Settore Concorsuale: 12/A1
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
DOTTORATO DI RICERCA
Scienze giuridiche Ciclo XXXI
Settore Concorsuale: 12/A1
Settore Scientifico Disciplinare: Diritto privato IUS/01
L’ABUSO DEL DIRITTO IN MATERIA CONTRATTUALE: AUTONOMIA DELLE PARTI ED EFFETTI CIVILISTICI DEI CONTRATTI
FISCALMENTE ABUSATI
Presentata da Xxxxxxxx xxx Xxxxxxxx
Coordinatore del Dottorato Supervisore
Xxxxxxxxxxx Professor Xxxxxxxxxxx Professoressa
Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Esame finale anno 2019
Abstract
Il lavoro di ricerca dà risposta ai seguenti quesiti. Ci si chiede se l’abuso del diritto esista e quali siano le sue radici; se si tratti di una figura autonoma; come possa essere catego- rizzato; quali siano, ad oggi, le sue positivizzazioni; se vi siano interconnessioni tra abuso del diritto tributario e civile e, soprattutto, quali siano gli effetti di un contratto fiscalmente abusato.
Nel capitolo I ci si sofferma sulla conformazione dell’abuso del diritto. Se ne ripercorre l’iter ricostruttivo partendo dalla figura romanistica dell’aemulatio, fino ad arrivare al divieto di abuso del diritto nel Code Napoleon e nel progetto preliminare al codice civile italiano del 1942. Viene analizzato il leading case in materia, il noto caso Renault del 2009, con cui la Suprema Corte ne individua gli elementi sintomatici, accostando l’abuso del diritto alla buona fede oggettiva. Emerge, negli ultimi anni, una tendenza: il giudice effettua un vero controllo sul contratto per valutare se le parti abbiano operato nel rispetto dei principi di buona fede, lealtà e correttezza. Si procede a individuarne gli aspetti critici. A questo punto è indagato il fenomeno che ha generato l’idea ‘costituente’ del lavoro di ricerca: lo sviluppo dell’abuso del diritto in campo tributario. Dall’analisi della Giuri- sprudenza, specialmente tributaria, emerge che l’abuso è confuso con: simulazione, frode alla legge ed evasione. Si cerca, quindi, di fare chiarezza ripercorrendo i tratti salienti dell’iter che ha condotto alla positivizzazione dell’abuso del diritto nel 10 bis dello Sta- tuto dei diritti del contribuente.
Nel capitolo II ci si domanda in che modo sia catalogabile l’abuso del diritto. La difficoltà di inquadramento è mostrata con l’analisi delle più emblematiche pronunce della S. C., sia in ambito civile che tributario.
Si passano in rassegna le differenze tra abuso del diritto e buona fede oggettiva e, altresì, i punti cardine del novellato art. 10 bis, evidenziando come, nonostante la positivizza- zione dell’istituto, permangono diverse incertezze.
Il capitolo III è dedicato al “panorama europeo”, in cui l’istituto ha avuto grande sviluppo. Si cerca di comprendere se, al livello comunitario, il divieto di abuso del diritto possa essere considerato un principio. Segue un parallelismo tra l’art. 54 della Carta di Nizza, il generale principio di divieto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia e l’art. 17 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo. Si indaga il rap- porto tra la “codificazione” europea e la giurisprudenza europea sull’abuso del diritto.
Ci si sofferma quindi sull’ordinamento tedesco. Allo stesso modo che nel codice civile italiano, infatti, anche nel BGB non vi è un’espressa codificazione dell’istituto ma, piut- tosto, vi è stata un’ampia interpretazione di alcune norme in particolare. Inoltre, la Ger- mania ha costituzionalizzato il divieto di abuso del diritto: ciò rappresenta una peculiarità assoluta tra gli Stati membri. Perciò, un’analisi comparata con l’ordinamento tedesco, che da sempre costituisce un esempio per gli ordinamenti continentali, ha suscitato interesse. Il capitolo IV riporta come oggetto di analisi i rimedi utilizzati nel tributario, per contra- stare l’abusivo e mette in luce le interconnessioni tra l’abuso tributario e quello civile. Viene analizzato l’art. 10 bis, soffermandosi sui presupposti al ricorrere dei quali si con- cretizza l’abuso. Si torna, poi, all’analisi degli orientamenti giurisprudenziali che avevano utilizzato strumenti di diritto civile per contrastare l’abuso tributario. Lo scopo è dimo- strare che quegli istituti del diritto civile, utilizzati dalla giurisprudenza tributaria in pas- sato, vanno oggi riletti per comprendere se i loro ambiti sono ricompresi nel 10 bis.
In conclusione, è stato elaborato un esempio concreto per mettere in luce che come emerge da un’attenta lettura della clausola, gli strumenti civili risultano “sussunti”; per questo, in alcuni casi, l’abuso tributario può essere sintomatico di un abuso civilistico e i rimedi, settoriali, propri del diritto tributario, non sono sempre sufficienti.
INDICE
INTRODUZIONE – Oggetto e scopo dell’indagine
1. L’abuso del diritto in materia contrattuale 1
2. L’interdisciplinarità del fenomeno 18
2.1. L’abuso nel diritto tributario 21
3. Lo svolgimento della ricerca 25
CAPITOLO I – Dall’aemulatio all'abuso del diritto contrattuale
Sezione I – Il definitivo superamento del principio qui suo iure utitur neminem laedit
Premessa introduttiva 27
1. Le radici dell’abuso del diritto: l’aemulatio 28
2. Il divieto nel Code Napoleon del 1804 e nel codice civile italiano del 1865 35
3. L’abuso del diritto nel progetto di codice xxxxx xxxxxxxx, nel progetto
preliminare al codice del 1942 e nei lavori dell’Assemblea costituente 43
4. Gli orientamenti della dottrina italiana 46
Sezione II – L’abuso come limite all’autonomia contrattuale delle parti
Premessa introduttiva 55
1. Abuso del diritto e buona fede oggettiva 56
2. Il “governo giudiziario dell’autonomia contrattuale” 61
Sezione III – Abuso del diritto e figure collaterali nell’interpretazione del diritto tributario
Premessa introduttiva 74
1. Dal diritto civile al diritto tributario: il caso Halifax 75
2. L’abuso del diritto a confronto con frode alla legge e simulazione 79
3. L’abuso del diritto e l’interposizione fittizia di persona 87
3.1. Ancora confusione su: evasione, abuso e interposizione soggettiva 88
CAPITOLO II – Le incertezze sull’abuso del diritto, tra il diritto civile e il diritto tributario
Sezione I – Gli orientamenti della giurisprudenza tributaria: tra il diritto civile e il diritto tributario
Premessa introduttiva 97
1. L’iter che ha condotto all’introduzione di una clausola generale antiabuso 98
2. L’esigenza di utilizzare strumenti propri del diritto civile:
il leading case del dividend washing 104
2.1. La Corte di Cassazione: di nuovo sull’utilizzo di
strumenti del diritto civile 112
2.2. Le ordinanze di rimessione del 2008 115
Sezione II – L’abuso e la codificazione di una clausola generale
Premessa introduttiva 119
1. I principi, le clausole generali e l’abuso del diritto 120
2. La mancanza di chiarezza della giurisprudenza 128
3. La clausola antiabuso nel diritto tributario e i consueti e
persistenti rischi di incertezza 134
3.1. Le applicazioni della giurisprudenza dopo l’introduzione
della clausola antiabuso 136
3.2. Il profilo di maggiore “divaricazione” tra il civile
e il tributario: quello rimediale 143
Sezione III – L’abuso del diritto, un diverso principio rispetto alla buona fede
Premessa introduttiva 146
1. L’incertezza permane anche – soprattutto – in ambito civilistico 146
2. L’abuso del diritto e la buona fede 150
3. L’abuso come dato caratterizzante l’esperienza giuridica odierna 159
CAPITOLO III – Il panorama europeo
Sezione I – Il divieto di abuso del diritto come fonte del diritto europeo
Premessa introduttiva 161
1. L’abuso del diritto, argomento centrale del XIX colloquio
del Consiglio europeo 162
2. I principi generali dell’Unione europea 169
3. Sulla terminologia della Corte di Giustizia: alcune critiche e riflessioni 173
4. Le applicazioni del divieto di abuso del diritto
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia 175
5. Il “test” sull’abuso del diritto 178
6. Il divieto di abuso del diritto: principio generale dell’Unione europea 184
Sezione II – Le positivizzazioni dell’abuso del diritto
Premessa introduttiva 189
1. L’art. 54 della Carta di Nizza e l’art. 18 della Costituzione tedesca 190
2. L’art. 54 della Carta di Nizza 194
2.1. L’art. 54 e l’art. 17 CEDU: analogie e differenze 195
2.2. L’art. 54 e la giurisprudenza europea sull’abuso del diritto 199
Sezione III – L’emblematica esperienza tedesca
Premessa introduttiva 205
1. Brevi note preliminari sul Bürgerliches Gesetzbuch 206
2. Il divieto di abuso nei lavori preparatori al codice civile tedesco 207
3. Lo sviluppo del principio, le riflessioni di Xxxxxxx 210
4. I Fallgruppen 212
4.1. Il divieto di venire contra factum proprium e la Verwirkung 213
5. L’abbandono del § 826 BGB 217
6. Il ruolo centrale del § 242 BGB 219
CAPITOLO IV– Gli effetti civilistici dei contratti fiscalmente abusati
Sezione I – L’indagine sul remedium utilizzato nel diritto tributario
Premessa introduttiva 222
1. L’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente 222
2. I rimedi civilistici utilizzati prima del 10 bis: la nullità
per mancanza di causa concreta 229
2.1. Violazione della buona fede oggettiva, violazione di norme
imperative, contratto concluso in frode alla legge ed exceptio doli 233
Sezione II – L’esigenza di un confronto
Premessa introduttiva 236
1. Le interconnessioni tra l’abuso del diritto civile e
l’abuso del diritto tributario 237
0.Xx rilevanza settoriale dell’art. 10 bis e la necessità di analizzare
autonomamente i profili civilistici dei contratti fiscalmente abusati 240
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 251
BIBLIOGRAFIA 260
SITOGRAFIA 288
INTRODUZIONE
OGGETTO E SCOPO DELL’INDAGINE
SOMMARIO: 1. L’abuso del diritto in materia contrattuale. 2. L’interdisciplinarità del fenomeno. 2.1. L’abuso nel diritto tributario. 3. Lo svolgimento della ricerca.
1. L’abuso del diritto in materia contrattuale
Il fenomeno dell’abuso del diritto è stato definito, autorevolmente, come un vero e proprio “universo in espansione”1. Si tratta di una figura che tende ad essere eterogenea e trasversale rispetto ai vari settori del diritto e ai diversi ordinamenti giuridici nazionali, tanto sfuggente da essere stata anche suggestivamente definita “un’araba fenice”2.
Nel nostro codice civile non esiste una norma specifica ed esplicitamente repressiva dell’abuso, né una norma che lo definisca. L’art. 7 del progetto preliminare al codice civile italiano del 1942 disponeva: «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto dall’ordinamento». Tuttavia, nella versione definitiva del codice è rimasta assente la previsione del divieto di abuso come regola di carattere generale.
La norma così formulata non superò il vaglio finale. I codificatori decisero di non inserire l’art. 7 per timore di creare un vulnus al principio della certezza del diritto. Secondo quest’ottica sarebbe stato introdotto nel nostro sistema uno strumento in grado di rimettere alla discrezionalità degli interpreti la valutazione relativa alla legittimità sostanziale dell’esercizio di qualsiasi tipo di diritto, al di là della sua formale spettanza al titolare.
Si potrebbe, quindi, affermare che nell’ordinamento italiano l’abuso del diritto sia una figura perlopiù di matrice pretoria e dottrinale, nata dall’elaborazione delle corti, di merito e di legittimità, e dagli autori che l’hanno analizzata.
1 XXXXXXX F., Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1/1985: 1 e ss.
2 ALPA G., I principi generali, in IUDICA-ZATTI (a cura di), Trattato di diritto privato, Xxxxxxx, Milano, 1993.
Ci si chiede dunque se, pur in assenza di una previsione normativa espressa, possa dirsi vigente nel nostro ordinamento un principio generale secondo il quale un diritto non può essere esercitato per finalità che eccedono i limiti stabiliti dalla legge.
D’altro canto, il legislatore preferì inserire nel codice vigente, e in talune leggi speciali, riferimenti linguistici o concettuali facenti evidente riferimento all’istituto dell’abuso (anche se implicitamente) e disposizioni specifiche con cui punire i comportamenti abusivi in relazione a determinate categorie di diritti.
Il principale problema relativo all’abuso del diritto è nel darne una definizione univoca. Infatti, tale tematica assume sul piano definitorio e formale, caratteristiche specifiche a seconda del contesto nel quale si inserisce, essendo molto spesso applicato e valorizzato in ambiti diversi ed eterogenei, con significati e risultati teorici anch’essi particolarmente differenti tra loro3.
Basti pensare all’abuso della personalità giuridica in ambito commerciale, all’abuso di posizione dominante nel diritto della concorrenza, all’abuso del processo4, piuttosto che alla terminologia utilizzata in settori del tutto peculiari quali il diritto penale5.
Fin dall’Ottocento la figura dell’abuso del diritto è stata connotata dalla sua difficile categorizzazione, ammesso che abbia effettivamente una qualche utilità darne una definizione sul piano formale6.
3 Sulle problematiche linguistiche legate all’abuso si x. XXXXXXX F., Le insidie del linguaggio giuridico. Saggi sulle metafore nel diritto, Il Mulino, Bologna, 2010; GENTILI A., Il diritto come discorso, in Iudica- Zatti (diretto da), Trattato di Diritto Privato, Xxxxxxx, Milano, 2013.
4 Sul tema si v. gli autorevoli contributi di XXXXXXX X., Elementi per una definizione di abuso del processo, in AA.VV., L’abuso del diritto, Cedam, Xxxxxx, 0000: 435 e ss.; Id., di recente, L’abuso del processo. Aspetti critici: 251 e ss., in XXXXXXXXX (a cura di), Abuso del diritto: significato e valore di una tecnica argomentativa in diversi settori dell’ordinamento, Xxx, Xxxxxx, 0000; SCARSELLI G., Sul c.d. abuso del processo, in AA.VV., L’abuso del processo, Atti del XXVIII Convegno Nazionale dell’Associazione ita- liana fra gli studiosi del processo civile, Bologna, 2012: 157 e ss.; Id., Sul c.d. Abuso del processo, in Riv. dir. proc., 6/2012: 148 e ss. Il tema si è particolarmente sviluppato a seguito di Cass., S.U. civ., n. 23726/2007, in tema di frazionamento del credito, nella quale è definita come abusiva la pratica di frazio- namento di un credito, nella fase giudiziale dell’adempimento, al fine essenzialmente, di scelta del giudice competente. La decisione è stata annotata da XXXXXXXX P., L’abuso del diritto (Una significativa rimedita- zione delle Sezioni Unite), in Corr. giur., 6/2008: 745 e ss.; si v., inoltre, la nota di XXXXXXXX A. e PARDO- LESI R., Frazionabilità del credito e buona fede flessibile, in Xxxx.xx, 1/2008: 514 e ss.
5 Si pensi, ad esempio, all'abuso del minore.
6 A corroborare tale affermazione si richiamano: la figura dell’araba fenice utilizzata da Xxxx per descrivere l’abuso del diritto e l’altresì suggestiva definizione fornitaci da Xxxxxxx secondo cui l’abuso del diritto costituisce un vero e proprio universo in espansione, alle quali si è fatto riferimento supra (si v. retro, nota 1 e 2).
Probabilmente, questa difficoltà è stata ravvisata, in primis, nella natura contraddittoria della formula stessa “abuso del diritto”: la parola ‘abuso’ deriva dal latino abūti che significa utilizzo eccessivo del diritto di cui si è titolari.
Per questo, da alcuni l’espressione è stata considerata come un vero e proprio ossimoro7, in cui con ‘diritto’ ci si riferisce ad un diritto soggettivo da intendere come libertà garantita a un individuo da parte di una norma giuridica, cui corrisponde il potere di volontà e di azione riconosciuto dalla norma stessa al titolare nei confronti di uno, alcuni o tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Contrariamente, quando si parla di “abuso” del diritto si afferma che l’esercizio della libertà garantita in capo ad un soggetto dalla norma stessa, di esercitare il potere accordatogli dalla legge, possa dar luogo a responsabilità.
In tal modo, un atto di per sé lecito – l’esercizio di un diritto – diviene fonte di responsabilità per colui che lo esercita, pur essendone formalmente il titolare.
Si può certamente affermare che il divieto di abuso del diritto è un tema saliente8, da sempre al centro di un vivacissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale e ancora oggi di grande attualità.
Nella cultura giuridica degli anni Trenta la figura dell’abuso del diritto non rappresentava uno strumento giuridico, quanto piuttosto un concetto di natura etico-mo- rale, con la conseguenza che l’autore dell’abuso veniva considerato meritevole di bia- simo e di rimprovero sociale, ma non vi era alcun rilievo giuridico dal momento che il fenomeno dell’abuso del diritto non aveva alcuna rilevanza al livello di categoria giuri- dica9. In tal modo si voleva rivendicare l’impossibilità logica di concepire l’abuso del diritto. Affermava autorevole dottrina: «quel giorno che il diritto intervenga a discipli- nare un caso concreto di abuso, l’abuso sfuma, sguscia come Proteo alle mani degli in- seguitori e non resta che la sanzione giuridica positiva, l’atto lecito o illecito»10.
7 XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1/1965: 205 e ss., ora in L’abuso del diritto, Bologna, il Mulino, 1998: 13.
8Sul punto si v. anche XXXXXX U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958: 18 ss.
9 Sul punto si v. l’autorevole contributo di XXXXXXX M., L’abuso del diritto, Tesi di laurea presentata all’Università di Pavia nel 1922 e pubblicata in Riv. dir. civ., 1923: 105 e ss.
10 ROTONDI M., L’abuso del diritto, “aemulatio”, Cedam, Xxxxxx, 0000: 24. Secondo l’A. l’abuso del di- ritto «è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, è ciò per la contrad- dizion che nol consente».
Successivamente furono sollevate ulteriori perplessità. La dottrina si focalizzò sul legame funzionale stabilito tra la nozione di abuso del diritto e gli standard valutativi tratti dall’etica sociale, che porterebbero ad accostarlo, o a sovrapporlo, a concetti come quello di buona fede, della quale, infatti, anche voce assai autorevole ha ritenuto rappre- senti un doppione11 e niente più che «un mezzo sicuro ed originale per ottenere un criterio di giudizio più appagante, per la nostra coscienza, di quanto non sia il criterio della legit- timità formale degli atti umani»12.
Molti hanno inoltre evidenziato la rilevanza dell’istituto quale strumento che va incontro alla necessità di entrare all’interno del programma contrattuale, andando oltre la formalizzazione dell’accordo. Secondo autorevole dottrina, infatti, l’esercizio del potere negoziale deve essere ricondotto dalla prospettiva di un’analisi del contenuto del pro- gramma e degli aspetti interni della contrattazione alla spiegazione di relazioni oggettive che si formano come conseguenza degli sviluppi dell’iniziativa economica13. In analoga prospettiva, è stato altresì osservato che la teorizzazione dell’abuso del diritto sarebbe un’occasione per mettere in risalto le anomalie nei rapporti di distribuzione14.
Parte della dottrina lo considera una tecnica argomentativa15 che consente di va- lutare se e come lo svolgimento concreto di un diritto, di per sé lecito o legittimo, abbia avuto l’esito di perseguire interessi non meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.
Ad oggi non risulta chiaro se il divieto di abuso del diritto sia un principio gene- rale, una tecnica argomentativa, una clausola. Ma, al di là delle incertezze su una sua categorizzazione, è difficile sostenere che non costituisca un valore16 da salvaguardare.
11 SACCO R., L’esercizio e l’abuso del diritto, in G. XXXX, XXXXXXXXX M., XXXXXXXXX X., XXXXXX U., XX- XXXXXX P.G., XXXXX R., La parte generale del diritto. 2. Il diritto soggettivo, Tratt. dir. civ., diretto da X. Xxxxx, Utet, Torino, 2001: 319, 373; Id., L’abuso della libertà contrattuale, in Dir. priv., 1997, III, L’abuso del diritto, Cedam, Padova, 1998: 217 e ss. (si v., nello specifico, 234).
12 XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, Il Mulino, Bologna, 1998: 11.
13 MESSINETTI D., Abuso del diritto, voce dell’Enc. dir., Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: aggiornamento II, 1, 13. 14 VETTORI A., Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, Xxxxxxx, Milano, 1983: 147.
15 XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, op. cit.
16 Sulle diverse accezioni di “principio” e “valore” si x. XXXXXXXX P., Xxxxxx, Principi e regole: tra dimen- sione positiva e metapositiva della Costituzione in Ars interpretandi, 1/2014: 37 ss.
L’abuso del diritto sembra volto a salvaguardare valori come l’uguaglianza so- stanziale, la solidarietà, la correttezza. Risulta, quindi, quasi paradossale che questo sia fonte di tante instabilità e incertezze17.
Si tratta, effettivamente, di comprendere come un diritto esercitato abbia intera- gito con altre sfere di diritti e interessi e se un atto di per sé lecito possa divenire fonte di responsabilità per colui che esercita il diritto.
Dalla disamina delle norme civilistiche e dalla loro interpretazione risulta chiaro il superamento dell’antico brocardo qui iure suo utitur neminem laedit, nonostante sul tema ci sia un risalente e acceso dibattito dottrinale, che verrà approfondito nel corso del presente lavoro.
Non è sempre agevole capire quando ci si trova di fronte ad una situazione di abuso. Tale verifica dovrebbe essere effettuata tramite il confronto e il bilanciamento di interessi contrapposti, in astratto parimenti meritevoli di protezione ma, concretamente, suscettibili di essere sindacati nel loro esercizio secondo i parametri della ragionevolezza, della meritevolezza e della buona fede oggettiva, intesa come correttezza e lealtà.
Attraverso il concetto di abuso, il diritto viene analizzato in relazione all’interesse perseguito e alle sue modalità di esercizio, così da ottenere un’analisi dinamica delle di- verse situazioni soggettive, viste sotto il profilo dell’effettività del loro esercizio e in una prospettiva relazionale.
Certo è che la comparazione degli interessi rappresenta un passaggio indefettibile per l’individuazione del fenomeno abusivo: il cuore dell’abuso del diritto consiste, infatti, nel raggiungimento di un vantaggio non meritevole di tutela, che non sarebbe possibile identificare senza lo strumento della comparazione.
Il diritto viene posto in essere in contrapposizione ad una determinata situazione che il sistema giuridico non intende sacrificare in toto o che considera in concreto preva- lente.
L’analisi del fenomeno imporrebbe, quindi, di svincolarsi da una rigida visione positivista e formalistica e di interrogarsi su un duplice ordine di questioni: da un lato
17 Parte della dottrina civilistica identifica nel contrasto all’abuso del diritto un’espressione del principio di solidarietà, ex art. 2 della Costituzione. Sul punto si v. XXXX X., Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 5/2004: 25 e ss.; XXXXX C., Xxxxx note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione della buona fede), in Giust. civ., 1/2010: 2547 e ss.; DI MARZIO F., Divieto di abuso e autonomia contrattuale d’impresa, in Riv. dir. civ., 4/2011: 494.
come il fenomeno viene percepito da parte dei diversi operatori del diritto, dall’altro come in concreto viene applicato dalla giurisprudenza il principio stesso sul piano argomenta- tivo18 ed in termini di bilanciamento tra valori diversi.
È chiaro che applicazione concreta e percezione sono profili che, se pur apprez- zabili autonomamente, appaiono strettamente correlati tra loro; infatti, nel momento in cui i principi venissero applicati dalla Giurisprudenza secondo criteri uniformi, equilibrati e razionali, gli operatori del diritto tenderebbero a percepire il contrasto all’abuso in ter- mini positivi e non con la diffidenza che, invece, caratterizza da sempre l’istituto. Ciò che sembra emergere, in effetti, è un palpabile senso di instabilità ed incertezza derivante proprio dalla casistica giurisprudenziale e occorre, al riguardo, domandarsi se una clau- sola generale antiabuso possa costituire “il rimedio” di tutte queste incertezze o se, l’unica strada percorribile sia, invece, quella di un sostanziale selfrestraint della giurisprudenza stessa, la quale tende sempre più ad attribuirsi un ruolo assai vicino a quello del legislatore e ad esplicitare criteri applicativi, valori e principi da essa ritenuti insiti nell’ordinamento. In questa sede risulta opportuno, in primis, delimitare lo studio della figura dell’abuso del diritto all’ambito contrattuale, in cui il concetto si afferma dal momento in cui l’ordinamento comincia a riconoscere l’autonomia delle parti anche in campi che sono normalmente disciplinati dal legislatore, ma, allo stesso tempo, viene riservato al giudice un potere di controllo flessibile ed effettivo sulle modalità con cui le parti fanno uso di
tale autonomia, non essendo quest’ultima sconfinata.
Questo controllo ha comportato un cambio di tendenza nella metodologia giuri- dica che sembra essere divenuta sempre più incline ad effettuare un’analisi dinamica degli istituti e delle situazioni soggettive. Il cambio metodologico citato ha focalizzato l’atten- zione su concetti nel passato sottovalutati, come quelli di meritevolezza, di concretezza della causa e di abuso del diritto.
Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza hanno progressivamente indivi- duato un limite generale all’esercizio di ogni diritto soggettivo, integrato dal dovere di non abusare della situazione giuridica di cui si è titolari.
Tornando al discorso sull’esistenza di una codificazione dell’abuso, se da un lato è vero che il divieto di abuso del diritto non è previsto espressamente nel sistema vigente,
18 Sul problema dei rapporti tra argomentazione e certezza si v. XXXX X., Xxxxxxxx e verità nell’argomen- tazione giuridica. Alcune riflessioni, in Riv. int. fil. dir., 1/1998: 84 e ss.
facendo salve le recenti innovazioni in materia di elusione fiscale (ci si riferisce al D. lgs. 128/2015), dall’altro sono numerose le norme del codice civile19 che lo richiamano indi- rettamente, attribuendo conseguenze non irrilevanti a chi abbia agito in mala fede20. Come si anticipava, la disciplina codicistica delle obbligazioni e dei contratti contiene numerose norme che si riferiscono, seppur in maniera implicita, al divieto di abuso del diritto.
Nel corpus del codice civile possono rinvenirsi: l’espressa indicazione di fattispe- cie abusive21, disposizioni sanzionatorie di alcuni atti la cui ratio è ravvisabile nell’esi- genza di repressione di un abuso del diritto22 nonché disposizioni di maggiore ampiezza, considerate valide per intere categorie di diritti23. Si tratta di specifiche disposizioni che sanzionano l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive. Se ne segnalano, di seguito, alcune tra le più significative.
La principale di queste fattispecie è sicuramente quella degli atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., che si trova nell’ambito del libro III – della proprietà – il quale dispone che «il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere
19 Ed anche del codice di procedura civile e del codice del consumo.
20 Tale affermazione purché si decida di accogliere l’orientamento, consolidato, secondo cui la stessa è riconducibile all’abuso. La dottrina, infatti, identifica, ormai da tempo, l’abuso del diritto con l’esercizio scorretto, o di mala fede, del diritto. In particolare, a seguito del noto caso Renault del 2009, è stato rico- nosciuto che: se da un lato è vero che l’esercizio di un diritto di recesso ad nutum sfugge ad un controllo di tipo teleologico, non si sottrae, invece, ad un controllo inerente le modalità con cui il recesso risulti eserci- tato. Xxxxxxxx, allora, effettuata una valutazione basata sul canone della buona fede, la quale costituisce fondamentale criterio di valutazione del comportamento delle parti in esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). In dottrina si v., in tal senso, BIANCA C., Diritto civile, vol. III, Il contratto, Xxxxxxx, Milano, 2000: 740 e ss.; XXXXXXX F., L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in Contratto e impresa, 1986: 766 e ss.; SCOGNAMIGLIO C., Il nuovo diritto dei contratti: buona fede e recesso dal contratto, in AA.VV., Il diritto dei contratti. Problemi e prospettive, in DI MARZIO (a cura di), Xxxxxxx, Milano, 2001: e 357 ss. Lo stesso dicasi per la giurisprudenza. Sul punto va menzionata quella in materia di esercizio abusivo (ovvero di mala fede) del diritto di recesso della banca dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato. Il riferi- mento è, tra le tante, a Xxxx., sez. civ., n. 9321/2000, annotata da DI MAJO A., La buona fede correttiva di regole contrattuali in Corr. giur., 11/2000: 1486 ss., nonché Cass., n. 2642/2003, in Giust. civ. mass. 2003: 375 e ss. Sul tema si v. il noto contributo di XXXXXXX X. Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contratto e impresa, 14/1998: 18 e ss.
21 L’art. 330 del c.c., relativo all’abuso della potestà genitoriale; l’art. 1015, relativo all’abuso del diritto di usufrutto; l’art. 2793, relativo all’abuso della cosa da parte del creditore pignoratizio.
22 Per citare alcuni esempi: l’art. 1993, comma 2, che dispone che «il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, soltanto se, nell’acquistare il titolo, il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo»; l’art. 1059, comma 2, c.c., impone al comproprietario, che – agendo ex se – ha concesso una servitù, di non impedire l’esercizio del diritto concesso.
23 L’art. 833 c.c., pur relativo al diritto di proprietà, è stato utilizzato come norma di repressione dell’abuso dei diritti reali in genere; artt. 1175 e 1375 c.c. che attraverso la clausola di buona fede hanno consentito in tempi recenti alla giurisprudenza, su suggerimento della dottrina più avvertita, di sanzionare, in termini di illecito contrattuale, l’abuso di diritti relativi o di credito.
o recare molestia ad altri». La norma va annoverata tra le numerose fonti normative con- tenenti divieti espressi per il proprietario di esercitare alcune facoltà che sono connesse al suo diritto al fine di non arrecare danni o pregiudizio ad altri interessi, generali o privati. In origine l’abuso del diritto veniva ricondotto esclusivamente al divieto di atti emulativi e l’art. 833 c.c. era considerato il suo unico e possibile fondamento normativo, un vero e proprio paradigma dell’abuso del diritto, venendo a specificare, in ambito civi- listico, la vigenza di un divieto generale ormai divenuto immanente al sistema, sebbene
non esplicitato24.
La sua formulazione è frutto di una lunga tradizione storica, interrotta per motivi ideologici dalle codificazioni ottocentesche di ispirazione napoleonica che consideravano la proprietà come un diritto soggettivo assoluto, di natura quasi personale.
All’epoca l’esercizio del diritto di proprietà non tollerava ostacoli per la salva- guardia di altri interessi privati, ma soltanto alcuni limiti di natura pubblicistica.
Nel codice civile del 1865 non vi è infatti traccia del divieto di atti emulativi. Tuttavia, l’attenzione verso tale divieto riaffiora nei molteplici dibattiti dottrinali della prima metà del 1900, ad opera di giuristi francesi. Questi ultimi sostengono che le facoltà di godimento del proprietario possono essere esercitate liberamente e non determinano l’insorgere di alcuna responsabilità se perseguono un interesse legittimo. Dall’altro lato, però, il proprietario ha il dovere di esercitare il proprio diritto in modo conforme alla funzione per cui gli è stato riconosciuto dall’ordinamento, altrimenti, se viene meno la buona fede, si sfocia nell’abuso del diritto, almeno secondo le ricostruzioni della dottrina francese del 190025.
Fu proprio questo tema a suscitare il dibattito dottrinale avente ad oggetto l’intro- duzione, nel libro I, di una norma specifica che vietasse l’abuso del diritto. Ma, gli esten- sori del codice civile del ’42 preferirono aderire alla tradizione storica e inserire il divieto di atti emulativi nel libro III, mentre l’art. 1175 c.c. disciplina il corretto esercizio del diritto in materia di obbligazioni26.
La ricomparsa degli atti emulativi, in tal modo, avrebbe dovuto supplire al man- cato riferimento, da un lato, all’abuso del diritto e, dall’altro, alla funzione sociale della
24 Sull’atto emulativo si x. XXXXXXX A., Emulazione, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1991: 442 e ss. e XXXXXXX F., Il divieto di abuso del diritto nell’ordinamento europeo, Xxxxxx, 0000: 70 e ss.
25 XXXXXXXXX L., De l’esprit des droits et de leur relativité. Théorie dite de l’abus des droits, Parigi, 1927: 282.
26 XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, in Riv, dir. civ., 1/1965: 205 e ss.
proprietà, mettendo contemporaneamente in evidenza il disfavore del legislatore del tempo per concezioni egoistiche e individualistiche del diritto di proprietà, ovvero quelle basate sull’antico principio secondo cui chi si avvale del suo diritto non fa, giuridica- mente, danno a xxxxxxx00.
La dottrina più recente è giunta a valutare la portata dell’art. 833 c.c. in base ad un’interpretazione sistematica che, tenendo conto della gerarchia delle fonti, considera il divieto di atti emulativi alla luce dei principi costituzionali e li qualifica come limiti in- terni all’esercizio del diritto, propri di tutti i diritti soggettivi a contenuto patrimoniale e non solo quindi della proprietà28.
A parere di molti29, questo limite, costituito dal divieto di abuso del diritto, corri- sponde ad un principio rintracciabile nella Costituzione ed applicabile per analogia a tutte le situazioni soggettive reali, aventi ad oggetto beni mobili o immobili ed anche a tutte le situazioni soggettive patrimoniali.
Dottrina e giurisprudenza hanno individuato, negli anni successivi, e specialmente a partire dagli anni Novanta, nuovi punti di riferimento da cui poter ravvisare altre fatti- specie abusive30. Ad oggi, secondo l’opinione comune, anche se non mancano voci in contrario, il divieto di abuso del diritto e il divieto di atti emulativi si sostanziano in un rapporto di genus a species; l’aemulatio è considerata come un’espressione particolare e una specifica ipotesi applicativa dell’abuso del diritto31.
Pur essendo la principale, l’ipotesi degli atti di emulazione non è l’unica fattispe- cie inquadrabile nella, o riferibile alla, categoria dell’abuso del diritto.
27 XXXXXXXXX XXXX L, BRECCIA U., BUSNELLI F.D., XXXXXX U., Diritto civile, vol. II, Utet, Torino, 1988: 63.
28 XXXXXX U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1958: 18 e ss.
29 PERLINGIERI P., Introduzione alla problematica della proprietà, Xxx, Xxxxxxxx-Xxxxxx, 0000: 277; GAM- BARO A., Emulazione, in Dig. disc. priv., vol. VII, Utet, Torino: 439.
30 Come rilevato da attenta dottrina, gli anni Novanta hanno segnato un vero e proprio “spartiacque” per quanto attiene il terreno dell’abuso del diritto, con i tanti tentativi dottrinali e gli svariati interventi norma- tivi. Sul punto si v. le riflessioni svolte da DEL PRATO E., Qualificazione degli interessi e criteri di valuta- zione dell’attività privata funzionale tra libertà e discrezionalità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/2012: 403 e ss., (nello specifico 405). L’A., se da un lato riconosce il rinnovato interesse per l’abuso del diritto (ali- mentato, peraltro, anche da alcune prescrizioni europee) da parte di dottrina e giurisprudenza, dall’altro dubita rispetto alla sua possibilità di assurgere a categoria ordinante del diritto civile che vada al di là dell’aspetto meramente descrittivo.
31 Sul punto si v. MONTANERI P.G., Abuso del diritto e simmetria della proprietà, in Dir. priv, 3/1997: 89 e ss.; XXXXXXX M., Proprietà egoistica ed abuso del diritto e poteri del giudice, in Foro it., 4/1974: 141 e ss.; XXXXXXX U., Atti emulativi, abuso del diritto e «interesse» nel diritto, in Riv. dir. civ., 2/1973: 73 e ss.; XXXXXXX C.M., Atti emulativi, utilità sociale e abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2/1969: 601 e ss.
Nell’ambito del libro IV, il referente normativo dell’abuso viene generalmente identificato con la clausola generale di buona fede e correttezza32, precisamente negli artt. 1175 – comportamento secondo correttezza – e 1375 c.c. - esecuzione di buona fede33.
Una delle funzioni principi da sempre riconosciute alla clausola generale della correttezza è quella di limite, controllo, all’esercizio di pretese da parte del creditore o all’adempimento degli obblighi da parte del debitore. Tale funzione si manifesta tramite il diniego di effetti al comportamento ritenuto scorretto o tramite eccezioni o poteri di autotutela riconosciuti alla parte che ha agito lealmente. Specialmente con riferimento alla posizione del creditore, la correttezza è alla base della figura dell’abuso del diritto, volgendo a fissare i limiti al legittimo esercizio della facoltà di pretendere o di rifiutare l’adempimento34.
Come verrà evidenziato nel prosieguo del lavoro, non di rado la clausola generale di buona fede e correttezza è stata identificata come il modo attraverso il quale si palesa l’abuso del diritto e viceversa35.
Uno dei classici esempi è quello del comportamento del creditore che, potendo chiedere l’adempimento coattivo dell’intera obbligazione, frazioni, senza alcuna evidente ragione, la richiesta di adempimento in tutta una pluralità di giudizi di cognizione davanti a giudici competenti per le singole parti.
In tale ipotesi si prefigurerebbe esclusivamente un pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispettivo vantaggio – meritevole di tutela – per il creditore36.
La giurisprudenza ha ribadito, piuttosto di frequente, che non è consentito al cre- ditore di una determinata somma di denaro dovuta in forza di un unico rapporto obbliga- torio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, siano esse contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto ciò comporterebbe utilità unilaterale a fa- vore del creditore, con un peggioramento della posizione del debitore. Ciò si rivelerebbe
32 Ci si riferisce alla buona fede oggettiva, ovvero alla violazione di un obbligo di condotta.
33 Cfr. XXXXXXX X., La clausola generale di buona fede, in Banca borsa tit. cred., 3/2009: 241 e ss., secondo cui dagli artt. 1175 e 1375 c.c. «traggono origine le regole che controllano il corretto esercizio dei diritti e dei poteri privati».
34 BRECCIA U., Le obbligazioni, in Trattato Iudica-Zatti, Xxxxxxx, Milano, 1990: 232.
35 Sulla correlazione tra buona fede oggettiva e abuso del diritto e sugli orientamenti prevalenti si v. infra, cap. I, sez. II, par. 1, Abuso del diritto e buona fede oggettiva.
36 Si v., ex multis, Xxxx., sez. civ., n. 11271/1997 in Mass. Giur. It., 1997; Cass., S.U. civ., n. 23726/2007, annotata da XXXXXX XXXXXX A., Domanda di adempimento frazionata e violazione dei canoni di corret- tezza e buona fede, in Obbl. e Contr., 10/2008: 784 e ss.; Cass. S.U. civ., n. 26961/2009, in xxxx://xxxxxx- xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx; Cass., sez. civ., n.1706/2010, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
in palese contrasto sia con il dovere di correttezza che con quello di buona fede, i quali dovrebbero caratterizzare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del con- tratto.
Anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, un tale comportamento risulterebbe contrastante con il principio costituzionale del giusto processo, traducendo la parcellizzazione della domanda diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un vero e proprio abuso di quegli strumenti processuali che l’ordina- mento offre alla parte solo nei limiti di una tutela del suo interesse sostanziale. È per queste ragioni che le domande giudiziali aventi ad oggetto una rateazione di un unico credito sono da dichiararsi improponibili37.
La giurisprudenza più attenta ai doveri di buona fede e correttezza ha, per questo motivo, più volte sanzionato le condotte che rivelavano un esercizio abusivo o fraudo- lento di diritti.
«Il principio di buona fede oggettiva, intesa come reciproca lealtà di condotta delle parti, deve accompagnare il contratto in tutte le sue fasi, da quella della formazione a quella della interpretazione e dell’esecuzione38, comportando, quale ineludibile corolla- rio, il divieto, per ciascun contraente, di esercitare verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati39 nonché il dovere di agire, anche nella fase della patologia del rapporto, in modo da preservare, per quanto possibile, gli interessi della controparte, e quindi, primo tra tutti, l’interesse della conservazione del vincolo»40.
È stato precisato da autorevole dottrina41 che il principio di buona fede nella figura sintomatica dell’abuso del diritto serve a fissare i limiti al legittimo esercizio della facoltà di pretendere o di rifiutare l’adempimento. Così, il principio assolve ad una funzione di “chiusura” del sistema, poiché evita di dover considerare permesso ogni comportamento
37 Si v., ex multis, Xxxx., sez. civ., n. 4702/2015, in CED Cassazione.
38 Si v., ex multis, Xxxx. sez. civ., n. 15476/2008, in Obbl. contr., 10/2009, con nota di VERONESE B., L’im- proponibilità della domanda frazionata: rigetto in rito o nel merito?: 813 e ss.; Cass. sez. civ., n. 20106/2009, in Riv. dir. civ., 6/2010, con nota di PANETTI F., Xxxxx fede, recesso ad nutum e investimenti non recuperabili dell’affiliato nella disciplina dei contratti di distribuzione: 20653 e ss.
39 Si v., ex multis, Xxxx., sez. civ.,15482/2003, in Nuova giur. civ. comm., 1/2004: 305 e ss., con nota di GRONDONA M., Disdetta del contratto, abuso del diritto e clausola di buona fede, in margine alla questione del precedente giudiziale: 309 e ss.
40 Cass., sez. civ., n. 13208/2010, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
41 XXXXXXX F., Diritto commerciale, vol. II, Le obbligazioni e i contratti, (2a ed.), Zanichelli, Blogna, 1993: 488.
che nessuna norma vieta e facoltativo ogni comportamento che nessuna norma rende ob- bligatorio e può anche imporre alle parti di operare diversamente da quanto stabilito dal contratto. Il divieto di abuso del diritto diverrebbe, in questi termini, uno dei criteri di selezione con cui esaminare e valutare sia i rapporti che nascono da atti di autonomia privata, operando come criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede og- gettiva nella fase di esecuzione del contratto42, sia le condotte che i soggetti adottano nelle relazioni di diritto privato in generale.
Come afferma la Suprema Corte: «Oggi i principi della buona fede oggettiva e dell’abuso del diritto debbono essere selezionati e rivistati alla luce dei principi costitu- zionali – funzione sociale ex art. 42 Cost. – e della stessa qualificazione dei diritti sogget- tivi assoluti. In questa prospettiva i due principi si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancora la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti»43. Sul punto risulta opportuno precisare che trattasi di buona fede ogget- tiva intesa come obbligo, per le parti, di comportarsi secondo correttezza e lealtà, concetto ben diverso dalla buona fede in senso soggettivo, ovvero “ignoranza di ledere l’altrui diritto”44.
Quando si parla di abuso del diritto in correlazione con buona fede e correttezza va fatto implicito riferimento anche ad altri articoli del codice civile: all’art. 1337 – trat- tative e responsabilità precontrattuale – all’art. 1366 – interpretazione di buona fede –, all’art. 1358 – comportamento delle parti nello stato di pendenza – e all’art. 1359 – avve- ramento della condizione45.
Nella fase di pendenza, l’art. 1358 c.c. richiede ai titolari dei diritti condizionati un comportamento secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte. Dunque, anche in pendenza della condizione, le parti dovranno esercitare il loro diritto rispettando dei limiti interni. Il mancato rispetto di tali limiti determinerebbe una lesione
42 Cass., sez. civ., n. 20106/2009, cit.
43 Cass., sez. civ., n. 20106, cit.
44 Per un approfondimento sul tema si x. XXXXXXX F., Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto, Rela- zione svolta all’incontro di studio tenutosi a Tivoli dal 6 al 10 giugno 1994.
45 Cfr. XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1/1965: 258, 268; GRANDI M., Condizione mista o potestativa, finzione di avveramento e risoluzione del contratto, in Contratti, 2/2011: 44 e ss.
delle situazioni giuridiche altrui attraverso un esercizio abusivo del diritto pur rimanendo, formalmente, nell’ambito del diritto esercitato.
A difesa degli interessi della parte che subisce, il legislatore ha previsto una tutela reale, riconoscendo la finzione di avveramento della condizione non verificatasi per causa imputabile alla controparte ex art. 1359 c.c. La clausola di buona fede sembra avere un ruolo decisivo, quale fondamento del divieto di abuso del diritto; una clausola protesa ad evitare che il soggetto titolare di un diritto lo eserciti per fini differenti ed ulteriori rispetto agli scopi per cui questo è ammesso dall’ordinamento.
Riconoscimento implicito dell’abuso del diritto lo si ritrova in tutti quegli istituti che fanno riferimento all’abuso della libertà contrattuale, riguardanti la formazione del consenso e i vizi della volontà. Ci si riferisce: all’ipotesi di cui all’art. 1438 c.c., «minac- cia di far valere un diritto»; all’ipotesi di cui all’art. 1447 c.c., «contratto concluso in stato di pericolo»; all’ipotesi di cui all’art 1448 c.c., «azione generale di rescissione per le- sione»; e all’ipotesi di cui all’art. 428 c.c., «atti compiuti da persona incapace di intendere e di volere». Quando l’autore della minaccia se ne serve per conseguire non già il risultato ottenibile con l’esercizio del diritto, ma vantaggi ingiusti, ossia abnormi e diversi da detto risultato, obiettivamente iniqui ed esorbitanti rispetto al dovuto, sembra pacifico poter affermare di essere di fronte ad un’ipotesi di esercizio abusivo del diritto46.
Con riguardo agli artt. 1447 e 1448 c.c.: nella prima fattispecie si osserva come la conclusione del contratto avviene a condizioni inique e il pericolo in cui versa la contro- parte è noto a quella che se ne giova. Nella seconda rileva, prima di tutto l’assonanza tra il termine profittare e il termine abusare ma, soprattutto, la sproporzione tra le prestazioni, in quanto dallo stato di bisogno deriva un ingiusto vantaggio e dunque un’utilità ulteriore e diversa rispetto a quella fisiologica.
Ai contraenti viene offerta la possibilità di modificare il contratto e di ricondurlo ad equità. Implicito richiamo all’abuso del diritto potrebbe forse ritrovarsi anche nella disciplina della rappresentanza, ovvero con riferimento all’ipotesi di abuso di esercizio dei poteri di rappresentanza nello svolgimento dell’attività negoziale47.
Un approfondimento particolare merita il citato art. 1438 c.c., rubricato «minaccia di far valere un diritto». La norma prevede che: «la minaccia di far valere un diritto può
46 Si v., ex multis, Xxxx., sez. civ., n. 28260/2005, in Mass. Giur. It., 2005.
47 XXXX X., L’abuso del diritto, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 55 e ss. Le norme di riferimento richiamate sono, solitamente, gli artt. 1391, 1394 e 1395 c.c.
essere causa di annullamento del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti». Si tratta della tipica situazione in cui il titolare del diritto esercita il potere attribuitogli per conseguire utilità diverse da quelle conferitegli. Infatti, l’atto di autono- mia contrattuale risulta annullabile nel momento in cui la minaccia di esercitare il diritto è posta in essere per esercitare un’indebita “pressione” sull’altra parte, costringendola a concludere un contratto da cui scaturiranno utilità che non sono certamente quelle inerenti al diritto di cui si prospetta l’esercizio. È chiaro che un simile comportamento non possa essere accettato dall’ordinamento, e merita di essere qualificato come abusivo: l’esercizio del diritto è stato posto in essere essenzialmente per conseguire un risultato diverso da quello che costituisce l’utilità garantita dall’ordinamento attraverso quel diritto, utilizzato in modo distorto48.
L’ingiustizia del vantaggio si ha quando, attraverso la minaccia di esercitare un diritto, venga realizzato un risultato che, oltre ad essere abnorme, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto del diritto stesso, per questo alcuni autori ritengono che ci si trovi nell’ambito della teoria dell’abuso del diritto49.
Parte della dottrina, infatti, ha ritenuto che pur non trattandosi propriamente di un’ipotesi di divieto di abuso, poiché la fattispecie riguarda la minaccia, e non l’esercizio di un diritto in senso stretto, tale disposizione ha “notevole valore sintomatico” della pro- spettiva cui è ispirato l’ordinamento nei riguardi di condotte formalmente legittime, ma sostanzialmente dirette “a conseguire vantaggi ingiusti”50.
Altri ancora51 ritengono invece che la minaccia concretizzi già un esercizio del diritto e che l’art. 1438 c.c. costituisca un peculiare apporto all’ampia e composita cate- goria dell’abuso.
48 A sostegno del collegamento che intercorre tra l’art. 1438 c.c. e l’abuso del diritto si v.: XXXXXX U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., op. cit.: 34 e ss.; XXXXX R., Il diritto soggettivo. L’esercizio e l’abuso del diritto, in Trattato dir. civ., diretto da Xxxxx X., Utet, Torino, 2011: 355 e ss.; D'AMICO X., Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Contratti, 2010: 20. Gli Autori desumono dalla norma citata il principio del divieto di abuso del diritto come un principio per cui è vietato l’esercizio del diritto se finalizzato al conseguimento di utilità ulteriori, diverse, che non ineriscono la situazione di vantaggio di cui il soggetto è titolare.
49 XXXXXXXX X., La minaccia di far valere un diritto come causa di annullamento del contratto per vio- lenza, in Giur. compl. Cass. civ., 2/1944: 509 e ss. (nello specifico si v.: 512).
50 XXXXXX U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in
Riv. trim. dir. proc. civ., op. cit.
51 Sulla specifica rilevanza dell’art. 1438 c.c. in relazione all’abuso del diritto, si v. il contributo di DEL PRATO E., La minaccia di far valere un diritto, Cedam, Padova, 1990: 121-131. L’analisi dell’A. è volta a verificare le potenzialità del disposto codicistico rispetto al terreno dell’abuso del diritto e alla sua idoneità a porre rimedio contro gli atti dell’autonomia privata nelle ipotesi in cui ad essa non corrisponda l’esercizio
Da richiamare è anche l’istituto dell’usura, all’art. 1815, comma 2, c.c.
Parte della dottrina lo utilizza come base normativa per fare un discorso generale sul divieto di abuso dell’autonomia contrattuale, specialmente in relazione ai rapporti che si innestano sul mercato e che soffrono di asimmetrie. La misura degli interessi in tutti i contratti con causa di finanziamento dovrebbe essere quella legale, a meno che le parti non abbiano disposto diversamente. Tuttavia, se si tratta di interessi usurari, che oltrepas- sano i limiti del concesso, l’art. 1815, comma 0, x.x., xxxxxxx xx xxxxxxx xxxxx xxxxxxxx e non sono dovuti interessi. Si vuole evitare, in tal modo, che una facoltà concessa alla parte (quella, appunto, di determinare interessi) si risolva in abuso, gravando così sul contraente più debole.
Altri riferimenti normativi al divieto di abuso nell’esercizio dell’autonomia nego- ziale emergono dagli artt. 1341 e 1342 c.c., rispettivamente intitolati «regole sulle condi- zioni generali di contratto» (inclusivo, al comma 2, della disciplina sulle clausole vessa- torie) e «contratto concluso mediante moduli o formulari»52.
Anche nell’istituto della risoluzione del contratto si possono scorgere diversi pro- fili che richiamano l’abuso del diritto. In questa sede risulta opportuno il riferimento all’art. 1460, «eccezione di inadempimento», il quale, al comma 2, c.c., nella regola che condiziona l’eccezione di inadempimento, fa espresso richiamo alla “buona fede”, “avuto riguardo delle circostanze”53. Il riferimento alle circostanze, come ha più volte messo in luce la giurisprudenza, introduce un limite ulteriore alla proponibilità dell’eccezione in esame, nel senso che «nella valutazione della contrarietà alla buona fede, si deve tener
di un diritto. L’A. afferma che «l’idea di abuso del diritto non arricchisce di valore precettivo la norma; e quest’ultima, a sua volta […] non sembra assumere in tale contesto un significato che oltrepassi un valore descrittivo». Allo stesso tempo, la lettura dell’art. 1438 c.c. secondo l’impostazione dell’abuso del diritto può essere, oltre che suggestiva, utile per una migliore comprensione della teorica dell’abuso stesso. L’A. individua un punto di contatto tra l’abuso e l’art. 1438 nel fatto che entrambe le figure vanno ad incidere sulla formazione della volontà «sottesa all’esternazione» (nello specifico si v. 126).
52 Sul collegamento esistente tra l’abuso del diritto e gli artt. 1341 e 1342 c.c. si è espresso BRECCIA U., L’abuso del diritto, in Dir. priv., 3/1997, Cedam, Padova: 35, 41; ora in BRECCIA U. Immagini del diritto privato, vol. I, Teoria generale, fonti, diritti, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2013. L’A. afferma che con riguardo alle applicazioni del divieto di abuso del diritto in relazione all’autonomia privata, ci si è spesso basati su disposizioni che si confrontavano con gli abusi del contraente «il quale sfruttasse in linea di fatto una palese condizione di supremazia» (nello specifico si v. 252).
53 ASTONE F., L’abuso del diritto in materia contrattuale. Limiti e controlli all’esercizio dell’attività con- trattuale, in Giur. Mer., 2/2007: 8 e ss.
conto della regola generale che vieta l’abuso del diritto, cioè l’uso del diritto per motivi non corrispondenti alle finalità per le quali il diritto stesso è concesso dalla legge»54.
Spesso, in ambito di risoluzione giudiziale per inadempimento è decisivo, per di- rimere la controversia, stabilire se vi sia stato o meno un esercizio abusivo del diritto55.
La giurisprudenza ha fatto applicazione dell’abuso del diritto anche in tema di clausola risolutiva espressa56.
In dottrina si è parlato di abuso della clausola solve et repete prevista dall’art. 1462 c.c., intitolato «clausola limitativa della proponibilità di eccezioni», a tenore del quale, il giudice, pur in presenza di una tale clausola valida, ovvero non prima facie nulla o an- nullabile, può sospendere la condanna della parte al pagamento nel caso in cui riconosca la sussistenza di gravi motivi. Trattasi, infatti, di una norma interpretativa dettata in rife- rimento all’intenzione delle parti, da valutarsi nel quadro delle norme di comportamento, attraverso la quale si può determinare la sussistenza di un uso (abuso) del diritto al solve. Nei rapporti obbligatori, in virtù dell’art. 1175 c.c., «comportamento secondo cor- rettezza», è doveroso il rispetto di norme di correttezza, ossia di buona fede. La violazione della buona fede «[…] intesa in senso oggettivo, dell’agire sleale o scorretto in danno di
altri57», potrebbe, in effetti, rappresentare un’ipotesi di abuso del diritto.
Altra disciplina sintomatica dell’abuso del diritto è, per comune opinione, anche quella sulla clausola penale di cui all’art. 1384 c.c., anche se la giurisprudenza fatica ad esplicitarne il riferimento58.
Uno strumento, per reagire all’abuso del diritto, è stato individuato nel motivo illecito, ex art. 1345 c.c., e una sua manifestazione nel contratto in frode alla legge, ex art.
54 Si v., ex multis, Xxxx., sez. civ., 1048/1986 in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx, Cass., sez. civ., n. 672/1976 in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx; Cass., sez. civ., n. 1308/1983 in xxxx://xxxxxx-xx- xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx; Xxxx., sez. civ., n. 5639/1984 in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx
55 Cfr. Cass., sez. civ., n. 13208/2010, in Giur. it., 4/2011: 794 e ss., con nota di XXXXXXXX P., Un nuovo caso di abuso del diritto.
56 Cfr. Trib. Bergamo-Grumello del Monte, 7 luglio 2008, in Obbl. contr., 8/9/2009: 708 e ss., con nota di
I.M. GONNELLI, La clausola risolutiva espressa tra principio di buona fede e importanza dell’inadempi- mento.
57 Così XXXXXXX X., Il valore attuale della massima «fraus omnia corrumpit», in Studi Carnelutti, vol. III, Cedam, Padova, 1950: 436.
58 Cfr. Cass., sez. civ., n. 10511/1999, in Contratto e Impresa, 1/2000: 95 e ss., con nota di XXXXXX A., È, dunque, venuta meno l’intangibilità del contratto: il caso della penale manifestamente eccessiva; Cass., sez. civ., n. 1183/2007, in Il Foro It., 5/2007: 1459 e ss., con nota di XXXXXXXXXX X., Xxxxx punitivi: no grazie; Cass., S.U. civ., n. 18128 del 2005, in Foro it., 11/2005: 2985 e ss., con nota di XXXXXXXX A., Il potere di diminuire equamente la penale può essere esercitato dal giudice anche d’ufficio; Cass., sez. civ., n. 16207/2008, in Foro it., 9/2008: 2451 e ss.
1344 c.c. Le parti, in questo caso, raggiungono, mediante accordi contrattuali di per sé leciti, un risultato illecito: si hanno, quindi, l’abuso del mezzo negoziale e la distorsione della sua ordinaria funzione59.
In quest’ipotesi viene realizzato un congegno negoziale di per sé lecito, e spesso anche tipico, ma funzionale ad eludere una norma imperativa, spesso di natura fiscale, come evidenziato dall’abbondante giurisprudenza in materia.
C’è da chiedersi se dalla disamina di tali disposizioni possa enuclearsi un principio generale di divieto di esercizio abusivo del diritto; se possano essere colpiti quei compor- tamenti che, pur integrando formalmente gli estremi dell’esercizio di un diritto, sulla base di criteri non formali e alla luce di circostanze concrete, debbano ritenersi privi di tutela o, addirittura, non leciti.
L’utilizzo dello strumento dell’abuso del diritto ha certamente il fine di porre dei limiti esterni all’autonomia contrattuale, la quale finisce, a volte, per sconfinare oltre ciò che è concesso dal legislatore e dall’ordinamento stesso.
Il principio dell’autonomia contrattuale trova fondamento all’art. 1322 c.c., «au- tonomia contrattuale» che, al comma 1, riconosce la possibilità, per le parti, di decidere liberamente il contenuto del contratto, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge.
Al comma 1 è prevista la facoltà, per le parti, di concludere anche contratti atipici, ovvero che non appartengono ai tipi aventi una disciplina prevista ex lege. Tali contratti, però, devono essere volti a realizzare interessi che l’ordinamento ritiene meritevoli di tutela; questo controllo è affidato al giudice che effettuerà un giudizio di meritevolezza sull’interesse perseguito.
In tale ambito assurge a ruolo primario la causa: anche questa può essere sia tipica che atipica, purché sia meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico.
Nel caso di causa atipica si assisterà ad un controllo di meritevolezza da parte del giudice, da effettuarsi tramite i principi dell’ordinamento giuridico, mentre, nel caso di causa tipica bisognerà appurare la concretezza della causa scelta (da intendere come “con- creta realizzabilità” della funzione economico sociale – individuale del contratto utiliz- zato).
59 Cfr. Cass., sez. civ., n. 1523/2010, in Foro it., 10/2010: 2825 e ss.
Affermava, già negli anni Sessanta, uno dei più grandi studiosi dell’abuso del di- ritto: «la dottrina dell’abuso di diritto avverte i legami che corrono tra l’abuso e la man- canza di giusta causa; essa sottolinea come la giusta causa, il motivo legittimo siano la “pietra di paragone” o l’“antidoto” dell’abuso»60. Sembra opportuno chiedersi, allora, quale sia, effettivamente, il rapporto tra causa, con particolare riguardo alla teoria della mancanza di causa concreta, e abuso del diritto, se questi viaggino su binari paralleli e si sovrappongano o se, semplicemente, la mancanza di una causa concreta sia un modo at- traverso il quale si palesa l’abuso del diritto.
Il fenomeno dell’abuso del diritto può essere visto sotto una triplice angolazione: l’an, ovvero la sua esistenza, il quomodo, come ‘modo’ attraverso il quale viene indivi- duato l’abuso, il remedium, cioè la conseguenza giuridica che l’abuso genera. Dando per assodato che l’abuso del diritto esista, è proprio il quomodo, ovvero il criterio, il para- digma, il metro attraverso il quale questo si palesa, uno dei problemi fondamentali.
Ci si domanda, quindi, se la mancanza di correttezza o di causa concreta possano essere due dei modi attraverso i quali l’abuso del diritto si manifesta.
Quelli cui si è accennato rappresentano certamente degli indici normativi che di- mostrano la sensibilità del diritto positivo al problema dell’abuso. Ed è proprio da tali disposizioni che prendono inspirazione le elaborazioni della dottrina e della giurispru- denza, le quali, nel corso del tempo, hanno di volta in volta contribuito a chiarire cosa fosse l’abuso del diritto e, soprattutto, in presenza di quali elementi e di quali condizioni la fattispecie venisse in concreto a configurarsi.
2. L’interdisciplinarità del fenomeno
Il tema dell’abuso del diritto coinvolge tutte le branche del diritto, dal diritto civile al diritto commerciale, a quelli del lavoro, penale, processuale e, in particolare, al diritto tributario il quale forse, ad oggi, ne rappresenta il terreno di studio più fertile.
La difficoltà di giungere ad una categorizzazione dell’abuso del diritto è da indi- viduare proprio nel fatto che proliferi in settori tanto eterogenei. Risulta perciò molto difficile trovare un nucleo essenziale per descrivere l’abuso del diritto che faccia da filo
60 XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, op. cit.: 86.
conduttore nei diversi ambiti, come si avverte anche dalla stessa casistica giurispruden- ziale sul tema61.
La nozione di abuso è di norma utilizzata per risolvere situazioni in cui il compor- tamento di una parte, dietro lo schermo formale del diritto attribuitogli dall’ordinamento stesso, è contrassegnato, nella sostanza, da modalità diverse da quelle previste dal legi- slatore e preordinato alla realizzazione di obbiettivi ulteriori e differenti da quelli collegati tipicamente alla situazione giuridica tutelata.
Altre ipotesi si ritrovano nello specifico settore del diritto societario, ad esempio nelle ipotesi in cui la Suprema Corte ha considerato la deliberazione assembleare di una società di capitali viziata da eccesso di potere, nel momento in cui risultava essere stata adottata dalla maggioranza dei soci a proprio vantaggio esclusivo e a danno dei soci di minoranza, in applicazione dell’art. 1375 c.c., «esecuzione di buona fede», che prevede il dovere di agire in buona fede nell’esecuzione del contratto.
Tale obbligo si riflette anche sull’esercizio del diritto di voto62. Perciò, nel caso in cui la delibera adottata sia palesemente in contrasto con l’interesse della società e funzio- nale agli obiettivi esclusivi e personali dei soci di maggioranza, e sia allo stesso tempo volta a ledere, intenzionalmente, la posizione dei soci di minoranza, si avrà un’ipotesi di abuso del diritto e la deliberazione sarà annullabile63.
61 Sulle incertezze della giurisprudenza nella ricerca di una definizione univoca di abuso del diritto si v. le riflessioni svolte infra, cap. II, sez. I par. 2, e par. 1, sez. II. L’incertezza permea altresì l’ambito comuni- tario, come emerge dalle decisioni della Corte di Giustizia. Su quest’ultimo punto si v. infra, cap. III, sez. I., par. 3.
62 Si x. Xxxx., sez. civ., n. 29776/2008, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx, in cui si afferma che «L’as- sunzione della qualità di socio e dell’obbligo di buona fede nell’adempienti delle obbligazioni, che discen- dono dal contratto di società, non comportano la preventiva rinuncia del socio ad avvalersi dei propri diritti e facoltà, anche derivanti da rapporti estranei al contratto sociale, ogni qualvolta essi possano in ipotesi rilevarsi lesivi dell’interesse della società; pertanto, l’esercizio di tali facoltà e diritti, ove non sia allegato l’abuso del diritto, non può fondare l’azione di esclusione del socio stesso dalla società». Nel caso di specie si trattava di un socio di s.n.c., locatore di un bene utilizzato dalla società, il quale aveva intimato ad essa lo sfratto per morosità, nonché mancato di approvare il bilancio sociale, richiesto la restituzione di somme mutuate alla stessa, esercitato le azioni di messa in liquidazione della società e di revoca dell’amministra- tore. Sul tema dell’abuso del voto si v. l’interessante contributo di DEL PRATO E., Voto contro compenso, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 4/2015: 167 e ss. Qui l’A. esprime un parere sul seguente quesito: se sia lecita una clausola che prevede un compenso (c.d. consent fee) per gli obbligazionisti che votino a favore della modifica proposta. L’A. afferma che tale xxxxxxxx sarebbe contraria a buona fede ex art. 1375 c.c. e, quindi, invalida (nello specifico si v. 170).
63 Si x. Xxxx., sez. civ., n. 27387/2005, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx, nella quale si afferma: «In applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo alla quale deve essere improntata l’esecuzione del contratto di società, la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui poten- ziale danno. L’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi,
Anche in ambito lavoristico si fa spesso riferimento al concetto di abuso del di- ritto. Basti pensare al problema dell’abuso dei diritti del datore di lavoro, noto con il termine “mobbing”.
In tali ipotesi il datore di lavoro pone in essere una condotta sistematica e protratta nel tempo, nei confronti del lavoratore e nell’ambiente di lavoro, che finisce per assumere forme di prevaricazione e di mortificazione psicologica, da cui può conseguire la morti- ficazione morale del dipendente o, addirittura, la sua emarginazione64.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la condotta “mobbizzante” possa estrinsecarsi sia in comportamenti che costituiscono manifestazioni di atti di esercizio di poteri materiali pacificamente illeciti, sia in comportamenti che sono all’apparenza – e quindi formalmente – corretti, ma che in realtà sono sostanzialmente abusivi, poiché eser- citati per raggiungere uno scopo diverso da quello tecnico-organizzativo che ne costitui- sce la causa.
Con il tempo la Giurisprudenza di legittimità ha espanso e dilatato la nozione di ingiustizia del comportamento datoriale, ravvisandone l’antigiuridicità anche in ipotesi di comportamenti materiali o di provvedimenti contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione con connotazione emulativa, indipendentemente dalla violazione di precisi e specifici obblighi contrattuali65. Anche ad avviso di attenta dottrina si tratterebbe di ipotesi di abuso del diritto nel caso in cui venga posta in essere una condotta pretestuosa e persecutoria, seppur formalmente legittima66.
Se l’abuso del diritto consiste nell’esercizio della propria posizione giuridica per un fine diverso da quello riconosciuto dall’ordinamento e si realizza quando l’atto che ne costituisce l’esercizio è dotato di una causa concreta difforme dalla causa astratta tipica,
causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustifica- zione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggio- ranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singoli. L’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto grava sul socio di minoranza che assume l’illegittimità della delibera- zione; nel concreto suo atteggiarsi, detta prova non deve ritenersi limitata ai “sintomi” dell’abuso della regola di maggioranza manifestatasi prima dell’adozione della delibera impugnata, potendo, viceversa, farsi leva su comportamenti o indizi cronologicamente successivi, in grado di rilevarne ex post la sussistenza». 64 Per un approfondimento sul tema si rinvia a XXXXXXXXX F., Il mobbing nella giurisprudenza, in QDLRI, 29/2006: 109 e ss. Si v., ex multis, Xxxx., sez. lav., n. 22858/2008, in Resp. civ. prev., 2/2009: 285.
65 Così, Cass., sez. lav., n. 4774/2006, in Xxxx.xx, 1/2006: 1344, che però, nella specie, esclude la condotta di mobbing per mancanza di prova del disegno persecutorio.
66 Sul punto si v., in senso conforme, il contributo di XXXXXXX A.M., L’ineluttabile agonia del danno da mobbing, in Xxxx.xx, 1/2009: 1377 e ss.
si assiste ad una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, con il fine di per- seguire scopi diversi e ulteriori da quelli indicati dal legislatore. Ovviamente non solo la causa del contratto, ma anche quella dell’atto unilaterale, deve essere conforme a quella attribuitagli dall’ordinamento.
Per quanto concerne i poteri datoriali, la causa consiste nella realizzazione dell’in- teresse tecnico-organizzativo, quindi ogni atto di esercizio dei poteri del datore di lavoro, diretto a un fine diverso da quello tecnico-organizzativo, può dirsi privo della sua causa tipica e per ciò stesso abusivo67.
L’abuso del diritto viene inteso in senso funzionale, perché ricondotto ad una di- sfunzione della causa, divenendo un vero e proprio limite per tutti quegli atti di esercizio di posizioni giuridiche attive, radicate nel contratto e negli atti di esercizio del potere datoriale, prescindendo dall’appiglio ad una norma specifica.
Parte della giurisprudenza di merito ha espressamente ricondotto il fondamento del divieto di mobbing al dovere generale di buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro e al divieto di abuso del diritto nell’esercizio dei poteri datoriali68.
In particolare, la Cassazione si è pronunciata di recente sul divieto di abuso del processo, cioè sull’esercizio abusivo e distorto di un proprio diritto all’interno di un giu- dizio, applicando tali principi ad un rapporto di lavoro69.
Questi rappresentano solo alcuni tra i settori più “caldi” in cui si riscontra l’appli- cazione giurisprudenziale, ma anche dottrinale, dell’abuso del diritto.
2.1. L’abuso nel diritto tributario
Considerata la matrice civilistica del tema ma, al tempo stesso, la dimensione in- terdisciplinare in cui esso si concretizza, non ci si può esimere dall’effettuare un appro- fondito confronto tra l’abuso del contratto nel sistema privatistico e l’abuso in materia tributaria. Per inciso, è appena il caso di precisare che si tratta di due “dimensioni di-
67 Per approfondimenti sul tema si x. XXXXXXX M.T., Il Bossing fra inadempimento dell’obbligo di sicurezza, divieti di discriminazione e abuso del diritto, in Riv. it. dir. lav., 2/2007: 133 e ss.
68 Tribunale di Lecce, sez. lav., 9 giugno 2005, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx
69 Cass., sez. lav., n. 4016/2016, in CED Cassazione, con riferimento all’impossibilità di frazionamento in diversi giudizi di una pretesa creditoria unica.
verse”, che sottendono due sfere distinte di interessi: nel civile l’interesse che maggior- mente viene protetto con l’applicazione del principio del divieto di abuso del diritto è l’equilibrio contrattuale delle parti, mentre, nel tributario viene tutelato l’interesse pub- blico, su cui il sistema tributario è improntato.
Ad oggi il tributario è tra i settori di maggiore interesse, sia in ragione del fre- quente impiego strumentale e improprio del contratto, sia per la vitalità dimostrata dalla giurisprudenza in materia ma, soprattutto, alla luce dei nuovi interventi normativi (ci si riferisce al D.Lgs. n. 128/201570).
L’abuso del diritto nel tributario ha conosciuto, negli ultimi anni, una diffusione particolarmente rilevante.
In tale campo, il lavoro di ricerca affronterà l’abuso del diritto tramite l’analisi degli strumenti classici dell’ermeneutica, constatando come si arrivi ad un intreccio tra lo strumento della clausola generale antiabuso e il principio di divieto d’abuso del diritto sviluppatosi a livello europeo, concretizzazione del più ampio principio dell’effettività del diritto dell’Unione europea71.
Il tema dell’abuso del diritto risulta ancora di grande attualità, sia in materia civile che in materia tributaria. Originariamente era riconducibile perlopiù alle risalenti teorie civilistiche72 ma, negli ultimi anni, si è diffuso ampiamente anche in altri settori del diritto fra cui, segnatamente, quello del diritto tributario.
Peraltro si consideri che, per sua natura, la norma tributaria si presenta come co- siddetta norma di secondo grado che, per poter configurare un presupposto impositivo, necessita a monte di istituti civilistici quali i contratti e i diritti reali.
Affinché vi sia un prelievo tributario è necessario che preesistano elementi rile- vanti in termini di patrimonio, reddito o consumo i quali, per loro natura, non possono prescindere da relazioni civilistiche o commerciali.
Pertanto, ogni qualvolta la giurisprudenza tributaria si è trovata a dover affrontare tematiche non riconducibili alle specifiche e analitiche norme antielusive (antiabusive) tributarie (in primo luogo l’articolo 37 bis del dpr. 600/1973, oggi abrogato), ha trovato
70 D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6, 7 e 8, comma 2, della Legge 11 marzo 2014, n. 23 (GU Serie Generale n.
190 del 18 agosto 2015).
71 I riferimenti sono, nello specifico, alle sentenze Halifax e Cadbury Schweppes.
72 ROTONDI M., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., op. cit.; XXXXXX U., Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., op. cit.; XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1/1965: 258 e ss.
agevole disconoscere gli “indebiti” vantaggi fiscali del contribuente, rilevanti sul piano della norma tributaria come norma di secondo grado, utilizzando istituti civilistici, rile- vanti nel diritto civile, di per sé presupposto primario rispetto alla norma tributaria.
A cavallo del 2000, la Cassazione ha, di volta in volta, disconosciuto gli indebiti vantaggi fiscali colpendo alla radice i contratti mediante i quali essi venivano perseguiti e realizzati: a volte si è privato di effetti fiscali il contratto ritenendolo al tempo stesso privo di effetti civilistici per nullità da illiceità della causa ex art. 1343 c.c., giungendo a configurare le norme tributarie come norme imperative73; altre volte, valorizzando il pro- filo patologico del contratto come mezzo, se non di diretta violazione, di aggiramento, ovvero, come mezzo per eludere l’applicazione di norme imperative ex art. 1344 c.c. An- cora, una tale improduttività di effetti si è fatta derivare dalla nullità per motivo illecito ex art. 1345 c.c.
Molto acutamente, in talune sentenze, l’improduttività degli effetti è stata fatta emergere dalla nullità per mancanza di causa in concreto, configurandola come mancanza di uno dei requisiti essenziali del contratto ex art. 1325 n. 2 e 1418, comma 2. Spesso, ma in modo quanto mai confuso, sono stati utilizzati gli istituti della simulazione assoluta e relativa e dell’interposizione fittizia di persona74.
Talvolta, infine, si è fatto uso del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, ovvero del principio di divieto di abuso del diritto desumibile dal diritto dell’Unione Europea75.
Questi importanti orientamenti giurisprudenziali, basati sulla centralità degli isti- tuti civilistici, sono stati poi clamorosamente spiazzati dalle note sentenze gemelle delle Sezioni Unite76 che sono giunte a qualificare il principio di capacità contributiva, ovvero il dovere di concorrere alle pubbliche spese ex art. 53 della Costituzione, come norma precettiva direttamente operante nel sistema normativo e tale da consentire il disconosci-
73 Cassazione, sez. trib., nn. 20816/2005 e 20816/2005, in Dir. prat. Soc., 12/2006: 83 e ss., con nota di MARSIGLIA G., “Dividend washing”: simulazione o nullità del contratto per frode alla legge.
74 Si v., ex multis, Xxxx., sez. trib., n. 20398/2005, in Corr. trib., 47/2005: 3729 e ss., con nota di COMMIT- XXXX G. M., SCIFONI G., Tassabili i proventi derivanti dal “dividend washing”.
75 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 febbraio 2006, causa c-255/02.
76 Cass. S.U. civ., n. 30055/2008 e Cass. S.U. civ., n. 30055/2008, in Riv. giur. trib., 3/2009: 126 e ss., con nota di XXXXXXXX A., L’art. 53 cost. come fonte della clausola generale antielusiva ed il ruolo delle “valide ragioni economi-che” tra abuso del diritto, elusione fiscale ed antieconomicità delle scelte imprenditoriali; Cass. S.U. civ. 30057/2008, in Corr. trib., 6/2009: 403 e ss., con nota di XXXX X., STEVANATO D., Xxxxxxxx interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva.
mento di tutti gli indebiti vantaggi fiscali ottenuti mediante contratti, atti, o comporta- menti identificati come abusivi, ovvero aggiratori rispetto al dovere di contribuire. Tutta- via, in queste sentenze, il problema degli effetti civilistici degli atti è stato del tutto tra- scurato. Del resto, però, lo stesso articolo 37 bis (dpr. n. 600/1973), medio tempore vi- gente, si disinteressava totalmente degli effetti civilistici delle operazioni elusive.
Invero tale norma, laddove per limitate e tassative operazioni consentiva all’Am- ministrazione finanziaria il disconoscimento dei vantaggi fiscali indebitamente fruiti dai contribuenti in presenza di comportamenti aggiratori o elusivi di obblighi o divieti tribu- tari, senza valide ragioni economiche, posti in essere proprio per ottenere vantaggi fiscali altrimenti non dovuti, trascurava del tutto il problema degli effetti civilistici di tali opera- zioni. L’art. 37 bis infatti si limitava a contemplare l’improduttività di effetti fiscali delle operazioni fiscalmente elusive77. Conseguentemente, restava aperto il problema degli ef- fetti, nei rapporti di diritto civile, di tali operazioni. Infatti, una delle domande che ci si pone, e alla quale si tenterà di rispondere nel prosieguo della trattazione, è la seguente: quel determinato contratto che, nei rapporti di diritto tributario, risulta abusato, e quindi inopponibile all’Amministrazione finanziaria, che sorte ha nei rapporti di diritto civile?
Dopo anni di dibattiti dottrinali e di scontri giurisprudenziali sulla configurabilità del divieto di abuso del diritto in materia tributaria come principio direttamente desumi- bile dal dovere di contribuzione ex art. 53 Cost., un recente intervento legislativo del 2015 ha introdotto una clausola generale antiabuso.
Ad oggi, secondo il nuovo art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale”: «configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'Amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi deter- minando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi». Ancora una volta l’approccio tributario, settoriale, lascia irrisolto il problema degli effetti civilistici delle condotte abu- sive.
77 Sul punto si v., in particolare, GALLO F., Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. prat. trib., 1/1992: 1765 e ss.
3. Lo svolgimento della ricerca
Il lavoro di ricerca si propone di svolgere, in primis, un’analisi ricognitiva dell’abuso del diritto in ambito contrattuale, partendo dalle origini del fenomeno, fino allo stato dell’arte. Ci si riserva di trattare con peculiare riguardo il profilo della trasver- salità dei principi e delle clausole generali forniteci dal diritto privato con particolare at- tenzione alle ricostruzioni giurisprudenziali, che sono sempre più inclini a privilegiare il divieto di abuso del diritto rispetto alle fattispecie collaterali codificate quali simulazione, e interposizione. In questa prima parte ci si soffermerà sui ragionamenti e sulle tesi avan- zate, nel tempo, dai principali autori che si sono occupati dell’argomento.
In seconda battuta, considerata la matrice civilistica del tema e, al tempo stesso, la dimensione interdisciplinare dell’argomento, sarà effettuato un confronto tra l’abuso del contratto nel sistema privatistico e l’abuso in materia tributaria.
Sarà poi approfondito il problema, particolare e centrale in questo lavoro, delle conseguenze civilistiche di un contratto “fiscalmente inquinato”. Ciò con il fine di riaf- fermare la primazia e la centralità del diritto privato con riferimento all’abuso contrat- tuale, e di dimostrare la necessità di ricollocare il contratto, la meritevole e genuina vo- lontà delle parti, nonché la causa, al centro della produzione degli effetti.
Si tenga presente che l’abuso del diritto deve la sua notorietà anche al quasi spro- positato utilizzo che ne ha fatto la giurisprudenza comunitaria, dando luogo ad un im- piego, probabilmente esagerato, dello strumento e creando una sorta di “abuso dell’abuso”.
Sembra che il diritto giurisprudenziale non solo nazionale78, ma anche europeo, si stia orientando verso soluzioni anti-formalistiche e talvolta soggettivistiche, in modo non sempre consapevole. Alla luce di ciò saranno analizzate anche le più importanti decisioni della Corte di Giustizia sul tema.
78 Sul tema, con riguardo specialmente all’abuso nel diritto tributario si v, in particolare, ZIZZO G., L’abuso dell’abuso del diritto, in Riv. giur. trib., 2008: 465 e ss.; XXXXXXXX G., Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. Trib., 13/2009: 1076 e ss.; DE CARIA R., La nuova fortuna dell’abuso del diritto nella giurisprudenza di legittimità: la Cassazione sta abusando dell’abuso? Una riflessione sul piano costitu- zionale e della politica del diritto, in Giur. Cost., 2010: 3627 e ss. Per considerazioni critiche sulla giuri- sprudenza della Cassazione si v. anche l’approfondito contributo di CONTRINO A., Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. prat. trib., 1/2009: 463 e ss.
Meritano altresì una specifica analisi i più recenti processi di positivizzazione della categoria dell’abuso del diritto. Si approfondiranno soprattutto gli input fornitici dal diritto europeo all’art. 54 della Carta di Nizza.
In quest’ottica si faranno accenni anche alle diverse applicazioni del divieto di abuso all’interno dell’Unione, specialmente ai sistemi giuridici degli Stati membri che sono giunti a consacrare il divieto di abuso del diritto in una norma positiva (ad esempio l’Austria), nonché all’ordinamento tedesco, che, similmente all’Italia, non ha mai positi- vizzato il divieto di abuso del diritto all’interno del codice civile ma, sia la dottrina che la giurisprudenza, ne hanno fatto ampio utilizzo, spesso riconducendolo al divieto di atti emulativi e al principio generale di buona fede. Inoltre, l’ordinamento tedesco ha costitu- zionalizzato l’abuso del diritto e ciò rappresenta certamente una peculiarità.
CAPITOLO I
DALL’AEMULATIO ALL’ABUSO DEL DIRITTO CONTRATTUALE OGGI
Sezione I
Il definitivo superamento del principio qui suo iure utitur neminem laedit
SOMMARIO: Premessa introduttiva. 1. Le radici del divieto di abuso del diritto: l’aemulatio. 2. Il divieto nel Code Napoleon del 1804 e nel codice civile italiano del 1865. 3. L’abuso del diritto nel progetto del codice italo-francese, nel progetto preliminare del codice del 1942 e nei lavori dell’Assemblea Costituente. 4. Gli orientamenti della dottrina italiana.
Premessa introduttiva
Come anticipato nell’introduzione, il primo capitolo del presente lavoro si propone, tra gli obiettivi, quello di indagare sulla conformazione dell’abuso del diritto, a partire dalle sue radici.
A tal fine, la sezione I verrà dedicata all’iter ricostruttivo dell’istituto. Si partirà dall’ana- lisi della figura dell’aemulatio, cercando di comprendere il suo ruolo nel diritto romano e i punti di connessione con l’abuso del diritto inteso in senso moderno.
Una volta individuate le sue radici storiche ci si soffermerà sul divieto di abuso del diritto all’interno del Code Napoleon in quanto, da sempre, l’ordinamento francese ha costituito un esempio per il nostro sistema civilistico e sul progetto preliminare al codice civile italiano del 1942.
In chiusura della sezione I sarà effettuata un’analisi dei primi orientamenti dottrinali, in- tesi a riconoscere la configurabilità giuridica dell’abuso del diritto dopo la stesura del codice civile.
Sarà messo in evidenza l’orientamento prevalente: è ormai riconosciuto all’abuso un ruolo centrale, non solo nel campo della proprietà, ma anche, e soprattutto in ambito con- trattuale. Vi è, in sintesi, il superamento della concezione che ritiene l’abuso “derivante” dagli atti emulativi in senso stretto.
Si è ritenuto che una breve ricognizione dell’istituto in tal senso rappresenti il presupposto necessario, sia per poter passare a parlare dell’istituto dell’abuso del diritto “oggi”, spe- cialmente, come si vedrà, nel diritto contrattuale, sia per poter comprendere come mai nei confronti di questo istituto vi sia ancora tanta diffidenza.
1. Le radici dell’abuso del diritto: l’aemulatio
La figura del divieto di abuso del diritto giunge fino alla cultura giuridica mo- derna attraverso la rielaborazione dell’antico concetto romano di aemulatio da parte dei giuristi del diritto comune1. La questione degli atti emulativi, sottospecie della più vasta categoria degli atti di abuso, è sempre stata molto dibattuta e le fonti in materia si mo- strano tutt’altro che univoche.
Sembrerebbe che nel diritto romano classico il termine aemulatio avesse un signi- ficato non del tutto corrispondente a quello moderno di ‘atto emulativo’.
Si ritiene che in antichità l’espressione volesse indicare l’imitazione, motivata da invidia e atta a suscitare risentimento, presentando, in comune con l’odierna nozione di abuso, soltanto la rilevanza dell’intenzione malevola, quale criterio per affermare la non meritevolezza di un qualsiasi tipo di tutela, o l’illiceità di un atto altrimenti lecito.
Tra l’altro, sembrerebbe che la regola dell’aemulatio riguardasse, in origine, il diritto pubblico più che i rapporti tra i privati, e che essa fosse volta essenzialmente a proibire al privato cittadino l’edificazione di una nuova opera (opus novum), normal- mente consentita quando l’opera stessa fosse volta ad aemulationem alterius civitatis, ovvero idonea a suscitare rivalità tra città2. Infatti, nella legge del Digesto si vietava ai privati di erigere nuove opere in una città, senza l’approvazione del sovrano, quando, essendo fatte per gareggiare con altre città, avrebbero potuto creare gelosie e pubblici disordini3.
1 Per un’approfondita ricostruzione storica sul tema si v.: XXXXXXXX X., voce ‘Aemulatio’, in Studi Giuridici, vol. III, Diritto privato, Xxxx, 0000: 216-259; ROTONDI M., L’abuso del diritto. Aemulatio, Xxxxx, Pa- dova, 1979: 36 e ss.; GUALAZZINI U., Abuso del diritto (diritto intermedio), in Enc. Dir., I, Xxxxxxx, Milano, 1958: 38 e ss.
2 GROSSO G., Atti emulativi (diritto romano), in Enc. dir., vol. IV, Xxxxxxx, Milano, 1959: 27 e ss.; XXXXXXX M., L’abuso del diritto. Aemulatio, Cedam, Xxxxxx, 0000: 38 e ss.
3 SCIALOJA V., op. cit.: 217.
Da altre fonti, tuttavia, si ricavano indicazioni in merito all’esistenza di un divieto per il proprietario di compiere atti che, seppur formalmente rientranti nell’ambito delle sue prerogative, fossero idonei a cagionare danni ad altri proprietari, come nel caso dello ius tollendi4 e degli atti che comportassero la recisione di sorgenti d’acqua con pregiudi- zio di altri proprietari5.
Non di rado il diritto di proprietà dei Romani fu rappresentato, dalla dottrina, come tendenzialmente assoluto e tale da non incontrare alcun limite nelle modalità intenzional- mente dannose del suo esercizio6. Ciò, sulla scorta di quelle fonti che sembrano negare la possibilità di sindacarne l’esercizio sulla base della eventuale intenzione ‘malevola’ del proprietario.
Tuttavia, parte della dottrina romanistica ha rilevato che, pur in assenza di un di- vieto generale di abuso del diritto di proprietà attraverso regole specifiche, determinati comportamenti del proprietario, ispirati dal solo scopo di cagionare un danno, venissero sanzionati come illeciti, estromettendo in questo modo la rilevanza giustificativa del prin- cipio, che pure emerge dalle fonti, «qui suo iure utitur neminem laedit7».
Il brocardo starebbe a sottolineare l’assoluta insindacabilità di qualsivoglia forma di esercizio di un diritto rispettoso dei limiti legalmente stabiliti.
Alla massima si sono “ancorati” coloro che negano il divieto degli atti di emula- zione. Essi si sono basati su alcuni principi romani – oltre al già nominato «neminem laedit qui suo iure utitur»8, ci si riferisce ai brocardi «non videtur vim facere, qui iure suo utitur et ordinaria actione expeditur»9, «nemo damnum facit, nisi qui id fecit quod tacere
4 Lo ius tollendi è il diritto di “separare”. Consiste nel diritto del proprietario dei materiali con i quali il proprietario del suolo ha fatto costruzioni, a chiederne la separazione, se essa può farsi senza recare grave danno all’opera costruita.
5 XXXXXXXXX S., La teoria dell’abuso del diritto nella dottrina romana, in Bollettino dell’istituto di diritto romano “Xxxxxxxx Xxxxxxxx”, 5/939: 1 ss.
6 SCIALOJA X., voce ‘Aemulatio’, op. cit.: 236 e ss. L’A. riprende a dimostrazione dell’inesistenza del di- vieto di atti di emulazione diversi frammenti della dottrina romanistica, mettendoli a confronto con le tesi di chi sosteneva, all’epoca, l’esistenza del divieto.
7 BARTOSEK M., Sul concetto di atto emulativo specialmente nel diritto romano, in Atti del congresso in- ternazionale di diritto romano e storia del diritto. Verona 27-28-29-IX-1948, vol. III, Xxxxxxx, Milano 1951: 189-237. Per una trattazione generale di queste questioni si v. anche XXXXXXXXXX DE BÉRIER F., L’abuso del diritto nell’esperienza del diritto privato romano, Utet, Torino 2013.
8 «Colui che esercita un proprio diritto non nuoce a nessuno». Ci si è spesso serviti della massima per contrastare l’esistenza del divieto di atti emulativi nonché, più in generale, come argomento contro l’esi- stenza nel diritto romano del divieto di abusare del diritto, ossia della possibilità di esprimere opposizione contro l’abuso delle facoltà. Il brocardo fu formulato probabilmente nel Medioevo.
9 «Colui che esercita un proprio diritto e intenta una causa ordinaria non sembra compiere un atto di “forza”», D. 50.17.155.1 (Xxxx. 65 ed.).
ius non habet»10 – e, generalizzandoli oltre il loro significato, hanno portato avanti l’idea che se l’atto, ovvero l’esercizio di un diritto, è di per sé lecito, non può trasformarsi in illecito a causa dell’intenzione di chi lo compie. Questa parte della dottrina ritiene che sostenere l’esistenza del divieto di atti emulativi significa confondere le idee di diritto con quelle di etica, cosa che sarebbe avvenuta nel Medioevo.
Nell’età del diritto intermedio, infatti, la materia dell’aemulatio viene approfon- dita in relazione ai rapporti di vicinato. Per giustificare il divieto, il carattere emulativo dell’atto del proprietario viene collegato alla presenza dell’animus nocendi, che assume particolare rilevo anche sulla scorta dell’influsso della morale cristiana11.
Attraverso la dottrina intermedia era passata come opinio communis, sia nella dot- trina che nella giurisprudenza italiana e francese, l’esistenza di un divieto generale di atti emulativi. Considerato che le fonti medievali facevano derivare le loro costruzioni dalle fonti romane, si ripeteva che anche per il diritto romano vigesse un divieto assoluto e generale di atti emulativi, corroborando l’affermazione con gli aforismi conservatici nel Corpus Iuris Civilis, specialmente in materia di acque.
I giureconsulti medievali costruirono una complessa teoria nella quale compresero i casi più eterogenei. Essi consideravano vietata ogni opera che fosse grave nocumento al vicino, senza utilità di chi edifica, o con un’utilità sproporzionata rispetto al danno dell’al- tro.
Il fine malizioso dell’atto emulativo veniva correlato con il profilo utilitaristico, affermandosi l’idea che la ragione del divieto degli atti di emulazione potesse essere tro- vata nella inutilità dell’atto per il titolare del diritto, unita alla sua nocività per i terzi12.
10 Letteralmente “Nessuno arreca danno, se non chi compie un’azione che egli non ha il diritto di compiere”, D.50.17.151 (Xxxx. 64 ed.).
11 La morale cristiana esaltò al massimo i doveri dei singoli nella comunità, la fratellanza tra gli uomini, e vietò quelle azioni che arrecassero danno ad altri. Si vedano sul tema: GAMBARO A., Il diritto di proprietà, Xxxxxxx, Milano, 1995: 474 e ss.; ASTUTI G., Atti emulativi (dir. intermedio), in Enc. dir., vol. IV, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 30 e ss.; GUALAZZINI U., Abuso del diritto (diritto intermedio), in Enc. dir., vol IV, Xxxxxxx, Milano: 164 e ss. L’ideologia cattolica avrà in epoca contemporanea un certo rilievo nell’elaborazione della dottrina dell’abuso soprattutto in ambiente francese; cfr. XXXXXXXX P., Abuso del diritto, Il Mulino, Bolo- gna, 1998: 33 e ss. L’altra tradizione ideale alla quale il medesimo Autore attribuisce un ruolo rispetto alla costruzione dell’idea dell’abuso del diritto (in particolare entro quei sistemi, come quello italiano e fran- cese, caratterizzati dall’assenza di espresse previsioni legislative) è, come noto, quella “socialista” (termine da intendersi secondo le precisazioni dell’Autore).
12 Si può menzionare ad esempio il divieto di aprire vedute al fine di rendere possibili sguardi indiscreti sul fondo del vicino.
Ciò conduceva ad eludere la prova positiva dell’animus, impiegando nella prassi, a dispetto dell’assunto secondo il quale aemulatio non praesumitur13, l’assenza di utilità dell’atto per il suo autore come criterio da cui presumere l’intenzione di nuocere e, quindi, l’abusività dell’atto14.
Si creò una tendenza che portò all’elaborazione di un sistema di presunzioni in base alle quali determinati tipi di atti, dannosi per i terzi e connotati dall’inutilità per l’autore, venivano giudicati ipso facto “emulativi”15.
La tecnica delle presunzioni faceva operare il divieto di atti emulativi a prescin- dere dalla prova del dolo specifico dell’autore dell’atto, prendendo la forma di un sistema di regole e limiti obbiettivi all’esercizio del diritto di proprietà che davano luogo ad una responsabilità sostanzialmente oggettiva16.
Le più estese applicazioni del divieto di atti emulativi sono sorte nel diritto giusti- nianeo; dopo il lavoro preparatorio della Glossa, i glossatori ne fecero ampio utilizzo. Essi applicarono il divieto a fattispecie non previste dalle fonti romane e, approfittando dell’elasticità cui si prestava il divieto per l’esistenza del suo elemento subbiettivo, ne ampliarono il fondamento testuale proveniente dalle fonti romane e costruirono una dot- trina autonoma e generale sul divieto stesso.
Le presunzioni, basate in gran parte su elementi puramente materiali, riescono a cristallizzare il principio del divieto entro un gran numero di casi nei quali a poco a poco, offuscandosi la vera ratio giuridica del divieto, non si avvertono più che delle limitazioni obiettive all’esercizio del diritto che vanno a collocarsi accanto a tutta la vasta serie delle limitazioni al diritto di proprietà.
Tutti questi casi assumono vita autonoma e indipendente, il principio generale ed astratto si perde e si assiste alla scomparsa del divieto, probabilmente provocata dal pre- valere delle dottrine giusnaturalistiche che formarono l’ambiente spirituale e filosofico delle prime codificazioni.
13 Il riferimento è ad Alciato, «Opus in suo facies, non praesumitur nocendi animo tacere».
14 V. diffusamente SCIALOJA X., voce ‘Aemulatio’, op cit.: 217 e ss.; ROTONDI M., L’abuso del diritto. Aemulatio, op. cit.: 95 e ss.
15 Ci si riferisce, ad esempio, all’apertura di una veduta secondo modalità tali da danneggiare il vicino, quando sarebbe stato possibile aprirla senza danni, all’erigere una costruzione inutile sul confine del fondo vicino; al costruire mulini danneggiando mulini sottostanti.
16 XXXXXXX X., voce Abuso del diritto - II) diritto comparato e straniero, in Encic. giur., vol. I, Xxxx, 0000: 3; X. XXXXXXX, L’abuso del diritto. Aemulatio, op. cit.: 107 e ss.
A provocare questo cambiamento di tendenza è anche la separazione, che va sem- pre più accentuandosi, tra: diritto, morale, religione. Queste tre diverse norme etiche, che nell’età di mezzo erano state spesso confuse, vengono ora a distinguersi in maniera netta. Nella teorica dell’aemulatio l’elemento morale costituisce una parte importante,
per cui si comprende che, con il prevalere delle nuove idee dettate dal giusnaturalismo, il divieto non possa più trovare la stessa approvazione.
A ciò si aggiunga che alla nuova concezione filosofica il sistema giuridico appare come un sistema di logiche deduzioni formate da pochi principi fondamentali ben definiti, tra i quali spicca il principio individualista.
Ulteriore elemento da non trascurare è la rinascita del diritto romano. Più che il diritto giustinianeo, però, risorge il diritto classico, maggiormente caratterizzato da idee rigidamente individualistiche17. In esso la scuola del diritto naturale vede una sorta di ratio scripta, in cui si applicano tutti i postulati della sua concezione giuridica e del diritto romano classico, che forma la base per le future codificazioni del diritto privato.
Allora, se si considerano le scarse ed eccezionali applicazioni del divieto degli atti compiuti animo nocendi nel diritto giustinianeo, se si tiene presente che tale divieto è assolutamente estraneo al diritto classico e che è appunto questo che risorge come il più affine alle rinate tendenze individualistiche, si comprende come fosse naturale che le nuove codificazioni segnassero per la teorica dell’aemulatio un vero e proprio declino.
Tra i tanti sostenitori dell’inesistenza del divieto di atti emulativi non ci si può esimere dal nominare il Rotondi e lo Scialoja.
Xxxxxxx sostiene che nel diritto romano i casi di abuso del diritto, e nella specie gli atti di emulazione, non abbiano rilevanza giuridica, ma esclusivamente sociale.
Negli anni dell’elaborazione della teoria del divieto di atti emulativi era diffuso il convincimento che tale figura rappresentasse un concetto di natura etico-morale e non una nozione giuridica, con la conseguenza che colui che abusava di un diritto veniva considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione da parte dell’ordinamento18.
17 Sul tema della dottrina giusnaturalistica e la sua influenza sulle prime codificazioni, si v. G. SOLARI, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Bocca, Torino, 1904, specialmente: L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato, vol. I, L’idea individuale, Bocca, To- rino, 1911.
18 Come detto in precedenza, intransigente nei confronti della figura dell’abuso del diritto è ROTONDI M., L’abuso del diritto. Aemulatio, op. cit.: 105 e ss.; secondo l’A. l’abuso del diritto «è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue
Da un’analisi delle fonti si dovrebbe propendere per l’inesistenza, sia nel diritto classico, che nel diritto giustinianeo, di un divieto generale19.
Sostenere tale tesi elimina l’antinomia cui incappava la soluzione tradizionale da- vanti alle affermazioni, spesso trasformate in brocardi correnti, come il «nullus videtur dolo facere qui suo iure utitur»20, il «nemo damnum facit nisi qui id fecit quod facere jus non habet»21, il «qui iure suo utitur neminem laedit», accordandosi perfettamente con essi.
Xxxxxxxx, che fu tra i primi a reagire a coloro che sostenevano l’esistenza di un generale divieto di atti emulativi, arrivava a tali conclusioni: «Gli atti di emulazione non sono proibiti. Il proprietario può fare tutto ciò che sia compreso nei limiti oggettivi del suo diritto, senza che sia ammessa l’indagine circa la sua intenzione»22 e ancora, «riassu- mendo, dunque, diremo che non vi è divieto degli atti di emulazione, come tali; che il proprietario è libero nelle sue azioni quando non ne derivi un conflitto di diritti; che fi- nalmente nel caso di conflitti di diritti, dei quali uno abbia il suo fondamento e la sua sostanza nell’utilità di chi lo esercita, quest’ultimo diritto, mancando la utilità, deve venir meno»23.
applicazioni che dono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, è ciò per la contraddizione che sol consente».
19 Si v. sul tema BRASIELLO T., Il cosiddetto abuso del diritto e gli atti di emulazione, in Problemi di diritto romano esegeticamente valutati, Il Mulino, Bologna, 1954. Tale problema è collegato a quello dei rapporti tra diritto e morale, in quanto una certa attività potrebbe essere conforme al diritto, ma condannata dall’etica. L’A. sostiene che d’altronde non è possibile non tenere distinti il diritto e la morale, perché le due norme hanno caratteristiche diverse, poiché il diritto trasfonde in qualcosa di tecnico, quasi di strumen- tale, quelli che possono dirsi precetti morali. L’esigenza di dare sempre un carattere di giuridicità al divieto di un atto da parte del diritto ha dato luogo a vari tentativi e a varie posizioni. Da un lato alcuni studiosi hanno creduto di dovere assolutamente escludere la possibilità del divieto di un esercizio, che appaia con- forme al diritto, anche se non conforme alla morale. Altri autori sono invece convinti che tali atti devono essere vietati dal diritto, e hanno tentato di dare al divieto una base giuridica. L’A. evidenzia che il piano più vasto è quello dei cosiddetti atti di emulazione. Gli atti di emulazione, detti anche di chicane, sono quelli appunto compiuti dal proprietario di una cosa, in particolare di un fondo, nell’esercizio di un’attività che sarebbe lecita, ma che viene esercitata proprio per molestia o dispetto al vicino. Si è andati però anche oltre e fuori del campo della proprietà. Per ciò che riguarda il divieto degli atti di emulazione, certo questa espressione è una creazione dei giuristi dell’età di mezzo. Infatti il testo da cui è sorta non aveva una portata così generale. Non esiste nemmeno una vera e propria categoria. Le ipotesi in cui effettivamente si riscontra sono ben poche rispetto alle tante introdotte dai giureconsulti medievali.
20 «Colui che esercita il proprio diritto non si ritiene rechi alcun danno».
21 «Nessuno arreca danno se non colui che ha compiuto un’azione che non ha il diritto di compiere».
22 SCIALOJA X., voce ‘Aemulatio', op. cit.: 439.
23 Ibidem. Sul tema si v. anche ATZERI-VACCA F., Sulla dottrina degli atti ad emulazione: appunti, Cagliari, 1886. In senso contrario al precedente A. si x. XXXXXX E., Xxxxx atti ad emulazione nell’esercizio del diritto di proprietà in Archivio Giuridico, 52/1893: 315 ss. Dall’esame dei frammenti romani l’A. trae la conclusione che anziché essere una costruzione medievale come vorrebbe lo Scialoja, «a teoria degli atti emulativi traesse le sue basi dallo spirito del diritto romano: nel medioevo le speciali condizioni politiche,
Tra i tanti autori che si espressero sul tema va menzionato anche il Xxxxxxx, che affermò: «Dogmaticamente così Xxxxxxxxxxx xxxx semplicemente delle nuove limitazioni legali della proprietà immobiliare». Si tratta di norme che non riguardano neppure in ge- nerale i rapporti di vicinanza, ma semplicemente fanno parte di una vasta riforma giusti- nianea in materia di acque, ispirata al principio dell’utilità sociale. L’Autore conclude affermando che anche le interpolazioni di quei testi tanto dibattuti non applicano il divieto degli atti emulativi, ma pongono limitazioni obiettive all’esercizio di un diritto, le quali trovano fondamento in ragioni di utilità sociale24.
Stando al brocardo «qui iure suo utitur neminem laedit», chi è titolare di un diritto non può incorrere in responsabilità soltanto perché decide di esercitare legittimamente tale diritto violando un principio implicito, insito nell’ordinamento.
Contrariamente, si qualificherebbe ‘danneggiante’ colui che ha agito in iure, nell’esercizio del proprio diritto, ma che ne avrebbe anche abusato.
Già la radice etimologica del termine “abuso”, ovvero “ab-uti”, allude ad un uso anormale o non usuale di un potere, tale da rendere il comportamento tenuto dal soggetto ‘eccedente’ la sfera delle prerogative esercitabili, ovvero in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il potere stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico positivo.
In latino il verbo ‘abusare’ viene utilizzato nell’accezione, non solo di giovare e usufruire, ma anche di “fare cattivo uso di qualcosa”, nonché consumare del tutto qual- cosa o dilapidare25.
il predominio dell’elemento religioso, le esorbitanti prepotenze dei signori feudali hanno certamente favo- rito a dare maggiore sviluppo alla nostra teoria ed anche certe volte a falsarne il concetto, applicandola a casi cui essa non avrebbe dovuto certamente riferirsi, ma ciò non toglie che il principio sia esclusivamente romano». Ancora si v. sul tema XXXXXXX S., Il divieto di atti d’emulazione e il regime giustinianeo delle acque privata, in Archivio Giuridico, vol. 53, 1984: 350 e ss.
24 L’A. afferma che il pensiero giustinianeo «si riduce a un principio di utilità sociale, che prende la forma di un’equità naturale, secondo la quale vanno regolati i conflitti d’interesse rispetto alle acque quando questi conflitti esistano, e che senz’altro fa stabile norme, per le quali sia assicurato il più pieno godimento delle acque a favore di più fondi, che non sia possibile».
25 Per un ulteriore approfondimento, si rimanda a XXXXXXXXX XXXX L., Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Utet, Torino, 1988, secondo cui «l’abuso attiene non all'estensione del contenuto del diritto, ma alle sue modalità di esercizio: l'atto abusivo pertanto non è un'ipotesi di eccesso dal diritto (per- ché non fuoriesce dal suo contenuto), ma di cattivo esercizio dello stesso». Per una migliore disamina dei concetti di eccesso del diritto, abuso del diritto e abuso di potere, si richiamano inoltre BUSNELLI F. E NA- VARRETTA E., Abuso del diritto e responsabilità civile, Studi in onore di Xxxxxx Xxxxxxxx, V, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Xxxxxxx, Milano, 1998:181, i quali ritengono che «l’eccesso dal diritto implica un superamento di limiti determinati in astratto e a priori, mentre l'abuso del diritto coinvolge, viceversa, una tipologia di regole che permettono una valutazione giudiziale a posteriori».
Per quanto detto, si dovrebbe riconoscere la mancanza nel linguaggio giuridico romano di una parola o di una locuzione che corrisponda univocamente al nostro concetto di abuso del diritto.
Neppure si troverebbe nel latino classico un equivalente di quell’altro concetto che non si identifica esattamente con l’abuso, ma che dell’abuso rappresenta una species, ovvero il concetto di emulazione in senso giuridico. Il corrispondente vocabolo latino “aemulatio” sembra avere un significato ben differente, che comprende, oltre al signifi- cato nostro volgare di emulazione, quello di invidia.
A suffragare quanto detto si potrebbe richiamare la spiegazione di Xxxxxxxx sull’aemulatio: «Aemulatio autem dupliciter illa quidem dicitur ut et in laude et in vitio nomen hoc sit. Nam et imitatio virtutis aemulatio dicitur […] et est aemulatio aegritudo, si eo, quod concupierit, alias potiatur, ipse careat»26.
2. Il divieto nel Code Napoleon del 1804 e nel codice civile italiano del 1865
Prima di poter parlare di abuso del diritto come principio generale che governa, in particolare, nell’ambito del diritto privato, l’ambito contrattuale, non ci si può esimere, in questo breve excursus storico, dal richiamare l’influenza che la teoria degli atti emula- tivi ebbe in Francia nell’epoca della codificazione. La teorica si presentava come un li- mite alla libertà del proprietario, contrastante con il carattere assoluto ed esclusivo del diritto di proprietà che si voleva affermare con il Code Napoleon.
Altro motivo che portava a negare la teoria del divieto di atti emulativi era che la sua applicazione veniva affidata, almeno per quanto riguarda la sua giustificazione ideale, al criterio soggettivo dell’animus, che si prestava a incerte manipolazioni da parte del giudice, compromettendo gli ideali della certezza del diritto e del monopolio del legisla- tore nella creazione delle regole.
26 CICERONE. Tuscolanae Disputationes, 4.8.17: «L’emulazione ha un senso doppio, dato che il termine ha un significato buono e uno cattivo: infatti emulazione è considerata l’imitazione della virtù, ma in relazione a questa non vi è qui da discorrere, essendo lodevole; ma l’emulazione (di cui si discorre) è tristezza, quando altri goda di quello che tu volevi».
Il Code Napoleon, infatti, non faceva menzione del divieto, né in sede di disciplina del diritto di proprietà, né rispetto all’esercizio dei diritti soggettivi in generale. Nell’am- bito della disciplina della proprietà, tuttavia, parte dei problemi rispetto ai quali la dottrina dell’emulazione era stata concepita potevano trovare soluzione nelle regole che il codice dedicò, ispirandosi alla Cotume de Paris, alle distanze legali e alle prescrizioni di carat- tere amministrativo relative allo sviluppo urbanistico27.
Nonostante la mancata menzione del principio nel Code Napoleon, si sviluppò la teorica dell’abuso del diritto, che divenne oggetto di approfondite riflessioni della dottrina e di alcune importanti pronunce della giurisprudenza francese.
L’elaborazione della dottrina dell’abuso prese le mosse dalla irrazionalità cui l’ampiezza della formulazione dell’art. 544 sulla proprietà: «La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso proibito dalle leggi e dai regolamenti». La norma, che intende il diritto del proprietario in termini assoluti ed esclusivi, veniva coniugata con l’efficacia scriminante dell’esercizio del diritto rispetto all’imputazione di responsabilità, creando una sorta di immunità gene- ralizzata per le condotte del proprietario28.
Dall’esperienza francese (come anche da quella italiana) si distinsero altre codifi- cazioni che recepirono espressamente il divieto di abuso del diritto, formulandolo anche in termini generali29. Spesso l’individuazione del divieto, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, venne ancorata a vari criteri, che vanno dall’intenzione di nuocere, al superamento dei limiti normali nell’esercizio del diritto, alla contrarietà alla buona fede30.
27 GAMBARO A., Il diritto di proprietà, op. cit.: 476.
28 Rispetto a tali condotte, infatti, la responsabilità aquilana dell’art. 1382 del Codice Xxxxxxxxxxx rimaneva inoperante.
29 Il riferimento è, nello specifico, al codice prussiano del 1794, che gli dedica due distinti gruppi di norme. Con riferimento all’esercizio del diritto in generale, le modalità intenzionalmente dannose della condotta conducono ad escludere l’ordinaria efficacia scrutinante dell’esercizio del diritto ai fini della responsabilità per danni extracontrattuali (paragrafo I. 6. §36, in cui si stabiliva che l’esercizio del diritto esenta da re- sponsabilità per i danni che ne derivano secondo il noto schema delle cause di giustificazione). Al succes- sivo I. 6. §37 tale ordinaria efficacia scrutinante dell’esercizio del diritto veniva esclusa per il caso in cui tra diverse modalità possibili di esercizio del diritto l’agente ne sceglie una dannosa per il terzo, con la specifica intenzione di danneggiarlo. In tema di proprietà, i paragrafi I. 8. §27 e I. 8. §28 stabilivano che nessuno potesse abusare della proprietà al fine di arrecare molestia o danno ad altri e si definiva l’abuso come quell’uso della proprietà che per sua natura potesse avere soltanto l’intenzione di recare danno ad altri. Altro esempio è rappresentato dal codice civile tedesco (nello specifico si v. il §226, incentrato sull’in- tenzione di nuocere quale scopo esclusivo dell’atto di esercizio del diritto).
30 Per un quadro generale dei possibili criteri di identificazione dell’abuso, non limitato al diritto italiano,
v. BRECCIA U., L’abuso del diritto, in Diritto Privato, III, Cedam, Padova 1997: 18 e ss.; da ultimo SACCO R., Abuso del diritto, in Dig. Disc. priv., sez. dir. civ., Utet, Torino, 2012.
La figura dell’abuso del diritto nasce tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo31, con lo scopo di reintrodurre l’aemulatio del diritto post classico e giustinianeo, poi transitata nel diritto intermedio con il senso impressogli dal Cristianesimo32, al fine di mitigare l’estremo rigore dell’individualismo riversato nella legislazione della rivolu- zione francese, specie in materia di diritto di proprietà33.
In un secondo momento, nell’ordinamento francese il principio del divieto dell’abuso del diritto si fece sentire ulteriormente, andando oltre il concetto di aemulatio, attingendo dall’esperienza dell’actio de dolo e dall’exceptio doli generalis, utilizzate nel diritto romano.
È opportuno aprire una breve parentesi su tale ultimo istituto34. Si tratta di uno strumento di tutela, volto a fornire una tutela non risarcitoria, bensì reale, che permette di opporsi a un’altrui pretesa, o eccezione, astrattamente fondata, ma che è espressione di uno scorretto esercizio di un diritto, volto al soddisfacimento di interessi non meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico35.
In passato lo strumento era utilizzato in ambito processuale con lo scopo di cor- reggere lo ius civile e tutelare interessi e rapporti in contrasto con lo stesso.
Nel diritto moderno viene usato in relazione alla problematica dei limiti sussistenti nell’esercizio di diritti soggettivi ed è volto alla realizzazione di un adeguamento del di- ritto alla realtà sociale36.
Non ci sono norme espressamente dedicate all’exceptio doli nel codice civile, ma norme aventi la medesima ratio. Il rimedio è stato spesso identificato con il principio di
31 Come è noto, la giurisprudenza francese formulò una dottrina, volta a limitare l’esercizio del diritto di proprietà nei casi in cui, per la mancanza di un interesse serio e legittimo da parte del proprietario, dovesse ritenersi che l’atto fosse ispirato dall’intenzione di nuocere ad altri, successivamente indicata con l’espres- sione «abus de droit».
32 SCIALOJA X., voce ‘Aemulatio’, op. cit.: 216 e ss.; XXXXXXXXXX U., Abuso del diritto (dir. interm.), in
Enc. dir., vol. I, Xxxxxxx, Milano, 1958: 163 e ss.; G. ASTUTI, Atti emulativi, op. cit.: 29 e ss.
33 Cfr. GAMBARO A., Il diritto di proprietà, op. cit.: 476 e ss.; ROTONDI M., L’abuso del diritto. Aemulatio, op. cit.: 297 e ss.; XXXXXXXX G., Responsabilità civile e abuso del diritto tra Xxxx e Novecento, in VELLUZZI (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Xxxx, 0000: 56 e ss.
34 All’exceptio doli si accennerà anche nel prosieguo della trattazione (nello specifico, si v. infra, cap. III sez. III, parr. 2, 4, 4.1; cap. IV, sez. I, par. 2.1).
35 Sul punto si v. il contributo di XXXXXXX X., L’exceptio doli dal diritto civile al commerciale, Cedam, Padova, 2005: 429.
36 Su tale profilo si v. TORRENTE A., Eccezione di dolo, in Enc. dir., vol. XIV, Xxxxxxx, Milano: 218 e ss.
buona fede, altre volte con l’abuso del diritto, in altri casi ancora alla violazione della buona fede oggettiva e del divieto di abuso del diritto congiuntamente37.
Questa elaborazione ha condotto ad una sorta di rivisitazione della responsabilità civile di cui agli artt. 1382 ss. del Code Civil, portando all’abbandono dell’idea che l’uti- lizzo del diritto soggettivo conferisca un sfera di immunità assoluta38, ma è questa una traiettoria che in quel periodo non ha attecchito in Italia39, nonostante alcuni sforzi in tal senso40.
Nel codice civile italiano del 1865 il divieto non appare esplicitamente, né in ar- ticoli generali sull’uso dei diritti, né nella regolamentazione della proprietà, che segue il
37 In relazione a tali tesi si x. XXXXXXXXXX F., DE MARZO G., Manuale di diritto civile, vol. II, Le obbliga- zioni, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 79 e ss.
38 GAMBARO A., Il diritto di proprietà, op. cit.: 478 e ss.; XXXXXXX A., Abuso del diritto. II) Diritto com- parato e straniero, in Enc. giur., Xxxx, 0000: 4-5, il quale segnala il passaggio dalla massima qui iure suo utitur neminem laedit a quella opposta sic utere tuo ut alienum non laedas.
39 BARCELLONA M., Trattato della responsabilità civile, Utet, Torino, 2011: 172 e ss. L’A. ricorda l’art. 74 del «Progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti comune all’Italia e alla Francia» del 1936 e il dibattito che ne seguì. L’X.xx sofferma sulla struttura duale della responsabilità civile che quel testo deli- neava: al comma 1, prevedendo il fondamento colposo del comportamento produttivo di danno e al secondo introducendo, ed equiparando al primo presupposto, il fondamento dell’esercizio “sviato” o “disfunzio- nale”, con un implicito ma chiaro riferimento al divieto di abuso del diritto e uno esplicito invece alla buona fede. L’intento degli estensori dell’art. 74 del Progetto era quello di elaborare quella disposizione generale sulla responsabilità civile che invece manca nel BGB, nel quale la scelta è caduta su un impianto fondato su più disposizioni di contenuto analitico (i §§ 823, 825 e 826). Barcellona rammenta che l’art. 74 del Progetto italo-francese ha costituito un punto di riferimento per la Commissione reale per la riforma dei codici ma che ha infine prevalso la linea di scorporare dalla disposizione che sta a fondamento della re- sponsabilità extracontrattuale il capoverso sul divieto di abuso del diritto e di farne una disposizione auto- noma da inserire nelle disposizioni introduttive al codice: il celebre art. 7 del Progetto definitivo. Come è noto, l’art. 7 è poi stato espunto dal codice civile per le riserve sull’eccessivo arbitrio che avrebbe ricono- sciuto al giudice, specie se al divieto fosse stata riservata una posizione autonoma all’interno della codifi- cazione piuttosto che declinarne le applicazioni nei singoli istituti. Sulla vicenda cfr. XXXXXXXXXX X., L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 7 e ss.
40 Cfr. l’apertura di XXXXX X., Abuso del diritto, in Il diritto, Enc. giur., vol. I, Xxxxxxx, Milano, 2007: 7-8; BARCELLONA M., Trattato della responsabilità civile, op. cit.: 177 e ss., in part. 179 nt. 45, 182, in cui l’A. propone una lettura assai interessante secondo cui il riferimento al dolo e all’ «ingiustizia del danno», infine introdotto nell’art. 2043 c.c., sia collegabile a quel capoverso dell’art. 74 del Progetto italo-francese troppo impegnativo con il suo richiamo del divieto di abuso. Ricorda infatti Barcellona che i commentatori dell’art. 1151 c.c. 1865 erano soliti trattare il tema del divieto di abuso proprio sotto le insegne del dolo e dell’in- giuria, richiamando Xxxxxxx Xxxxxxx, in XXXXXXX XXXXXXX X., Trattato sul risarcimento del danno in materia di delitti e quasi delitti, vol. II, Utet, Torino, 1914. Sul punto v. anche CHIRONI G.P., La colpa nel diritto civile odierno. Colpa extra-contrattuale, vol. II, Utet, Torino, 1906: 500 e ss., in particolare si v.: 504-505. L’A. delinea una nozione di abuso del diritto che coincide con il superamento dei limiti della situazione soggettiva, ossia in definitiva con la mancanza del diritto. Il limite valicato è fatto segnare dalla regola sociale che impone l’uso normale del diritto. Barcellona riconosce tuttavia che del collegamento tra il dolo e l’«ingiustizia del danno» non vi sia traccia nella Relazione al Ministro Guardasigilli al libro del Codice civile «Delle obbligazioni» e addebita il silenzio ad un’elaborazione del tema del divieto di abuso da parte della dottrina italiana dell’epoca non pienamente maturata e all’ipoteca ideologica del regime fa- scista.
paradigma del codice Napoleonico. Neppure durante le discussioni e i lavori preparatori pare che alcuno vi abbia accennato.
Certamente, il diritto di proprietà non è concepito come un diritto assoluto, lo li- mitano leggi di polizia, leggi amministrative, e soprattutto ne delimita i confini entro cui deve contenersi la sez. I del capitolo II del II libro dedicata alle «servitù stabilite dalla legge». Ma, al di fuori di queste disposizioni, non vi è parola di un divieto di esercizio del diritto nei casi nei quali, privo di utilità per il titolare, non abbia altro scopo di dan- neggiare altri.
Nonostante manchi una menzione esplicita, si delinea una tendenza quasi univer- sale delle corti ad accogliere, in materia di proprietà, di rapporti di vicinato e di comu- nione, il principio del divieto di atti emulativi41.
Dunque, benché il divieto di atti emulativi non sia presente nel nostro codice civile del 1865, la giurisprudenza, fin dai primi anni, lo ammette pacificamente. Inizialmente, tale tendenza non si estende alle obbligazioni: ciò si riscontra con l’assenza di pronunce che la utilizzino in questo campo.
La ragione della limitata estensione del principio è probabilmente storica: già quando la teorica giunse al suo massimo sviluppo, per poi cristallizzarsi e cedere davanti alle concezioni che ispirano i nuovi codici, essa era ristretta al campo dei diritti reali42.
Quanto agli estremi dell’emulazione, la giurisprudenza accoglie pacificamente quelli tradizionali dell’assoluta mancanza di vantaggio unita all’intenzione di nuocere (l’animus nocendi); è sufficiente la mancanza di uno dei due elementi perché non si possa più parlare di emulazione. Se in Italia, quindi, il concetto di abuso del diritto non ebbe applicazione, viene riconosciuto, limitatamente ai diritti reali, ma in completo contrasto con la dottrina, il principio più limitato degli atti emulativi.
Passando alla teorica del divieto di abuso del diritto, gran parte della dottrina le si è dichiarata radicalmente ed irriducibilmente avversa, per due differenti ordini di consi- derazioni.
41 Cass. di Torino, 22 luglio 1874 (in tema di sopraelevazione di un muro comune) in Giur. it., 1/1875: 42; Cass. di Firenze, 13 dicembre 1877 (in materia di muro comune), in Foro It., 1/1878: 481 e ss.
42 Da un’analisi della giurisprudenza sul tema, i casi più numerosi sembrano ricorrere in materia di costru- zioni fatte con l’unico scopo di nuocere e in materia di acque, nei casi in cui il proprietario diminuisca animo nocendi il deflusso delle acque sorgenti nel proprio fondo, o, recida le vene idriche del fondo vicino, o eserciti a scopo emulativo il diritto di usare delle acque della corrente che costeggia il suo fondo sancito dall’art. 543, sia nel caso in cui il proprietario aggravi per solo diletto di nuocere l’obbligo derivante dall’art. 536 di ricevere le acque che scolano dai fondi sovrastanti.
Una prima corrente, più strettamente conservatrice, si dichiara inamovibilmente sfavorevole alle varie costruzioni teoriche di questa responsabilità e non riconosce le ap- plicazioni giurisprudenziali ai casi concreti, rispetto alle quali denuncia una pericolosa confusione tra diritto e morale.
Si tratta di verificare se quell’elemento intenzionale cui si rivolge l’indagine in molti dei casi, ricada nell’ambito della morale, nell’ambito del diritto, o rilevi in entrambi.
Da quando la scuola giusnaturalistica diede il primo impulso alla separazione tra i diversi ambiti di norme regolanti il vivere sociale, sempre più si andò creando una netta separazione fra i due campi.
Tra i problemi che sorgono vi sono quello di comprendere quale sia il ruolo della norma etica nel diritto positivo vigente, quello di determinare il rapporto ontologico tra le due norme, quello di capire quale possa o debba essere tale rapporto nel futuro.
Quanto al primo problema, si può affermare che il legislatore non pare abbia in- teso lasciare una porta aperta per favorire la penetrazione delle concezioni etiche nel del diritto positivo. Con ciò però resta sempre da verificare se nel caso singolo l’attività, oltre che immorale, non sia anche antigiuridica.
Quanto al secondo problema, il fatto è che in natura la distinzione netta tra diritto e morale non è mai esistita, perché le due norme si identificano. Entrambe scaturiscono da quella comune coscienza del popolo in cui si elaborano tutte le norme del vivere so- ciale: entrambe vivono a lungo confuse nelle primitive consociazioni e si evolvono con indefettibile progresso.
Quanto al terzo problema, che è di politica legislativa, si può solo constatare, che non solo tutto il movimento giurisprudenziale, ma anche le tendenze delle codificazioni più moderne e i nuovi sentimenti sociali, sono senza dubbio indizi di una forte rinascita dell’idealismo giuridico nei più eterogenei campi del diritto, privato e pubblico, interno e internazionale. Ciò non sta ad indicare confusione di diritto e di morale, ma significa che il diritto, affinatosi nella sua elaborazione e nella tecnica difficile delle indagini psi- cologiche, muove sempre più verso una considerazione degli elementi subbiettivi delle attività umane, completamente trascurati nei diritti meno evoluti, considerazione che prima non rientrava che nel campo della morale individuale.
Meno rigida e conservatrice nella risoluzione dei casi pratici, ma altrettanto diffi- dente verso questa nuova teoria è quella accolta da numerosi autori tra i quali si ricordano il Planiol e il Xxxxxxxx per la Francia, il Barassi per l’Italia.
Gran parte degli autori sostengono che abuso e diritto siano due termini contrad- dittori e incompatibili, che se c’è diritto non c’è abuso e viceversa, che se c’è esercizio di un diritto non può esserci responsabilità, mentre se non c’è esercizio di diritto l’atto dan- noso è illecito e porta come normale conseguenza la responsabilità. Quindi, non si parle- rebbe di abuso, si dovrebbe verificare se nei casi singoli l’attività del convenuto sia stata lecita o illecita e decidere in conseguenza.
Non ci si può esimere dal richiamare, tra le tante43, la tesi del noto Autore francese Xxxxxxxxx sul tema, il quale sostiene che l’atto illegittimo si distingue da quello abusivo perché da quello deriva sempre responsabilità, da questo solo ed in quanto ne derivi danno ad altri.
Parte della dottrina accolse con favore la costruzione giurisprudenziale, diver- gendo però nella determinazione dell’elemento caratteristico e del fondamento giuridico della responsabilità per abuso che impernia or sull’uno or sull’altro dei due elementi ca- ratteristici, sanciti dall’art. 1151 c.c.: l’elemento subbiettivo e l’elemento obbiettivo.
Da notare come l’intenzione di nuocere diviene per alcuni movente esclusivo, per altri basterebbe fosse movente principale.
Un’altra schiera di autori tra cui, in Italia, Noto Sardegna44, pongono a base della responsabilità per abuso l’indagine dell’elemento subbiettivo che, però, ritengono più ge- nerico dell’animus nocendi, e lo riducono per lo più a quella generica conoscenza degli effetti dannosi dei propri atti in cui consiste la colpa.
Questi autori affermano che anche l’esercizio di diritti può essere viziato da colpa e per ciò stesso generare responsabilità.
43 Tra le dottrine avverse alla teorica dell’abuso merita un posto a parte quella di E. XXXX, il quale sostiene che la teorica dell’abuso del diritto non ha senso, rientrando in una regola più generale. Per l’A. la teorica dell’abuso rientra nel principio generale per cui si è responsabili per colpa sia essa accompagnata o scom- pagnata dall’esercizio di un diritto. Si v., in tal senso, E. XXXX, Responsabilité et contrat in Rev. Critique, 48/1899: 361 e xx.
00 XXXX XXXXXXXX G., Abuso di diritto, Xxxxx, Xxxxxxx, 0000: 27 e ss. Secondo questo Autore l’abuso di diritto sarebbe caratterizzato dai seguenti elementi: a) l’atto jure, b) l’intenzione di nuocere o anche sola- mente l’aver voluto le conseguenze dannose dell’atto, c) un danno effettivamente verificatosi.
Il Rotondi critica le diverse teoriche, che si tentò di costruire, prendendo a base quel concetto di abuso che, innegabile ed interessante fenomeno sociale, è, come espres- sione giuridica, un vero controsenso.
Ma se la dottrina dell’abuso non trovò presso di noi grande accoglienza, ben altro è da dirsi per la teorica degli atti emulativi, perlomeno nella giurisprudenza.
Tuttavia, non mancano argomentazioni portate a favore del divieto secondo le quali la teoria, esclusa dal codice come principio generale, ha potuto, attraverso qualche altra fonte, diventare, indipendentemente dall’intervento del legislatore, xxxxx xxxxx- dica45.
Un primo argomento messo in campo dai fautori del divieto sarebbe la possibilità di dedurre questo principio per analogia da talune norme del codice che si riferiscono, nello specifico, alla proprietà delle acque, all’acquedotto coattivo e alla comunione46.
La possibilità di dedurre per analogia il principio del divieto da norme esplicite del nostro codice è riconosciuta, del resto, da coloro che per giustificarlo si richiamano ai principi generali del xxxxxxx00. Altri ancora tra i sostenitori del divieto, sembrano far ri- chiamo, per sostenere la propria tesi, all’equità48.
Infine, come ultimo argomento a favore della teorica sull’abuso del diritto, tro- viamo chi utilizza quello secondo cui gli atti emulativi, che non trovano espressione legi- slativa, sarebbero vietati in applicazione della teorica ricreata sulle antiche basi dalla giu- risprudenza.
Il Rotondi ritiene che il divieto non si possa accogliere che mediante espressa previsione legislativa. Egli riconosce fin dal principio l’impossibilità di affrontare lo stu- dio dell’abuso del diritto come di un concetto puramente giuridico, e lo guarda come fenomeno sociologico inquadrandolo entro i più vasti schemi della vita sociale, conce- pendolo come un prodotto ed una conseguenza dell’impossibilità che ha il diritto, legato
45 Così favorevole al divieto in materia di acque è il Giovanetti, autorevole come ispiratore delle disposi- zioni che vi si riferiscono nel codice albertino. Anche dopo la promulgazione del nuovo codice la tesi del divieto prevale, sostenuta, per quanto entro i limiti diversi dal Pacifici-Xxxxxxx, dal Xxxxx, dal Xxxxxx, da Xxxxxxxx e Xxxxxx, dal Xxxxx e dal Cimbali.
46 Il riferimento è: per quanto riguarda il primo gruppo di casi agli artt. 544, 545, 578 c.c.; il secondo gruppo fa riferimento agli artt. 598, 600, 609, 610, 612, 613 c.c.; taluni fanno, invece, riferimento agli artt. 592,
675, 1723 x.x. x xxx’xxx. 00 x.x.x.
00 Xxx xxxx xx x. XXXXXXX F.S., Principi generali sulle leggi, Utet, Torino, 1888.
48 Sul tema si v. PIOLA G., Equità, in Digesto Italiano, X, 1895-1898, Utet, Torino.
entro le sue forme necessariamente tradizionali, di seguire “passo passo” l’evolversi della vita sociale.
Dai germi giustinianei hanno seguito, attraverso la dottrina intermedia lo svilup- parsi, il fiorire e il declinare della teorica dall’aemulatio. Per la sua elasticità e per le stesse condizioni sociali generali di quei tempi, essa serviva quasi a tutti quegli scopi cui doveva più tardi servire la teorica dell’abuso.
La dottrina dell’aemulatio, ormai irrigidita e imprigionata in una casistica deri- vante dal sistema delle presunzioni, non regge alle nuove dottrine giusnaturalistiche, e scompare quasi ovunque nelle redazioni dei nuovi codici.
Riconosciuta in quegli anni la mancanza, nel nostro ordinamento giuridico, di un divieto dell’abuso del diritto in generale, o dell’emulazione in specie, il Rotondi crede di avversare l’introduzione di una disposizione che possa vietare in modo generico l’abuso di diritto, ritenendo necessario, nei singoli casi in cui si riveli la necessità di reprimere un possibile abuso, l’esplicito intervento del legislatore.
3. L’abuso del diritto nel progetto di codice xxxxx xxxxxxxx, nel progetto preliminare al codice del 1942 e nei lavori dell’Assemblea costituente
Campo di elezione della teorica dell’abuso del diritto fu la proprietà, ma in epoca industriale (primi del secolo), specialmente in Germania, la repressione si sviluppò nei campi sia della responsabilità contrattuale, sia di quella extracontrattuale.
Una certa influenza subì anche il nostro ordinamento e lo si può riscontrare nel progetto italo-francese del codice delle obbligazioni del 1927 e nel progetto definitivo del codice civile del 194249. L’abuso del diritto cominciò ad assumere importanza particolare specialmente in ambito contrattuale, in cui venne poi ricondotto alla violazione della buona fede oggettiva, alla teoria della mancanza di causa concreta, alla mancanza di me- ritevolezza50. D’altronde, considerato il principio dell’autonomia delle parti contenuto al
49 Così recita l’art. 74 del progetto xxxxx xxxxxxxx del codice delle obbligazioni: «È tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri eccedendo nell’esercizio del proprio diritto e i limiti posti dalla buona fede e dallo scopo per i quali il diritto gli fu riconosciuto».
50 Per un approfondimento specifico sull’istituto dell’abuso dl diritto in relazione alla violazione della buona fede oggettiva si v. infra, cap. I, sez. II, par. 1.
comma 1 dell’art. 1322 c.c., intitolato per l’appunto «autonomia contrattuale», il contratto risulta prestarsi facilmente ad essere ‘strumento’ per abusare di un proprio diritto.
Tornando al progetto di codice italo-francese, in particolare, l’art. 74, comma 251, collocato all’interno della rubrica «degli atti illeciti», prevedeva che «è ugualmente tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri eccedendo, nell’esercizio del proprio diritto, i limiti posti dalla buona fede o dallo scopo per il quale il diritto gli fu ricono- sciuto».
Nel commentare l’articolo in oggetto Xxxxxxx x’Xxxxxx, all’epoca primo presi- dente della Corte di Cassazione e membro della commissione redattrice della proposta normativa, mostrava la propria consapevolezza del carattere profondamente innovativo della previsione de quo e affermava: «Vi è serio pericolo di sconfinare e di porre l’eser- cizio di ogni diritto alla mercé del potere discrezionale del giudice […]. I giuristi italiani si sono preoccupati del danno che un concetto esagerato dell’abuso del diritto può cagio- nare; ma, d’altra parte, era impossibile estirpare dalla vita giuridica francese un concetto che vi è radicalmente penetrato, per infondervi uno squisito senso di equità. Né sarebbe stato giusto respingerlo da parte dalla legislazione italiana, purché si fossero potuti evitare i danni temuti, mediante una rigorosa formulazione del principio. Il capoverso dell’art. 74 è stato perciò uno dei più elaborati […]. Scolpito in tal modo il concetto di abuso di diritto, è da prendere che i giudici ne faranno un uso ragionevole e che la funzione della giurisprudenza, avvalorata da tale nuova forza, varrà a rende sempre più giusto ed umano l’esercizio del diritto»52.
Analogamente a quanto disposto dall’art. 74, comma 2, del progetto di codice xxxxx xxxxxxxx, l’art. 7 delle preleggi di cui al progetto del codice civile italiano del 1942 stabi- liva che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto».
51 Il riferimento è al progetto di codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti del 1927. In merito si v. BRUGI B., L’abuso del diritto nel progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti, in Studi in onore di A. Ascoli, pubblicati per il XLII anno del suo insegnamento, Messina, 1931: 79 e ss.; ALPA, CHIODI (a cura di), Il progetto xxxxx xxxxxxxx delle obbligazioni (1927), in Rassegna forense, Quaderni, 2007.
52 D’AMELIO M., Un codice unico delle obbligazioni, per l’Italia e la Francia, in Nuova Antologia, 1927: 83 e ss. I timori per l’attribuzione ai magistrati di un eccessivo potere discrezionale nella valutazione delle singole fattispecie abusive furono rappresentati in seno alla commissione redattrice del progetto di codice da Xxxxxxx, che si era già espresso criticamente nei confronti della figura dell’abuso del diritto. A tal pro- posito si v. X. XXXXXXX, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 15/1923: 105-128.
Le vicende dei lavori preparatori al codice civile italiano del 1942 recano sicura testimonianza del sostrato ideologico dell’abuso. Al fermo rifiuto dell’introduzione del divieto di abuso da parte della Commissione reale per la riforma dei codici, presieduta da Xxxxxxxx Xxxxxxxx, le osservazioni e proposte dei corpi tecnici suggerivano che l’introdu- zione del divieto fosse non solo opportuna, ma indispensabile per riflettere la reale co- scienza sociale del Paese, «non come semplice enunciazione di un principio morale, ma come affermazione della consapevolezza socialmente raggiunta dalla superiorità degli interessi della collettività, giuridicamente organizzata, sugli esclusivismi ed interessi in- dividuali»53.
Il legislatore del ’42, tuttavia, non ha inteso disciplinare l’abuso del diritto, le aspettative contrarie che avevano trovato un terreno fertile nei due progetti normativi non furono accolte.
I timori di un eccessivo spazio che la figura dell’abuso del diritto avrebbe garantito alla discrezionalità dei magistrati, unitamente alla preoccupazione che il dogma della cer- tezza del diritto potesse subire un vulnus da parte di una clausola generale come quella dell’abuso del diritto, fecero sì che non avesse luogo l’inserimento della norma summen- zionata nella versione definitiva del codice civile del 1942.
In contrasto con la consolidata linea volta a considerare il divieto di abuso del diritto come espressione di un inquisitorio controllo da parte dello stato sul diritto dei privati, fu l’On.le Codacci Xxxxxxxxx che, nel corso della seduta pomeridiana dell’Assem- blea costituente del 28 marzo 1947, propose di costituzionalizzare il principio di divieto di abuso del diritto affermando che «quando il diritto viene usato per uno scopo diverso da quello per cui è stato attribuito, evidentemente si commette un abuso dannoso alla società, che sarebbe opportuno fosse vietato in genere proprio nella Costituzione».
53 Si legga la ricostruzione della vicenda in X. XXXXXXXXXX, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, op. cit.: 14 e ss., in cui sono riportate anche le citazioni dei lavori preparatori. L’A. osserva che questa linea di pensiero rappresentava il sentire della comunità giuridica del tempo – le osservazioni pro- poste raccoglievano le opinioni degli accademici universitari, magistrati, ordine degli avvocati e procuratori
– e portò alla traduzione della regola di cui all’art. 74 del progetto di codice, la quale disponeva che «è ugualmente tenuto al risarcimento colui che ha cagionato il danno ad altri eccedendo nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla buona fede o dallo scopo per il quale il diritto gli fu concesso» (art. 74 del progetto di Codice italo-francese delle obbligazioni del 1928) nel principio: «Nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il medesimo gli è riconosciuto» di cui all’art. 7 del progetto definitivo curato dalla Commissione di revisione. Come è noto la Commissione parlamentare chiamata ad esprimere parere sul progetto definitivo concluderà per la inopportunità di introdurre una simile disposi- zione di carattere generale, comportando lo stralcio della disposizione e rinviandone la formulazione ai singoli istituti.
L’obiettivo dell’On. Xxxxxxx Xxxxxxxxx era quello di estendere la tutela giurisdizio- nale a quegli interessi che non trovano «la loro protezione in una vera e propria norma giudica, ma nel buon uso del potere discrezionale»54.
A tal fine proponeva di integrare l’articolo 19 della bozza di costituzione in di- scussione che recitava «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi», introducendo un comma 2 che chiarisse che «nessuno può esercitare il proprio diritto per uno scopo diverso da quello per il quale gli è stato attribuito»55.
Tale proposta venne da subito contrastata da coloro che negavano l’opportunità di inserire nel nascente testo costituzionale una specifica previsione relativa al divieto di abuso del diritto.
Di particolare interesse è l’osservazione dell’On.le Xxxxxxx Xxxxxx che, con rife- rimento all’emendamento proposto dall’On.le Codacci Xxxxxxxxx, affermava che «eviden- temente noi non crediamo che si possa prevedere una cosa simile nella Costituzione. Certo è che l’abuso è sempre proibito, mentre la Costituzione e le leggi non devono pre- vedere che l’uso normale del diritto. Il meno che si possa dire è che si tratti di una proposta superflua e quindi pleonastica»56.
4. Gli orientamenti della dottrina italiana
In Italia i primi orientamenti dottrinali intesi a riconoscere la configurabilità giu- ridica dell’abuso del diritto dopo e nonostante il codice del 1942 apparivano sorretti da due differenti concezioni ideologiche. La prima è la cosiddetta ideologia cattolica, intesa a fondare un’idea di moralità dell’atto quale spirito etico che deve sorreggere l’agire giu- ridico; la seconda è rappresentata dalla cosiddetta ideologia laica, orientata ed attenta ad un criterio di socialità dell’atto57.
Indubbiamente, il terreno storico di avvio su cui gli autori si sono soffermati è costituito dal divieto di emulazione, così come previsto dall’art. 833 del nostro attuale codice civile. Tuttavia, come si avrà modo di mettere in luce, in un secondo momento il
54 Assemblea Costituente, LXXX, Seduta pomeridiana di venerdì 28 marzo 1947: 2609 e ss., 2610.
55 Ibidem.
56 Ivi: 2610.
57 Relativamente a tali orientamenti si rimanda all’autorevole scritto di XXXXXXXX P., L’abuso del diritto, op. cit.: 205 e ss.
divieto di abuso del diritto verrà ricondotto, in particolare, all’ambito contrattuale, campo certamente più esteso rispetto a quello degli atti emulativi.
Molte tra le dottrine propense a dar campo al principio del divieto dell’abuso del diritto hanno ritenuto, per lungo tempo, di poter fare leva sul divieto di atti emulativi previsto nel codice e dal quale poter evincere una più ampia categoria, quella, per l’ap- punto, dell’abuso del diritto.
A partire dagli anni Sessanta si assisteva ad un proliferare di dottrina e giurispru- denza sul tema e, per lungo tempo, la locuzione abuso del diritto non emergeva che a proposito dell’art. 833 c.c.
Sotto la rubrica «atti di emulazione», dispone l’art. 833 c.c.: «Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». Lo scopo a cui fa riferimento la norma è stato inquadrato ora in senso subbiettivo, come intenzione dannosa, c.d. animus nocendi, ora in senso obbiettivo, quale operazione priva di un’utilità oggettivamente apprezzabile.
La Relazione al codice aveva cura di sottolineare come il divieto degli atti emula- tivi affermasse un «principio di solidarietà tra privati» e ponesse «una regola conforme all’interesse della collettività nell’utilizzazione dei beni»58. Per evitare eccessi pericolosi di applicazione della norma si è ritenuto opportuno «esigere espressamente il concorso dell’animus nocendi».
I giudici, secondo il criterio proposto dalla Relazione, nel far valere il dettato nor- mativo non avrebbero dovuto individuare una responsabilità per emulazione ogniqual- volta il proprietario avesse tenuto una condotta dannosa o molesta, ricorrendo, quale cor- rettivo con funzione restrittiva dell’operatività del divieto, la necessità di un’indagine di tipo soggettivo circa, appunto, l’animus dell’agente. Nonostante lo spirito della Relazione risulti apparentemente chiaro, le interpretazioni dottrinali sono state le più disparate.
Chiaro è che la portata dell’art. 833 c.c. non può non mutare a seconda che la si legga o meno alla luce dei principi costituzionali dettati in materia di proprietà. Si con- sidera necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma. Un’inter-
58 Relazione Ministeriale n. 408, ricordata da DE XXXXXXX, Della proprietà, in Commentario del codice civile, SCIALOJA BRANCA (a cura di), Bologna, 1951: 125, da DOSSETTI, Atti emulativi, voce in Enc. giur. Xxxxxxxx, XX, 0000: 1, nonché da TORRENTE A., Emulazione (diritto civile), voce in Noviss. dig. it., XXXXX A., XXXX E. (diretto da), Utet, Torino, 3a ediz., 1957-1987: 522.
pretazione letterale poco compatibile o comunque svilente dei principi e dei valori costi- tuzionali deve reputarsi inidonea, non potendosi più ritenere determinante e sufficiente l’ordine suggerito dal codice a presidio dell’iter ermeneutico, secondo quanto disposto dall’art. 12, comma 1, delle disposizioni preliminari al codice civile in tema di interpre- tazione59.
Analogamente, il sussidio offerto dalle Relazioni ministeriali nell’interpretazione delle norme codicistiche è di certo tenuto a cedere il posto quando il suggerimento erme- neutico proposto non sia più in linea non solo e non tanto con l’evoluzione storica, quanto piuttosto con i valori ed i principi che la Costituzione ha inteso e intende affermare.
Il punto critico, che ha dato adito a tutte le interpretazioni e le discussioni sul tema, è comprendere se l’art. 833 x.x. xxxxx ritenersi norma eccezionale e quindi, appunto, di stretta interpretazione, ovvero espressione di un principio generale volto a dettare limita- zioni nell’esercizio di tutti i diritti reali e, secondo qualche orientamento, anche in materia di possesso60.
Dall’altro lato la giurisprudenza ha, per lungo tempo, ristretto la portata interpre- tativa della disposizione, nonché ancorato la sua operatività a criteri tanto rigidi quanto di estrema difficoltà probatoria; ciò ha fatto anche di recente concludere per un «falli- mento sostanziale della norma»61. Si allude in particolare al requisito dell’animus no- cendi.
Da un punto di vista esegetico l’art. 833 c.c. risulta scomponibile in tre profili62:
1) il compimento di un atto da parte del proprietario;
2) lo scopo (l’animus) di arrecare danno o molestia ad altri;
3) la mancanza di utilità per il proprietario.
59 Infatti, un’operazione ermeneutica che ritenga di potersi limitare al criterio offerto dal comma 1 dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, attestata dal brocardo in claris non fit interpretatio porta con sé il rischio di un’applicazione svilente del diritto. Si veda, in proposito, PERLINGIERI P., L’interpreta- zione della legge come sistematica ed assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disposizioni preliminari c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in PERLINGIERI (a cura di), Scuole, tendenze e metodi. Problemi di diritto civile, Esi, Napoli 1989: 276 e ss.
60 La letteratura prevalente è favorevole all’estensione della norma, seppur con soluzioni diverse. Si v. sul tema TORRENTE A., Emulazione, op. cit.: 527.
61 Tale constatazione dottrinale è da riferirsi ad GAMBARO A., Emulazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., VII, 1991: 442 e ss.
62 Tale schema è il più utilizzato in dottrina e risale a TORRENTE A., Emulazione (diritto civile), op. cit.: 522.
Quanto al punto sub 1) l’orientamento della dottrina non è unanime. Infatti, l’orientamento prevalente si era orientato per una condotta positiva, non ritenendosi con- figurabile emulazione mediante omissione63. La tendenza recente è, però, quella di allar- gare l’area del divieto anche ai comportamenti caratterizzati da un non facere.
Quanto al punto sub 2), si tratta di uno degli aspetti più controversi della norma. Xxxx viene interpretato come intenzione di nuocere, cosicché l’atto, per reputarsi emula- tivo deve essere sorretto, quanto al profilo psicologico, dalla specifica e puntuale inten- zione maliziosa di recare danno. Il requisito dell’animus fa si che l’art. 833 c.c. venga ritenuto un’ipotesi di illecito di dolo64.
L’opinione prevalente sostiene che con la formula “scopo di nuocere” si sia voluta richiedere, ai fini della configurazione della fattispecie, la componente psicologica dell’intenzione di provocare danno o molestare65. Chiaramente, chi accede a questa im- postazione finisce per vanificare l’applicazione della norma, in quanto costringe la vit- tima dell’emulazione a dover fornire la prova positiva e specifica dell’esclusivo intento malizioso del proprietario. Ciò in applicazione del principio generale dell’ordinamento secondo il quale la prova spetta a chi lamenta il danno, ossia, nell’ipotesi di specie, a chi intende far valere di aver subito una condotta emulativa.
La difficoltà probatoria risulterebbe rafforzata da altri due elementi. In primo luogo, grava sulla disposizione in commento il fatto che, secondo ricorrente orienta- mento, non possono invocarsi criteri presuntivi da cui poter inferire la volontà dolosa del proprietario.
In secondo luogo è opinione diffusa che al proprietario, parte convenuta citata per emulazione, sia sufficiente far evincere di aver tratto un qualsiasi vantaggio, seppur mi- nimo, per potersi escludere la responsabilità da emulazione. Per non svuotare la norma di
63 Per questo indirizzo si x. XXXXXX X., Atti emulativi (dir. civ.), in Enc. Dir., vol. IV, Xxxxxxx, Milano, 1959: 35, il quale richiede un comportamento umano positivo; MESSINEO F., Manuale di diritto civile e commerciale, Xxxxxxx, Milano, vol. II, 1950: 250, secondo cui gli atti di cui parla la disposizione debbono concretarsi in un facere; TORRENTE A., Emulazione (diritto civile), op. cit.: 322, secondo cui per aversi emulazione «non sarebbe sufficiente la singola omissione». Per opinione contraria si v., in particolare, NA- TOLI U., La proprietà, op. cit.: 69, il quale critica l’interpretazione letterale della norma (secondo la quale il “compiere atti” postulerebbe comportamenti soltanto commissivi).
64 Si v. al riguardo XXXXXXX A., Emulazione, op. cit.: 443, dove si osserva che «attesa la complessa co- struzione e ricostruzione della fattispecie nella vasta galassia degli illeciti di dolo, gli atti emulativi occu- pano un ruolo insignificante»; SALVI C., Il contenuto del diritto di proprietà, Xxxxxxx, Milano, 1994: 130. 65 Tale interpretazione è sostenuta da DE XXXXXXX X., TRIFONE R., Xxxxx proprietà, in Commentario del codice civile, SCIALOJA-BRANCA (a cura di), Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000: 156; X. XXXXXXXXX, Della pro- prietà, in Commentario del codice civile, I, op. cit.: 158; XXXXXXXX, Emulazione, op. cit.: 523.
significato e di operatività, sono state proposte ricostruzioni intese a fornire allo “scopo di nuocere” cui allude la disposizione, un significato diverso.
Secondo un primo orientamento lo scopo non va letto quale animus nocendi, poi- ché esso in realtà riguarderebbe non l’intenzione maliziosa del proprietario, ma il risultato che essa produce. In base a questa impostazione il comportamento è da ritenersi emula- tivo quando effettivamente reca molestia; ci si sposta così dalla considerazione del profilo soggettivo della volizione cattiva o maliziosa del danno, al profilo obbiettivo, il verificarsi dell’evento fastidioso o pregiudizievole66.
Il punto sub 3) rappresenta un altro requisito fondamentale. La dizione letterale della norma, riferendosi testualmente al «compimento di atti che non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri», fa sì che sia sufficiente l’intento di voler realizzare un qualsiasi altro scopo diverso affinché l’invocazione del divieto venga ne- gata. Nel caso in cui se ne desse un’interpretazione letterale, il comportamento del pro- prietario potrà considerarsi emulativo soltanto nel caso in cui esso sia sorretto dal solo e unico scopo di carattere nocivo. Qualsiasi altra e seconda ragione non permetterebbe l’in- vocazione del divieto di atti emulativi.
D’altronde è questa la lettura che ha spesso fornito la giurisprudenza, secondo la quale per esservi atto emulativo occorre che «l’atto medesimo sia stato posto in essere al solo fine di arrecare nocumento o molestia ad altri, e, quindi, ne consegue che l’azione proposta dal proprietario dell’immobile allo scopo di opporsi a che una porzione del bene venga da altri abusivamente utilizzata, non può costituire atto emulativo, in quanto si ricollega comunque ad un qualche vantaggio di quel proprietario»67.
Molte delle linee interpretative sviluppatesi hanno avuto il pregio di spostare il criterio di valutazione dell’emulatività di un atto su di un piano oggettivo, consentendo alla vittima dell’atto emulativo, parte attrice rispetto al processo instaurato, di essere one- rata non più della difficile prova dell’intenzione nociva del proprietario, ma di quella più agevole del difetto di utilità proprietaria, ovvero, della mancanza di utilità sociale, o di sproporzione degli interessi coinvolti.
66 Tale opzione ermeneutica è sostenuta, in primis, da ALLARA M., Atti emulativi, op. cit.: 35-36.
67 Così Cass., sez. civ., n. 4777/1977, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
Tali tesi vanno tuttavia confrontate con quelle avallate dalla giurisprudenza, che non perviene a dilatazioni così forti del concetto di emulazione, assumendo un atteggia- mento più “conservatore” sul punto. In particolare essa ha talvolta ritenuto che la norma dovesse essere letta coniugando il criterio soggettivo dell’intenzione pregiudizievole con quello oggettivo dell’interesse.
Ma l’oscillazione di contenuto tra l’atteggiamento malizioso del proprietario e l’accertamento dell’economicità dell’atto tende progressivamente a spostarsi verso quest’ultima68, per cui si ritiene che per aversi atto emulativo, occorre che il fatto corri- spondente all’esercizio del diritto sia posto in essere con l’esclusiva finalità di arrecar nocumento o molestie ad altri, senza essere giustificato da alcuna condizione utilitaristica dal punto di vista economico e sociale69.
Tra le varie interpretazioni dottrinali merita particolare riguardo quella, cui sopra si accennava, più attenta ad una lettura costituzionalmente orientata del codice, la quale intuisce come la norma contenuta nell’art. 833 c.c. vada inquadrata in una logica più am- pia di individuazione dei limiti dei diritti soggettivi, secondo un’interpretazione di tipo sistematico più che letterale.
Accogliendo tale prospettiva si può affermare che se il divieto di atti emulativi, in una concezione prettamente individualistica della proprietà, andava letto come criterio eccezionale, «la stessa norma assume oggi, in presenza di nuovi principi costituzionali di solidarietà (art. 2) e di funzionalizzazione della proprietà70 (art. 42) e delle altre situazioni patrimoniali, una fisionomia e un ruolo diversi, del tutto rispondenti a quelli generali del sistema, sì da perdere la qualifica di eccezionale»71.
Su questi presupposti si finisce allora per concludere che «l’art. 833 del codice civile è norma che non si esaurisce in tema di proprietà o nell’ambito dei rapporti reali, ma riguarda tutte le situazioni soggettive patrimoniali; le clausole di correttezza non si
68 Sul tema si veda PERLINGIERI P., Il diritto civile nella legalità costituzionale, Xxx, Xxxxxx, 0000: 459. L’A. osserva che se vi dovesse essere, ai fini dell’emulazione, anche l’elemento soggettivo, si richiederebbe qualcosa che la legge non chiede, mentre «quando il legislatore ha voluto prevedere per l’esistenza di una fattispecie l’elemento soggettivo lo ha fatto esplicitamente (artt. 2043, 1230, comma 2, 1140 c.c.).»
69 Così, ad es., Cass., sez. civ., n. 1509/1986, in Mass. Giur. It., 1986.
70 Cfr. BARASSI L., Proprietà e comproprietà, Xxxxxxx, Milano, 1951, il quale sembra ricollegare la nozione di abuso del diritto nella più vasta funzione sociale (ivi: 257 e ss.); XXXXXX U., La proprietà, op. cit., se- condo il quale la funzione sociale costituisce il limite interno della proprietà, al pari del divieto degli atti emulativi (ivi: 129 e ss.); RODOTÀ S., Note critiche in materia di proprietà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960: 1314 e ss.
71 PERLINGIERI P., Il diritto civile nella legalità costituzionale, Xxx, Xxxxxx, 0000.
riferiscono esclusivamente alle situazioni creditorie ed alla nozione di adempimento, ma hanno rilevanza generale»72.
Nel legame che si crea tra la norma dell’art. 833 x.x. x x’xxx. 00 xxxxx Xxxxxxxxxxxx xx apre la strada ad un’interpretazione di quest’ultima quale limite interno alla proprietà,
«la ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito ad un certo sog- getto»73.
Un’interessante lettura dell’art. 833 c.c. è stata svolta dal Xxxxxx. Quest’ultimo è stato uno tra i primi autori italiani ad aver dimostrato la possibilità di inquadrare l’abuso del diritto come principio di ordine generale, evidenziando altresì le connessioni tra abuso del diritto e buona fede in ambito contrattuale, in cui l’abuso trova terreno fertile. Of- frendo una lettura in chiave logico sistematica del divieto di atti a scopo emulativo con- sente di imporre un criterio di condotta dell’agire proprietario secondo un parametro obiettivo di correttezza. Lo scopo cui fa riferimento la disposizione viene inquadrato nell’ambito della buona fede, da intendersi in senso non soggettivo, ma in chiave obiet- tiva, come parametro che investe il piano dell’agire: il comportarsi secondo buona fede.
La disposizione, di conseguenza, dovrebbe essere funzionalmente collegata all’art. 1175 c.c., che impone al creditore, nell’esercizio del suo diritto, di comportarsi secondo le regole della correttezza, nonché agli artt. 1366, 1375 e 1337 c.c. Per l’Autore
«in tutti i casi l’esercizio del diritto deve avvenire secondo buona fede»74.
Il tal modo il divieto degli atti emulativi incontra e si ricongiunge all’abuso, ossia al principio, implicito nell’ordinamento, che vieta di abusare del proprio diritto, o del potere di cui si è titolari, in occasione del suo esercizio.
Altri autori negano l’idoneità della norma a configurare un caso di abuso del di- ritto. Costoro tendono a riaffermare la ricostruzione dottrinale secondo cui l’art. 833 c.c. è norma che non limita, ma ribadisce il valore egoista del diritto di proprietà75, escludendo l’inquadramento della disposizione nel principio costituzionale della funzione sociale della proprietà.
Si deve ritenere che la fattispecie emulativa, limite allo svolgimento dell’esercizio di un diritto, rappresenti una sorta di tappa obbligata nello svolgimento ricostruttivo teso
72 Ivi: 408.
73 PERLINGIERI P., Introduzione alla problematica della proprietà, Napoli, 1971: 75.
74 XXXXXX U., Note preliminari, op. cit.: 28.
75 XXXXX X., Abuso del diritto, op. cit.: 4 e ss.
ad individuare l’operatività del principio che vieta l’abuso del diritto? O si dovrebbe so- stenere che il disposto dell’art. 833 c.c. non sia idoneo a contenere gli spazi dell’abuso del diritto, e neppure a rappresentare lo strumento da cui ricavarne l’esistenza?
Parrebbe piuttosto da condividere l’indirizzo per il quale si danno «ragioni che suggeriscono ora di studiare gli atti del proprietario nella cornice dell’abuso, piuttosto che di dedurre la figura dell’abuso dall’angusta regolamentazione testuale degli atti emula- tivi»76.
Ad oggi si può affermare che l’evoluzione del diritto soggettivo ha portato a una nuova comprensione, se non ad un superamento, del principio qui suo iure utitur neminem laedit che ora deve essere interpretato tenendo conto di una valutazione dell'esercizio del diritto sotto il profilo di un possibile abuso di esso77.
Anche la proprietà, pur col suo retaggio individualistico, vede il proprio contenuto conformato in relazione alle categorie di beni su cui insiste e alle funzioni sociali che essi possono svolgere78.
Aspetto problematico dell’abuso del diritto consiste nell’individuazione delle ipo- tesi in cui l’esercizio del diritto possa dirsi ‘abusivo’. Non essendo tali ipotesi catalogate a priori, vi è il rischio che l’abuso possa mutare in strumento di controllo della condotta e delle scelte delle parti.
È questo il punto critico della discussione intorno all’abuso del diritto, perchè si tratta di misurare la prevalenza di uno dei due principi espressi, rispettivamente, dal bro- cardo qui iure suo utitur neminem laedit e dal latinismo non omne quod licet honestum est79. La soluzione del contrasto è rimessa necessariamente al momento giurisdizionale, ed in essa è necessario che trovino posto non l’arbitrio del giudice, ma i valori costituzio- nali.
Ancora oggi ci sono autori che scrivono “contro l’abuso del diritto”80, invocando l’antica esimente qui suo iure utitur neminem laedit ed equiparando l’utitur all’abutitur.
76 BRECCIA U., L’abuso del diritto, in Studi in onore di Xxxxxx Xxxxxxxx, vol. V, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 38 e ss.
77 Cfr. XXXXXXXXXX C., La nuova responsabilità civile, Xxxxxxx, Milano, 2006: 29, nota 59, in cui fa anche un riferimento alla Relazione al codice, n. 797.
78 Cfr. MENGONI L., Proprietà e libertà, in Riv. crit. dir. priv., 1986: 5 e ss.
79 «Non tutto quello che è lecito (fare) è giusto (secondo una norma di onestà)».
80 Il riferimento è a ORLANDI M., Contro l'abuso del diritto (nota in margine a Cass., n. 20106/2009, cit.) in Riv. dir. civ., 2/2010: 147 e ss.
Sicché l’antica massima dovrebbe essere così corretta: qui suo iure abutitur neminem laedit. È ben vero che, per i Romani, la proprietà era ius utendi abutendi81, ma perpetuare questa equiparazione ed estenderla ad ogni diritto soggettivo, sia reale, sia di credito, non è una grande proposta di civiltà giuridica82.
La stessa Cassazione replica: «Il principio qui suo iure utitur neminem laedit trova il giusto limite nell’altro neque malitiis est indulgendum»83. Per chi ha scritto “contro l’abuso del diritto”, quest’ultimo è un non senso logico, e finisce con il dissolversi nello
«spazio dell’illecito, che tutto attira nella propria sconfinata atipicità»84.
Il fenomeno è di più vasta portata e tende, anche per i contratti con parti a pari forza contrattuale, alla verifica dell’equilibrio contrattuale e della sua permanenza nel tempo; si manifesta nell’uso dispiegato delle clausole generali: dalla meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito (art. 1322, comma 2, c.c.), valutata anche in rapporto a singole clausole contrattuali, all’equità del contratto (art. 1374 c.c.), intesa anche come equità correttiva, alla buona fede nell’interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), ora considerata dalla Cassazione come criterio principale, e non più come criterio sussidiario, di interpretazione, in contrasto con l’antico in claris non fit interpretatio85.
81 Letteralmente, “il diritto di utilizzare o consumare completamente”.
82 XXXXXXX F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e Impresa, 2/2011: 311 e ss.
83 Letteralmente: “non si devono assecondare le persone maliziose”. Così Xxxx., sez. civ., n. 607/1952, in
Giur. it. mass., 1952: 172.
84 ORLANDI M., Contro l'abuso del diritto, op. cit.: 159. Sul punto si v., contra, l’autorevole contributo di XXXXXXX F.: Qui suo iure abutitur neminem laedit?, op. cit.: 317, in cui l’A. contesta che una questione di diritto possa tradursi in una questione di congruenza logica di un concetto.
85 Cass., sez. civ., n. 8619/2006 in Mass. Giur It., 2006. Si x. XXXXXXX F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, op. cit.: 314.
Sezione II
L’abuso come limite all’autonomia contrattuale delle parti
SOMMARIO: Premessa introduttiva. 1. Abuso del diritto e buona fede oggettiva. 2. Il “governo giudiziario dell’autonomia contrattuale”
Premessa introduttiva
Alla luce di quanto illustrato nella sezione precedente con riguardo ad una rico- struzione, in termini storici, dell’istituto dell’abuso del diritto, occorre ora svolgere un’in- dagine specifica sull’utilizzo che ne ha fatto, negli ultimi anni, la Giurisprudenza. Come verrà evidenziato, quest’ultima ha, sempre più spesso, accostato, ed in alcuni casi sovrap- posto, l’abuso del diritto all’istituto della buona fede oggettiva. A questo punto, seguirà un’analisi del leading case in materia, il noto caso Renault del 2009, con cui la Suprema Corte individua, in maniera netta e per la prima volta, gli elementi sintomatici dell’abuso del diritto, accostandolo alla buona fede contrattuale.
Occorre rilevare che l’analisi dei passaggi logici che hanno condotto alla decisione mette in evidenza un’importante tendenza degli ultimi anni: il giudice effettua, ormai, un vero e proprio controllo sul contratto, con il fine di valutare se le parti abbiano operato nel rispetto dei principi di buona fede, lealtà e correttezza. Sembra sia stata data cittadi- nanza ad una sorta di principio secondo cui i giudici hanno il potere di modificare od integrare il regolamento contrattuale pattuito liberamente dalle parti. In questa sezione ci si propone di individuare gli aspetti critici di una simile tendenza: il rischio è quello di consegnare al giudice un potere che “incide” eccessivamente sull’autonomia contrattuale delle parti.
1. Abuso del diritto e buona fede oggettiva
Al fine di comprendere l’utilizzo che il giudice ha fatto nell’ultimo decennio dell’abuso del diritto - utilizzandolo come vero e proprio “strumento” - risulta opportuno ripercorrere i passaggi logici attraverso cui la Suprema Corte si è mossa nel 2009. Ci si riferisce al noto caso Renault.
Attraverso questa decisione è emerso che il giudice effettua un vero e proprio controllo sul contratto con il fine ultimo di valutare se le parti abbiano operato nel rispetto dei principi di buona fede, lealtà e correttezza.
La Corte di Cassazione ribadisce l’indirizzo secondo cui il principio di correttezza e buona fede, che richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e viceversa86, deve essere inteso in senso oggettivo e viene agganciato, allo stesso tempo, ad un dovere di solidarietà87 fondato sull’art. 2 della Costituzione. È xxx- xxxxx quale sia la ratio: conferire ai giudici il potere di contemperare i diritti e gli interessi delle parti in causa, in una prospettiva di equilibrio dei comportamenti economici88.
In tale sede appare necessario distinguere il ricorso del giudice alla clausola gene- rale di buona fede dal giudizio di tipo equitativo, eccesso in cui cade sovente la giurispru- denza tedesca89. In altri termini, il ricorso al divieto di abuso del diritto e al principio di buona fede e correttezza devono rappresentare criteri volti a contenere le conseguenze negative di un’applicazione eccessivamente formalistica del diritto90.
Secondo alcuni, per fare un corretto utilizzo della nozione di buona fede oggettiva è importante che non vengano considerati giudizi di valore caratterizzati dal ricorso all’etica e alla morale91, poiché «la buona fede non può mai essere un criterio che plasmi
86 Si v., in tal senso, la Relazione ministeriale al codice civile.
87 Viene sancito l’obbligo di ponderare gli interessi in gioco. Si v. XXXXXXXXX XXXX L., Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., 2/1988: 176.
88 Nella fattispecie, la Corte Suprema ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito, poiché in relazione al contratto di concessione di vendita tra la Renault Italia e una pluralità di concessionari aveva ritenuto che l’espressa previsione contrattuale del recesso ad nutum in favore della casa automobilistica non potesse consentire all’organo giudicante alcun sindacato su tale facoltà, dal momento che non era ne- cessario un controllo causale circa l’esercizio di un potere che rientrava nella libertà di scelta dell’operatore economico in un libero mercato.
89 MENGONI L., Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986: 8.
90 La precipua funzione della clausola di buona fede viene ad assumere un valore di indice di emergenza di taluni interessi, altrimenti destinati a non acquisire un risalto adeguato, se si seguisse una concezione for- malistica del diritto, XXXXXXXXX XXXX L., op. cit.: 172.
91 XXXXXXXXX XXXX X., ivi: 188.
l’esistenza di un rapporto obbligatorio in modo eteronomo, stante anche l’operatività del divieto di venire contra factum proprium»92.
A tal proposito occorre fare un passo indietro, facendo un parallelismo tra la buona fede oggettiva e l’abuso del diritto. Il divieto di abuso del diritto inizialmente sembrava doversi considerare come uno strumento di raccordo tra la sfera del diritto in senso stretto e formale e quella della morale, guardando alla sostanza. Tale idea, inizialmente elaborata dalla dottrina francese, fu abbandonata sia sul piano teorico che su quello normativo, nella fase di formazione del moderno diritto privato apparendo incongruente e contraddittoria. Difatti, ci sarebbe, in tal caso, una sovrapposizione di due giudizi qualitativamente diffe- renti: il primo di stretto diritto ed il secondo di ordine etico-morale.
Essendo prevalsa l’idea, anche con le nuove codificazioni, che l’abuso del diritto non potesse esprimere l’antica tensione tra morale e diritto, la figura dell’abuso, come nel caso Renault la buona fede oggettiva, ha trovato, con il tempo, il suo referente nella ten- denza all’allargamento del controllo giudiziale sugli atti dei privati, rappresentando lo strumento attraverso il quale “controllare” tali atti93. È stato sottolineato da alcuni autori come vi sia stata anche la spinta dei giuristi anglosassoni ad aver contribuito a far preva- lere questa seconda visione, attraverso la teorizzazione della necessità di un approccio empirico ed economico al problema, sostanzialistico94.
È proprio attraverso questo approccio che l’abuso del diritto, ed anche, si ag- giunge, la buona fede oggettiva hanno cominciato a rappresentare un correttivo rispetto ad un sistema che potesse rimanere totalmente fedele alle scelte normative effettuate e a diritti astrattamente e formalmente attribuiti ai consociati pur quando il concreto atto di esercizio del diritto stesso risultasse in contrasto con alcuni principi ispiratori dell’ordi- namento, sacrificando in tal modo un certo grado di certezza alle superiori esigenze della giustizia95.
92 MENGONI L., op. cit.: 9.
93 Sul punto si v. l’autorevole contributo di XXXXXX X., Per un ripensamento delle fonti-fatto nel quadro del diritto europeo, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 2/2013: 1207 e ss.
94 In tal senso si x. XXXXXXXX P.G., Abuso del diritto e simmetria del contratto (un saggio di Comparative Law and Economics), in AA. VV., Diritto privato, vol. III, L’abuso del diritto, Cedam, Padova: 93 e ss.
95 In questo senso si è espresso XXXXX X., Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Utet, Torino, 1987: 2 e ss.
Come è stato più volte osservato da illustri autori96, la clausola generale di buona fede contemplata nell’art. 1375 c.c. rientra nel novero delle funzioni demandate ai giu- dici97, ma è fondamentale comprendere che una clausola generale ha sempre una portata percettiva autonoma e non rappresenta una norma o un precetto generali98. Al giudice, pertanto, è concesso ricorrere ad una clausola generale per utilizzare una discrezionalità di fatto, ma non una discrezionalità produttiva o integrativa di norme99.
Autorevole dottrina100 ha sottolineato come le clausole impartiscano al giudice una misura, una direttiva, per la ricerca della norma da impiegare, rappresentando, in sostanza, una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza l’utilizzo di un modello precostituito da una fattispecie normativa astratta.
Le clausole generali, quindi, possono essere definite «norme di direttiva, che de- legano al giudice la formazione della decisione attraverso il riferimento ad uno standard sociale»101.
Mediante il ricorso alla clausola generale di buona fede il giudice valuta un con- tratto secondo regole di comportamento dalle quali trae un criterio di interpretazione del regolamento contrattuale, ma dovrebbe limitarsi a verificare la regolarità del comporta- mento nei rapporti contrattuali di quella fattispecie, per poi confrontare o il contenuto della dichiarazione negoziale, ove occorra chiarire le intenzioni comuni alle parti, o i modi di esecuzione del contratto102, nel caso in cui sia necessario valutarne l’esattezza.
È opportuno perciò evitare che sotto l’aspetto della buona fede si insinui un giu- dizio di equità finalizzato a modificare i regolamenti legali103.
96 RODOTÀ S., Le fonti di integrazione del contratto, Xxxxxxx, Milano, 1969: 246 e ss. L’A. sottolinea la differenza tra la buona fede e l’equità: quest’ultima non rientra nella disponibilità del giudice perché, al contrario della buona fede, non implica l’individuazione di un parametro, ma riguarda un ampliamento dei poteri del giudice in merito a circostanze che, altrimenti, sarebbero giuridicamente irrilevanti.
97 BIANCA X. X., Xxxxxxx xxxxxx, xxx. XXX, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 493. La buona fede viene descritta come l’impegno che obbliga ciascuna parte a considerare l’interesse dell’altra, prescindendo da determinati ob- blighi contrattuali o extracontrattuali.
98 MENGONI X., op. cit.: 9 e ss.
99 Sul tema si v. diffusamente NANNA C. M., Eterointegrazione del contratto e potere correttivo del giudice, Cedam, Padova, 2010.
100 Le clausole generali sono descritte come norme incomplete, poiché non hanno una fattispecie autonoma, ma sono destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni. Si v., a pro- posito, MENGONI L., op. cit.: 11.
101 Ivi: 13.
102 Ivi: 14 e ss. Alle clausole generali viene così attribuita la funzione di conservare le aspettative fondate su modelli di condotta già consolidati dall’esperienza.
103 XXXXXXXXX XXXX L., op. cit.: 84. L’A. osserva come il contratto si interpreti e si esegua secondo buona fede (artt. 1366, 1175 e 1375 c.c.), mentre si integri secondo equità, solo in assenza della fonte legale o
Il giudizio della Suprema Corte ha avuto il merito di porre l’accento sul fatto che gli obblighi riconducibili alla buona fede oggettiva riguardano soprattutto l’esecuzione del rapporto contrattuale, oltre alla sua nascita, sviluppando il ragionamento che, in tema di contratti, il principio della buona fede debba presiedere all’esecuzione (art. 1375 c.c.) ed all’interpretazione (1366 c.c.), con l’obbligo di accompagnare il rapporto contrattuale in ogni sua fase104.
Nell’attuale dibattito sulla materia si ritiene che si profili una situazione di abuso nel momento in cui la libertà garantita dalla norma può dar luogo a responsabilità. In tale ipotesi la libertà e il potere conferiti da una norma vengono “contenuti” da un limite, che si dispiega nel divieto di abuso del diritto, da sempre piuttosto vago. Occorre, pertanto, valutare di caso in caso se ricorra un’eventuale deviazione dell’esercizio del diritto ri- spetto allo scopo per il quale il diritto stesso è stato attribuito.
Qualora un contratto preveda il diritto di recesso ad nutum in favore di una delle parti, il giudice di merito non può esimersi dal valutare se l’esercizio di tale facoltà sia stato effettuato nel pieno rispetto delle regole di correttezza e buona fede. Quindi, il fatto che i contraenti abbiano previsto espressamente quella clausola in virtù della libertà e dell’autonomia contrattuale che la legge stessa prevede, non fa venire meno tale controllo. Il giudice si trova spesso nella condizione se non di formulare una norma impli-
cita, quantomeno di tracciare il solco di un comportamento sanzionabile e, proprio in questo frangente si pone il problema di stabilire l’argine tra la certezza del diritto e l’au- tonomia del giudice di valutare la fattispecie concreta.
Autorevole dottrina105 ha evidenziato che anche nei Paesi in cui vi è stata un’espli- cita codificazione del divieto dell’abuso del diritto, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono adoperate per circoscriverne, e spesso anche per neutralizzarne, l’ambito di ope- ratività.
degli usi (art. 1374 c.c.) e lo si interpreti secondo equità solamente quando il suo significato sia rimasto oscuro (art. 1371 c.c.).
104 Cass., sez. civ., n. 5348/2009, in Mass. Giur. It., 2009.
105 PINO G., Il diritto il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2004: 25 e ss.; XXXXX X., Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Utet, Torino, 1987: 2 ess.; SACCO R., Il diritto soggettivo, L’esercizio e l’abuso del diritto, op. cit.: 319 e ss.
La sentenza sul caso Renault sembra alterare, se non sconvolgere, il principio se- condo cui ai giudici spetterebbe applicare il diritto, e non di crearlo, introducendo una sorta di sindacato sulla causa del recesso non prevista dal legislatore106.
Sono state avanzate numerose obiezioni nei confronti di questa sentenza, special- mente da parte degli interpreti più restii ad un’estensione del divieto di abuso del diritto. Alcune osservazioni107 hanno subito contestato chi sosteneva una presunta anti-
nomia tra abuso e contratto, evidenziando, in modo pertinente, come esista una vera e propria commistione tra la disciplina ascrivibile alla macro categoria dei contratti e la necessità di vietare le condotte abusive108.
Non sembra né logico né razionale, difatti, configurare una presunta inconciliabi- lità tra il termine abuso e l’alveo dei diritti o dei contratti. Xxxx, sembra auspicabile un convinto divieto di abuso del diritto in quei rapporti che sono dominati dall’organizza- zione di interessi109, soprattutto quando si tende a rimuovere gli ostacoli di ordine econo- mico e sociale, come statuito nel comma 2 dell’art. 3 della Costituzione.
Più arduo sembra il richiamo di questo istituto quando sono in gioco i diritti e le libertà dell’individuo, specialmente quando si tratta di un contratto sinallagmatico libera- mente stipulato da due soggetti. Come affermato da più autori, «si è riscontrato un consi- stente entusiasmo in merito alla capacità dei giudici di legittimità di compiere un ragio- namento avulso da concetti obsoleti e retorici»110.
106 D’AMICO X., Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto, in Giurisprudenza, 1/2010: 17 e ss.: «Se infatti non è richiesta una “causa” per recedere, non c’è neanche un “oggetto” su cui esercitare un controllo in questa direzione; e, quand’anche, accidentalmente, il motivo del recesso risultasse enunciato e/o fosse comunque individuabile, non per questo esso cesserebbe di essere irrilevante, né per questo diventerebbe possibile un suo sindacato».
107 XXXXXXX X., Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una re- cente sentenza della Cassazione, in Corr. giur., 12/2009: 1577 e ss.
108 DI XXXXXX X., Abuso contrattuale, in Enc. giur., vol I. Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 1 e xx.
000 XXXXXXXX X., op. cit.: 142 e ss. Si fa esplicito riferimento all’utilità dell’istituto dell’abuso nei casi di disparità economiche e sociali dei gruppi di persone, i quali devono essere tutelati secondo il dettato nor- mativo della nostra Costituzione.
110 XXXXXXX F., Recesso ad nutum e valutazione di abusivi nei contratti tra imprese, op. cit.: 1587. L’A. auspica che i giudici siano sempre capaci di pervenire ad una ricostruzione fattuale, al fine di applicare correttamente le norme in un dato contesto.
2. Il “governo giudiziario dell’autonomia contrattuale”
Si noti che, a partire da circa un decennio, si è aperto un varco nel nostro ordina- mento giuridico, all’interno del quale è stata data cittadinanza al principio secondo cui i giudici hanno il potere di modificare od integrare il regolamento contrattuale pattuito li- beramente dalle parti. Questa tendenza è riscontrabile anche dalla lettura della sentenza n. 20106/2009.
Le motivazioni della Corte sembrerebbero, in alcuni punti, quasi carenti rispetto all’approfondimento del rapporto tra buona fede e abuso del diritto. Ciononostante viene affermato con una certa fermezza che il «criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto»111.
Sembra incontrovertibile l’affermazione di chi sostiene che la caratteristica prin- cipale del divieto di abuso del diritto consista nell’attribuzione di un notevole grado di discrezionalità all’interprete112.
Questa discrezionalità nel caso Renault sembra finisca per essere trasferita total- mente nelle mani del giudice, il quale parrebbe divenire il titolare di un potere di etero- integrazione del diritto, potere esercitato tramite il ricorso a giudizi di natura morale sul caso concreto.
A conferma delle oggettive difficoltà di inquadrare l’istituto dell’abuso del diritto in una cornice unitaria e certa, si dà rilievo sia a quelli autori che esprimono qualche riserva sulla possibilità di chiarire e concettualizzare una formula normativa così proble- matica113, sia a coloro i quali dubitino della razionalità di un potere auto-attributivo da parte dei giudici di correggere il diritto positivo in base a parametri extra ordinem, che sono potenzialmente “idiosincratici”114.
Appare difficile tracciare il confine entro il quale il giudice non possa pronunciarsi e sembra palesemente arbitraria la previsione di un potere di controllo del giudice diretto sugli atti di autonomia privata, poiché sussisterebbero i prodromi per un controllo di op- portunità e ragionevolezza su una serie di atti privati che necessitano di tempi rapidi e certezza del diritto.
111 Così si legge nelle motivazioni della sentenza sul citato caso Renault, la n. 20106/2009.
112 Così PINO G., op. cit.: 55.
113 SCOGNAMIGLIO C., Ingiustizia del danno, in Enc. giur., Xxxx, 0000: 11 e ss.
114 PINO G., op. cit.: 60.
In sostanza, sembrerebbe razionale concordare con la previsione del divieto dell’abuso del diritto in tutte quelle fattispecie in cui si preveda espressamente una reale ed oggettiva disparità tra le parti, come sancisce la nostra Costituzione.
D’altro canto parrebbe una forzatura l’estensione del principio di abuso del diritto a quegli atti che vengono posti in essere in virtù del principio dell’autonomia contrattuale e del libero scambio, non tanto per questioni dottrinali, ma, soprattutto perché si verrebbe a creare indubbiamente un’ipertrofia di contenzioni demandati ai giudici, senza che si sia effettivamente prefigurato un contrasto con norme imperative, creando in tal modo un vulnus alla stessa certezza del diritto.
Il rischio concreto sembrerebbe quello di vedere pregiudicata la libertà contrat- tuale ed economica delle parti.
È certamente giusto il perseguimento dell’equilibrio e della correttezza dei com- portamenti economici, ma tale principio non può sopprimere totalmente i diritti e i poteri nascenti da un contratto stipulato liberamente, soprattutto quando quel contratto è estra- neo rispetto a quelle fattispecie tipiche previste dal legislatore, il quale ha già disposto alcuni “squilibri contrattuali”, giustificati però dalle qualità e specificità delle parti.
Proprio perché l’ordinamento italiano non ha positivizzato il divieto di abuso del diritto, è sempre efficace attenersi a valutazioni ascrivibili alla stretta legalità delle fatti- specie, senza avventurarsi nell’applicazione di principi tesi all’innovazione dei precetti giuridici alla luce di esigenze morali.
Non sarebbe auspicabile, infatti, che dalla certezza del diritto si approdasse all’in- certezza del giudizio.
Nella sentenza115, in particolare, è stato fatto espresso riferimento al principio dell’abuso del diritto, nonostante la fattispecie potesse essere valutata mediante il criterio della buona fede oggettiva, senza necessità di commistione con l’istituto anzidetto. Chi sostiene ciò si muove certamente in una prospettiva di critica della sentenza in questione.
115 Si noti come nella sentenza stessa viene affermato che «Con il divieto dell’abuso l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrati alla buona fede oggettiva», salvo poi asserirsi smentendo che: «Nel nostro codice non esiste una noma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto».
Al contrario, tra i contributi dottrinali più significativi116 che si registrano sul tema, nel periodo più recente, emerge quello che si muove nella prospettiva di una arti- colata difesa degli svolgimenti argomentativi della sentenza del 2009.
Nel saggio che condivide le argomentazioni della Suprema Corte, si sottolinea, in primis, che, nonostante le numerose critiche che la sentenza ha suscitato, la categoria dell’abuso del diritto costituisce in realtà uno strumento del quale si è avvalsa l’elabora- zione giurisprudenziale della Suprema Corte, sia all’interno del tema classico dell’abuso del diritto di proprietà, sia nell’area del diritto delle obbligazioni e dei contratti.
L’estensione della categoria dell’abuso del diritto alla materia contrattuale sem- brerebbe essere il frutto di una operazione ermeneutica già più volte, anche nel recente passato, posta in essere dalla giurisprudenza: ed in questa prospettiva verrebbe in consi- derazione soprattutto l’elaborazione giurisprudenziale che ha utilizzato il concetto di abuso del diritto nella materia del recesso dal contratto di apertura del credito117.
D’altra parte, come osserva Xxxxxxx, proprio lo specifico problema che la sen- tenza n. 20106/2009 ha risolto, ovvero la verifica della modalità, nel caso concreto abu- siva, dell’esercizio del diritto di recesso dal contratto, sarebbe tale da rendere lampante l’assenza di un pericolo del depotenziamento del vincolo contrattuale.
Questa prospettiva mette altresì in luce che l’essenza del vincolo contrattuale ri- sieda proprio nell’esigenza di rispettarlo, e non già nell’attribuzione, eventuale, alle parti contraenti del potere di recedere. In tale prospettiva, il conferimento al giudice del potere di analizzare e valutare le modalità di un esercizio corretto del diritto di recesso sarebbe funzionale ad una più efficace tutela del vincolo contrattuale e non, invece, e come soste- nuto da alcuni, ad un indebolimento del medesimo.
Si tratterebbe, in altre parole, di una tecnica di “governo giudiziario della discre- zionalità contrattuale” praticata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione fin dagli anni Novanta secondo una linea di tendenza che, anche in riferimento ai contratti le cui parti hanno pari forza contrattuale, si orienta verso la concreta verifica dell’equilibrio contrattuale e della sua permanenza nel tempo e si manifesta attraverso l’uso sempre mag- giore e incisivo delle clausole generali.
116 XXXXXXX F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e impresa, 3/2011: 311 e ss.
117 XXXXXXX F., Qui suo iure abutitur neminem laedit?, op. cit.: 314.
In questa prospettiva, verrebbero in considerazione diversi strumenti tecnici di esercizio del potere giudiziario di governo della discrezionalità contrattuale. Prima di tutto il parametro della meritevolezza di tutela dell’interesse perseguito – cui ha riguardo, come è noto, l’art. 1322, comma 2, c.c. – a sua volta bisognoso di valutazione pure con riferimento a singole clausole contrattuali; l’equità contrattuale – così come disciplinata dall’art. 1374 c.c. – che potrebbe rilevare anche come equità correttiva; la buona fede nell’interpretazione del contratto ex art. 1366 c.c., destinata a configurarsi ora, ed anche nella giurisprudenza della Suprema Corte, quale criterio principale e non più come crite- rio sussidiario, di interpretazione, restando così superato senz’altro il discusso canone ermeneutico secondo il quale in claris non fit interpretatio118.
L’orientamento che emerge dalla sentenza della Cassazione in commento sarebbe, inoltre, espressione di una giurisprudenza che andrebbe valutata con favore anche in ter- mini di analisi economica del diritto. Infatti, operando come ha fatto la Suprema Corte nel 2009 si passerebbe da una visione puramente quantitativa ad una visione altresì qua- litativa della circolazione della ricchezza. Inoltre, si procederebbe ad una valutazione sempre più sensibile della congruità causale del contratto, così come articolato nelle sue singole clausole, nella prospettiva di un’indagine penetrante circa l’effettiva giustifica- zione dell’atto di scambio, non fermandosi alla “forma”.
Certamente, si tratterebbe di una prospettiva nuova attraverso cui guardare il pro- blema della giustizia del contratto. Ma è opportuno considerare che, ragionando in una tale prospettiva, l’esigenza della giustizia contrattuale potrebbe senz’altro venire in con- siderazione come un potente fattore di sviluppo economico, essendo in grado di dispie- gare su questo piano effetti favorevoli, quali lo sviluppo della propensione a contrattare e soprattutto l’incremento della fiducia del mercato119.
D’altra parte non vi è dubbio che questo strumento, che potenzialmente devolve al giudice il potere di svolgere un controllo di tipo qualitativo sulla circolazione della ricchezza, rafforza proprio la considerazione del suo ruolo nella prospettiva di un assetto
«il cui primato della legge passa necessariamente attraverso l’attività ermeneutica del giudice»120.
118 Ibidem.
119 Ibidem.
120 Cfr., in questi termini, VETTORI G., Dialogo fra le corti e tecnica rimediale, in Persona e Mercato- Saggi, 2010: 281. L’A. pone l’accento sull’apporto che la giurisprudenza di legittimità fornisce al nostro
A sostegno di quanto detto, merita di essere qui menzionata, per la peculiarità dell’ipotesi di fatto sulla stessa decisa, una sentenza del 2010121.
La decisione ha risolto un caso nel quale, all’interno di un contratto di locazione, la parte locatrice, a sua volta debitrice nei confronti di quella conduttrice in relazione ad un distinto contratto (avente ad oggetto l’esecuzione di lavori di ristrutturazione dell’im- mobile oggetto del rapporto di locazione), aveva omesso di detrarre dai canoni di loca- zione, pure da essa reclamati e dovuti in effetti dalla parte conduttrice, le somme a quest’ultima dovute.
Tale condotta aveva poi costituito «il passaggio obbligato per la successiva inti- mazione di sfratto per morosità, intervenuta con assai peculiare tempismo, e ciò tanto più che l’omessa compensazione, peraltro specificamente opposta dalla controparte, costrinse l’ente (n.d.r.: il locatore) a esborsi che ben avrebbe potuto evitare, se non avesse avuto il trasparente intento - di cui andrà scrutinata la corrispondenza ad un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico - di cristallizzare e rendere irreversibile l’ina- dempimento del conduttore».
Nella motivazione della sentenza, il problema del fondamento normativo della regola di divieto di abuso del diritto è risolto, secondo una modalità argomentativa che abbiamo già visto essere largamente accreditata, attraverso il richiamo alla regola di buona fede oggettiva122, osservandosi che quest’ultima comporta «quale ineludibile co- rollario, il divieto per ciascun contraente, di esercitare verso l’altro i diritti che gli deri- vano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati».
ordinamento, anche con la sent. Cass., sez. civ., n. 10741/2009, in Contratto e impresa, 2/2010: 366 e ss., con nota di XXXXXXXX X., L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, la quale, sia pure con riferi- mento ad un’area di problemi piuttosto diversa da quella oggetto della nostra riflessione in questa sede (nel caso di specie si trattava della risarcibilità del danno subito dal nascituro per la negligenza del medico curante la madre) ha rivendicato senz’altro alla giurisprudenza di legittimità il ruolo di fonte del diritto. Può essere interessante rammentare, come indice della sempre maggiore consapevolezza avvertita dalla giurisprudenza in ordine alle operazioni valutative cui il giudice è chiamato attraverso l’utilizzazione della regola di buona fede nel governo del contratto, anche il fatto che una recente Relazione tematica dell’Uffi- cio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione (n. 116 del 10 ottobre 2010), è appunto dedicata alla buona fede come fonte di integrazione dello statuto contrattuale e al ruolo del giudice nel governo del contratto.
121 Cass., n. 13208/2010, con nota di XXXXXX X., Abuso del diritto di sfratto del locatore inadempiente, in
Contratto e impresa, 2/2011: 297 e ss.
122 Non si fa menzione invece della disposizione dell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che pure, come si è osservato sopra, pare costituire ormai un riconoscimento normativo sufficien- temente chiaro del divieto dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento.
Su tale premessa, la sentenza rileva che l’assenza nel nostro codice di una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del non ha impedito, a una giurisprudenza attenta, di sanzionare con l’illegittimità la cosiddetta “interruzione brutale del credito”, e cioè il recesso di una banca da un rapporto di apertura del credito tutte le volte in cui, benché pattiziamente consentito, esso assuma connotati di arbitrarietà123; ovvero di colpire con l’invalidità la delibera assembleare affetta da eccesso di potere della maggioranza, in quanto adottata ad esclusivo beneficio della stessa ed in danno dei soci di minoranza124,
«spingendosi al punto da prefigurare, in ambito contrattuale, in nome del dovere indero- gabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Cost., un sindacato – anche in senso modificativo o integrativo – dello statuto negoziale125 nonché un controllo di ragionevolezza di singole clausole, in funzione di contemperamento degli opposti interessi dei paciscenti»126.
La giurisprudenza sembrerebbe suggerire la possibilità di tradurre il divieto di abuso del diritto sul piano del controllo di ragionevolezza dell’esercizio delle situazioni giuridiche soggettive, restando invece affidata alla clausola di buona fede la verifica dei comportamenti delle parti del contratto o del rapporto nella prospettiva della lealtà e della solidarietà.
Oggi, una volta affermatesi prepotentemente le clausole generali127, la ricostru- zione dell’abuso del diritto sembra essersi saldamente ancorata alla buona fede128, «alla
123 Cfr. Cass., sez. civ., n. 2642/2003, in Mass. Foro it., 2003; Cass., sez. civ., n. 15482/2003, in Nuova giur. civ. comm., 1/2004: 305 e ss., con nota di GRONDONA M., Disdetta del contratto, abuso del diritto e clausola di buona fede: in margine alla questione del precedente giudiziale: 309 e ss.
124 Cfr. Cass., sez. civ., n. 27387/2005, in Mass. Giur. It., 2005.
125 Xxx. Xxxx., X.X. xxx., x. 00000/0000, xx Xxx. dir. civ., 3/2009: 20347 e ss., con nota di XXXXXX X., Xxxxx fede, solidarietà, esercizio parziale del credito (ancora in ritorno a Cass., S.U. civ., n. 23726/2007); Cass.
S.U. civ., n. 18128/2005, in Foro it., 1/2006: 106, con nota di XXXXXXXX A, op. cit.
126 Cfr. Cass., sez. civ., n. 20106/2009, cit.
127 Sul tema si x. XXXXXXXXXX X., voce Abuso del diritto, in Enc. dir., Agg., vol. II, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000: 1 e ss. L’A. insiste sul ruolo delle clausole generali quali strumenti idonei a rendere duttile il sistema e quindi a mediare «tra i valori umani e sociali, da un lato, e la libertà dell’agire, formalizzata o meno nello schema del diritto soggettivo, dall’altro […]».
128 Cfr. XXXXXXX F., Trattato di diritto civile, vol. II, 3a ed., Xxxxx, Padova 2014: 659, per il quale la violazione del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto può configurarsi come abuso del diritto; cfr. anche PIRAINO F., Il divieto di abuso del diritto, in Eur. dir. priv., 108 e ss., (in particolare 155); nonché LIPARI N., Il diritto civile tra legge e giudizio, Xxxxxxx, Xxxxxx 0000: 216. Un esempio che ci proviene direttamente dalla giurisprudenza sul tema più recente è da ricondursi alla recente Cass., sez. civ., n. 23868/2015, in I Contratti, 7/2016: 659 e ss., con nota di PIRAINO F., Il controllo giudiziale di buona fede sulla clausola risolutiva espressa, di cui si v., nello specifico, la nt. 16. Nello stesso senso si è espressa precedentemente la Suprema Corte con la nota e più volte citata Xxxx., sez. civ., n. 20106/2009, in cui si afferma che il criterio rivelatore della violazione della buona fede oggettiva è l’abuso del diritto: «Costi- tuendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privati- stico l’interpretazione dell’atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l’abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non
luce di un percorso che, in epoca contemporanea, è reso ancor più agevole dalla diretta invocazione dei principi costituzionali e della solidarietà costituzionale quale parametro esterno di valutazione qualsivoglia comportamento facoltizzato da una norma (ovvero da una clausola contrattuale)»129.
Ci si riferisce prima di tutto all’ordinanza della Corte Costituzionale con la quale è stata sancita la diretta applicabilità dell’art. 2 della Costituzione – relativamente all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà – unitamente al canone di buona fede130, così decretando il potere del giudice di sanzionare con la nullità la clausola che contempli una somma manifestamente sproporzionata a titolo di caparra confirmatoria131. In secondo luogo va fatto riferimento anche a quella giurisprudenza che, in pre-
senza di un inadempimento di un’obbligazione dedotto in una clausola risolutiva espressa, sottopone comunque al vaglio di non abusività, alla luce della clausola generale di buona fede e correttezza, l’atto con il quale il creditore della prestazione inadempiuta dichiari di avvalersi di detta clausola132.
In tal ultimo caso siamo in presenza di un diritto (potestativo) - quello di avvalersi della clausola risolutiva espressa al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligazione in essa dedotta – che trova la sua ratio nella previa valutazione delle parti, compiuta in sede di esplicazione dell’autonomia contrattuale, circa l’essenzialità dell’adempimento di una
sia quella consentita dall’ordinamento, si avrà abuso». In senso critico su tale accostamento si è espresso Xxxxxxxxxx, in XXXXXXXXXX C., Eclissi del diritto civile, Xxxxxxx, Milano, 2015: 108 e ss., il quale afferma che le due figure vanno tenute distinte: «L’abuso del diritto, se è tale, non ha bisogno della buona fede per dare fondamento al proprio effetto; reciprocamente, la buona fede ha un ambito di applicazione suo proprio, all’interno del quale l’abuso del diritto non è in grado di aggiungere nulla».
129 In tal senso si v., da ultimo, BALESTRA L., Rilevanza, Utilità (e abuso) dell’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 3/2017: 541 e ss.
130 Xxxxx Xxxx., 0 aprile 2014, n. 77, in Contratti, 2014: 853, con nota di XXXXXXXXXXX X.
131 Nel caso di specie ad essere sanzionata è l’iniquità di una clausola contrattuale così come scaturita dall’accordo delle parti e non il comportamento dalle medesime facoltizzato.
132 Cass., sez. civ., n. 23868/2015, in CED Cassazione, 2015. La Suprema Corte afferma: «Anche in pre- senza di clausola risolutiva espressa, i contraenti sono tenuti a rispettare il principio generale della buona fede e il divieto di abuso del diritto, preservando l’uno gli interessi dell’altro. Il potere di risolvere di diritto il contratto avvalendosi della clausola risolutiva espressa, in particolare, è necessariamente governato dal principio di buona fede, da tempo individuato dagli interpreti sulla base del dettato normativo (artt. 1175, 1375, 1356, 1366 e 1471 c.c.) come direttiva fondamentale per valutare l’agire dei privati e come concre- tizzazione delle regole di azione per i contraenti in ogni fase del rapporto (precontrattuale, di conclusione e di esecuzione del contratto). Il principio di buona fede si pone allora, nell’ambito della fattispecie dell’art. 1456 c.c., come canone di valutazione sia dell’esistenza dell’inadempimento, sia del conseguente legittimo esercizio del potere unilaterale di risolvere il contratto, al fine di evitarne l’abuso ed impedendone l’eserci- zio ove contrario ad essa (ad esempio escludendo i comportamenti puramente pretestuosi, che quindi non riceveranno tutela dall’ordinamento».
determinata obbligazione, al fine di realizzare l’interesse del contraente creditore – valu- tazione tesa a scongiurare qualsivoglia controllo giudiziale, una volta accertato che ina- dempimento vi sia stato, in merito alla scelta di provocare la risoluzione del contratto – e che nondimeno è suscettibile, a seconda delle concrete circostanze in cui vive esercitato, di essere tacciato di abusività.
I profili di incertezza che permeano la figura dell’abuso del diritto, in realtà, non concernerebbero quelle ipotesi in cui è la legge stessa a sanzionare forme di abuso, san- cendo limiti ben precisi rispetto a comportamenti in xxx xxxxxxxx xxxxxxxxxxxx000.
I problemi nascono allorquando i limiti debbano essere ricavati dal sistema, per- ché è in questi casi che si annida il rischio di abuso dell’abuso del diritto134.
È proprio con riguardo al recesso ad nutum dal contratto che si è ampiamente parlato del fenomeno del “governo giudiziario dell’autonomia contrattuale”.
Occorre fare un passo indietro. Per comprendere appieno il caso Renault, più volte citato, risulta opportuno, seppur succintamente, entrare nel merito della questione.
Nel luglio 2002 la Commissione europea ha adottato un regolamento135 di esen- zione per categoria in materia di accordi di distribuzione di autoveicoli136.
In virtù di questa disciplina la Renault aveva pieno diritto di recedere dal contratto, purché nel rispetto del termine previsto di preavviso di un anno.
Si è voluto concedere questo lungo termine di preavviso soprattutto nell’interesse del rivenditore di autovetture, che in virtù di questo tipo di contratti è tenuto ad osservare una serie di obblighi molto stingenti e onerosi, che si sostanziano perfino nel dovere di allestire secondo determinate direttive impartite dal concedente, o produttore, i locali ove viene svolta l’attività di rivendita, senza poi considerare gli ingenti investimenti compiuti, l’esigenza di smaltimento delle scorte, l’obbligo di consentire un agevole passaggio della
133 Si v. BRECCIA U., L’abuso del diritto, in Dir. priv., vol. III, 1997, Cedam, Xxxxxx, 0000: 5 e ss.
134 Cfr. D’XXXXXX X., voce Abuso del diritto, in Nuov. Dig., vol. I, Utet, Torino, 1937: 49.
135 Tale regolamento si inserisce tra quelli attuativi del par. 3 dell’art. 81 del Trattato istitutivo della Comu- nità Europea, paragrafo che, stante il divieto dell’incipit della norma ad «accordi tra imprese, decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati mem- bri, e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune», specifica quando il suddetto divieto possa essere derogato. Tale deroga può essere disposta anche in virtù di esenzioni per categoria, la concessione delle quali ultime è posta in specifici regolamenti.
136 Il Regolamento n. 1400/02 della Commissione, del 31 luglio 2002, relativo all’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato a categorie di accordi verticali e pratiche concordate nel settore automobilistico.
clientela al concedente, la necessità di trovare un marchio di pari prestigio con cui iniziare un nuovo rapporto di concessione di vendita.
Questo termine di preavviso “congruo” consentirebbe, quindi, al rivenditore, di riorganizzare in modo adeguato la propria attività economica.
Nel caso di specie, il recesso ad nutum comunicato dalla casa automobilistica francese Renault a tutti i propri rivenditori italiani, pur rispettando il termine di preavviso di un anno imposto dal diritto comunitario, era fondata non tanto sulla “necessità di rior- ganizzare l’intera rete o una parte sostanziale di essa” – caso in cui il preavviso per il recesso ad nutum si riduce ad un anno137 – bensì sulla necessità di ristrutturare in toto la propria azienda.
Ci si chiede, quindi, se è possibile sindacare, entrando nel merito, le ragioni che hanno indotto la casa produttrice all’esercizio del diritto di recesso ad nutum138.
I giudici di primo grado e di appello ritennero irrilevante la ragione alla base della scelta di recesso ad nutum, nonostante il riconoscimento di tale diritto in virtù del con- tratto, ed il rispetto del termine legale di preavviso di un anno.
Risposta totalmente diversa a tale quesito è stata data dalla Corte di Cassazione, la quale ha, invece, valutato la ragione concreta per la quale il diritto di recesso ad nutum era stato esercitato dalla Renault.
La Suprema Corte ha ravvisato in tale facoltà una condotta abusiva, ritenendo che quel diritto fosse stato strumentalizzato, ed utilizzato per una funzione diversa rispetto a quella per la quale esso era stato riconosciuto in virtù del contratto. La Cassazione, dun- que, esercita in questa ipotesi un controllo dell’autonomia negoziale, invocando la clau- sola generale della buona fede nell’esecuzione del contratto.
137 L’esenzione dal divieto di cui all’art. 81 Trattato istitutivo della Comunità Europea di accordi, decisioni e pratiche concordate tra imprese lesive della libera concorrenza nel mercato comunitario prevista dall’art. 2 del Regolamento n. 1400/02 della Commissione quanto a categorie di accordi verticali e pratiche concor- date nel settore automobilistico «si applica a condizione “che l’accordo verticale concluso con un distribu- tore o riparatore preveda», tra le altre cose, «che: [...] b) l’accordo venga concluso per una durata indeter- minata; in tal caso il preavviso minimo per il recesso ordinario dall’accordo è di due anni per entrambe le parti; il preavviso minimo viene ridotto ad un anno qualora: il fornitore sia tenuto, per legge o in forza di una convenzione particolare, a pagare una congrua indennità in caso di recesso dall’accordo; oppure il fornitore receda dall’accordo in caso di necessità di riorganizzare l’intera rete o una parte sostanziale di essa».
138 Sul tema si v. ampiamente XXXXXXX F., Il governo giudiziario dell’autonomia contrattuale, lezione tenuta il 19 ottobre 2009, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Xxxxxx Xxxxxxxx XX.
La Corte ha affermato che è attraverso il criterio della buona fede nell’esecuzione del contratto che è opportuno valutare se l’esercizio di un diritto è avvenuto in conformità al suo uso o è stato “abusato”.
Altra sentenza storica che rappresenta un esempio di governo giudiziario dell’au- tonomia contrattuale è quella con cui la Cassazione ha ammesso la rilevabilità d’ufficio della penale eccessiva. Si tratta della storica sentenza “Xxxxxxx”139.
È proprio in questa occasione che si è elaborato un orientamento giurisprudenziale nuovo secondo cui, premesso che «il potere del giudice di ridurre la penale manifesta- mente eccessiva risponde ad una funzione oggettiva di controllo dell’autonomia privata, in sintonia con il principio costituzionale di solidarietà, riferibile anche ai rapporti nego- ziali, e con la clausola di buona fede, inerente anche alla fase della formazione del con- tratto», doveva ritenersi possibile la riduzione d’ufficio della penale manifestamente ec- cessiva, «anche in difetto di istanza della parte interessata».
La Corte di Cassazione ha affermato la nullità della penale manifestamente ecces- siva, in quanto non rispondente a interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e dunque affetta da nullità parziale secondo un criterio quantitativo.
Questa pronuncia ha provocato diverse critiche, in particolare dovute a due ra- gioni: in primis, per la doverosità dell’ossequio al principio ne procedat iudex ex officio; in secondo luogo la sentenza è espressione di un’equità correttiva della determinazione pattizia che, si è obiettato, dovrebbe essere ammessa solo nei casi espressamente previsti dalla legge.
La Corte ha fatto spesso ricorso alla norma dell’art. 1322, comma 2, c.c., e dunque alla clausola generale della meritevolezza di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Come afferma autorevole dottrina, il compito di adeguare il diritto ai mutamenti della realtà sociale non pare essere tanto del legislatore, quanto più del giudice, chiamato ogni giorno, al fine di rendere giustizia, a dare una pregnanza concreta alle norme giuridiche. Per ciò che riguarda nello specifico la clausola generale della buona fede nell’in- terpretazione del contratto ex art. 1366 c.c., è opportuno ricordare che secondo una giuri- sprudenza tradizionale della Cassazione, tale criterio era sussidiario rispetto a quello fon- damentale dell’interpretazione letterale. Secondo tale orientamento, laddove alla luce di un’interpretazione letterale del contratto risultasse già chiara l’intenzione delle parti, non
139 Cass., n. 10511/2009, in Giur. it., 4/000: 1154.
era possibile fare ricorso a criteri di interpretazione oggettiva come quello della buona fede. È quanto si racchiude nel principio in claris non fit interpretatio. Secondo questo orientamento il senso letterale delle parole è «criterio fondamentale e prioritario», con la conseguenza che, «ove le espressioni usa nel contratto siano di chiara e inequivoca signi- ficazione, la ricerca della comune volontà è esclusa»140 è stato superato alla fine degli anni novanta, quando la formula onnicomprensiva del governo giudiziario dell’autono- mia privata ha iniziato a prendere piede nella nostra giurisprudenza.
Qui, la Cassazione ha cominciato a sostenere il carattere non sussidiario, bensì principale del criterio dell'interpretazione secondo buona fede, tale per cui esso va appli- cato anche quando il contratto sia chiaro, correggendo così la volontà delle parti141.
A sostegno di quanto detto fino ad ora è opportuno richiamare un recente caso142.
Si tratta di una decisione di merito, in cui il giudice ha applicato in maniera molto lineare – e, se vogliamo, anche molto similare alla sentenza del 2009 inerente il caso Renault – il principio di abuso del diritto.
Nel caso di specie un professionista ottiene sentenza di condanna nei confronti di una s.r.l. affinché quest’ultima gli paghi dei compensi professionali. Nelle more del giudizio la s.r.l. cede la propria azienda ad una s.n.c. costituita appositamente.
Appena viene posta in essere la cessione la s.r.l. viene messa in liquidazione e la
s.n.c. prosegue l’attività commerciale che esercitava in precedenza la s.r.l. Risulta in modo pacifico che le due società hanno compagine praticamente identica.
Il giudizio in questione vede l’opposizione della s.n.c. contro il precetto che gli ha intimato il professionista.
140 Cosí XXXXXXX F., Il contratto, in Contratto e impresa, 23/2007, che, nel richiamare testualmente la sentenza n. 19140/2005 della Corte di Cassazione, sez. civ., la colloca tra quelle che affermano il c.d.
«principio del gradualismo», «secondo il quale deve farsi riferimento a criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le carie clausole contrattuali) siano insuf- ficienti all’individuazione del comune intento dei contraenti» (Cass., sez. civ., n. 5424/2002, in Mass. Xxxx.xx., 2002; Cass., sez. civ., n. 397/2002, ivi, 2002; Cass., sez. civ., n. 4241/1999, in xxxx://xxxxxx-xx- xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx ; Xxxx., sez. civ., n. 14587/1999, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx; Cass., sez. civ.,
n. 5893/1996, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx)».
141 Ci si riferisce a Corte di Cassazione, sez. civ., n. 2992/2004 (in Dir. giust., 13/2004: 34), per la quale il canone ermeneutico della buona fede rappresenta un criterio correttivo del testo contrattuale, e ciò «anche quando l’interpretazione delle clausole che concorrono alla formazione del testo negoziale compiuta sulla base del senso letterale delle parole, conduca ad un risultato di certezza».
142 Trib. Reggio Xxxxxx, 16 giugno 2015, in Foro it., 1/2015: 3725 e ss.
Il Tribunale, rilevato che si è in presenza di una cessione di azienda, afferma che la sentenza di condanna pronunciata nei confronti della s.r.l. non può applicare in via di- retta i suoi effetti nei confronti della s.n.c. ed inoltre quest’ultima non può essere chia- mata a rispondere in via diretta del debito del cedente ex art. 2560, comma 2, c.c.,
«norma astrattamente applicabile alla cessione d’azienda, ma in concreto inapplicabile poiché non risulta integrato il necessario presupposto fattuale, e cioè che il debito per cui è causa risulta dai libri contabili obbligatori».
Nonostante quanto appena riportato il Tribunale afferma che la s.n.c. «deve co- munque essere chiamata a rispondere del debito contratto dalla cedente nei confronti del professionista, sulla base della teorica dell’abuso del diritto, essendo stata posta in es- sere un’operazione societaria esclusivamente finalizzata all’elusione della pretesa credi- toria del professionista stesso»143.
La motivazione specifica che l’abuso del diritto è connesso ad una alterazione della funzione causale di una determinata operazione, o alla violazione del dovere di buona fede.
Vengono individuati gli elementi costitutivi dell’abuso:
a) la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di utilizzo secondo plurime modalità non rigidamente predeterminate;
b) l’esercizio concreto del diritto: esercizio formalmente rispettoso della cornice attributiva, ma in realtà censurabile rispetto a un criterio di valutazione giuridico o extra giuridico;
c) la sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare e il sacrificio della controparte.
Il Tribunale conclude affermando che «l’operazione eseguita di cessione dell’in- tero patrimonio ad una società neocostituita con compagine sociale sostanzialmente iden- tica si spiega quindi non già come una volontà di una trasformazione societaria, quanto piuttosto con la volontà di rendere la nuova società, in prosecuzione della precedente, impermeabile rispetto alla situazione debitoria pregressa.
Trattasi quindi, in conclusione, di un caso di abuso del diritto, tenuto conto del fatto che, in violazione del principio di buona fede, la cessione d’azienda è stata effettuata
143 Ivi: 3727.
per un fine diverso da quello tutelato dalla norma e quindi con violazione della causa concreta del negozio»144.
È chiaro che quello dell’abuso rappresenta uno strumento dinamico, che si “flette” rispetto alle esigenze del caso concreto.
Ma a questo punto sembrerebbe opportuno porsi alcuni interrogativi.
Su chi grava la responsabilità della scelta? Se tale responsabilità non è esclusiva del legislatore, cosa legittima il corrispondente potere del giudice, e dunque la trasforma- zione endogena del diritto? E come si configurano i limiti di un tale potere145?
Come affermato da autorevole dottrina, chiaro è che più le leggi da applicare sono elastiche, generiche, aperte a possibilità di interpretazioni plurime, maggiore è il potere del giudice.
Il potere dei giudici può essere definito come “la risultante di deleghe da parte del legislatore”146.
Il giudice di norma non arbitra interessi, non bilancia interessi in conflitto: attua, o dovrebbe attuare, il diritto nel senso più stretto possibile. E perciò è bene che le leggi siano formulate in modo da dare poco potere al giudice, abbiano poche clausole generali, abbiano molti termini definiti, abbiano poche parole equivoche, e soprattutto è bene che il conflitto tra interessi sociali conflittuali sia risolto a monte, cioè dal legislatore.
In questa prospettiva, se si va al cuore della critica rivolta contro l’impiego del principio dell’abuso del diritto, e più volte si è fatto sarcastico riferimento agli usi abusivi dell’abuso del diritto147, si nota che il nodo centrale è il seguente. Se si dà ingresso a questo principio il rischio è quello di consegnare al giudice, il compito di riassestare e modificare il regolamento contrattuale e, quindi, l’economia della pattuizione contro il programma condiviso dalle parti, contro la volontà consacrata nel regolamento contrat- tuale148.
144 Ivi, c. 3729.
145 Si v. sul tema, e diffusamente, LIPARI N., I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2/2015: 1115 e ss.; X. XXXXXXXXXX, Eclissi del diritto civile, Milano, Xxxxxxx, 2015.
146 BESSONE (a cura di), Sullo stato dell’organizzazione giuridica. Intervista a Xxxxxxxx Xxxxxxx, Bologna, Zanichelli, 1979: 10.
147 XXXXXXXX X., Xxxxxxxxx, Xxxxxxx (x xxxxx) xxxl’abuso del diritto, in Rivista di diritto civile, 3/2017: 541 e ss.; X. XXXXX, Note critiche in tema di abuso del diritto e di poteri del giudice, in Riv. cric. dir. priv., 1/2014: 27 e ss.
148 Sul tema si v., tra tutti, GENTILI A., Il diritto come discorso, 2013: 401 e ss.
Si potrebbe dire, allora, che il problema centrale non attiene la legittimità o meno dell’utilizzo dell’abuso come strumento, il che è da tempo una realtà, bensì il controllo del ragionamento del giudice. Si tratterebbe, allora, di un problema perlopiù applicativo ed interpretativo.
Sezione III
Abuso del diritto e figure collaterali nell’interpretazione del diritto tributario
SOMMARIO: Premessa introduttiva. 1. Dal diritto civile al diritto tributario: il caso Halifax. 2. L’abuso del diritto a confronto con frode alla legge e simulazione. 3. L’abuso del diritto e l’interposizione fittizia di persona. 3.1. Ancora confusione su evasione, abuso e interposizione soggettiva.
Premessa introduttiva
Dopo le riflessioni svolte nelle sezioni precedenti, intese – come si è visto – a delineare, da un lato la concezione dell’abuso nel diritto romano, dall’altro la concezione odierna dell’istituto, è risultato opportuno cominciare ad indagare il fenomeno che ha generato l’idea costituente la presente trattazione: lo sviluppo dell’abuso del diritto nel settore del diritto tributario, in cui l’istituto è “esploso” grazie al contributo della Corte di Giustizia, che lo ha definito un “principio non scritto” dell’ordinamento europeo, come statuito nel noto caso Halifax che sarà, qui, oggetto di analisi.
Come è noto l’abuso del diritto interseca molteplici settori, ma, quello tributario, come verrà evidenziato, assume importanza peculiare ed è stato scelto per diversi ordini di motivi: per la recente introduzione, all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente, di una clausola generale antiabuso, per l’ampio utilizzo che ne ha fatto la Giurisprudenza, nonché per il fatto che nel diritto tributario si è avuta una positivizzazione dell’istituto, non solo al livello interno, ma anche eurounionale.
In seconda battuta verranno estrapolati i dubbi interpretativi che emergono, a par- tire dalla Giurisprudenza, in merito all’istituto dell’abuso: spesso confuso con la simula- zione, con la frode alla legge e con l’evasione. Si cercherà, a questo punto, di fare chia- rezza ponendosi il seguente quesito: l’abuso del diritto si sovrappone a taluna di queste
fattispecie o si tratta di un istituto a sé stante? Una volta fornita risposta a questa domanda si analizzeranno quelli orientamenti, ormai obsoleti, con cui la Corte di Cassazione e la Corte di Giustizia hanno utilizzato istituti tratti dal diritto civile per trovare rimedio ad ipotesi in cui il contribuente, attraverso operazioni contrattuali tipiche, cercava di ottenere un vantaggio fiscale.
1. Dal diritto civile al diritto tributario: il caso Halifax
Come si è avuto modo di mettere in luce, l’abuso del diritto ha trovato terreno fertile specialmente nell’ambito del diritto civile, nonostante il legislatore ritenne all’epoca opportuno non positivizzarlo nel codice. Il problema dei comportamenti “abu- sivi” si è sviluppato, in particolare, in materia contrattuale. Ciò in quanto, a causa dell’am- pia autonomia concessa alle parti ex art. 1322 c.c., risulta agevole la strumentalizzazione di un contratto per ottenere fini diversi rispetto a quelli concessi al titolare del diritto dal legislatore.
In un secondo momento il principio di divieto di abuso del diritto ha cominciato ad insinuarsi anche nel settore del diritto tributario, in cui è esploso da circa un decennio grazie al contributo della Corte di Giustizia, che lo ha definito un principio non scritto dell’ordinamento europeo149, individuandolo nell’uso distorto delle norme giuridiche per ottenere vantaggi fiscali «la cui concessione sarebbe contraria all’obbiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni»150.
Non di rado l’ordinamento tributario ha utilizzato strumenti coniati dal diritto ci- vile per trovare un rimedio all’abuso del diritto. Perciò risulta opportuno, in questa sede,
149 L’abuso del diritto è oggetto di una espressa regolamentazione nell’art. 17 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nell’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. L’art. 17, rubri- cato «Divieto dell’abuso del diritto» prevede che «nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare una attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione, o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni più ampie di quelle previste in detta Convenzione». L’art. 54, rubricato «Divieto dell’abuso di diritto» stabilisce che «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare una attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta».
150 Corte di Giustizia, 21 febbraio 2006, X-000/00, (xxxx Xxxxxxx), xxr. 74.
comprendere come gli istituti di diritto civile siano stati applicati dalla giurisprudenza e dalla dottrina tributaria.
È opportuno ricordare preliminarmente che, per sua natura, la norma tributaria si presenta come cosiddetta norma di secondo grado la quale, per poter configurare un pre- supposto impositivo, necessita a monte di istituti civilistici quali i contratti e i diritti reali. Per potersi configurare un prelievo tributario è, quindi, necessario che preesistano elementi rilevanti in termini di patrimonio, reddito o consumo i quali, per loro natura, non
possono prescindere da relazioni civilistiche e/o commerciali.
Pertanto, ogni qualvolta la giurisprudenza tributaria si è trovata a dover affrontare tematiche non riconducibili alle specifiche e analitiche norme antielusive (antiabusive) tributarie151, ha trovato agevole disconoscere gli “indebiti” vantaggi fiscali del contri- buente, rilevanti sul piano della norma tributaria come norma di secondo grado, utiliz- zando, non sempre in maniera esatta, istituti civilistici, di per sé presupposto primario rispetto alla norma tributaria152. Da qui l’esigenza di ripercorrere i principali passi che hanno condotto la giurisprudenza tributaria all’odierna concezione di abuso del diritto, spesso tramite l’utilizzo distorto delle categorie del diritto civile; lo scopo della ricerca, come anticipato più volte, è quello di ristabilire la supremazia e la centralità del diritto privato in materia contrattuale.
Il leading case in materia tributaria, al livello comunitario, è il noto caso Hali- fax153con cui la Corte di Giustizia ha esteso, al settore dell’Iva, l’orientamento, già con- solidatosi in altri settori del diritto europeo, secondo cui il divieto di abuso del diritto costituirebbe un principio immanente dell’ordinamento comunitario.
La Corte di Giustizia, in quell’occasione, ha ritenuto abusivo il comportamento di una banca che, tramite la creazione di una società partecipata, ove far transitare l’acquisto di alcuni beni e servizi nell’interesse della medesima azienda di credito, voleva aggirare
151 In primo luogo l’articolo 37 bis del d.p.r. 600/1973, oggi abrogato.
152 Si tratta di alcuni orientamenti della Corte di Cassazione sviluppatisi tra il 2005 e il 2006. Il riferimento è in particolare alla nota sentenza n. 20816/2005, cit., con cui la Corte di Cassazione, sezione tributaria, ha statuito che l’Amministrazione finanziaria può far valere incidentalmente la nullità dei contratti stipulati dal contribuente, per effetto del combinato disposto degli artt. 1344 c.c. e 53 Cost., essendo le disposizioni tributarie norme imperative a tutti gli effetti, poste a tutela dell’interesse generale del concorso partitario alle spese pubbliche.
153 Case C-255/02 Halifax v. Commissioners of Customs & Excise [2006] ECR I-1609.
il divieto di detrazione dell’Iva sugli acquisti, divieto riguardante i soggetti che svolgono operazioni esenti154.
Nel caso di specie la banca abusava delle disposizioni contenute nella sesta Diret- tiva europea155, che assegna il diritto di detrazione dell’imposta sul valore aggiunto as- solta sugli acquisti dai soggetti che, svolgendo un’attività commerciale, pongono in essere operazioni imponibili e, o, non imponibili.
Con la sentenza Xxxxxxx è stato affermato, per la prima volta in campo fiscale, il principio del divieto di abuso del diritto: «la sesta Direttiva in materia tributaria deve essere interpretata come contraria al diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA assolta a monte, allorché le operazioni che fondano tale diritto integrino un comportamento abu- sivo».
Il merito della pronuncia sta nell’aver dato una vera e propria definizione di abuso:
«perché possa parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono, no- nostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta Direttiva, e della legislazione nazionale che le traspone, procurare un vantag- gio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni156. Deve altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi, che dette ope- razioni hanno lo scopo essenziale di ottenere un vantaggio fiscale». Da queste premesse concettuali la Corte di Giustizia trae la conseguenza che «ove si constati un comporta- mento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato»157.
Dopo la pubblicazione della sentenza Halifax la Cassazione afferma: «La sesta Direttiva aggiunge nell’ordinamento comunitario, direttamente applicabile in quello na- zionale, alla tradizionale bipartizione dei comportamenti dei contribuenti in tema di IVA, in fisiologici (perché regolari) e patologici (propri delle frodi fiscali), una sorta di tertium
154 Come le banche.
155 Sesta Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle le- gislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, G.U. n. L 145 del 13 giugno 1877.
156 Nella motivazione, § 75, la Corte chiarisce, su questo decisivo punto, che «il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero consegui- mento di vantaggi fiscali».
157 § 98 della sentenza Halifax.
genus in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, volto a con- seguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione econo- mica giustificatrice delle operazioni economiche che risultano eseguite in forma solo ap- parentemente corretta ma in realtà elusiva»158.
Se da un lato è vero che la sesta Direttiva richiama più volte l’elusione fiscale attraverso l’abuso di forme giuridiche impiegate surrettiziamente, ma con metodo casi- stico e, quindi, con effetti limitati ai casi da essa previsti, dall’altro bisogna considerare che il generale divieto di abuso del diritto ha avuto successivamente consacrazione, come principio generale, nell’art. 54 della Carta di Nizza159; ciò ha certamente contribuito con il favorire un’interpretazione trascendente la casistica, ancor prima degli ultimi interventi normativi in materia tributaria.
Con sentenze successive, confermando il principio, la Suprema Corte ha aggiunto alcune precisazioni. Innanzitutto, ha affermato che l’accertamento del meccanismo elu- sivo «prescinde dall’accertamento della simulazione o dal carattere fraudolento dell’ope- razione». Poi, che ad escluderlo non bastano «ragioni economiche meramente marginali e teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale»160. Infine, «incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teo- rico»161.
Con un’ordinanza del 2006 la Cassazione ha interpellato la Corte di Giustizia, chiedendo se per configurare l’abuso sia sufficiente il fine di realizzare un vantaggio fi- scale, come affermato nella sentenza Halifax, o sia necessario che l’operazione abbia come unico scopo quello di realizzare un vantaggio fiscale, senza altri obiettivi econo- mici162.
158 Cass., sez. trib., n. 10353/2006, in Dir. e Prat. Trib., 4/2007: 20723 e ss., con nota di XXXXXXXX A., Il principio di matrice comunitaria dell’«abuso» del diritto entra nell’ordinamento giuridico italiano: norma antielusiva di chiusura o clausola generale antielusiva? L’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte.
159 L’argomento sarà approfondito nel prosieguo della trattazione.
160 Per questo punto, ed il precedente, si x. Xxxx., sez. trib., n. 21221/06, cit.
161 Cfr. Cass., sez. trib., n. 8772/2008, in Boll. Trib., 12/2008: 1027; Cass., sez. trib., n. 10257/2008, in Corriere Trib., 22/2008: 1799. Questa sentenza, oltre ad aggiungere la precisazione sull’onere della prova, confermano il principio e gli altri punti richiamati. Si tratta di decisioni peculiari. Nell’ordinanza Cass., sez. trib., n. 5503/2007, in Mass. Giur. It., 2007; nel caso di specie era stato chiesto alla Corte di Giustizia di dire se il diritto comunitario non sia contrario alle presunzioni di frode o evasione che non ammettano prova contraria.
162 Cfr. Cass., sez. trib., ordinanza n. 21371/2006, in Obbl. e Contr., 12/2006: 1047.
La tendenza della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione è quella di far confluire nell’abuso del diritto tutte le operazioni poste in essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Entrambe utilizzano l’abuso per assoggettare ad imposizione determinate attività economiche, facendo ricorso ad un concetto che ha le sue radici nella cultura giuridica dei paesi di civil law, risalendo fino al diritto medievale, utilizzando spesso le tradizionali categorie civilistiche e di teoria generale per poter di- sapplicare le regole alternative e rendere inefficaci le forme che le richiamano163.
2. L’abuso del diritto a confronto con frode alla legge e simulazione
Dopo la sentenza Xxxxxxx, nonostante quanto specificato dalla Corte di Giustizia e dalla Corte di Cassazione, si è assistito ad un’applicazione dell’abuso del diritto da parte della giurisprudenza che ha determinato, spesso ed in maniera erronea, una parziale so- vrapposizione tra concetti ontologicamente diversi: simulazione, abuso del diritto (o elu- sione)164, evasione fiscale, frode alla legge, contratto indiretto.
Già in alcuni orientamenti del 2005165, la giurisprudenza aveva richiamato taluni strumenti mutuati dal diritto civile, come la nullità per difetto di causa166, la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente e la loro nullità per frode alla legge167.
163 GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Ianus, 1/2009: 2 e ss. Per un’approfondita ricostruzione storica sul tema dell’abuso del diritto si vedano: SCIALOJA V., voce ‘Aemulatio’, in Studi Giuridici, vol. III, 1, Diritto privato, Roma, 0000: 006-259; ROTONDI M., L’abuso del diritto. Aemulatio, Padoxx, 0000: 00 e ss.; XXXXXXXXXX U., Abuso del diritto (diritto intermedio), in Enc. Dir., vol. I, Xxxxxxx, Milaxx, 0000: 00 e ss.; LONGCHAMPS DE BÉRIER F., L’abuso del diritto nell’espe- rienza del diritto privato romano, Xxxxxxxxxxxx, Torino 2013; BRASIELLO T., Il cosiddetto abuso del diritto e gli atti di emulazione, in Problemi di diritto romano esegeticamente valutati, Il Mulino, Bologna, 1954; CAZZETTA G., Responsabilità civile e abuso del diritto tra Xxxx e Novecento, in VELLUZZI (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Xxxx, 0000: 56 e ss.
164 Vi è sostanziale coincidenza tra l’abuso fiscale e l’elusione tributaria. Si v., per tutte, Cass., sez. trib., n. 1465/2009, in Obbl. e Contr., 5/2009: 473, la quale, infatti, usa indifferentemente le espressioni “abuso” ed “elusione”.
165 Cfr. Cass., sez. trib., n. 20398/2005, cit.; Cass., sez. trib., n. 22932/2005, in Riv. giur. trib., 3/2006: 223 e ss., con nota di XXXXXX M., L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale; Cass., sez. trib., 20318/2005, reperibile in xxxx://xxxxxx- xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx .
166 Sancita sul presupposto che le operazioni elusive fossero state poste in essere al fine di ottenere un risparmio fiscale senza conseguire alcun vantaggio economico sostanziale.
167 Sul tema specifico delle soluzioni alternative alla nullità per mancanza di causa che la Corte di Cassa- zione ha tentato di utilizzare, ma sempre fornendosi di strumenti coniati dal diritto civile, si x. XXXXXXX G.,
In realtà, dopo una più attenta analisi del fenomeno, si è osservato che non vi è affinità ontologica tra l’abuso e la frode alla legge ex art. 1344 c.c., né tra l’abuso e la simulazione.
In primis è opportuno ricordare che il contratto concluso in frode alla legge è sem- pre caratterizzato, a differenza di quello fiscalmente elusivo (o abusivo), da una causa illecita. La differenza fondamentale, infatti, è che la frode ex art. 1344 c.c. non è questione di meritevolezza, ma di illiceità, e ha ad oggetto atti contrari a norme imperative di tipo proibitivo e all’illiceità della causa.
L’atto fiscalmente abusivo o elusivo, al contrario, è di per sé un atto con causa lecita; difatti l’Amministrazione Finanziaria reagisce solo disapplicando la norma più vantaggiosa e applicando all’operazione la norma più adeguata alla sua sostanza.
Si può affermare, infatti, che il contratto fiscalmente abusivo è lecito, ma non pie- namente meritevole in considerazione di altri interessi coinvolti nell’operazione e tutelati dall’ordinamento. Mentre, quello in frode alla legge è illecito.
Alla luce di queste brevissime considerazioni, quindi, si può affermare che la cir- costanza che frode e abuso possano alcune volte sovrapporsi non è indicativa di una loro identità ontologica.
Ci sono certamente delle analogie: sia nella frode che nell’abuso, ad esempio, l’elemento soggettivo, cioè l’intento, non è determinante.
Peraltro, perché si configuri un abuso168, non solo gli aspetti soggettivi sono del tutto irrilevanti, posto che determinante è l’effetto elusivo che viene a realizzarsi a valle attraverso la realizzazione di una condotta normativamente regolata a monte, ma posta in essere per una funzione diversa da quella astrattamente regolata. Ciò che più rileva è che le norme fiscali, come ribadito dalla dottrina tributaria169, non sono norme imperative di tipo proibitivo, sì che risultano inidonee a configurare divieti in senso proprio. L’abuso, allora non sembra presupporre la frode, né con questa si identifica.
in XXXXXX (a cura di), Causa del contratto, evoluzioni interpretative e indagini applicative, Xxxxxxx, Xx- xxxx, 2016: 54 e ss.
168 L’abuso tributario si può configurare in molteplici modi. I più ricorrenti sono l’utilizzo di uno schema contrattuale tipico al solo o prevalente scopo di conseguire un beneficio fiscale, senza che sussista in con- creto quell’interesse economico sostanziale che ne giustifica la tutela apprestata dall’ordinamento, oppure il ricorso a più contratti collegati da una finalità comune attraverso cui si collegano i relativi effetti al solo o prevalente scopo di aggirare l’applicabilità della normativa tributaria.
169 POTITO E., L’accertamento tributario, Xxx, Xxxxxx, 0000: 128 e ss.; TESAURO F., Elusione fiscale. Intro- duzione, in Giur. it., 2/2010: 1721 e ss.
Anche per ciò che attiene il riconoscimento di una differenziazione tra abuso del diritto e simulazione, già nel 2006170 la Suprema Corte ribadiva che «il disconoscimento del diritto alla deduzione per oneri derivanti da meccanismi elusivi prescinde dall’accer- tamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione».
Infatti, nell’atto abusivo ed elusivo del contribuente, volto a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica giustifica- trice delle operazioni di cui trattasi, non sembra esservi alcun elemento simulatorio o fraudolento171. L’abuso, per configurarsi, non richiede alcun elemento soggettivo. Ma ciò non giustifica la distinzione: neanche per la simulazione si richiede l’animus (né, come già detto, per la frode). Esse rilevano come tali, purché ne ricorrano i requisiti oggettivi, a prescindere dall’indagine sull’animus172.
Un atto è abusivo se pur avendo le forme di “un tipo”, abbia integralmente la sostanza “di un altro”, creando una discrasia tra la realtà giuridica effettiva e il tipo for- malmente realizzato.
Autorevole dottrina sostiene che «mancando per definizione di una sostanza eco- nomica corrispondente (altrimenti non c’è abuso), le operazioni sono “vere e volute” solo per i fini fiscali, così come ogni atto simulato è voluto formalmente almeno nella misura necessaria a poterlo opporre al terzo che simulando si tenta di eludere. Sono dunque solo apparenza»173.
La norma fiscale è inderogabile, e la forma destinata a eluderla serve ad aggirarla con un’apparenza di estraneità, ma una sostanza di interferenza, quell’apparenza ai fini fiscali, senza sostanza economica e corrispondente, invece, ad una sostanza economica che vorrebbe l’applicazione della norma elusa, è fraudolenta174.
Si sostiene che la giustificazione economica dell’operazione formale non debba ricorrere, e debba, invece, essere conseguito il vantaggio fiscale, per poter parlare di abuso. Ma, se così fosse, l’atto risulterebbe giuridicamente inconsistente ed apparente,
170 Cfr. Cass., sez. trib., n. 2122/2006, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx .
171 GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, op. cit.: 18.
172 Per converso, l’indagine sull’animus non è sempre stata ritenuta estranea all’accertamento del carattere abusivo di un atto. Si pensi all’animus nocendi degli atti emulativi: su cui Xxxx., sez. civ., n. 13732/2005, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx .
173 GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, op. cit.: 19.
174 Ibidem.
finalizzato a surrogare un diverso atto, invece sostanziale, per fini di aggiramento del diritto tributario175.
Quanto appena detto descriverebbe però la condizione della simulazione o della frode alla legge e imporrebbe di riconoscere nell’atto abusivo tanto un atto simulato176, quanto un contratto (o atto) la cui causa conforme all’esteriore struttura è insussistente, ed in frode alla legge. Come tale duplicemente invalido, quindi, suscettibile di cadere ed essere sostituito da una qualificazione che legittima il diverso trattamento ai fini tributari.
Del resto, per poter eliminare le conseguenze di un contratto abusivo occorre che questo sia invalido e inefficace. Ma invalidità e inefficacia derivano dal nostro sistema solo ex lege. Considerato che la nostra giurisprudenza non è legittimata a crearne di nuove, ci si chiede a quali altre ipotesi potremo ricondurre l’invalidità e l’inefficacia se non alla simulazione e all’ipotesi di frode177.
Nemmeno si potrebbe sostenere che si abbia qui il caso che consente all’interprete larga discrezionalità nella qualificazione di nullità: la violazione di norma imperativa. Ciò per due ragioni. Prima di tutto, dominerebbe la convinzione secondo cui quelle fiscali non sono norme imperative nel senso che la loro violazione determini la xxxxxxx xxxxx xxxx000. Inoltre, perché la violazione di una norma imperativa determini la nullità dell’atto, quest’ultimo deve esserle contrario nel contenuto. Qui, invece, la conformazione data al contenuto dell’atto è astrattamente valida, ma antigiuridica in quanto elusiva.
Ciò posto, la costruzione dell’abuso fatta dalla Cassazione avrebbe bisogno, per raggiungere i suoi fini, dell’invalidità per simulazione e frode. L’inefficacia del contratto, la sua inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, non troverebbero altrimenti spie- gazione179.
175 Ibidem.
176 Che dissimula il diverso atto di cui con l’argomento dell’abuso gli si applica il regime fiscale. A parere di alcuni (tra cui il Gentili) più che un ‘concetto’, l’abuso del diritto dovrebbe essere considerato un ‘argo- mento’, cui l’interprete ricorre, appellandosi a dati psicologici (come l’animus nocendi) o morali (come l’ingiustizia) o economici (come il pregiudizio al benessere generale), per correggere un comportamento diverso da quello che imporrebbe lo strictum jus.
177 GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, op. cit.: 20.
178 Nella celebre sentenza del 2005 la Corte di Cassazione ha cercato di superare l’assunto, facendo appli- cazione dell’art. 1344 c.c., veicolandolo attraverso l’art. 53 della Costituzione, che esprime un concorso partitario alle spese pubbliche. Si tratta del noto principio di capacità contributiva. Tale principio risulte- rebbe limitativo dell’autonomia patrimoniale e sarebbe capace di conferire natura imperativa alle norme fiscale.
179 GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, op. cit.: 20.
Sorge, allora, il dubbio che «tutta la costruzione creata dalle Corti per squarciare il velo dietro cui si riparano forme raffinate di sospetta evasione, sia solo un arzigogolato artificio retorico per aggirare le strettoie dell’azione di simulazione e frode e rendere xx- xxxx (xxxxx troppo) la riconduzione ai regimi impositivi, e se così fosse l’interprete che aveva creduto di veder nell’ultima giurisprudenza tributaria risorgere dalle sue ceneri il concetto che è stato chiamato l’araba fenice del pensiero giuridico, dovrebbe ironica- mente concludere: molto rumore per nulla»180.
Secondo alcuni autori181, uno dei maggiori problemi della concezione dell’elu- sione come abuso delle forme giuridiche rispetto alla sottostante realtà sostanziale, è pro- prio l’erronea credenza secondo cui comportamenti solitamente definiti abusivi/elusivi sarebbero riconducibili a pratiche simulatorie.
Per ben comprendere la problematica risulta opportuno il richiamo alle note vi- cende del dividend stripping, realizzate in passato mediante la cessione, posta in essere da parte di un soggetto non residente, del diritto di usufrutto su azioni di società italiane, al fine di far conseguire all’usufruttuario residente il credito di imposta sui dividendi.
C’è chi sostiene che in tale ipotesi si sarebbe in presenza di una simulazione, di un contratto ingannatorio, con cui i contribuenti mascherano, sotto le sembianze di un atto di trasferimento del diritto reale di usufrutto, un contratto avente natura completa- mente diversa, cioè avente ad oggetto il diritto, di natura obbligatoria, alla percezione dei dividendi.
Ci sarebbero, poi, una serie di altre ipotesi, esaminate dalla giurisprudenza, tra cui quella di cessione dell’azienda (contratto simulato), in luogo di cessione del solo marchio (contratto dissimulato), oppure il “travestimento” di un’area fabbricabile come pertinenza di un opificio industriale al fine di ridurre l’ICI182.
Spesso, casi di questo genere non sembrano riconducibili ad ipotesi simulatorie, sottendendo, casomai, un problema di qualificazione contrattuale.
180 Ivi: 22.
181 Si v., fra tutti, STEVANATO D., Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 5/2015: 695 e ss.
182 Su questa linea si colloca FALSITTA G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simula- zione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto «abuso del diritto», in Riv. dir. trib., 6/2010, ora in FAL- SITTA G., Il principio della capacità contributiva nel suo svolgimento storico prima e dopo la costituzione repubblicana, Milano, Xxxxxxx, 2014: 261 e ss.
Il contratto simulato è però un contratto che non pone problemi di qualificazione, e che potenzialmente produrrebbe tutte le conseguenze che ne derivano in capo alle parti. Si tratterebbe, infatti, di un contratto di per sé valido (lecito e meritevole).
Nella simulazione le forme adottate dal contribuente a fini di risparmio fiscale non sono volute, trattandosi soltanto di una copertura per celare un diverso assetto di interessi. I contraenti non vogliono le conseguenze giuridiche del contratto simulato, e se la simulazione è relativa vogliono regolare i propri affari secondo le linee stabilite nel con- tratto dissimulato. La simulazione presuppone un vero e proprio deficit volontaristico con
riguardo agli effetti del contratto.
Mentre, nelle ipotesi di abuso del diritto, i contribuenti cercano di minimizzare il carico fiscale su una certa operazione, o si prefiggono di accedere ad un determinato re- gime di tassazione, vogliono, quindi, gli effetti fiscali che si connettono ad una certa fat- tispecie giuridica, e in particolare ad uno specifico contratto.
Certo, accade non di rado che i privati, pur interessati agli effetti fiscali di un contratto, non ne vogliano e non ne accettino tutte le altre conseguenze, di ordine civili- stico e di carattere economico, e allora si avrebbe effettivamente una simulazione.
Si pensi, ad esempio, al caso di una compravendita di un bene tra stretti congiunti, che in realtà mascheri una donazione per eludere le imposte sugli atti liberali, più elevate di quelle sugli atti onerosi. In una situazione di questo tipo la pattuizione di un prezzo rivestirebbe un ruolo ingannatorio, e sarebbe smentita dal mancato pagamento, dalla ta- cita rinuncia o dalla retrocessione delle somme, o ancora dalla previa fornitura della prov- vista al falso acquirente (in realtà donatario). È in casi di questo genere che i contratti sono simulati, perché i contraenti non ne vogliono le conseguenze, ma vogliono la crea- zione di un’apparenza ingannevole, per celare il reale assetto contrattuale e di interessi.
Dunque, anche se la sottrazione agli obblighi di contribuzione fiscale può realiz- zarsi attraverso l’utilizzo di tecniche simulatorie che rendono più difficile la ricostruzione dell’affare compiuto, la simulazione contrattuale sembra essere un fenomeno concettual- mente distinto dall’elusione tributaria, che apparterrebbe alla più generale categoria di “frode alla legge”183. L’elusione/abuso non implica una simulazione del contratto e,
183 Sul tema si è espresso STEVANATO D., Cessione frazionata dell’azienda e imposta di registro: simula- zione o riqualificazione del contratto?, in GT - Riv. giur. trib., 9/1999: 758 e ss. Si v., inoltre, MORELLO U., Xxxxx alla legge, Xxxxxxx, Milano, 1969: 218; secondo l’A. il problema della simulazione non può
quindi, la presenza di controdichiarazioni attestanti una diversa volontà delle parti rispetto a quella manifestata nell’operazione posta in essere. E ciò in quanto nel concludere quei contratti se ne accettano tutte le conseguenze, di cui si vogliono, in particolare, quelle fiscali.
Tornando alle note operazioni del dividend washing184 e del dividend stripping185, si comprende come i soggetti che le ponevano in essere erano effettivamente interessati alla fruizione del credito di imposta sui dividendi, e per ottenere questo risultato erano disposti ad assoggettarsi ad assetti contrattuali funzionali a quello scopo. I contratti e gli
essere confuso con quello della frode alla legge, «poiché l’esistenza di una simulazione presuppone con- trodichiarazioni chiaramente imputabili alla volontà delle parti, mentre la frode alla legge implica la co- struzione del vero affare posto in essere prescindendo da una effettiva volontà dei contraenti e con maggiore considerazione della sostanza economica dell’affare compiuto».
184 Si tratta di una complessa operazione economica, realizzata mediante la stipulazione di contratti funzio- nalmente collegati e finalizzata a ottenere un risparmio di imposta. L’operazione, costituente uno strumento di arbitraggio fiscale, è resa possibile dalla disciplina di differenti regimi di tassazione, in materia di divi- dendi o plusvalenze, consente la realizzazione di operazioni di cessione di partecipazioni “utili compresi”; cui consegue l’allocazione delle risorse così generate in capo al soggetto sottoposto al regime fiscale più favorevole e per la categoria di reddito fiscalmente meno colpita. Nella fattispecie concreta una società a responsabilità limitata aveva stipulato, con un fondo comune di investimento, un contratto di compraven- dita di partecipazioni ancora gravide della cedola, a ridosso della delibera di distribuzione dei relativi utili. Riscossi i dividendi, la società acquirente aveva venduto le medesime partecipazioni al venditore originario e per un prezzo diminuito, rispetto a quello di acquisto, di una somma corrispondente ai dividendi medio tempore percepiti. Il collegamento negoziale – costituito dalle due compravendite incrociate e poste in essere in un breve intervallo temporale – offriva ai contraenti un duplice vantaggio fiscale. Il fondo comune di investimento, privo del diritto a godere del credito d'imposta sui dividendi, veniva a privarsi delle azioni stesse a favore di un soggetto a cui invece spettava il credito d'imposta; stipulando allo stesso tempo un patto di successivo riacquisto una volta riscosso il dividendo, per un prezzo diminuito dell'ammontare del credito d'imposta ceduto. Oltre alla possibilità di collocare le azioni presso un soggetto legittimato a sfrut- tare il credito di imposta, entrambi i contraenti usufruivano di ulteriori vantaggi fiscali. Difatti, da un canto il fondo comune di investimento acquisiva, a titolo di plusvalenza su partecipazioni, una somma corrispon- dente ai dividendi collegati alle partecipazioni cedute; dall'altro, la società a responsabilità limitata poteva dedurre, una volta riscossi i dividendi, la minusvalenza prodotta da una cessione solo apparentemente “in perdita”. Da un punto di vista finanziario, il fondo comune di investimento generava, così, risorse nuove per un valore del tutto identico ai dividendi che avrebbe riscosso dalla partecipazione ceduta; e, allo stesso tempo, la società realizzava una minusvalenza “fittizia”, in quanto compensata dalla percezione di dividendi di valore del tutto corrispondente. Da un punto di vista fiscale, al contrario, ciascun contraente allocava le risorse nuove, generate complessivamente dall'operazione negoziale, nella categoria di reddito soggetta al regime fiscale migliore; facendo, così, fruttare il credito di imposta a cui il cedente non avrebbe avuto alcun diritto. A favore del fondo comune di investimento veniva generata, così, al posto di un dividendo soggetto a ritenuta d'acconto a titolo di imposta, una plusvalenza da negoziazione di titoli, fiscalmente irrilevante si sensi dell'art. 9, comma 1, Legge n. 77/1983; e a favore della società, un dividendo con relativo credito d'imposta e ritenuta d'acconto scomputabili dall'imposta complessivamente dovuta, unitamente a una mi- nusvalenza fiscalmente deducibile.
185 Trattasi di compravendite di titoli con successiva retrocessione degli stessi dopo lo stacco delle cedole, e i contratti di usufrutto di azioni.
effetti voluti erano proprio quelli186 che consentivano di trasferire il diritto alla percezione dei dividendi e con esso il relativo credito di imposta.
L’elusione, allora, non sottende alcuna simulazione, proprio perché la strumenta- zione contrattuale è voluta giacché alla stessa si riconnettono ben precise conseguenze sul piano tributario187, e al tempo stesso, tale strumentazione consente alle parti di rag- giungere in modo soddisfacente gli scopi che le stesse si prefiggevano.
Semmai, nei comportamenti ascrivibili all’elusione, può talvolta aversi un pro- blema di corretta qualificazione del contratto. I contraenti ad esempio vogliono davvero cedere un diritto di usufrutto su un pacchetto azionario, ma nel regolamento tale cessione finisce per porre in essere un contratto che non ne ha le caratteristiche.
O ancora, le parti vorrebbero stipulare un contratto di conferimento d’azienda, per accedere a un regime di neutralità fiscale o per ottenere un affrancamento agevolato dei plusvalori, ma in realtà pongono in essere un conferimento di singoli beni non costituenti azienda.
Molto frequente è il caso della vendita frazionata di beni aziendali con applica- zione dell’IVA, effettuata per evitare l’applicazione dell’imposta proporzionale di regi- stro, che sembra porre un problema di qualificazione dei contratti di cessione utilizzati, e non già configurare un’ipotesi di simulazione relativa oggettiva. In questi casi non esi- stono un contratto simulato di gestione di singoli beni e un contratto dissimulato (contro- dichiarazione) di vendita dell’azienda, quanto un interesse a trasferire una pluralità di beni e rapporti attraverso atti giuridici la cui esatta qualificazione può essere sindacata dall’Amministrazione se difforme dal paradigma normativo in cui è stata (erroneamente e volontariamente) incasellata188.
186 L’acquisto dei titoli e la loro cessione a termine nel dividend washing e il trasferimento del diritto di usufrutto nel dividend stripping.
187 In questo si v. XXXXXXXX X., Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Corr. trib., 1/2011: 13 e ss. Sulla distinzione tra l’abuso (elusione) e simulazione, v. anche VACCA I., L’abuso e la certezza del diritto, in Corr. trib., 15/2014: 1128 e ss., per il quale «l’abuso (alias elusione) è cosa senz’altro diversa dall’evasione. L’evasione, infatti, si sostanzia nell’occultamento del reddito in violazione di specifiche norme dell’ordinamento, mentre il comportamento abusivo consiste nel non far nascere i pre- supposti dell’imposizione, pur senza violare direttamente alcuna regola normativa».
188 Sul tema si rinvia a STEVANATO D., Cessione frazionata dell’azienda e imposta di registro: simulazione o riqualificazione del contratto? in GT - Riv. giur. trib., 9/1999: 758 e ss.
3. L’abuso del diritto e l’interposizione fittizia di persona
La tendenza a confondere l’elusione con la simulazione è emersa spesso anche in relazione al tema dell’interposizione fittizia di persona, e all’inquadramento dell’art. 37, comma 3, del d.p.r. n. 600/1973 tra le norme antievasive o antielusive.
In base alla norma citata: «in sede di rettifica o di accertamento di ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimo- strato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona». La disposizione è stata probabilmente introdotta per sollevare l’Amministrazione dall’onere di dover intraprendere un’azione davanti al giu- dice ordinario per accertare fenomeni di interposizione fittizia189, consentendole di accer- tarla incidentalmente già nell’atto di accertamento. Il fenomeno della simulazione relativa non esaurisce il campo di indagine, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante ope- razioni effettive e reali, nelle quali difetta l’elemento caratteristico dei contratti simulati, costituito dalla divergenza tra la dichiarazione esterna e la effettiva volontà dei contraenti costituita dalla controdichiarazione190.
L’inquadramento dell’art. 37, comma 3, tra gli strumenti di contrasto all’elusione appare criticabile. Innanzitutto dalla norma esula ogni riferimento a vantaggi tributari, ad aggiramenti della ratio delle norme fiscali, e all’esistenza di valide ragioni economiche del comportamento adottato: mancano tutti gli elementi che caratterizzano le norme an- tielusive.
Su tale scia si richiama la tesi secondo cui l’art. 37, comma 3, «stabilendo l’im- putabilità al possessore effettivo dei redditi di cui appaia titolare altro soggetto in base ad interposizione di persona, inequivocabilmente si occupa del caso all’interposizione fitti- zia in senso proprio, caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale, rispettivamente riferibili all’interposto e all’interponente, non anche del caso dell’interposizione cosiddetta reale, ove la forma e la sostanza coincidono e si può porre
189 Cioè ipotesi di simulazione relativa di persona.
190 Cfr. Cass., sez. trib., n. 12788/2011, Giur. trib., 10/2011: 872 e ss., con nota di XXXXXXXX A., Il contrasto all’interposizione “gestoria” nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche; e più di recente Cass., sez. trib., n. 5937/2015, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
soltanto un problema di validità ed efficacia all’atto negoziale determinato dalla varia- zione soggettiva della titolarità del bene, giungendo correttamente a negare che la norma in questione abbia natura antielusiva»191.
Spesso, specialmente in seguito alle pronunce del 2008, la giurisprudenza di Cas- sazione ha ritenuto illegittime numerose pretese fiscali, applicando il divieto di abuso del diritto, anche quando tale argomento non era stato invocato dal Fisco nell’atto impositivo. Non di rado, infatti, la rettifica dell’Ufficio si basava sull’articolo 37, comma 3, del d.p.r.
n. 600/1973. Probabilmente il convincimento circa l’avvenuta interposizione fittizia di persona avrebbe richiesto uno sforzo argomentativo maggiore per il giudice e si è quindi preferita la via più rapida per risolvere la controversia, richiamando appunto il divieto di abuso del diritto192.
3.1. Ancora confusione su evasione, abuso e interposizione soggettiva
In altri casi ancora è stato invocato il divieto di abuso del diritto nonostante la condotta del contribuente consistesse in una vera e propria evasione fiscale, creando con- fusione tra il concetto di elusione/abuso e quello di evasione.
A titolo esemplificativo si può citare il caso dell’ICI su un terreno edificabile qua- lificato come pertinenza di un immobile193: l’errata qualificazione giuridica di una situa- zione di fatto, cioè l’inesistenza del vincolo pertinenziale, rappresenta una ipotesi classica di evasione fiscale194, non di elusione/abuso.
191 Cfr. Cass., sez. trib., n. 8671/2011, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
192 Cfr. Cass., sez. trib., n. 4737 del 2010, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx. Il caso è quello di un atleta professionista che ha “dirottato” una quota del suo compenso a favore di una società estera, facendo figurare una ipotetica prestazione di sfruttamento passivo della sua immagine. L’invocazione dell’abuso del diritto non è pertinente nel caso di specie: se la società estera faceva capo al medesimo atleta si era di fronte ad una interposizione fittizia di persona e quindi ad una ipotesi di evasione fiscale.
193 Cfr. Cass., sez. trib., n. 25127/2009, in Corr. trib., 5/2010: 379 e ss., con nota di XXXX X., Il debutto dell’abuso del diritto nell’ICI.
194 Sul tema si x. XXXXXX X., L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria: un approdo con più luci che ombre, in Dir. prat. trib., 4/2016: 1433 e ss. In queste pagine l’A. spiega che l’evasione si configura sia nel momento in cui ricorrono occultamenti di materia imponibile, sia mediante errate qualificazioni giuridiche. Infatti, in sede di dichiarazione, il contribuente deve procedere ad una qualificazione giuridica dei fatti fiscalmente rilevanti. Ciò significa che il contribuente non deve limitarsi a comunicare la loro esistenza. Si tratterebbe, in termini di qualificazione giuridica, di una vera e propria “dichiarazione di scienza qualificata”.
Si ricorda che l’abuso di natura tributaria presuppone non tanto un’errata qualifi- cazione giuridica di un fatto giuridicamente rilevante, o il porsi in contrasto con una spe- cifica disposizione di legge, ma la realizzazione di una attività di per sé lecita, e da cui la differenza con l’evasione fiscale, ma posta in essere per fini prevalentemente o esclusi- vamente195 elusivi della normativa tributaria, e quindi lesivi dell’interesse dell’Ammini- strazione finanziaria.
L’elusione fiscale si configura ogniqualvolta un’operazione «non si pone diretta- mente in contrasto con una specifica disposizione di legge ma, ciò nonostante, ha come unico o prevalente obbiettivo quello di sottrarre materia imponibile al fisco o di ottenere comunque un beneficio fiscale»196.
195 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 febbraio 2008, c. 425/06, Part Service s.r.l., in Raccolta della Giurisprudenza, 2008: 1-897. Come noto, la Cassazione nel caso Part Service investiva della questione la Corte di Giustizia, con rinvio pregiudiziale ex art. 234 CE (Cass., sez. trib., ord., cit.) per conoscere se l’espressione utilizzata nella decisione Halifax (Corte di Giustizia, 21 febbraio 2006, c. 255/02, in Riv. giur. trib., 5/2006: 377) di “operazione compiuta essenzialmente per conseguire un vantaggio fiscale” fosse equivalente, più ampia o più restrittiva di quella “compiuta senza valide ragioni economiche all’infuori di un vantaggio fiscale” e quindi se il limite di abuso di diritto operasse quando le ragioni economiche fossero assolutamente margi- nali o irrilevanti, quindi, senza una possibile spiegazione alternativa. Il caso di specie aveva ad oggetto un’operazione di “frazionamento negoziale” avente il solo scopo di determinare una base imponibile di IVA minore di quella prevista in costanza di un unico contratto di leasing il cui canone era stato ricondotto a mero corrispettivo d’uso del bene, senza remunerazione del capitale, accompagnata dalla stipula di sepa- rata convenzione di assicurazione e intermediazione fatturate in esenzione di imposta. L’esigenza era quella di stabilire se fosse da riservare un trattamento differenziato al caso in cui l’unico scopo del negozio fosse quello di eludere (esclusività) rispetto al caso in cui il negozio poteva produrre anche un ulteriore effetto meritevole (non esclusività). Il giudice comunitario ha avuto modo di puntualizzare che l’esistenza di una pratica abusiva può essere affermata anche qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale, ancorché non esclusivo, non essendo l’abuso impedito allorché nell’operazione concor- rano, pur marginalmente, altre ragioni economiche. La Corte di Cassazione, quale giudice remittente, in- quadrava la fattispecie in tale paradigma, statuendo che il frazionamento di un’operazione in distinti con- tratti, il cui scopo economico era di far ottenere ad un altro soggetto, ad un tempo stesso, l’utilizzazione di un bene, il procacciamento della provvista finanziaria necessaria e l’assicurazione contro i rischi di perdita o di ferimento economico del bene fornito, superava la soglia minima della pratica abusiva perché aveva come scopo principale quello di realizzare un risparmio di imposta attraverso una diminuzione del corri- spettivo soggetto ad IVA senza che concorressero altre plausibili ragioni economiche (Cass., sez. trib., n. 25364/2008, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx ). Questa pronuncia allarga di fatto il solco tracciato dalla sentenza Halifax poiché considera sempre abusivo il ricorso a forme di transazione che abbiano come scopo principale un (indebito) risparmio fiscale ancorché accompagnato da secondarie (e non meritevoli) finalità economiche. La conclusione che si ricava è che l’abuso del diritto è suscettibile di connotare sia le operazioni compiute al solo scopo di realizzare un risparmio fiscale senza altra convenienza economica sia le operazioni compiute allo scopo di realizzare un vantaggio fiscale predominante rispetto a quella conve- nienza economica.
196 POTITO E., L’accertamento tributario, op. cit.: 128; come rilevato in giurisprudenza, quindi, lo scopo non deve essere necessariamente esclusivo. «Non occorre, cioè, che sia l’unico coinvolto nell’operazione, sicché eventuali concorrenti ragioni economiche sarebbero di ostacolo all’accertamento dell’abuso, a meno che non siano “assolutamente marginali o irrilevanti”. È sufficiente che sia quello essenziale». Sul punto si
v. anche ZIZZO G., Abuso del diritto, scopo di risparmio di imposta e collegamento negoziale, in Rass. trib., 3/2008: 869 e ss., il quale, tuttavia, rileva anche che non è sufficiente per configurare l’abuso lo scopo
Pertanto, «mentre l’evasione comporta l’inadempimento di obblighi o di obbliga- zioni già sorti, e quindi la commissione di un illecito, per contro l’elusione si realizza semplicemente tenendo comportamenti che evitino il verificarsi dei presupposti imposi- tivi o che pongano in essere presupposti meno onerosi o, al limite, più vantaggiosi (ad esempio i presupposti di un’agevolazione fiscale). L’elusione fiscale sta proprio in que- sto, nel perseguire civilisticamente il risultato pratico voluto, evitando però le soluzioni contrattuali o negoziali fiscalmente più onerose»197.
L’elusione impedisce il sorgere dell’obbligazione tributaria attraverso la non in- tegrazione del presupposto dell’imposta o induce astutamente la configurazione della fat- tispecie più vantaggiosa.
Il comportamento elusivo si risolve, dunque, «in una applicazione strumentale delle norme tributarie, in quanto il contribuente, preso atto della conformazione dell’or- dinamento tributario positivo, preordina e pone in essere – di regola attraverso una plura- lità di atti o contratti – una condotta che gli consente di evitare il regime fiscale previsto da una determinata norma impositiva (mediante l’aggiramento della fattispecie astratta) e al tempo stesso di conseguire ugualmente il risultato economico contemplato e tassato dalla norma aggirata»198.
In questa prospettiva l’abuso tributario, pur sovrapponendosi di fatto all’elusione fiscale, non appare un concetto superfluo, poiché utilizzato proprio per sanzionare ogni forma di aggiramento della normativa fiscale, nonché qualsiasi strumento rispettoso solo formalmente di tale normativa, a prescindere dall’esistenza di una espressa norma antie- lusiva, come quella prevista dall’art. 37 bis del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, di natura settoriale. Questa disposizione, infatti, risultava applicabile, come indicato dal comma 3, soltanto alle imposte dirette199.
Ne discende che, attraverso il ricorso al divieto di abuso, la giurisprudenza estende l’ambito di applicazione dell’art. 00 xxx xxxxxx xx xx xx xxxxx xxxxxxxxxxx tipizzate, quindi a
essenziale di ottenere una riduzione del carico fiscale, ma occorre anche che «nonostante l’osservanza for- male delle condizioni stabilite dalle pertinenti disposizioni, la conferma del vantaggio risulti contraria all’obiettivo perseguito dalle stesse. Occorre, cioè, che l’operazione generi una frizione tra l’applicazione di dette disposizioni secondo la lettera e la loro applicazione secondo lo spirito, tra l’attribuzione del van- taggio, postulata dalla lettera, e la sua negazione, richiesta dallo spirito».
197 In questo senso LUPI M., Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Xxxxxxx, Milano, 2001: 429.
198 DI XXXXX X., Xxxxxxxxx e reato, profili civilistici, 2003: 290.
199 Ivi: 300.