Parere sulla conformità delle clausole dei contratti di multiproprietà alla disciplina di cui agli artt. 1469 bis ss. C.C.
CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI MILANO
Parere sulla conformità delle clausole dei contratti di multiproprietà alla disciplina di cui agli artt. 1469 bis ss. C.C.
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Nell’ambito di quanto previsto dalla legge n. 580/93 che all’art.2, comma 4 ha attribuito alle Camere di Commercio la facoltà di promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti, la Camera di Commercio di Milano ha preso in esame la richiesta dell’Associazione Italiana Multiproprietà di analizzare i propri formulari sotto il profilo della vessatorietà, sulla base di quanto previsto dall’art.1469 bis e seguenti del Codice Civile.
Prima di esprimere qualsiasi valutazione, è necessario precisare che, malgrado le richieste istruttorie fossero rivolte alle pattuizioni di utilizzazione più diffusa, non sono stati sottoposti all’analisi i modelli contrattuali concretamente utilizzati, bensì due schemi contrattuali predisposti dall’Associazione di categoria interlocutrice, relativi rispettivamente alla multiproprietà immobiliare di edifici residenziali e a quella di edifici alberghieri.
L’esame dei predetti schemi contrattuali ha avuto ad oggetto la verifica della legittimità degli stessi sotto il profilo sia della conformità alla Direttiva comunitaria 94/47/CE del 26 ottobre 1994 (ed alle relative norme di attuazione nel nostro ordinamento, disposte attraverso il D. Lgs. 9 Novembre 1998 n. 427), sia della disciplina delle clausole vessatorie ex artt. 1469-bis ss. c.c..
Dal punto di vista della sua funzione economico-sociale la multiproprietà si presenta come uno strumento destinato a realizzare un più intenso e razionale sfruttamento dell'edilizia residenziale e delle strutture turistiche delle zone di villeggiatura. Ciò avviene mediante la ripartizione nel tempo,
tra più interessati, del diritto di utilizzare i locali venduti in "multiproprietà", di guisa che ciascuno degli "acquirenti" ottiene il diritto di godere dei locali e dei connessi servizi turistico-alberghieri per un predeterminato e limitato - ma ricorrente - periodo dell'anno.
Tale forma di "frazionamento temporale" del diritto di utilizzare gli alloggi consente di praticare per ciascun periodo di utilizzo ricorrente prezzi assai inferiori rispetto a quelli delle normali vendite immobiliari e pertanto favorisce l'accesso alla "casa vacanze" da parte di categorie sempre più estese di interessati.
Nel contempo la multiproprietà contribuisce a realizzare un più limitato e corretto assetto urbanistico delle località di villeggiatura, una migliore distribuzione delle ferie nel corso dell'anno e correlativamente una più razionale utilizzazione delle strutture turistiche e commerciali delle zone di villeggiatura e dei relativi posti di lavoro.
Fra i vari tipi di multiproprietà che la prassi commerciale ha elaborato, particolare rilievo assumono la multiproprietà immobiliare tradizionale e la multiproprietà alberghiera.
Nella multiproprietà immobiliare tradizionale i multiproprietari vengono configurati come contitolari del diritto di proprietà su un intero complesso
residenziale o su singoli alloggi: ma tale "comproprietà" è caratterizzata dal fatto che l'uso dei beni comuni non è promiscuo (art. 1102, comma 1°, cod. civ.), bensì per così dire turnario e per parti divise, nel senso che i comproprietari determinano gli alloggi che possono essere utilizzati da ciascuno di essi e fissano i periodi (turni) in cui ciascuno può esercitare il proprio diritto.
Nella multiproprietà alberghiera il complesso residenziale è una struttura alberghiera, la cui gestione è affidata ad una società che amministra l'immobile come un vero e proprio albergo. Il titolare della quota di comproprietà sul complesso avrà diritto di godere, per il periodo prestabilito, di una determinata unità immobiliare e dei relativi servizi alberghieri. Tuttavia, a differenza di quanto avviene nella multiproprietà immobiliare tradizionale, il titolare della quota dell'albergo in multiproprietà dovrà versare un corrispettivo per l'utilizzo dell'unità immobiliare, anche se avrà diritto ad un forte sconto.
I problemi giuridici che questi due modelli di multiproprietà hanno sollevato sono notevoli e non si limitano solo alle questioni tecniche strettamente attinenti a queste due figure, ma coinvolgono aspetti molto più generali, come ad esempio quella dei limiti all'autonomia privata nel settore dei diritti reali.
La multiproprietà, sia nella forma immobiliare sia in quella alberghiera, ha posto, infatti, il problema della sua compatibilità con il principio della tipicità dei diritti reali, principio che secondo l'opinione prevalente è da ritenersi tuttora vigente nel nostro ordinamento. Oggi, peraltro, a seguito del riconoscimento dell'istituto contenuto nel decreto legislativo 9 novembre 1998 n. 427, la questione può ritenersi superata.
Il citato decreto legislativo 9 novembre 1998 n. 427, attuativo della direttiva 94/47/CE del 26 ottobre 1994 ha imposto alcuni requisiti minimi di contenuto del contratto, con il quale, "verso il pagamento di un prezzo "globale, si costituisce, si trasferisce o si promette di costituire o trasferire, "direttamente
o indirettamente, un diritto reale ovvero un altro diritto avente "ad oggetto il godimento su uno o più beni immobili, per un periodo "determinato o determinabile dell'anno non inferiore ad una settimana" (art.1). Il decreto legislativo 427/98 si limita tuttavia a dettare norme a tutela dell'acquirente per taluni aspetti dei relativi contratti, ma non contiene una disciplina organica della multiproprietà.
In mancanza di una siffatta disciplina resta aperto il problema dell'applicabilità, ed in quali limiti, delle norme in materia di comunione. In proposito va segnalato che nella comunione l'uso turnario dei beni comuni rappresenta solo uno dei possibili e reversibili modi di esercizio del diritto. Nella multiproprietà, invece, l'utilizzazione esclusiva dei beni a periodi alternati rappresenta una caratteristica essenziale ed indefettibile dell'istituto. Per questo motivo la disciplina della comunione non sempre risulta idonea a risolvere i problemi posti dalla multiproprietà.
In particolare una difficoltà discende dal principio, tipico della comunione, che consente a ciascuno dei partecipanti di chiedere sempre la divisione. Il patto di rimanere in comunione è valido, ma non può essere stipulato per un periodo maggiore di dieci anni (art. 1111 cod. civ.). Se poi quest'accordo viene concluso per un periodo di tempo maggiore, opererà ex lege la riduzione a dieci anni.
D'altra parte è assai dubbio che possa applicarsi alla multiproprietà l'art. 1112 cod. civ. in base al quale "lo scioglimento della comunione non "può essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di "servire all'uso a cui sono destinate". E' noto, invero, che l'indivisibilità della cosa non impedisce lo scioglimento della comunione attraverso l'assegnazione del bene a uno dei compartecipi ovvero la sua vendita a terzi. Ed è appunto perciò che l'art. 1112 cod. civ. viene spesso interpretato restrittivamente, nel senso che detta norma si applicherebbe soltanto alle cose che danno utilità personali ai soli comproprietari di modo che per altri non avrebbero alcun valore (ad es.
un registro familiare) ovvero alle cose utili non in se stesse, ma in relazione ad altre (ad es. un atrio o una scala comune che servano due appartamenti). Verosimilmente, invece, la suddetta disposizione non si applica alle fattispecie nelle quali l'indivisibilità del bene è conseguenza di un vincolo obbligatorio che le parti hanno assunto.
Resta peraltro l'esigenza di evitare che i multiproprietari - trascorsi i dieci anni durante i quali il patto di indivisibilità è valido ed efficace - possano chiedere la divisione: se così fosse, invero, la persistenza della multiproprietà verrebbe lasciata all'arbitrio dei singoli partecipanti, con inconvenienti agevolmente comprensibili.
Forse una soluzione del problema potrebbe discendere dal rilievo che la disciplina della comunione è applicabile alla multiproprietà non già in via diretta ma solo per analogia, cioè in quanto sussista l'identità di ratio. In questa prospettiva la norma che limita a dieci anni la durata massima del patto di indivisione potrebbe considerarsi inapplicabile alla multiproprietà. Ciò perché quest'ultima dà luogo ad una situazione simile alla comunione, ma se ne distingue proprio per quella esigenza imprescindibile di sfruttamento turnario del bene per così dire comune, che vieta di sciogliere il vincolo intercorrente tra i diritti dei singoli partecipi.
Un istituto che può essere utilizzato come modello alternativo rispetto alle forme tradizionali di multiproprietà nei paesi di common law è il trust (cfr. in proposito ALPA-XXXXXXX, Trust e multiproprietà, in I trust in Italia oggi, a cura di Xxxxxxxxx, Milano, 1996, pp. 162 ss.; XXXXXXX, Multiproprietà ed autonomia privata, Milano, 1984, pp. 29 ss.). Il trust, del resto, rappresenta uno strumento altamente flessibile che si presta ad essere utilizzato per numerosi scopi. Per questo motivo il modello di multiproprietà più diffuso nei paesi di common law si incentra proprio sul trust, e si distingue per essere caratterizzato dal fatto che l'acquisto e la gestione dell'immobile sono posti in
essere da un'associazione di multiproprietari con intestazione del trust all'associazione.
Il modello basato sul trust comporta, dunque, che l'unico proprietario del complesso residenziale oggetto di godimento turnario è l'associazione di multiproprietari nella sua qualità di trustee. Detta associazione provvederà poi ad attribuire ai singoli beneficiaries (i titolari della quota) il godimento dell'alloggio prestabilito relativamente al periodo convenuto.
Il fatto che proprietario del complesso residenziale sia un solo soggetto (il trustee) porta a concludere che si è di fronte ad una figura giuridica diversa rispetto alla c.d. multiproprietà immobiliare: può parlarsi, infatti, di un contratto di locazione, o tutt'al più di un contratto atipico, ma non di un esempio di multiproprietà in senso tecnico. Ciò non toglie che i risultati pratici dell'operazione per chi fruisce dell'alloggio durante il periodo annuale prestabilito siano analoghi a quelli che verrebbero garantiti dalla multiproprietà immobiliare tradizionale.
La formula più diffusa, almeno nel Regno Unito, si basa sui cosiddetti Club plans. Il modello di Club plans più utilizzato è quello del member's Club, in base al quale colui che promuove l'operazione costituisce un trust a beneficio dei membri del Club, mentre la figura del trustee è assunta dal Club. La struttura del Club trustee ha avuto una grande diffusione per le notevoli garanzie che conferisce ai beneficiaries. Il Club trustee, infatti, acquistando il bene oggetto del godimento turnario dei beneficiaries, li garantisce dal rischio di fallimento del promotore dell'operazione ed assicura il rispetto delle regole di funzionamento del sistema.
Il fatto poi che il proprietario del complesso immobiliare sia solo il trustee e che i beneficiaries non abbiano diritti di proprietà non significa che non sia loro garantita una tutela adeguata, poiché il sistema di regole che disciplinano il trust attribuisce ai beneficiaries numerose garanzie in ordine alla esecuzione degli impegni del trustee.
In alcuni paesi di common law, in particolare negli Stati Uniti, esiste anche una forma di multiproprietà basata sulla comunione (c.d. tenancy in common,
c.d. time-share estate o condominium) che si avvicina a quella conosciuta in Italia e più in generale negli altri paesi di civil law.
Il riferimento è alla "tenancy in common" che rappresenta una vera e propria comunione con delle limitazioni connesse all'uso turnario del bene. Nel diritto statunitense, come in quello italiano, non sono permessi degli accordi volti ad escludere il diritto di chiedere la divisione se non limitati nel tempo (cfr. retro
1.- Multiproprietà immobiliare tradizionale e clausole vessatorie.
L'art. 4 del Codice Deontologico dell'A.I.M. prevede che l'impresa aderente all'A.I.M. sia tenuta ad operare, nei rapporti contrattuali con il cliente, nel rispetto dei principi dettati dalla direttiva 94/47/CE . Il citato art. 4 stabilisce, altresì, che nella predisposizione dei moduli contrattuali l'impresa si astenga dalla adozione di clausole che determinino un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi a carico del consumatore.
Peraltro, può fin d'ora rilevarsi che il modello relativo alla multiproprietà tradizionale predisposto dall'A.I.M. non sempre risulta conforme ai principi della direttiva 94/47/CE ed in alcuni casi presenta clausole che, ai sensi della
disciplina degli artt. 1469 bis e seguenti cod. civ., sono da presumersi vessatorie e, come tali, inefficaci.
Con riferimento ai principi della direttiva 94/47/CE si deve preliminarmente osservare che il modello A.I.M. non specifica con chiarezza, la natura del diritto oggetto del contratto e le condizioni di esercizio di tale diritto nello Stato in cui è situato l'immobile. In particolare, dovrebbe essere specificato se oggetto del contratto è un diritto di credito o un diritto reale, poiché solo in quest'ultima ipotesi potrà utilizzarsi, ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo 427/98, il termine "multiproprietà". Dovrebbero inoltre essere indicate le capacità richieste per l'esercizio del diritto dalla legge dello Stato in cui si trova l'immobile, cioè le condizioni richieste da quell'ordinamento per poter essere titolare del diritto e per compiere atti giuridici che lo abbiano ad oggetto. Nell'ipotesi in cui il diritto oggetto del contratto non sia un "diritto reale" bensì un "altro diritto" - cioè un diritto che non consente all'acquirente di esplicare sul bene i poteri attribuitigli in modo diretto ed immediato - sarebbe opportuno precisare, altresì, il "meccanismo" mediante il quale viene garantito il godimento del bene (ad esempio, per quelle forme di multiproprietà cosiddette azionarie o alberghiere, facendo riferimento alla necessaria cooperazione di un soggetto terzo, quale un gestore o la stessa società venditrice).
Con riferimento alla disciplina degli artt. 1469 bis e seguenti cod. civ. va in primo luogo rilevato che il modello predisposto dall'A.I.M. è riferito ad una proposta irrevocabile volta alla conclusione di un contratto preliminare. Ciò indubbiamente non esclude l'accertamento della vessatorietà delle clausole in essa contenute: non può infatti negarsi che il carattere vessatorio delle clausole contenute in un contratto preliminare si propaghi anche al contratto definitivo. Viene in proposito in considerazione l'art. 1469 ter cod. civ. secondo il quale la vessatorietà di una clausola di un contratto è valutata facendo riferimento anche alle clausole di eventuali contratti collegati o di
altri contratti dai quali il contratto oggetto dell'analisi sulla vessatorietà dipende.
Art. 1 “Richiamo delle premesse”.
Questa clausola richiama le premesse come parte integrante del contratto. Il rinvio a regolamenti negoziali che non siano allegati all'atto potrebbe portare a considerare la clausola in contrasto con l'art. 1469 bis n. 10 cod. civ., ove risulti che il consumatore non sia stato di fatto posto in grado di conoscerli prima della conclusione del contratto. In particolare il riferimento è alla premessa nella quale il consumatore dichiara di essere a conoscenza delle tabelle millesimali in base alle quali vengono ripartiti gli oneri tra i singoli comproprietari delle unità immobiliari. Non va inoltre dimenticato che, in base all'art. 1469 quinquies n. 3 cod. civ., le clausole in contrasto con l'art. 1469 bis n. 10 cod. civ. sono inefficaci quantunque oggetto di trattativa.
Si può da ultimo rilevare che i dati relativi all'identità ed al domicilio del venditore e del proprietario, nonché quelli concernenti la qualità giuridica del venditore, richiesti dalla lettera b) dell'art. 2 del decreto legislativo 427/1998 sono correttamente indicati nelle premesse del modello A.I.M.
Art. 2 "Caratteristiche del bene".
La clausola richiama i regolamenti di condominio, di supercondominio ed il calendario turnario riguardo ai quali si precisa che il promettente acquirente dichiara di ben conoscere ed accettare. Anche in questo caso se il
Per ciò che riguarda poi le caratteristiche del bene è opportuno ricordare che l'art. 2 lettera c) del decreto legislativo 427/1998 e l'allegato lettera c) della direttiva 94/47/CE prevedono che il contratto debba contenere, quando il bene è determinato, una descrizione precisa di tale bene e, oltre agli estremi della concessione edilizia e delle leggi regionali che regolano l'uso dell'immobile con destinazione turistico-ricettiva, la sua ubicazione. Queste informazioni nel modello predisposto dall'A.I.M. possono rinvenirsi nelle premesse. Difetta, invece, per gli immobili situati all'estero, il riferimento agli estremi degli atti che garantiscono la loro conformità alle prescrizioni vigenti in materia.
Se il bene è in costruzione debbono essere indicati: 1) gli estremi della concessione edilizia e delle leggi regionali che regolano l'uso dell'immobile con destinazione turistico-ricettiva; 2) lo stato di avanzamento dei lavori di costruzione; 3) una ragionevole previsione circa il completamento degli stessi; 4) lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai servizi comuni che consentono l'agibilità del bene immobile; 5) in caso di mancato completamento dell'immobile, le garanzie relative al rimborso dei pagamenti effettuati e le modalità di applicazione di queste garanzie (art. 2 lettera d) del decreto legislativo 427/1998, allegato lettera d) della direttiva 94/47/CE). Queste informazioni non si rinvengono nel modello predisposto dall'A.I.M., verosimilmente perché il modello non si riferisce a beni in costruzione.
Se l'immobile è in costruzione, il venditore, in base all'art. 7 del decreto legislativo 427/1998, è altresì obbligato a prestare fideiussione bancaria o assicurativa a garanzia della ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile. La fideiussione, che non può imporre all'acquirente la preventiva escussione del venditore, deve essere menzionata nel contratto, a
pena di nullità.
L'art. 2 lettere e) e f) del decreto legislativo 427/1998 e l'allegato lettere e) e f) della direttiva 94/47/CE indicano, inoltre, come contenuto necessario del contratto anche: 1) i servizi comuni ai quali è previsto che l'acquirente avrà accesso; 2) le strutture comuni alle quali l'acquirente avrà accesso. Queste informazioni sembrano essere soddisfatte dagli artt. 6 e 7 del modello A.I.M., a condizione che i regolamenti a cui dette clausole fanno riferimento siano effettivamente noti all'acquirente. E' necessario, infine, che tali regolamenti individuino anche le norme applicabili in materia di manutenzione e riparazione dell'immobile, nonché in materia di amministrazione e gestione dello stesso (art. 2 lettera g) del decreto legislativo 427/1998, allegato lettera
g) della direttiva 94/47/CE).
La mancata indicazione di alcuni dei suddetti elementi, in base all'art. 5 del decreto legislativo 427/1998 e all'art. 5 della direttiva 94/47/CE, ha come conseguenza quella di attribuire all'acquirente il diritto di recedere dal contratto entro 3 mesi dalla conclusione senza l'obbligo di versare alcuna penalità né di corrispondere alcun rimborso (v. infra sub art. 14).
Art. 3 "Prezzo e modalità di pagamento".
Le modalità di pagamento previste da questa clausola sono sicuramente contrarie alla direttiva 94/47/CE ed al decreto legislativo 427/1998. L'art. 6 della direttiva 94/47/CE e l'art. 6 del decreto legislativo 427/1998 fanno divieto al venditore di esigere dall'acquirente somme di denaro a titolo di anticipo, acconto o caparra fino alla scadenza del termine per l'esercizio del diritto di recesso (che è fissato dall'art. 5 della direttiva e dall'art. 5 del decreto legislativo di attuazione in dieci giorni dalla conclusione del contratto).
La clausola inoltre non fornisce tutte le informazioni richieste dall'art. 2 lettera h) del decreto legislativo 427/1998 e dall'allegato lettera h) della
direttiva 94/47/CE: in particolare non sono indicate la stima dell'importo delle spese dovute dall'acquirente per l'utilizzazione dei servizi e delle strutture comuni e la base di calcolo dell'importo degli oneri relativi all'occupazione dell'immobile, delle tasse e imposte, delle spese amministrative accessorie per la trascrizione dell'atto di acquisto e per la gestione, la manutenzione e la riparazione dell'immobile. Non viene poi specificato che "l'acquisto non "comporta per l'acquirente altri oneri, obblighi o spese diversi da quelli stabiliti "nel contratto" secondo quanto richiede l'art. 3, comma secondo, lettera c) del decreto legislativo 427/1998.
Va infine rilevato che la previsione di un integrale pagamento del prezzo da parte del consumatore prima del trasferimento della proprietà del bene (cfr. in particolare infra sub art. 9), è fonte di significativo squilibrio a danno del consumatore.
Non sembra, invece, esser fonte di significativo squilibrio la previsione di interessi moratori in caso di mancato pagamento entro il termine pattuito (sempreché il tasso dei suddetti interessi sia contenuto entro limiti ragionevoli). In questo caso, infatti, al consumatore è riconosciuto il vantaggio della rateizzazione del prezzo, vantaggio che esclude un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Artt. 4 e 5 "Destinazione del bene e godimento e vincolo di "indivisibilità".
Con queste due clausole il consumatore prende atto della destinazione del bene in multiproprietà e riconosce che esso è indivisibile ai sensi dell'art. 1112 cod. civ. Per questo motivo egli si impegna a non chiederne la divisione anche dopo che sia decorso il termine decennale di cui all'art. 1111 cod. civ. Trattasi, per le ragioni già accennate (cfr. supra n. 1) di una soluzione di dubbia efficacia.
Artt. 6 e 7 "Regolamento di comunione e Regolamento "condominiale e supercondominiale".
Come già rilevato in precedenza il rinvio a regolamenti negoziali che non siano allegati all'atto potrebbe essere in contrasto con gli artt. 1469 bis n. 10 e 1469 quinquies n. 3 cod. civ., ove risulti che il consumatore non sia stato di fatto posto in grado di conoscerli prima della conclusione del contratto.
Art. 8 "Spese di gestione e di amministrazione ordinaria e "straordinaria".
Relativamente a questa clausola può osservarsi che l'obbligo del consumatore di pagare le spese di gestione fin dalla sottoscrizione della proposta non sembra corretto in base ai principi generali, così come non si comprende a quale titolo sarebbe utilizzato il "periodo" prima della conclusione del contratto.
Art. 9 "Rogito notarile".
Si è sopra precisato sub art. 3 che la previsione di un integrale pagamento del prezzo prima del trasferimento della proprietà del bene in multiproprietà va considerata vessatoria in quanto introduce un significativo squilibrio a danno del consumatore.
L'A.I.M. nelle sue osservazioni fa notare che, se in linea di principio è corretto che il rogito venga stipulato contestualmente al saldo del prezzo, la prassi è orientata a concentrare la stipulazione di numerosi atti in uno stesso giorno al fine di diminuire le spese notarili. Nonostante ciò, il fatto che il saldo del prezzo avvenga prima del trasferimento della proprietà del bene crea comunque, a danno del consumatore, uno squilibrio che non sembra sufficientemente giustificato.
Artt. 10 e 11 "Accettazione della proposta e validità della "proposta".
Il contenuto di queste clausole presuppone che venga analizzato l'iter che porta alla conclusione del contratto definitivo fra il consumatore ed il professionista. A questo proposito suscita non poche perplessità il fatto che il consumatore sia autore di una proposta irrevocabile predisposta dal professionista.
Questo procedimento di conclusione del contratto comporta un'inversione di ruoli che risulta essere contraria allo spirito della nuova disciplina delle clausole vessatorie.
L'ambito applicativo degli artt. 1469 bis e seguenti cod. civ. presuppone che vi sia un contratto concluso fra consumatore e professionista e non si estende alle mere proposte, ancorché irrevocabili. Per questo motivo a una proposta irrevocabile del consumatore non sembra possa applicarsi l'art. 1469 bis n. 4 cod. civ.
Nella specie tuttavia non ricorre una proposta irrevocabile, bensì un contratto di opzione.
Com'è noto l'opzione è un accordo a titolo oneroso o gratuito di natura contrattuale, in base al quale le parti convengono che una di esse resta vincolata alla propria proposta, mentre l'altra rimane libera di accettarla o meno. Secondo la dottrina dominante (cfr. fra gli altri BIANCA, Diritto civile, Milano, 1984, vol. 3, pp. 267 ss.; XXXXXX, Trattative, proposta irrevocabile e patto d'azione, in Giust. civ., 1981, I, 2274) e la giurisprudenza prevalente (cfr. Cassaz. 6 aprile 1981 n. 1944, in Riv. not., 1982, 69; Cassaz. 7 aprile
1987 n. 3339, in Mass. Foro it., 1987, 571) l'opzione e la proposta irrevocabile differiscono essenzialmente nella struttura, in quanto la prima può classificarsi come negozio giuridico bilaterale mentre la seconda come dichiarazione unilaterale.
Ciò premesso, nel caso di specie va ravvisato un contratto d'opzione, sia perché il testo di quella che viene definita proposta irrevocabile è predisposto dal professionista, sia perché, oltre alla sottoscrizione del consumatore, è prevista anche quella del professionista. La previsione della sottoscrizione di entrambe le parti conferma che non può trattarsi di una dichiarazione unilaterale, qual è la proposta irrevocabile.
Né vale opporre che il modello in questione parla di proposta irrevocabile e non di contratto d'opzione, poiché come insegna la Suprema Corte non è rilevante la qualificazione giuridica che hanno dato le parti, poiché ad essa deve provvedere, anche d'ufficio, il giudice (cfr. fra tutte Xxxxxx. 6 aprile 1981 n. 1944, cit.).
Il fatto poi che sia previsto il diritto di recesso a favore dell'acquirente non comporta il venir meno del carattere vincolante della proposta contenuta nel contratto di opzione. Finché non è intervenuta l'accettazione da parte del venditore o non è scaduto il termine entro il quale il venditore stesso poteva utilmente manifestare la propria accettazione, l'acquirente è comunque obbligato a mantenere ferma la proposta, mentre l'esecuzione della prestazione del professionista-venditore è subordinata all'accettazione dello stesso.
Si può perciò ritenere che le clausole in questione ed il procedimento che porta alla conclusione del contratto siano fin dall'inizio contrastanti con l'art. 1469 bis n. 4 cod. civ. Il contratto d'opzione, infatti, prevede un impegno definitivo del consumatore, mentre la prestazione del professionista è subordinata alla accettazione da parte di quest'ultimo della proposta contenuta nel contratto stesso.
L'A.I.M., nelle sue osservazioni, ha rilevato che la necessità di far sottoscrivere all'acquirente una proposta irrevocabile è dettata unicamente da ragioni organizzative dovute al fatto che i venditori di quote di immobili in multiproprietà si avvalgono, di solito, di numerosi intermediari che operano in
più località. Per questo motivo, al fine di evitare sovrapposizioni, si è deciso di adottare il sistema della proposta irrevocabile in modo tale che il venditore si impegni solo nei confronti di quel proponente che ha per primo sottoscritto la proposta.
Ciò non toglie, tuttavia, che l'intero procedimento risulti essere in contrasto con l'art. 1469 bis n. 4 cod. civ. Oggi, del resto, non sembra sia impossibile trovare una soluzione alternativa: si potrebbe, ad esempio, usare un sistema informatizzato che consenta al venditore di sapere in tempo reale quando viene concluso da un intermediario un accordo relativo alla vendita di una quota dell'immobile in multiproprietà.
Art. 12 "Clausole di vendita".
L'impegno a rilasciare procura a terzi per la stipula dell'atto notarile non pare vessatorio, perché il Promittente acquirente è comunque già obbligato alla stipula dell'atto. Piuttosto va segnalato che la procura non dovrebbe essere data alla stessa Società venditrice, stante il rischio di annullabilità del contratto ex art. 1395 cod. civ.
Art. 13 "Risoluzione del contratto e penale convenzionale".
Questa clausola contiene nelle prime due righe della lettera i) un richiamo alla disciplina della risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1463 e seguenti cod. civ., che appare per la verità superfluo. Nelle successive righe 3ª e 4ª e nella lettera i) è contenuta una clausola risolutiva espressa che si riferisce genericamente a tutte le obbligazioni contrattuali e dunque è da ritenersi "di stile" e come tale inefficace. La clausola risolutiva espressa, infatti, secondo la dottrina (cfr. BIANCA, Diritto civile, cit., vol. 5, p. 314; SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile diretto da Xxxxx,
Torino, 1993, Tomo II, p. 624) e la giurisprudenza (Cassaz. 2 giugno 1990 n. 5169, in Mass. Foro ital., 1990, 673; Cassaz. 23 maggio 1985 n. 3119, Ibidem, 1985, 582) deve riferirsi all'inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate.
Per questi motivi anche l'A.I.M. nelle sue osservazioni ha ritenuto necessaria una riformulazione della clausola risolutiva espressa in modo da poter determinare specificamente quali obbligazioni comportino, in caso di inadempimento, la risoluzione del contratto.
Per quanto riguarda, infine, la previsione della clausola penale si può osservare che essa non dovrà essere manifestamente eccessiva, poiché altrimenti dovrà presumersi vessatoria in base al disposto dell'art. 1469 bis n. 6 cod. civ. Sull'impossibilità di considerare manifestamente eccessiva una penale non ancora determinata si concorda con l'A.I.M.: una valutazione sulla congruità della penale potrà essere in concreto effettuata solo quando sarà possibile confrontare l'importo della penale con il valore della prestazione inadempiuta.
Art. 14 "Recesso del Promittente Acquirente".
La clausola, nell'attribuire il diritto di recesso al consumatore, risulta indubbiamente conforme alla direttiva 94/47/CE e al decreto legislativo 427/1998. L'art. 5 della direttiva 94/47/CE e l'art. 5 del decreto legislativo 427/1998 stabiliscono, infatti, che l'acquirente possa recedere dal contratto, senza indicarne le ragioni, entro dieci giorni a decorrere dalla conclusione del contratto medesimo.
L'attuazione della direttiva 94/47/CE comporta poi che questa clausola, nella parte in cui prevede per il consumatore la possibilità di esercitare il diritto di recesso entro dieci giorni, non potrà presumersi vessatoria in base al dettato dell'art. 1469 bis n. 18 cod. civ., in quanto riproduttiva di una disposizione di
legge.
Per ciò che riguarda il rimborso delle spese sostenute dal venditore dell'immobile in multiproprietà in caso di recesso dell'acquirente, è utile precisare che, in base all'art. 5 del decreto legislativo 427/1998, l'acquirente che recede entro il termine di dieci giorni "non è tenuto a pagare alcuna "penalità e deve rimborsare al venditore solo le spese sostenute e "documentate per la conclusione del contratto e di cui è fatta menzione nello "stesso, purché si tratti di spese relative ad atti da espletare tassativamente "prima dello scadere del periodo di recesso". La relativa specifica dovrà quindi contenere esclusivamente spese per attività che non potevano essere rimandate ad un momento successivo alla scadenza del periodo per il recesso. L'ultima parte della clausola relativa all'indennizzo forfettario per le spese di modulistica suscita qualche dubbio. Le spese di modulistica possono ritenersi comprese nelle spese legalmente occorse alla Promittente Venditrice per la stipula del contratto di cui alla riga precedente. Non si comprende il motivo per il quale le spese di modulistica sono previste a parte. Una spiegazione, avvalorata dal fatto che si parla di un indennizzo forfettario, potrebbe individuarsi nel tentativo di far figurare come spese una somma che in realtà è una multa penitenziale, ossia un compenso attribuito al venditore che subisce il recesso.
Se così fosse, l'ultima parte della clausola 14 non solo potrebbe considerarsi vessatoria, in quanto fonte di un significativo squilibrio a carico del consumatore dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ma sarebbe anche in contrasto con l'art. 5 n. 3 della direttiva 94/47/CE e l'art. 5 del decreto legislativo 427/1998.
L'allegato alla direttiva 94/47/CE e l'art. 2 lettera i) del decreto legislativo 427/1998 prevedono inoltre che il contratto debba contenere informazioni circa il diritto di recesso con l'indicazione della persona alla quale deve essere comunicato e le modalità della comunicazione nonché l'importo che
l'acquirente è tenuto a rimborsare in caso di recesso. In mancanza di uno di questi elementi l'acquirente può recedere dal contratto entro tre mesi dalla conclusione e non è tenuto ad alcuna penalità né ad alcun rimborso. Se poi il venditore comunica gli elementi mancanti entro tre mesi e prima che l'acquirente abbia manifestato l'intenzione di recedere, l'acquirente ha comunque diritto di recedere entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione. Se infine l'acquirente non recede entro tre mesi dalla conclusione del contratto e se entro lo stesso termine il venditore non comunica gli elementi mancanti, il termine di dieci giorni per il recesso stabilito a favore dell'acquirente decorre dalla scadenza di quello di tre mesi dalla conclusione del contratto.
Per questo motivo, affinché il venditore assolva l'obbligo di informazione impostogli dall'art. 2 lettera i) del decreto legislativo 427/1998 la clausola dovrebbe essere parzialmente rettificata. In particolare dovrebbe specificarsi che la volontà di recedere deve essere comunicata con raccomandata con avviso di ricevimento entro il termine di dieci giorni dalla conclusione del contratto e sarebbe opportuno che fossero precisate ulteriori modalità alternative, quale ad esempio, la comunicazione entro lo stesso termine mediante telegramma, telex e facsimile, a condizione che sia confermata con lettera raccomandata con avviso di ricevimento entro le 48 ore successive. E' opportuno inoltre che venga chiarito che, nell'ipotesi in cui l'acquirente abbia esercitato il diritto di recesso, lo stesso dovrà dare comunicazione al finanziatore che il contratto di finanziamento si è risolto di diritto.
Art. 15 "Recesso della società".
Si prevede che il Promittente Xxxxxxxxx abbia la possibilità di recedere dal contratto preliminare nell'ipotesi in cui entrino in vigore nuove disposizioni o modifiche di disposizioni precedenti che possano incidere sulla regolare
Va soggiunto che tale clausola viola verosimilmente anche l'art. 1469 quinquies n. 2 cod. civ., allorché l'esercizio del diritto di recesso consenta al professionista di sottrarsi alla responsabilità per inadempimento.
Art. 16 "Clausola arbitrale senza formalità di procedura".
La clausola compromissoria in oggetto è verosimilmente da presumersi vessatoria ai sensi dell'art. 1469 bis n. 18 cod. civ., trattandosi di una deroga alla competenza dell'autorità giudiziaria (cfr. in questo senso TOMMASEO, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di Xxxx e Xxxxx, Milano, 1997, Tomo I, p. 445; diversamente ALPA, La clausola arbitrale nei contratti dei consumatori, in Riv. Arb., 1997, 677 ss.).
Va soggiunto, peraltro, che l'art. 10 del decreto legislativo 427/1998 stabilisce che, per le controversie derivanti dall'applicazione del presente decreto, la competenza inderogabile è del giudice del luogo di residenza o di domicilio dell'acquirente, se ubicati nel territorio dello Stato. Se, come si è detto, la clausola compromissoria importa una deroga alle regole ordinarie di competenza, l'attribuzione al giudice del luogo di residenza o domicilio dell'acquirente di una competenza di natura funzionale ed inderogabile potrebbe escludere la possibilità stessa dell'arbitrato.
Art. 17 "Clausola consenso privacy".
La clausola sul consenso al trattamento dei dati personali non pone nessun problema in relazione alla disciplina di cui agli artt. 1469 bis e seguenti cod. civ. in quanto può senza dubbio considerarsi riproduttiva di una disposizione
di legge ai sensi dell'art. 1469 ter, 3° comma, cod. civ..
E' utile, da ultimo, evidenziare che, in base all'art. 3, 2° comma, lettera a) del decreto legislativo 427/1998, il contratto deve necessariamente contenere la data ed il luogo di sottoscrizione. Se non viene indicata la data di sottoscrizione si applicherà l'art. 5, comma 2° del decreto legislativo 427/1998, con la conseguenza che l'acquirente avrà la possibilità di recedere entro tre mesi dalla conclusione del contratto senza essere tenuto a versare alcuna penalità né alcun rimborso (cfr. retro sub art. 14).
Come anticipato il tema della multiproprietà alberghiera rappresenta un aspetto per molti versi peculiare del fenomeno “multiproprietà”: nel sesto considerando della Direttiva, infatti, si legge che “taluni alberghi, residenze alberghiere, o altre strutture turistiche residenziali analoghe sono interessati da transazioni contrattuali simili a quelle che hanno reso necessaria la presente direttiva”: non è tuttavia precisato in che cosa consista esattamente la “similitudine” della multiproprietà alberghiera rispetto alla multiproprietà immobiliare tout court: e, in particolare, se essa riguardi la struttura del contratto o le esigenze di tutela del contraente non professionista.
Il legislatore italiano ha tuttavia deciso di non farsi carico dell’ ”avvertimento” della Direttiva (nonostante la Relazione che accompagnava lo schema di decreto legislativo giustificasse la scelta di parlare non di multiproprietà, ma di “contratto di acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di uno o più beni immobili”, appunto con l’esigenza di considerare l’esistenza di forme particolari di multiproprietà): nessuna norma
del testo legislativo affronta infatti gli aspetti caratteristici di questo fenomeno.
Poiché il tema della multiproprietà alberghiera tocca anche aspetti di carattere pubblicistico, relativi alla compatibilità del rapporto di multiproprietà con i vincoli e i controlli di diritto amministrativo sugli immobili alberghieri e sui relativi esercizi, si è ritenuto di anticipare logicamente la trattazione di tali argomenti, sviluppando successivamente l’analisi degli aspetti civilistici.
2.1 Profili di diritto amministrativo
Gli schemi contrattuali esaminati si aprono con il richiamo alla destinazione alberghiera dell’immobile interessato dall’operazione: anzi, la formulazione usata nelle premesse dell’atto, anche se non richiama espressamente il “vincolo alberghiero” in senso tecnico, sottolinea espressamente la non modificabilità della destinazione ricettiva dell’immobile.
I diritti e gli obblighi delle parti in relazione alla destinazione dell’immobile riguardano la sostanza del rapporto contrattuale, prima ancora di una verifica dei possibili aspetti di vessatorietà di singole clausole.
Tuttavia si é ritenuto di dover affrontare anche questo argomento di carattere più generale in quanto si tratta di un aspetto che incide in modo radicale sull’equilibrio dei rapporti contrattuali, e tocca da vicino la posizione del consumatore nei confronti dell’imprenditore: e come tale attiene alla materia della regolazione del mercato.
Il primo tema da approfondire concerne la stessa ammissibilità nel nostro ordinamento di un’operazione di vendita frazionata a vari soggetti di un immobile assoggettato a vincolo alberghiero: quesito particolarmente rilevante, in quanto il cd. “vincolo alberghiero” è un vincolo reale a carattere unitario che grava sull’intero immobile e ne impedisce ogni mutamento di
destinazione, vietando conseguentemente la stipula di accordi contrattuali contrari.
In particolare, il “vincolo alberghiero” venne istituito con R.D.L. 2 Gennaio 1936 n. 274 e si concretò in un vincolo di destinazione per gli immobili che alla pubblicazione del decreto fossero interamente o prevalentemente destinati ad albergo, sia in regime proprietario, sia in forza di contratto di locazione.
Il regime vincolistico venne richiamato poi dal X.Xxx. Lgt. 19 Marzo 1945 n.117, che ne evidenziò il carattere temporaneo: di fatto, con successive proroghe, il vincolo è stato mantenuto in essere per molti edifici fino alla fine degli anni ‘70, quando la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo l’ennesimo provvedimento di proroga.
Successivamente, la L. 217/80 recante le norme quadro sul turismo, all’art. 8 ha nuovamente previsto l’imposizione di un vincolo di destinazione ricettiva sugli edifici alberghieri, motivandolo come segue: “ ai fini della conservazione e della tutela del patrimonio ricettivo, in quanto rispondente alle finalità di pubblico interesse e dell’utilità sociale”.
Inoltre la legislazione, sia nazionale che regionale, ha più volte previsto la concessione a privati di benefici finanziari, sia sotto forma di contributi sia di mutui agevolati, per la costruzione o la ristrutturazione di strutture alberghiere: subordinando, anche in questo caso, la fruizione del beneficio all’imposizione di un vincolo di destinazione che preclude la libera disponibilità del bene per adibirlo a scopi diversi.
Alla luce delle considerazioni espresse, risulterebbero nulli per violazione di legge accordi contrattuali che comportino in concreto il venir meno del vincolo a destinazione alberghiera: si tratta, quindi, di valutare se e a quali condizioni la cessione di uno stabile alberghiero in multiproprietà sia compatibile con tale destinazione.
Ciò che caratterizza una struttura alberghiera e ricettiva, anche secondo quanto emerge dalla L. 217/80, è da un lato la apertura al pubblico della struttura e dall’altro l’unitarietà della gestione.
I dubbi che si pongono riguardano la compatibilità della “multiproprietà” sotto entrambi questi aspetti (d’altra parte interrelati fra loro, in quanto l’apertura al pubblico di un qualsiasi servizio presuppone una gestione unitaria): tenuto conto che l’essenza della multiproprietà - come chiarisce anche il D. Lgs. 427/98, all’art. 1 - consiste nella attribuzione ad una pluralità di soggetti, per un termine minimo di tre anni di “un diritto reale ovvero un altro diritto avente ad oggetto il godimento su uno o più beni immobili, per un periodo determinato o determinabile dell’anno non inferiore ad una settimana”.
La stessa latitudine della definizione di legge fa comprendere che il medesimo obiettivo potrebbe essere assicurato attraverso tipologie contrattuali molto diverse: giacché è assai differente attribuire a terzi un diritto reale, con conseguente frazionamento dell’immobile (che in ipotesi potrebbe riguardare l’intero albergo e per l’intero anno), oppure un semplice diritto di godimento per più periodi predeterminati: che in tale caso non sarebbe dissimile da una prenotazione di durata almeno triennale: come tale pienamente compatibile anche con le forme tradizionali di attività alberghiera, con l’unitarietà della gestione e con il suo carattere di pubblico servizio.
Tuttavia l’art. 4 del D. Lgs. 427/98 (obblighi specifici del venditore) dichiara che “Il venditore utilizza il termine “multiproprietà” nel documento informativo, nel contratto e nella pubblicità commerciale relativa al bene immobile soltanto quando il diritto oggetto del contratto é un diritto reale”.
La precisazione é del tutto opportuna, dato che il termine “proprietà” riferito ad un immobile non può che essere riferito a questa situazione.
Ancora, si deve sottolineare che lo scopo principale se non esclusivo della multiproprietà “alberghiera” non é tanto quello di facilitare l’offerta di vendita
offrendo agli acquirenti servizi para-alberghieri, quanto di ottenere dalla alienazione dell’immobile frazionato un valore assai più alto di quanto si otterrebbe con la vendita dell’immobile intero destinato ad una gestione alberghiera tradizionale.
Di per sé, la finalità di ottenere ricavi maggiori attraverso un frazionamento immobiliare é pienamente lecita, ma nel caso di edifici assoggettati a vincolo alberghiero vi é la necessità di contemperare il frazionamento con la persistenza del vincolo a destinazione alberghiera. Tale vincolo, di natura amministrativa, potrebbe certo essere rimosso: tuttavia ciò non appare possibile tutte le volte in cui il vincolo é collegato a particolari benefici ottenuti (come si é già accennato), ed inoltre nei casi in cui (specie nelle località turistiche) la destinazione alberghiera é imposta dal piano regolatore. In tutti questi casi si tratta di verificare se il frazionamento immobiliare sia lecito, e comunque quali siano le conseguenze sui diritti che il consumatore acquisisce attraverso il contratto.
Sul primo aspetto (vincolo alberghiero collegato a benefici ottenuti) si segnala una decisione - seppure non recentissima - del Consiglio di Stato (Sez. IV, 22 Novembre 1989 n.824) che risulta essere anche l’unica del giudice amministrativo di secondo grado pubblicata in materia.
Nella pronuncia il Consiglio di Stato ha così statuito: “E’ legittima la deliberazione con la quale la giunta della regione Liguria dispone la revoca del contributo pluriennale concesso per i lavori di adattamento di un immobile vincolato a destinazione alberghiera, con recupero di quanto già corrisposto , a causa dell’incompatibilità con la destinazione predetta della riorganizzazione dell’attività nell’immobile stesso intrapresa dalla società proprietaria e consistente nel suo frazionamento , con costituzione di una comunione fra gli acquirenti, e, al di fuori di limitati periodi di godimento diretto da parte di questi dei loro singoli lotti, con la previsione della
possibilità per la direzione del complesso di attribuirne l’utilizzazione a terzi mediante contratto di albergo”.
Il Consiglio di Stato ha motivato la propria decisione osservando come “sia nella legislazione statale sia in quella regionale ...l’attività alberghiera si caratterizzi, tra l’altro, per esprimersi attraverso atti di offerta al pubblico dei servizi ad essa inerenti” ed aggiungendo che la riorganizzazione operata contrasta con tale vincolo.
Riorganizzazione che consiste : “a) nella suddivisione per quote dell’intera proprietà del complesso mobiliare - immobiliare- ferma restandone l’indivisibilità e l’immodificabilità strutturale e funzionale- e nella loro messa in vendita in vista della formazione di una comunione fra gli acquirenti ai sensi degli art. 1100 ss. c.c.; b) nella previsione dell’obbligo dei comunisti di concedere in affitto il complesso, affinchè vi venga gestita l’azienda alberghiera; c) nell’attribuzione in capo a ciascun comunista del diritto turnario esclusivo e permanente di godere, per determinati periodi settimanali di ciascun anno, di una specifica unità fra quelle costituenti l’immobile, a condizioni particolari; d) nella possibilità di cedere a terzi, a titolo oneroso o gratuito, tale diritto di godimento nonchè di non utilizzarlo, con l’effetto di consentire alla direzione del complesso di attribuirlo a terzi, mediante contratto di albergo, con accredito finale al comunista interessato del 40% di quanto incassato. In tal modo, si è finita col preordinare una totale sottrazione dell’attività del complesso ad atti di offerta al pubblico, in quanto, allorchè la descritta “riorganizzazione” sarà completamente attuata, il godimento degli alloggi e dei servizi connessi promanerà esclusivamente dalla titolarità della quota, configurandosi come diretta espressione del relativo diritto di proprietà”.
Nella specie, la bozza contrattuale sottopostaci prevede la parcellizzazione
della fruizione dell’immobile in quote ideali di proprietà - qualificate come
“millesimali”: nella sostanza, si ripartisce il valore del complesso in quote che vengono assegnate agli acquirenti.
Non viene previsto un vero frazionamento immobiliare (ossia un trasferimento in proprietà a terzi di singole unità), ma il trasferimento di una quota di comunione su un bene indivisibile, che dà diritto alla fruizione di spazi abitativi determinati per periodi predefiniti.
Così come formulato sembra doversi ritenere che oggetto del trasferimento sia un diritto reale di comproprietà sull’intero complesso alberghiero e non già il mero diritto personale di godimento turnario di un locale con caratteristiche determinate.
In ogni caso, poiché solo in base alla titolarità delle quote di comunione è possibile fruire dell’immobile, deve ritenersi che la struttura “ricettiva” non abbia più quel carattere di libera accessibilità proprio degli spazi “aperti al pubblico”, restandone la fruizione limitata ai soli multiproprietari, proprio secondo il modello procedimentale esaminato e censurato dal Consiglio di Stato.
Sotto questo profilo, nel corso dell’audizione dell’Associazione si è appreso che di norma gli operatori, che coordinano la gestione dell’immobile in multiproprietà alberghiera, tendono a riservare comunque una certa quantità di stanze al pubblico, immettendole nei normali circuiti turistici: se tale particolare fosse comprovato, ciò consentirebbe di ritenere che l’ipotesi in concreto attuata si differenzia da quella esaminata dal Consiglio di Stato e contempla l’esercizio di una vera e propria funzione alberghiera, unitamente alla gestione della porzione in multiproprietà. In caso contrario, mancherebbe l’aspetto di “apertura al pubblico” dei locali che il Consiglio di Stato ha espressamente ritenuto necessario.
A conferma di tale soluzione va richiamata anche una recente pronuncia della Corte di Cassazione - Sez. I , con sentenza 25 Agosto 1997 n. 7957, laddove si afferma - seppure ai fini dell’applicazione della normativa in tema di IVA -
che “L’ente preposto alla gestione di un fabbricato condominiale in regime di cosiddetta multiproprietà, il quale non si limiti a svolgere compiti di amministrazione dell’immobile, per assicurare il godimento degli appartamenti da parte dei singoli comproprietari o dei loro locatari secondo i turni prestabiliti, ma ceda direttamente tale godimento a terzi, reperiti per il tramite dei comuni canali di accesso al soggiorno turistico, ed altresì unisca a tale cessione tutte le prestazioni proprie dell’alloggio in pensione od albergo, dietro proporzionale corrispettivo, assume la qualità di imprenditore alberghiero e come tale è soggetto alla disciplina dell’i.v.a.”.
Esaminando congiuntamente le due posizioni, si potrebbe quindi al più consentire che l’ “apertura al pubblico” della struttura alberghiera possa essere realizzata attraverso la previsione non già di una semplice ridistribuzione dei diritti di godimento turnario non fruiti, quanto attraverso l’effettiva riserva di una parte degli spazi ad una funzione alberghiera in senso stretto, da commercializzare attraverso le ordinarie forme del mercato turistico.
Tale quota di riserva dovrebbe essere evidenziata nel “documento informativo” nella pubblicità e nel contratto di cessione, secondo quanto richiamato dagli artt. 2 e 4 del D. Lgs. 427/98.
Per quanto attiene l’unitarietà della gestione alberghiera, gli operatori prevedono che nel contratto sia già indicato l’obbligo, per i multiproprietari, di affidare la gestione del complesso ad un soggetto unitario, che normalmente viene già individuato dall’operatore stesso all’inizio dell’attività di vendita : va peraltro detto che la soluzione non risolve il problema con carattere definitivo: in quanto si concreta in un vincolo obbligatorio, che - ove non rispettato - di fatto trasformerebbe la “multiproprietà alberghiera” in una sorta di “multiproprietà semplice”, assimilabile, sotto il profilo urbanistico, alla residenza e come tale non compatibile con il vincolo di destinazione alberghiera.
In realtà l’imprenditore alberghiero (che si occuperà della gestione dell’intero complesso, sia per la quota “libera” in offerta al pubblico, sia per i servizi, sia per la ricollocazione delle “opzioni” appartenenti ai multiproprietari) appare essere un soggetto necessario nella ipotesi di multiproprietà di edifici ricettivi. Non é chiaro come possano essere assicurati i rapporti dei multiproprietari con il gestore, e soprattutto come possano essere assicurati i loro diritti nel caso in cui il gestore sia inadempiente; ma é evidente che - senza un gestore unitario che gestisca liberamente sul mercato alberghiero una parte dell’immobile (come tale sottratta alla multiproprietà) - il contratto non sembra possedere i caratteri di liceità che anche la Corte di Cassazione richiama.
Art. 1 “Richiamo delle premesse”.
Si fa rinvio, relativamente a detta clausola, alle osservazioni sopra espresse per il modello della multiproprietà immobiliare.
Art. 3 “Prezzo e modalità di pagamento”.
L’articolo 6 d. lgs. 427/1998 vieta espressamente al venditore “di esigere o ricevere dall’acquirente il versamento di somme di danaro a titolo di anticipo, di acconto o di caparra, fino alla scadenza dei termini concessi per l’esercizio del diritto di recesso” e cioè fino alla scadenza del “termine di grazia” di dieci giorni di cui al paragrafo precedente.
La previsione del pagamento di un acconto “a titolo di deposito cauzionale infruttifero” all’atto della sottoscrizione, da parte deve pertanto ritenersi illegittima.
I moduli prevedono inoltre il pagamento dell’intero corrispettivo da parte dell’acquirente, con un sistema di versamenti rateali destinati a concludersi prima che questo sia diventato titolare del diritto
Tale previsione destinata ad esaurire l’intero ammontare del corrispettivo prima che l’acquirente sia effettivamente divenuto multiproprietario, solleva perplessità rispetto ai nn. 4 e 20 dell’art. 1469-bis, che presumono rispettivamente vessatorie le clausole che prevedono “un impegno definitivo del consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è subordinata a una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà”, o che subordinano “l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo ... a una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del professionista a fronte di un’obbligazione immediatamente efficace del consumatore”. Peraltro, appare difficile sostenere che il professionista sottoponga la propria prestazione a una condizione meramente potestativa.
Occorre infine osservare che i moduli contrattuali non contengono una clausola che affermi che l’acquisto non comporta per l’acquirente altri oneri, obblighi o spese diversi da quelli stabiliti nel contratto.
Tale previsione è espressamente richiesta dall’articolo 3, comma 2, lett. c, d. lgs. 427/98. Non viene tuttavia precisata la sanzione per i contratti che non rispettino il requisito.
Art. 4 “Utilizzo”.
L’art. 4 prevede che la scelta del periodo destinato al godimento conservi la propria efficacia “anche nella ipotesi in cui - per qualsiasi ragione o fatto
La previsione appare in contrasto con l’art. 1469 bis nr. 11: essa sembra infatti attribuire al professionista un potere illimitato ed incondizionato di modificare le condizioni di erogazione del servizio. Per fugare questo sospetto di vessatorietà, occorrerebbe almeno precisare alcuni dei fattori che potrebbero costringere il venditore a modificare la formula di gestione, da considerarsi alla stregua di altrettanti “giustificati motivi”.
Art. 7 “Clausola di subentro”.
Nell’articolo 7 dei moduli, l’acquirente si dichiara a conoscenza dell’esistenza di un contratto di locazione tra il venditore e una società incaricata della gestione di un complesso alberghiero e accetta di subentrare al venditore “limitatamente alla sua parte ad ogni effetto utile ed oneroso”.
A parte l’oscurità di quest’ultimo inciso, un profilo sostanziale di vessatorietà potrebbe porsi rispetto al n. 17 dell’articolo 1469-bis, qualora il contratto-base tra il venditore e la società di gestione non contenga meccanismi di tutela dell’acquirente equivalenti a quelli prescritti dalla legge: tale norma considera infatti vessatoria la clausola che consenta “al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela di quest’ultimo”. Benché, a rigore, nel nostro caso non si tratti di “sostituire” la controparte del consumatore, bensì di creare un vincolo contrattuale ulteriore rispetto a quello sussistente tra il consumatore e il venditore, la fattispecie sembra porre esigenze di tutela del contraente debole del tutto analoghe a quelle che hanno ispirato questa previsione, legittimandone un’interpretazione estensiva, se non analogica.
Art. 8 “Obbligo di adesione al consorzio”.
L’articolo 8 prevede l’impegno dell’acquirente ad aderire a un consorzio, espressamente qualificato come “eventuale” e del quale non è specificata la funzione, nonché ad accettarne il relativo regolamento.
Si tratta di un impegno che l’acquirente assumerebbe “al buio”: si pongono perciò molteplici problemi di vessatorietà. La clausola appare infatti in contrasto non solo con l’art. 1469-bis, n. 10, che considera vessatoria l’estensione “dell’adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto”, ma anche con l’art. 1469-quinquies c.c., per il quale questo tipo di clausole è inefficace anche se ha formato oggetto di specifica trattativa.
Il problema di assicurare l’adeguata conoscenza dell’acquirente degli obblighi che assume per effetto della conclusione del contratto sussiste anche rispetto al contratto da stipularsi con la società di gestione del complesso alberghiero, illustrato nel paragrafo precedente.
Artt. 9 e 10 “Validità della proposta” e “Accettazione della proposta”.
Si fa rinvio alle osservazioni relative alle corrispondenti clausole contenute nel modulo sulla multiproprietà immobiliare (artt. 10 e 11).
Art. 11 “Procura e clausole di vendita”.
Si fa rinvio a quanto esposto in sede di esame degli artt. 9 e 12 del contratto di multiproprietà immobiliare.
Art. 12 “Risoluzione”.
Si rinvia a quanto indicato con riferimento all’art. 13 del contratto di multiproprietà immobiliare.
Art. 12 bis “Recesso del promittente acquirente”.
L’articolo 5 d. lgs. 427/1998 stabilisce che “entro dieci giorni dalla conclusione del contratto l’acquirente può recedere dallo stesso senza indicare le ragioni del recesso” e senza incorrere in alcuna penalità, salvo solo l’obbligo di rimborsare al venditore “le spese sostenute e documentate per la conclusione del contratto e di cui è fatta menzione nello stesso, purché si tratti di spese relative ad atti da espletare tassativamente prima dello scadere del periodo di recesso”.
L’acquirente può inoltre liberamente recedere dal contratto, senza obblighi di penalità né di rimborso, entro tre mesi dalla sottoscrizione, qualora il contratto non precisi una serie di informazioni, tra le quali: la natura del diritto acquistato; le condizioni previste per il suo esercizio dall’ordinamento che viene in considerazione, accompagnata dalla precisazione se tutte queste condizioni siano o meno soddisfatte; tutti gli elementi necessari a identificare il venditore e il proprietario; le caratteristiche dell’immobile, con particolare riguardo al suo status rispetto alle leggi edilizie e con l’indicazione dei tempi previsti per il completamento qualora esso sia in costruzione; il prezzo stabilito per l’acquisto del diritto e la stima delle spese che l’acquirente dovrà sopportare per usufruire dei servizi comuni, per la gestione dell’immobile e per gli oneri di occupazione; le modalità di esercizio del diritto di recesso dal contratto di acquisto e dall’eventuale contratto di concessione di credito ad esso accessorio; il termine iniziale e finale di esercizio del diritto oggetto del contratto e la possibilità o meno di scambiare o cedere il diritto oggetto del contratto, nonché i costi eventualmente connessi all’esercizio effettivo di questa facoltà; la data di sottoscrizione del contratto.
Qualora le informazioni elencate nel paragrafo precedente non siano contenute nel testo sottoscritto dalle parti, ma vengano fornite all’acquirente entro i tre mesi dalla sottoscrizione, a partire dalla comunicazione l’acquirente ha a disposizione un nuovo termine di grazia di dieci giorni per recedere liberamente.
Qualora, infine, l’acquirente non eserciti il diritto di recesso entro tre mesi dalla sottoscrizione, nonostante la mancanza delle informazioni essenziali sopra menzionate, e il venditore non provveda, nello stesso termine, a integrare la documentazione, scatta un nuovo termine di grazia di dieci giorni a favore dell’acquirente, che decorre dal giorno successivo alla scadenza dei tre mesi dalla conclusione del contratto.
Nessuno dei testi esaminati riprende analiticamente questa disciplina. E’ verosimile che le lacune informative dipendano dalla circostanza (già menzionata in apertura) che non si tratta dei testi concretamente utilizzati nella prassi, bensì di moduli “ di sintesi” elaborati dall’associazione di categoria. Sembra tuttavia opportuno richiamare l’attenzione sulla necessità che i moduli destinati alla sottoscrizione degli acquirenti riproducano esattamente la disciplina del diritto di recesso, oltre a contenere tutti i dati necessari all’identificazione della controparte dell’acquirente e dell’oggetto dell’acquisto.
Art. 12 ter “Recesso della società”.
Si rinvia alle osservazioni relative all’art. 15 del contratto di multiproprietà immobiliare.
Art 13 “Clausola arbitrale senza formalità di procedura”.
Il problema ricade pertanto interamente nella disciplina delle clausole vessatorie. L’art. 1469-bis, comma 3°, n. 18, c.c., presume vessatorie le clausole che sanciscono “deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria”. La clausola in esame è soggetta a tale previsione anche qualora si ritenga che dia luogo ad un arbitrato irrituale (cfr. TOMMASEO, Commento, in AA.VV., Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di Xxxx e Xxxxx, Milano, 1997, Tomo I, p. 445; CESARO, Clausole vessatorie e contratto del consumatore, Padova, 1996, 282). Pertanto è giocoforza concludere nel senso che essa sarà inefficace nei confronti del consumatore, salvo che venga dimostrato che la clausola ha formato oggetto di specifica trattativa tra le parti.
Art. 14 “Clausola privacy”.
Si rinvia a quanto esposto in sede di commento dell’art. 17 del contratto di multiproprietà immobiliare.
2.3 Ulteriori aspetti di analisi
• Contratto di finanziamento accessorio all’acquisto di quota di multiproprietà
I moduli contrattuali non prevedono alcun meccanismo di collegamento tra il contratto di acquisto della quota e l’eventuale contratto di finanziamento che
l’acquirente abbia concluso con il venditore, o comunque per effetto del suo intervento, allo specifico fine di acquistare il diritto.
La legge instaura un collegamento negoziale tra il contratto di acquisto della quota di multiproprietà e l’eventuale contratto di finanziamento, accessorio al primo, che l’acquirente abbia stipulato con lo stesso venditore o con un soggetto indicato da questo per il pagamento del prezzo o una parte di esso. L’articolo 8 del d. lgs. 427/1998 stabilisce che il contratto di credito sia risolto “di diritto, senza il pagamento di alcuna penale, qualora l’acquirente abbia esercitato il diritto di recesso”.
• Durata
I modelli contrattuali tacciono sulla durata minima dell’operazione. L’articolo 1.1, lett. a) prevede che tale durata sia “di almeno tre anni”.
• Aspetti di compatibilità con la direttiva comunitaria e con il d.lgs 427/1998.
Rispetto alla Direttiva comunitaria e al decreto legislativo 427/1998 che vi ha dato attuazione i modelli esaminati presentano le seguenti carenze:
(1) non si prevede chiaramente che all’acquirente spetti, inderogabilmente, un termine di grazia di 10 giorni, entro il quale egli a) può liberamente recedere dal contratto e b) non è tenuto a corrispondere alcuna somma, a titolo di anticipo o a qualunque altro titolo. Al contrario, tutte le bozze prevedono il pagamento di un acconto “a titolo di deposito cauzionale infruttifero” all’atto della sottoscrizione;
(2) non si prevede che, oltre al termine di cui sopra, l’acquirente possa comunque liberamente recedere dal contratto, entro tre mesi dalla
sottoscrizione, qualora non gli siano state fornite le informazioni indicate nella legge stessa; nemmeno è precisato che, qualora il venditore provveda, in seguito alla segnalazione dell’acquirente, a integrare le informazioni de quibus, da questo momento decorre, a favore dell’acquirente, un nuovo termine di grazia di 10 giorni;
(3) nulla è detto circa il rapporto di collegamento negoziale instaurato ex lege tra il contratto di acquisto di una quota in multiproprietà e l’eventuale contratto di finanziamento, accessorio al primo, che l’acquirente abbia stipulato con lo stesso venditore o con un soggetto indicato da questo.
(4) non è detto espressamente che l’acquisto non comporta alcuna spesa, onere ad obbligo diverso da quello previsto in contratto a carico dell’acquirente;
(5) non è previsto l’obbligo del venditore di rilasciare garanzie fideiussorie a favore degli acquirenti a garanzia dell’effettivo completamento dei lavori del complesso immobiliare interessato alla operazione di multiproprietà;
(6) nulla è detto riguardo alla durata del contratto: l’art. 1, lett. a) della Direttiva (e, correlativamente, lo schema di decreto legislativo) prevede che tale durata sia “di almeno tre anni”.
La sanzione prevista per i contratti che non rispettano le prescrizioni della Direttiva è la nullità.
La Direttiva precisa che i meccanismi di tutela del consumatore (in particolare, il diritto di recedere ad nutum entro 10 giorni dalla sottoscrizione) si applicano sia al contratto definitivo, sia al contratto preliminare (art. 5, 1).
Milano, 11 giugno 1999
Il Segretario Generale Xxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx