescovo dio- cesano e gli ulteriori rimedi previsti dal diritto canonico.
I ricorsi non hanno effetto sospensivo, salvo il disposto del canone 1737, paragrafo 3, del codice di diritto canonico.
35. Gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero provvedono all’integrazione di cui all’articolo 34 con i redditi del proprio patrimonio.
Qualora tali redditi risultino insufficienti, gli Istituti richiedono all’Istituto centrale la somma residua necessaria ad assicurare ad ogni sacerdote la remunerazione nella misura stabilita.
Parte degli eventuali avanzi di gestione è versata all’Istituto centrale nella misura periodicamente stabilita dalla Conferenza episcopale italiana.
36. Per le alienazioni e per gli altri negozi di cui al canone 1295 del codice di dirit- to canonico, di valore almeno tre volte superiore a quello massimo stabilito dalla Conferenza episcopale italiana ai sensi del canone 1292, paragrafi 1 e 2, l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero dovrà produrre alla Santa Sede il parere della Conferenza episcopale italiana ai fini della prescritta autorizzazione.
37. L’Istituto per il sostentamento del clero che intende vendere, a soggetti diversi da quelli indicati nel terzo comma, un immobile per un prezzo superiore a lire 1.500 milioni, deve darne, con atto notificato, comunicazione al Prefetto della provincia nella quale è ubicato l’immobile, dichiarando il prezzo e specificando le modalità di pagamento e le altre condizioni essenziali alle quali la vendita dovrebbe essere conclusa.
Entro sei mesi dalla ricezione della proposta, il Prefetto comunica all’Istituto, con at- to notificato, se e quale ente tra quelli indicati al successivo comma intende acqui- stare il bene per le proprie finalità istituzionali, alle condizioni previste nella propo- sta di vendita, trasmettendo contestualmente copia autentica della deliberazione di acquisto alle medesime condizioni da parte dell’ente pubblico.
Il Prefetto, nel caso di più enti interessati all’acquisto, sceglie secondo il seguente ordine di priorità: Stato, comune, università degli studi, regione, provincia.
Il relativo contratto di vendita è stipulato entro due mesi dalla notifica della comuni- cazione di cui al secondo comma.
Il pagamento del prezzo, qualora acquirente sia un ente pubblico diverso dallo Sta-
to, deve avvenire entro due mesi dalla stipulazione del contratto, salva diversa pat- tuizione.
Qualora acquirente sia lo Stato, il prezzo di vendita deve essere pagato, salva di- versa pattuizione, nella misura del quaranta per cento entro due mesi dalla data di registrazione del decreto di approvazione del contratto, e, per la parte residua, en- tro quattro mesi da tale data.
Le somme pagate dall’acquirente oltre tre mesi dalla notificazione di cui al secondo xxxxx, sono rivalutate, salva diversa pattuizione, a norma dell’articolo 38.
Qualora la comunicazione di cui al secondo comma non sia notificata entro il termi- ne di decadenza ivi previsto, l’Istituto può vendere liberamente l’immobile a prezzo non inferiore e a condizioni non diverse rispetto a quelli comunicati al Prefetto.
Il contratto di vendita stipulato in violazione dell’obbligo di cui al primo comma, ov- vero per un prezzo inferiore o a condizioni diverse rispetto a quelli comunicati al Prefetto, è nullo.
Le disposizioni precedenti non si applicano quando:
a) acquirente del bene sia un ente ecclesiastico;
b) esistano diritti di prelazione, sempre che i soggetti titolari li esercitino.
La comunicazione di cui al primo comma deve essere rinnovata qualora la vendita a soggetti diversi da quelli indicati al terzo comma avvenga dopo tre anni dalla data di notificazione.
38. Le somme di cui al primo e settimo comma dell’articolo precedente sono riva- lutate in misura pari alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati verificatasi:
a) nel caso del primo comma, tra il mese precedente l’entrata in vigore delle pre- senti norme e quello di comunicazione della proposta;
b) nel caso del settimo comma, tra il mese precedente il termine ivi indicato e quel- lo del pagamento.
39. L’Istituto centrale per il sostentamento del clero è amministrato da un consi- glio composto per almeno un terzo dei suoi membri da rappresentanti designati dal clero secondo modalità che verranno stabilite dalla Conferenza episcopale ita- liana.
Il presidente e gli altri componenti sono designati dalla Conferenza episcopale ita- liana.
40. Le entrate dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero sono costituite principalmente dalle oblazioni versate a norma dell’articolo 46 e dalle somme di cui all’articolo 41, secondo comma.
41. La Conferenza episcopale italiana determina annualmente le destinazioni del- le somme ricevute ai sensi dell’articolo 47 nell’ambito delle sole finalità previste dal- l’articolo 48.
Le somme che la Conferenza episcopale italiana destina al sostentamento del cle- ro sono trasferite all’Istituto centrale.
42. Ogni Istituto per il sostentamento del clero, prima dell’inizio di ciascun eserci- zio, comunica all’Istituto centrale il proprio stato di previsione, corredato dalla ri- chiesta di integrazione di cui all’articolo 35, secondo comma.
L’Istituto centrale, verificati i dati dello stato di previsione, provvede alle erogazioni necessarie.
43. Ogni Istituto per il sostentamento del clero, alla chiusura di ciascun esercizio, invia all’Istituto centrale una relazione consuntiva, nella quale devono essere indi- cati in particolare i criteri e le modalità di corresponsione ai singoli sacerdoti delle somme ricevute a norma dell’articolo 35.
44. La Conferenza episcopale italiana trasmette annualmente all’autorità statale competente un rendiconto relativo alla effettiva utilizzazione delle somme di cui agli articoli 46, 47 e 50, terzo comma, e lo pubblica sull’organo ufficiale della stessa Conferenza.
Tale rendiconto deve comunque precisare:
a) il numero dei sacerdoti che svolgono servizio in favore delle diocesi;
b) la somma stabilita dalla Conferenza per il loro dignitoso sostentamento;
c) l’ammontare complessivo delle somme di cui agli articoli 46 e 47 destinate al so- stentamento del clero;
d) il numero dei sacerdoti a cui con tali somme è stata assicurata l’intera remune- razione;
e) il numero dei sacerdoti a cui con tali somme è stata assicurata una integrazione;
f) l’ammontare delle ritenute fiscali e dei versamenti previdenziali e assistenziali operati ai sensi dell’articolo 25;
g) gli interventi finanziari dell’Istituto centrale a favore dei singoli Istituti per il so- stentamento del clero;
h) gli interventi operati per le altre finalità previste dall’articolo 48.
La Conferenza episcopale italiana provvede a diffondere adeguata informazione sul contenuto di tale rendiconto e sugli scopi ai quali ha destinato le somme di cui all’articolo 47.
45. Le disposizioni vigenti in materia di imposta comunale sull’incremento di valo- re degli immobili appartenenti ai benefìci ecclesiastici si applicano agli immobili ap- partenenti agli Istituti per il sostentamento del clero
46. A decorrere dal periodo d’imposta 1989 le persone fisiche possono dedurre dal proprio reddito complessivo le erogazioni liberali in denaro, fino all’importo di li- re due milioni, a favore dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero della Chiesa cattolica italiana.
Le relative modalità sono determinate con decreto del Ministro delle finanze.
47. Le somme da corrispondere a far tempo dal 1° gennaio 1987 e sino a tutto il 1989 alla Conferenza episcopale italiana e al Fondo edifici di culto in forza delle presenti norme sono iscritte in appositi capitoli dello stato di previsione del Ministe- ro del tesoro, verso contestuale soppressione del capitolo n. 4493 del medesimo stato di previsione, dei capitoli n. 2001, n. 2002, n. 2031 e n. 2071 dello stato di pre- visione del Ministero dell’interno, nonché del capitolo n. 7871 dello stato di previsio- ne del Ministero dei lavori pubblici.
A decorrere dall’anno finanziario 1990 una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali, è destinata, in parte, a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica.
Le destinazioni di cui al comma precedente vengono stabilite sulla base delle scel- te espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi. In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in pro-
porzione alle scelte espresse.
Per gli anni finanziari 1990, 1991 e 1992 lo Stato corrisponde, entro il mese di mar- zo di ciascun anno, alla Conferenza episcopale italiana, a titolo di anticipo e salvo conguaglio complessivo entro il mese di giugno 1996, una somma pari al contributo alla stessa corrisposto nell’anno 1989, a norma dell’articolo 50.
A decorrere dall’anno finanziario 1993, lo Stato corrisponde annualmente, entro il mese di giugno, alla Conferenza episcopale italiana, a titolo di anticipo e salvo con- guaglio entro il mese di gennaio del terzo periodo d’imposta successivo, una somma calcolata sull’importo liquidato dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali relati- ve al terzo periodo d’imposta precedente con destinazione alla Chiesa cattolica.
48. Le quote di cui all’articolo 47, secondo comma, sono utilizzate: dallo Stato per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali; dalla Chiesa cattolica per esigenze di culto della po- polazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività na- zionale o di paesi del terzo mondo.
49. Al termine di ogni triennio successivo al 1989, una apposita commissione pari- tetica, nominata dall’autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell’importo deducibile di cui all’articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all’articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche.
50. I contributi e concorsi nelle spese a favore delle Amministrazioni del Fondo per il culto e del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma di cui al capi- tolo n. 4493 dello stato di previsione del Ministero del tesoro per l’anno finanziario 1984, gli assegni al personale ecclesiastico ex palatino, le spese concernenti l’in- ventario degli stati patrimoniali degli istituti ecclesiastici e il contributo per integrare i redditi dei Patrimoni riuniti ex economali destinati a sovvenire il clero particolar- mente benemerito e bisognoso e a favorire scopi di culto, di beneficenza e di istru- zione, iscritti, rispettivamente, ai capitoli n. 2001, n. 2002, n. 2031 e n. 2071 dello stato di previsione del Ministero dell’interno per l’anno finanziario 1984, nonché le spese di concorso dello Stato nella costruzione e ricostruzione di chiese di cui al capitolo n. 7871 dello stato di previsione del Ministero dei lavori pubblici per l’anno finanziario 1984, sono corrisposti, per gli anni finanziari 1985 e 1986, negli stessi importi risultanti dalle previsioni finali dei predetti capitoli per l’anno 1984, al netto di eventuali riassegnazioni per il pagamento di residui passivi perenti. Lo stanziamen- to del suddetto capitolo n. 4493 dello stato di previsione del Ministero del tesoro sa- rà comunque integrato dell’importo necessario per assicurare negli anni 1985 e 1986 le maggiorazioni conseguenti alle variazioni dell’indennità integrativa specia- le, di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324 , e successive modificazioni e integra- zioni, che si registreranno negli anni medesimi.
Per gli anni 1985 e 1986 i suddetti contributi, concorsi, assegni e spese continuano ad essere corrisposti nelle misure di cui al comma precedente, rispettivamente alle Amministrazioni del Fondo per il culto, del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma e dei Patrimoni riuniti ex economali, nonché al Ministero dei lavori pubblici per la costruzione e la ricostruzione di chiese.
Per ciascuno degli anni 1987, 1988 e 1989 gli stessi contributi, concorsi, assegni e spese, aumentati del 5 per cento, rispetto all’importo dell’anno precedente, sono in- vece corrisposti alla Conferenza episcopale italiana, ad eccezione della somma di lire 3.500 milioni annui che verrà corrisposta, a decorrere dall’anno 1987, al Fondo
edifici di culto di cui all’articolo 55 delle presenti norme.
Le erogazioni alla Conferenza episcopale italiana, da effettuarsi in unica soluzione entro il 20 gennaio di ciascun anno, avvengono secondo modalità che sono deter- minate con decreto del Ministro del tesoro. Tali modalità devono, comunque, con- sentire l’adempimento degli obblighi di cui al successivo articolo 51 e il finanzia- mento dell’attività per il sostentamento del clero dell’Istituto di cui all’articolo 21, ter- zo comma.
Resta a carico del bilancio dello Stato il pagamento delle residue annualità dei limi- ti di impegno iscritti, sino a tutto l’anno finanziario 1984, sul capitolo n. 7872 dello stato di previsione del Ministero dei lavori pubblici.
51. Le disposizioni di cui al regio decreto 29 gennaio 1931, n. 227 , e successive modifiche e integrazioni, sono abrogate dal 1° gennaio 1985, salvo quanto stabilito nel precedente articolo 50.
Le somme liquidate per l’anno 1984 a titolo di supplemento di congrua, onorari e spese di culto continuano ad essere corrisposte, in favore dei medesimi titolari, nel medesimo ammontare e con il medesimo regime fiscale, previdenziale e assisten- ziale per il periodo 1° gennaio 1985-31 dicembre 1986, aumentate delle maggiora- zioni di cui al primo comma del precedente articolo 50 conseguenti alle variazioni dell’indennità integrativa speciale per gli anni 1985 e 1986. Il pagamento viene ef- fettuato in rate mensili posticipate con cadenza il giorno 25 di ciascun mese e il giorno 20 del mese di dicembre.
L’Ordinario diocesano, in caso di mutamenti della titolarità o di estinzione di uffici ecclesiastici, chiede al Prefetto della provincia competente per territorio la modifica della intestazione dei relativi titoli di spesa in favore di altro sacerdote che svolga servizio per la diocesi.
Per gli anni 1987, 1988 e 1989 la Conferenza episcopale italiana assume, in con- formità al titolo II delle presenti norme, tutti gli impegni e oneri ai quali facevano fronte i contributi e concorsi che vengono ad essa corrisposti ai sensi dell’articolo 50, terzo comma; assicurando in particolare la remunerazione dei titolari degli uffici ecclesiastici congruati.
Nei medesimi anni potrà essere avviato il nuovo sistema di sostentamento del clero anche per gli altri sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi, a norma dell’articolo 24.
Dal 1° gennaio 1990 le disposizioni del titolo II delle presenti norme si applicano, comunque, a tutti i sacerdoti che svolgono servizio in favore della diocesi.
52. Lo Stato continua ad esercitare fino al 31 dicembre 1986 la tutela per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione dei benefici ecclesiastici.
Dal 1° gennaio 1987 e fino al 31 dicembre 1989, i benefici eventualmente ancora esistenti non possono effettuare alienazioni di beni e altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza i provvedimenti canonici di autorizzazione. I contratti di ven- dita devono contenere gli estremi di tale autorizzazione, che determina anche le modalità di reimpiego delle somme ricavate.
53. Gli impegni finanziari per la costruzione di edifici di culto cattolico e delle perti- nenti opere parrocchiali sono determinati dalle autorità civili competenti secondo le disposizioni delle leggi 22 ottobre 1971, n. 865 , e 28 gennaio 1977, n. 10 , e suc- cessive modificazioni.
Gli edifici di culto e le pertinenti opere parrocchiali di cui al primo comma, costruiti con contributi regionali e comunali, non possono essere sottratti alla loro destina-
zione, neppure per effetto di alienazione, se non sono decorsi venti anni dalla ero- gazione del contributo.
Il vincolo è trascritto nei registri immobiliari. Esso può essere estinto prima del com- pimento del termine, d’intesa tra autorità ecclesiastica e autorità civile erogante, previa restituzione delle somme percepite a titolo di contributo, in proporzione alla riduzione del termine, e con rivalutazione determinata con le modalità di cui all’arti- colo 38.
Gli atti e i negozi che comportino violazione del vincolo sono nulli.
TITOLO III
Fondo edifici di culto
54. Il Fondo per il culto e il Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma sono soppressi dal 1° gennaio 1987.
Dalla stessa data sono soppresse anche le Aziende speciali di culto destinate, sot- to varie denominazioni, a scopi di culto, di beneficenza e di religione, attualmente gestite dalle Prefetture della Repubblica.
Fino a tale data i predetti Fondi e Aziende continuano ad essere regolati dalle dis- posizioni vigenti.
55. Il patrimonio degli ex economati dei benefici vacanti e dei fondi di religione di cui all’articolo 18 della legge 27 maggio 1929, n. 848 , del Fondo per il culto, del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma e delle Aziende speciali di cul- to, denominate Fondo clero veneto - gestione clero curato, Fondo clero veneto - gestione grande cartella, Azienda speciale di culto della Toscana, Patrimonio eccle- siastico di Grosseto, è riunito dal 1° gennaio, 1987 in patrimonio unico con la deno- minazione di Fondo edifici di culto.
Il Fondo edifici di culto succede in tutti i rapporti attivi e passivi degli enti, aziende e patrimoni predetti.
56. Il Fondo edifici di culto ha personalità giuridica ed è amministrato in base alle norme che regolano le gestioni patrimoniali dello Stato con i privilegi, le esenzioni e le agevolazioni fiscali ad esse riconosciuti.
57. L’amministrazione del Fondo edifici di culto è affidata al Ministero dell’interno, che la esercita a mezzo della Direzione generale degli affari dei culti e, nell’ambito provinciale, a mezzo dei prefetti.
Il Ministro dell’interno ha la rappresentanza giuridica del Fondo.
Il Ministro è coadiuvato da un consiglio di amministrazione, nominato su sua propo- sta dal Presidente della Repubblica, e composto da:
– il Presidente, designato dal Ministro dell’interno;
– il Direttore generale degli affari dei culti;
– 2 componenti designati dal Ministro dell’interno;
– 1 componente designato dal Ministro dei lavori pubblici;
– 1 componente designato dal Ministro per i beni culturali e ambientali;
– 3 componenti designati dalla Conferenza episcopale italiana.
Le attribuzioni del consiglio di amministrazione sono determinate con apposito re- golamento.
58. I proventi del patrimonio del Fondo edifici di culto, integrati nella misura di cui
al terzo comma dell’articolo 50, sono utilizzati per la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto appartenenti al Fondo, nonché per gli altri oneri posti a carico del Fondo stesso.
La progettazione e l’esecuzione delle relative opere edilizie sono affidate, salve le competenze del Ministero per i beni culturali e ambientali, al Ministero dei lavori pubblici.
59. Il bilancio preventivo e quello consuntivo del Fondo edifici di culto sono sotto- posti all’approvazione del Parlamento in allegato, rispettivamente, allo stato di pre- visione e al consuntivo del Ministero dell’interno.
60. Sono estinti, dal 1° gennaio 1987, i rapporti perpetui reali e personali in forza dei quali il Fondo edifici di culto, quale successore dei Fondi soppressi di cui al pre- cedente articolo 54 e dei patrimoni di cui all’articolo 55, ha diritto di riscuotere xxxx- ni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate di ammontare non superiore a lire sessantamila annue.
L’equivalente in denaro delle prestazioni in derrate è determinato con i criteri di cui all’articolo 1, secondo comma , della legge 22 luglio 1966, n. 607 .
Gli uffici percettori chiudono le relative partite contabili, senza oneri per i debitori, dandone comunicazione agli obbligati e agli uffici interessati.
61. Il Fondo edifici di culto, con effetto dal 1° gennaio 1987, affranca i canoni enfi- teutici perpetui o temporanei la cui spesa grava sui bilanci dei Fondi, delle aziende e dei patrimoni soppressi di cui agli articoli 54 e 55, mediante il pagamento di una somma corrispondente a quindici volte il loro valore.
L’equivalente in denaro delle prestazioni in derrate è determinato con i criteri di cui all’articolo 1, secondo comma, della legge 22 luglio 1966, n. 607 .
62. I contratti di locazione di immobili siti in Roma, Trento e Trieste a vantaggio del clero officiante, il cui onere grava sui bilanci del Fondo di beneficenza e religione nella città di Roma e dei Patrimoni riuniti ex economali, sono risolti a decorrere dal 1° gennaio 1987, salva la facoltà degli attuali beneficiari di succedere nei relativi contratti assumendone gli oneri.
In tali casi ad essi è liquidata una somma pari a cinque volte il canone annuo corri- sposto aumentato del dieci per cento a titolo di contributo per le spese di volturazio- ne e registrazione dei contratti.
63. L’affrancazione di tutte le altre prestazioni che gravano sui Fondi, aziende e patrimoni soppressi, di cui agli articoli 54 e 55, sotto qualsiasi forma determinate, si effettua mediante il pagamento di una somma pari a dieci volte la misura delle pre- stazioni stesse.
64. I soggetti, nei cui confronti si procede alle affrancazioni previste dagli articoli precedenti, devono comunicare, entro trenta giorni dalla notifica del relativo provve- dimento, l’eventuale rifiuto dell’indennizzo.
In caso di rifiuto si applica il procedimento di cui agli articoli 2 e seguenti della legge 22 luglio 1966, n. 607 .
65. Il Fondo edifici di culto può alienare gli immobili adibiti ad uso di civile abitazio- ne secondo le norme che disciplinano la gestione dei beni disponibili dello Stato e degli enti ad esso assimilati, investendo il ricavato in deroga all’articolo 21 del de- creto del Presidente della Repubblica 17 gennaio 1959, n. 2 .
TITOLO IV
Disposizioni finali
66. Il clero addetto alle chiese della Santa Sindone e di Superga in Torino, del Pantheon e del Sudario in Roma, alle cappelle annesse ai palazzi ex reali di Roma, Torino, Firenze, Napoli, Genova, alla tenuta di San Rossore, all’oratorio entro il pa- lazzo ex reale di Venezia, alle cappelle annesse ai palazzi di dimora e di villeggiatu- ra degli ex sovrani e dell’ex famiglia reale e alle chiese parrocchiali di San Gottardo al palazzo in Milano, di San Xxxxxxxxx xx Xxxxx in Napoli e di San Xxxxxx in Paler- mo, è nominato liberamente, secondo il diritto canonico comune, dalla autorità ec- clesiastica competente.
67. Al clero di cui all’articolo 66 in servizio al momento della entrata in vigore delle presenti norme viene conservato, a titolo di assegno vitalizio personale, l’emolu- mento di cui attualmente fruisce, rivalutabile nella stessa misura percentuale previ- sta per i dipendenti dello Stato dal relativo accordo triennale.
I salariati addetti alla Basilica di San Xxxxxxxxx xx Xxxxx in Napoli alla data del 1° luglio 1984, e che continuino nelle proprie mansioni alla data di entrata in vigore delle presenti norme, sono mantenuti in servizio.
68. Le chiese, le cappelle e l’oratorio di cui all’articolo 66 continuano ad apparte- nere agli enti che ne sono attualmente proprietari.
69. I patrimoni della Basilica di San Xxxxxxxxx xx Xxxxx in Napoli, della cappella di San Xxxxxx nel palazzo ex reale di Palermo e della chiesa di San Gottardo annessa al palazzo ex reale di Milano sono trasferiti, con i relativi oneri, al Fondo edifici di culto.
70. Le spese conseguenti all’attuazione degli articoli 67 e 69 gravano sul bilancio del Fondo edifici di culto, eccetto quelle attualmente a carico del bilancio della Pre- sidenza della Repubblica.
71. Le confraternite non aventi scopo esclusivo o prevalente di culto continuano ad essere disciplinate dalla legge dello Stato, salva la competenza dell’autorità ec- clesiastica per quanto riguarda le attività dirette a scopi di culto.
Per le confraternite esistenti al 7 giugno 1929, per le quali non sia stato ancora emanato il decreto previsto dal primo comma dell’articolo 77 del regolamento ap- provato con regio decreto 2 dicembre 1929, n. 2262 , restano in vigore le disposi- zioni del medesimo articolo.
72. Le fabbricerie esistenti continuano ad essere disciplinate dagli articoli 15 e 16 della legge 27 maggio 1929, n. 848 , e dalle altre disposizioni che le riguardano. Gli articoli da 33 a 51 e l’articolo 55 del regolamento approvato con regio decreto 2 di- cembre 1929, n. 2262 , nonché il regio decreto 26 settembre 1935, numero 2032, e successive modificazioni, restano applicabili fino all’entrata in vigore delle disposi- zioni per l’attuazione delle presenti norme.
Entro il 31 dicembre 1989, previa intesa tra la Conferenza episcopale italiana e il Ministro dell’interno, con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato, può essere disposta la soppressione di fabbricerie anche fuori dei casi previsti dalle disposizioni vigenti, ferma restando la destinazione dei beni a norma dell’articolo 1 del regio decreto 26 settembre 1935, n. 2032.
73. Le cessioni e ripartizioni previste dall’articolo 27 del Concordato dell’11 feb- braio 1929 e dagli articoli 6, 7 e 8 della legge 27 maggio 1929, n. 848 , in quanto non siano state ancora eseguite, continuano ad essere disciplinate dalle disposizio- ni vigenti.
74. Sono abrogate, se non espressamente richiamate, le disposizioni della legge 27 maggio 1929, n. 848 , e successive modificazioni, e delle leggi 18 dicembre 1952, n. 2522 , 18 aprile 1962, n. 168 , e successive modifiche e integrazioni, e le altre disposizioni legislative e regolamentari incompatibili con le presenti norme.
75. Le presenti norme entrano in vigore nell’ordinamento dello Stato e in quello della Chiesa con la contestuale pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repub- blica italiana e negli Acta Apostolicae Sedis.
L’autorità statale e l’autorità ecclesiastica competenti emanano, nei rispettivi ordi- namenti, le disposizioni per la loro attuazione.
Per le disposizioni di cui al precedente comma relative al titolo II delle presenti nor- me, l’autorità competente nell’ordinamento canonico è la Conferenza episcopale italiana.