Common use of NOTE Clause in Contracts

NOTE. La stesura della norma in materia di comporto per malattia è stata inevitabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale che è venuto consolidandosi in questi anni e che ha portato all’elaborazione di una nuova forma di comporto, detto per sommatoria, che collandare del tempo ha finito per diventare l’unico criterio di computo per dirimere le controversie in sede contenziosa, sostituendosi al modello di natura contrattuale, il cosiddetto comporto secco. La nuova disciplina introduce una sorta di doppio regime che, schematicamente, risulta così articolato: Con riferimento ad entrambi i sistemi, l’articolo ha mantenuto in vita la regola che per l’ultimo periodo non può essere praticato un trattamento meno favorevole di quello stabilito dal R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825; ricordiamo che questa legge, meglio nota come legge sull’impiego privato, a differenza del sistema contrattuale, differenzia la garanzia relativa alla conservazione del posto dagli aspetti retributivi; in dettaglio, garantisce un periodo di conservazione del posto pari a 3 mesi per il lavoratore con anzianità di servizio non superiore a 10 anni, elevati a 6 mesi per un’anzianità di servizio di oltre 10 anni, mentre per quanto riguarda il trattamento economico, per la fascia sotto i 10 anni garantisce - parliamo sempre dell’ultimo periodo - l’intera retribuzione per il primo mese e la metà per i successivi due, per l’altra l’intera per i primi due e la metà per gli altri. Vediamoli separatamente. Per quanto concerne il diritto alla conservazione del posto, sicuramente dei due quello più delicato, in presenza della norma di contratto così riscritta quanto stabilito dalla legge in parola ha finito per perdere di significato. Il dato di partenza è che la garanzia contenuta nella legge n. 1825 è chiaramente riferita al comporto di tipo “secco”, rispetto al quale i periodi da essa fissati operano come un “minimo” al disotto del quale le norme di contratto non possono andare. Richiamare questi minimi aveva dunque senso nel regime previgente in cui si era costruito una sorta di ibrido, in cui al computo secco della malattia in corso si potevano sommare tutte le assenze per malattia dei sei mesi antecedenti l’inizio dell’ultima. Il richiamo alla legge sull’impiego privato all’interno di un simile impianto aveva dunque la precisa funzione di ribadirne la sua natura di comporto di tipo secco, nel senso che la possibilità concessa di ripescare le malattie degli ultimi sei mesi non poteva comunque stravolgere la durata dell’ultima malattia che, per poter procedere al licenziamento (o far scattare l’aspettativa nel nostro settore), non doveva comunque scendere al di sotto dei 3 o 6 mesi secondo l’anzianità sopra ricordata. Non a caso fondamentale era l’espresso riferimento all’”ultimo periodo” cui riferire la garanzia, da intendersi come la malattia in corso. Così, ad esempio, un lavoratore inserito nella fascia più bassa – 5 anni di anzianità con 6 mesi di comporto – ammalato dal 1° gennaio al 31 maggio e riammalatosi dal 1° luglio, con il regime previgente sarebbe stato teoricamente non licenziabile sino al 30 settembre; senza il richiamo della legge la garanzia del posto di lavoro sarebbe terminata il 31 luglio. Per cui, ripetiamo, sparito il riferimento agli ultimi sei mesi, la disposizione risulta inutile. Così come risulta inutilizzabile, ancor più intuitivamente, posta all’interno del sistema del comporto per sommatoria. Questo parte da una valutazione da farsi secondo equità, ossia secondo modalità che prescindono, per definizione, da criteri oggettivi. Anzi, l’equità svolge proprio funzione di supplenza nell’impossibilità di applicare criteri oggettivi. La conclusione che vogliamo mettere in evidenza è che con l’applicazione del conteggio per sommatoria non esiste un periodo predefinito minimo (da riferire all’ultima malattia) al disotto del quale non è possibile far scattare il licenziamento; viceversa, basta anche solo una giornata isolata di malattia per porre teoricamente termine al periodo di comporto. Un’altra particolarità che distanzia il riferimento ai 48 mesi di cui al 2° comma in regime di comporto per sommatoria rispetto ai sei mesi di cui alla norma precedente in regime di comporto fisso, è che mentre questi ultimi partivano dal primo giorno dell’ultima malattia, rimanendo in questo senso un dato fisso, i 48 mesi sono quelli che precedono l’ultimo giorno di assenza, e costituiscono un dato da ricostruire di volta in volta. Ancora una volta ricorriamo ad un esempio. Un lavoratore - cui per semplicità attribuiamo, nel caso della sommatoria, il periodo di comporto minimo di otto mesi – è stato assente per malattia il 9 e il 10 aprile 1997, e poi nel tempo successivo, supponiamo a partire dal maggio ’97, per altri 7 mesi e 26 giorni, comunque distribuiti. La sera dell’8 aprile 2001, che supponiamo effettivamente lavorato, la situazione aggiornata porta ad un totale di comporto già utilizzato di 7 mesi e 28 giorni, con due soli giorni residui; il giorno 9 aprile il lavoratore rimane assente per malattia: i 48 mesi precedenti pongono come data di inizio del computo il 9 aprile 1997, portando la sua situazione a 7 mesi e 29 giorni, con un solo giorno residuo; il giorno successivo il lavoratore è ancora assente per malattia: questa volta la sua situazione rimane ferma a 7 mesi e 29 giorni e questo perché se l’assenza del giorno fa aumentare il contatore di “1”, contestualmente però esce il 9 aprile 1997 (!); stesso ragionamento per l’eventuale assenza per malattia del giorno successivo, il 10 aprile: il contatore resterà ancora fermo a 7 mesi e 29 giorni; solo la malattia proseguita anche il giorno successivo, l’11, rimetterà in moto il contatore, determinando nell’esempio considerato il termine del comporto.

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NOTE. La stesura L’articolo rappresenta, almeno sul piano formale, l’esatta fotografia della norma in materia situazione precedente, tenuto conto, ovviamente, delle modifiche introdotte con la riforma della retribuzione. Il 2° comma, applicabile alle aree professionali e ai quadri di comporto per malattia è stata inevitabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale 1° e 2° livello del comparto ex ASSICREDITO, richiama analiticamente gli emolumenti che è venuto consolidandosi in questi anni entrano nel computo del TFR; il 3° e il 4° comma si applicano ai quadri direttivi di 3° e 4° livello sia ASSICREDITO che ha portato all’elaborazione di una nuova forma di comporto, detto per sommatoriaACRI, che collandare già erano parificati da normative sostanzialmente simili; l’ultimo comma si rivolge al personale ACRI appartenente alle aree professionali e ai quadri di 1° e 2° livello. Pare dunque che con l’articolo si siano mantenute le diversità esistenti fra queste tre platee di lavoratori come se si trattasse di differenze che comportino diverse modalità di calcolo del tempo ha finito per diventare l’unico criterio di computo per dirimere le controversie in sede contenziosa, sostituendosi al modello di natura contrattuale, il cosiddetto comporto secco. La nuova disciplina introduce una sorta di doppio regime che, schematicamente, risulta così articolato: Con riferimento ad entrambi i sistemi, l’articolo ha mantenuto in vita la regola che per l’ultimo periodo non può essere praticato un trattamento meno favorevole di quello stabilito dal R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825; ricordiamo che questa legge, meglio nota come legge sull’impiego privato, a differenza del sistema contrattuale, differenzia la garanzia relativa alla conservazione del posto dagli aspetti retributivi; in dettaglio, garantisce un periodo di conservazione del posto pari a 3 mesi per il lavoratore con anzianità di servizio non superiore a 10 anni, elevati a 6 mesi per un’anzianità di servizio di oltre 10 anniTFR, mentre per quanto riguarda il trattamento economicosiamo di fronte solo a formulazioni che conducono tutte allo stesso risultato pratico. Vediamo perché, per la fascia sotto i 10 anni garantisce - parliamo sempre dell’ultimo periodo - l’intera retribuzione per il primo mese cominciando dalla normativa ACRI applicabile alle aree e la metà per i successivi due, per l’altra l’intera per i primi due ai QD1 e la metà per gli altri. Vediamoli separatamente. Per quanto concerne il diritto alla conservazione del posto, sicuramente dei due quello più delicato, in presenza della norma di contratto così riscritta quanto stabilito dalla legge in parola ha finito per perdere di significato. Il dato di partenza è che la garanzia contenuta nella legge n. 1825 è chiaramente riferita al comporto di tipo “secco”, rispetto al quale i periodi da essa fissati operano come un “minimo” al disotto del quale le norme di contratto non possono andare. Richiamare questi minimi aveva dunque senso nel regime previgente in cui si era costruito una sorta di ibrido, in cui al computo secco della malattia in corso si potevano sommare tutte le assenze per malattia dei sei mesi antecedenti l’inizio dell’ultima. Il richiamo alla legge sull’impiego privato all’interno di un simile impianto aveva dunque la precisa funzione di ribadirne la sua natura di comporto di tipo secco, nel senso che la possibilità concessa di ripescare le malattie degli ultimi sei mesi non poteva comunque stravolgere la durata dell’ultima malattia che, per poter procedere al licenziamento (o far scattare l’aspettativa nel nostro settore), non doveva comunque scendere al di sotto dei 3 o 6 mesi secondo l’anzianità sopra ricordata. Non a caso fondamentale era l’espresso riferimento all’”ultimo periodo” cui riferire la garanzia, da intendersi come la malattia in corso. Così, ad esempio, un lavoratore inserito nella fascia più bassa – 5 anni di anzianità con 6 mesi di comporto – ammalato dal 1° gennaio al 31 maggio e riammalatosi dal 1° luglioQD2 fatta salva dall’ultimo comma, con il regime previgente sarebbe stato teoricamente palese intento di mantenere in vita una disciplina apparentemente più favorevole al lavoratore rispetto alle altre. L’art. 45 del CCNL 19 novembre 1994 ivi richiamato dà innanzi tutto la definizione di retribuzione comprendendovi anche, alla lettera f), “ogni…indennità di carattere continuativo e di ammontare determinato che non licenziabile sino al 30 settembre; senza abbia natura di rimborso spese”, dizione nella sostanza identica a quella utilizzata dall’art. 2120, cosi come modificato dalla legge 29 maggio 1982, n. 297, che per definire la retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR parla di “tutte le somme.….corrisposte a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”. Vengono fatte salve le diverse previsioni contenute nei contratti collettivi, possibilità che parrebbe sfruttata dal 3° comma dell’art. 45 del contratto ACRI che precisa che il richiamo della legge la garanzia del posto concorso spese tranviarie e le indennità di lavoro sarebbe terminata il 31 lugliorischio entrano nel computo. Per cuiE’, ripetiamoquest’ultima, sparito il riferimento agli ultimi sei mesiun’estensione superflua, evidenziata per compensare l’esclusione di queste due voci dalla definizione di retribuzione di cui alla precedente lettera f). In realtà, la disposizione risulta inutile. Così scelta esercitata dal settore ACRI aderisce perfettamente alla disciplina di legge, che, applicata, automaticamente ricomprende il concorso spese tranviarie e le indennità di rischio in quanto emolumenti non occasionali e che non hanno carattere di rimborso spese, così come risulta inutilizzabile, ancor più intuitivamente, posta all’interno del sistema del comporto per sommatoria. Questo parte da una valutazione da farsi secondo equità, ossia secondo modalità sono ricomprese tutte le eventuali voci aziendali che prescindono, per definizione, da criteri oggettivi. Anzi, l’equità svolge proprio funzione di supplenza nell’impossibilità di applicare criteri oggettivinon abbiano il carattere dell’occasionalità. La conclusione disciplina ASSICREDITO, sempre riferita alle medesime categorie, è all’apparenza più restrittiva e quindi meno favorevole per il lavoratore, dal momento che vogliamo mettere in evidenza l’elenco delle voci ritenute utili è che con l’applicazione del conteggio per sommatoria non esiste un periodo predefinito minimo (da riferire all’ultima malattia) al disotto del quale non è possibile far scattare il licenziamento; viceversaconsiderarsi tassativo. Ma a ben vedere, basta anche solo una giornata isolata se si confronta l’elenco di malattia per porre teoricamente termine al periodo di comporto. Un’altra particolarità che distanzia il riferimento ai 48 mesi di cui al voci contenuto nel 2° comma con quello degli emolumenti che discendono da norme nazionali ci si accorge che rimangono escluse le diarie, e più in regime generale i trattamenti di comporto missione o di trasferimento, lo straordinario, l’indennità di turno notturno, l’indennità per sommatoria rispetto ai sei mesi il lavoro al sabato (33.800), le indennità di vigilanza e di pernottamento per le prime due aree professionali, le indennità di preavviso, in altre parole tutte quelle voci che non hanno carattere continuativo, bensì in un qualche modo dipendenti da fattori occasionali e non predeterminabili, e come tali già esclusi dalla legge. Rimangono le eventuali voci aziendali, che la formulazione usata in ACRI senz’altro ricomprende mentre quella ASSICREDITO pare non richiamare. Cosa che non è. Non bisogna dimenticare che la disciplina contrattuale va sempre armonizzata con quella di legge. Questa, nel già citato art. 2120 c.c., stabilisce il criterio generale cui alla norma precedente in regime di comporto fissocommisurare la retribuzione differita rappresentata dal TFR, facendo salve le eventuali previsioni dei contratti collettivi, nei quali vanno considerati ovviamente anche gli accordi aziendali. Ora, è senza dubbio vero che mentre questi ultimi partivano la deroga operabile dalla contrattazione collettiva può essere sia in meglio che in peggio, ma è anche vero che tale deroga deve essere esplicita, per cui in assenza di una previsione in tal senso si deve necessariamente applicare il criterio generale della “non occasionalità” che il 2120 enuncia. Si pensi, a titolo di esempio, al premio aziendale: il 7° comma dell’art. 40, che ripete quanto già previsto dalla vecchia normativa, lascia alla contrattazione aziendale la scelta della sua computabilità o meno nel TFR. Discorso ancora diverso per le voci ad personam in senso stretto, cioè derivanti dalla contrattazione intuitu personae, che non possono essere mai escluse dal primo giorno dell’ultima malattiacomputo del TFR se presentano il carattere della continuità e della non occasionalità: l’unica deroga ammessa dalla legge è quella che deriva, rimanendo in questo senso un dato fissolo ripetiamo, dalla contrattazione collettiva. Alle medesime conclusioni si perviene analizzando i 48 mesi sono quelli che precedono l’ultimo giorno di assenza, e costituiscono un dato da ricostruire di volta in volta. Ancora una volta ricorriamo ad un esempio. Un lavoratore - cui per semplicità attribuiamo, nel caso della sommatoriadue commi, il periodo di comporto minimo di otto mesi – è stato assente per malattia il 9 e il 10 aprile 1997, relativi ai QD3 e poi nel tempo successivo, supponiamo a partire dal maggio ’97, per altri 7 mesi e 26 giorni, comunque distribuiti. La sera dell’8 aprile 2001, che supponiamo effettivamente lavorato, la situazione aggiornata porta ad un totale di comporto già utilizzato di 7 mesi e 28 giorni, con due soli giorni residui; il giorno 9 aprile il lavoratore rimane assente per malattia: i 48 mesi precedenti pongono come data di inizio del computo il 9 aprile 1997, portando la sua situazione a 7 mesi e 29 giorni, con un solo giorno residuo; il giorno successivo il lavoratore è ancora assente per malattia: questa volta la sua situazione rimane ferma a 7 mesi e 29 giorni e questo perché se l’assenza del giorno fa aumentare il contatore di “1”, contestualmente però esce il 9 aprile 1997 (!); stesso ragionamento per l’eventuale assenza per malattia del giorno successivo, il 10 aprile: il contatore resterà ancora fermo a 7 mesi e 29 giorni; solo la malattia proseguita anche il giorno successivo, l’11, rimetterà in moto il contatore, determinando nell’esempio considerato il termine del comportoQD4.

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NOTE. La stesura della norma normativa precedente – art. 109 ASS. – iniziava parlando di personale inviato in materia di comporto per malattia missione “fuori residenza”. Nel nuovo testo questa specificazione è stata inevitabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale omessa, e questo non risolve un’ambiguità interpretativa che consente a talune aziende di applicare caso per caso la soluzione ad essa più conveniente. La missione parte dalla residenza (dimora abituale) o dall’unità produttiva di normale assegnazione? Nessun dubbio che un dipendente è venuto consolidandosi da considerarsi in questi anni missione quando è temporaneamente assegnato ad una unità produttiva diversa da quella dove presta la sua attività lavorativa, e che ha portato all’elaborazione su questo presupposto scatta l’applicazione della disciplina dell’articolo in esame. Ciò premesso, ai fini della determinazione se la singola missione abbia superato o meno le 10 ore e, in caso di una nuova forma rimborso chilometrico, della distanza cui commisurarlo, occorre comunque fare riferimento ad un “luogo” di comporto, detto per sommatoriapartenza, che collandare la norma non precisa. Le questioni che vengono sollevate sono tutte collegabili al fatto di scorporare dal computo la distanza fra la residenza e la unità produttiva di ordinaria assegnazione, laddove siano diverse. E questo sul presupposto che si tratterebbe di un onere che il dipendente comunque dovrebbe sopportare, facendo così coincidere il riconoscimento economico con il “maggior onere” sostenuto dall’interessato. Anche la prassi, in apparenza palesemente iniqua, applicata in qualche azienda di conteggiare il compenso della missione dalla residenza o dalla filiale a seconda della convenienza, a ben vedere è riconducibile al criterio del tempo ha finito per diventare l’unico criterio “maggior onere”. I presupposti dai quali far discendere i trattamenti economici contenuti nell’articolo in esame si possono così schematizzare: Sempre in relazione alla definizione di computo per dirimere le controversie missione, è fuori di dubbio che la partecipazione a corsi di formazione non costituisce una fattispecie a parte ma è da considerare missione a tutti gli effetti, sempreché comporti lo spostamento in sede contenziosacomune diverso. Sull’argomento, sostituendosi segnaliamo la prassi adottata in alcune aziende che discriminano, ai soli fini della determinazione del trattamento economico, fra corsi riservati al modello di natura contrattualepersonale scelto dall’azienda e corsi contrattuali, cui possono volontariamente partecipare tutti i dipendenti. La prima ipotesi viene fatta rientrare nella regola generale, mentre la partecipazione a corsi contrattuali viene regolata con il cosiddetto comporto seccosolo rimborso delle spese effettivamente sostenute (viaggio, pasti e/o pernottamento). La nuova disciplina introduce una sorta di doppio regime chenorma ha reso più esplicita la possibilità che le spese rimborsabili superino le misure prefissate, schematicamente, risulta così articolato: Con riferimento ad entrambi i sistemi, l’articolo ha mantenuto naturalmente con l’autorizzazione della Direzione. Questa eventualità è stata considerata in vita la regola che per l’ultimo periodo non può essere praticato un trattamento meno favorevole di quello stabilito dal R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825; ricordiamo che questa legge, meglio nota come legge sull’impiego privato, a differenza del sistema contrattuale, differenzia la garanzia relativa alla conservazione del posto dagli aspetti retributivi; in dettaglio, garantisce un periodo di conservazione del posto pari a 3 mesi modo particolare per il lavoratore con anzianità caso del pernottamento, in pratica quasi inevitabile, introducendo la possibilità, già adottata come prassi in molte Banche, di servizio non superiore rimborsare a 10 anni, elevati a 6 mesi per un’anzianità piè di servizio di oltre 10 anni, mentre per quanto riguarda lista il trattamento economico, per la fascia sotto i 10 anni garantisce - parliamo sempre dell’ultimo periodo - l’intera retribuzione per il primo mese solo pernottamento e la metà per i successivi due, per l’altra l’intera per i primi due e parte restante come diaria. Nel caso di alloggio fornito dall’azienda la metà per gli altri. Vediamoli separatamente. Per quanto concerne il diritto alla conservazione del posto, sicuramente dei due quello più delicato, in presenza misura della norma di contratto così riscritta quanto stabilito dalla legge in parola ha finito per perdere di significato. Il dato di partenza è che la garanzia contenuta nella legge n. 1825 è chiaramente riferita al comporto di tipo “secco”, rispetto al quale i periodi da essa fissati operano come un “minimo” al disotto del quale le norme di contratto non possono andare. Richiamare questi minimi aveva dunque senso nel regime previgente in cui si era costruito diaria giornaliera subisce una sorta di ibrido, in cui al computo secco della malattia in corso si potevano sommare tutte le assenze per malattia dei sei mesi antecedenti l’inizio dell’ultima. Il richiamo alla legge sull’impiego privato all’interno riduzione di un simile impianto aveva dunque la precisa funzione di ribadirne la sua natura di comporto di tipo secco, nel senso che la possibilità concessa di ripescare le malattie degli ultimi sei mesi non poteva comunque stravolgere la durata dell’ultima malattia che, per poter procedere al licenziamento (o far scattare l’aspettativa nel nostro settore), non doveva comunque scendere al di sotto dei 3 o 6 mesi secondo l’anzianità sopra ricordata. Non a caso fondamentale era l’espresso riferimento all’”ultimo periodo” cui riferire la garanzia, da intendersi come la malattia in corso. Così, ad esempio, un lavoratore inserito nella fascia più bassa – 5 anni di anzianità con 6 mesi di comporto – ammalato dal 1° gennaio al 31 maggio e riammalatosi dal 1° luglio, con il regime previgente sarebbe stato teoricamente non licenziabile sino al 30 settembre; senza il richiamo della legge la garanzia del posto di lavoro sarebbe terminata il 31 luglio. Per cui, ripetiamo, sparito il riferimento agli ultimi sei mesi, la disposizione risulta inutile. Così come risulta inutilizzabile, ancor più intuitivamente, posta all’interno del sistema del comporto per sommatoria. Questo parte da una valutazione da farsi secondo equità, ossia secondo modalità che prescindono, per definizione, da criteri oggettivi. Anzi, l’equità svolge proprio funzione di supplenza nell’impossibilità di applicare criteri oggettivi. La conclusione che vogliamo mettere in evidenza è che con l’applicazione del conteggio per sommatoria non esiste un periodo predefinito minimo (da riferire all’ultima malattia) al disotto del quale non è possibile far scattare il licenziamento; viceversa, basta anche solo una giornata isolata di malattia per porre teoricamente termine al periodo di comporto. Un’altra particolarità che distanzia il riferimento ai 48 mesi di cui al 2° comma in regime di comporto per sommatoria rispetto ai sei mesi di cui alla norma precedente in regime di comporto fisso, è che mentre questi ultimi partivano dal primo giorno dell’ultima malattia, rimanendo in questo senso un dato fisso, i 48 mesi sono quelli che precedono l’ultimo giorno di assenzaterzo, e costituiscono un dato da ricostruire di volta non più solo del 6% come in voltaprecedenza. Ancora Le previsioni dei commi 6° e 7° estendono anche ai lavoratori dell’ACRI una volta ricorriamo ad un esempio. Un lavoratore - cui per semplicità attribuiamo, nel caso della sommatoria, il periodo di comporto minimo di otto mesi – è stato assente per malattia il 9 e il 10 aprile 1997, e poi nel tempo successivo, supponiamo a partire dal maggio ’97, per altri 7 mesi e 26 giorni, comunque distribuiti. La sera dell’8 aprile 2001, che supponiamo effettivamente lavorato, la situazione aggiornata porta ad un totale di comporto già utilizzato di 7 mesi e 28 giorni, con due soli giorni residui; il giorno 9 aprile il lavoratore rimane assente per malattia: i 48 mesi precedenti pongono come data di inizio del computo il 9 aprile 1997, portando la sua situazione a 7 mesi e 29 giorni, con un solo giorno residuo; il giorno successivo il lavoratore è ancora assente per malattia: questa volta la sua situazione rimane ferma a 7 mesi e 29 giorni e questo perché se l’assenza del giorno fa aumentare il contatore di “1”, contestualmente però esce il 9 aprile 1997 (!); stesso ragionamento per l’eventuale assenza per malattia del giorno successivo, il 10 aprile: il contatore resterà ancora fermo a 7 mesi e 29 giorni; solo la malattia proseguita anche il giorno successivo, l’11, rimetterà in moto il contatore, determinando nell’esempio considerato il termine del comportoregola presente nell’ASSICREDITO.

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NOTE. La stesura della norma in materia di comporto per malattia è stata inevitabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale che è venuto consolidandosi in questi anni e che ha portato all’elaborazione di una nuova forma di comportoNel 3° comma si concentrano gli unici problemi interpretativi dell’articolo, detto per sommatoria, che collandare del tempo ha finito per diventare l’unico criterio di computo per dirimere le controversie in sede contenziosa, sostituendosi al modello di natura contrattuale, il cosiddetto comporto secco. La nuova disciplina introduce una sorta di doppio regime che, schematicamente, risulta così articolato: Con riferimento ad entrambi i sistemi, l’articolo ha mantenuto in vita la regola che per l’ultimo periodo non può essere praticato un trattamento meno favorevole di quello stabilito dal R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825; ricordiamo che questa legge, meglio nota come legge sull’impiego privato, a differenza del sistema contrattuale, differenzia la garanzia relativa alla conservazione del posto dagli aspetti retributivi; in dettaglio, garantisce un periodo di conservazione del posto pari a 3 mesi per il resto dal significato assai lineare. Ai fini della verifica dell’esatto ammontare dell’incremento annuo di 3.000.000 da riconoscere ai quadri promossi nel 3° livello, l’aspetto problematico verte sul calcolo della retribuzione del lavoratore con anzianità di servizio non superiore a 10 anniante promozione, elevati a 6 mesi per un’anzianità di servizio di oltre 10 anni, mentre per quanto riguarda il trattamento economico, per la fascia sotto i 10 anni garantisce - parliamo sempre dell’ultimo periodo - l’intera retribuzione per il primo mese e la metà per i successivi due, per l’altra l’intera per i primi due e la metà per gli altri. Vediamoli separatamente. Per quanto concerne il diritto alla conservazione del posto, sicuramente dei due quello più delicato, in presenza della norma di contratto così riscritta quanto stabilito dalla legge in parola ha finito per perdere di significato. Il dato di partenza è poiché appare evidente che la garanzia contenuta nella legge n. 1825 del differenziale di 3.000.000 è chiaramente riferita al comporto tanto più vera quanto più la retribuzione pregressa presa come riferimento di tipo “secco”calcolo coincide con quella realmente percepita dal lavoratore promosso. In altre parole, se vi sono degli emolumenti che nel passaggio di qualifica vanno perduti per assorbimento o perché gli accordi che li prevedono non sono di competenza della nuova qualifica, il loro ammontare va a detrimento della garanzia in parola. Un contributo a rendere più agevole l’applicazione della norma viene dalla circolare esplicativa concordata con le XX.XX., quanto mai opportuna in questa circostanza. Percorrendo la possibile casistica, nessun effetto presentano le voci legate alla produttività, ancorchè richiamate ed esplicitamente escluse, essendo di erogazioni che spettano a tutto il personale; non solo, ma trattandosi di emolumenti normalmente riparametrati, l’importo spettante per la nuova qualifica risulterà superiore rispetto al quale i periodi da essa fissati operano come un “minimo” al disotto del quale a quella di provenienza. Esito opposto per le norme di contratto voci ad personam, anch’esse esplicitamente escluse, che se non possono andarevengono mantenute diminuiscono la garanzia dei 3.000.000. Richiamare questi minimi aveva dunque senso nel regime previgente in cui si era costruito una sorta di ibrido, in cui al computo secco della malattia in corso si potevano sommare tutte le assenze per malattia dei sei mesi antecedenti l’inizio dell’ultimaCaso a sé costituisce il ticket pasto. Il richiamo alla legge sull’impiego privato all’interno di un simile impianto aveva dunque la precisa funzione di ribadirne la sua natura di comporto di tipo secco, nel senso che la possibilità concessa di ripescare le malattie degli ultimi sei mesi non poteva comunque stravolgere la durata dell’ultima malattia cheLa circolare lo esclude, per poter procedere cui provocherà senz’altro un pregiudizio ai fini della garanzia se non anche di competenza della nuova qualifica. Tutte le altre eventuali voci retributive derivanti da contrattazione collettiva (ovviamente aziendale) e che siano a carattere continuativo vanno senz’altro considerate nella retribuzione ex ante. Le parti hanno anche chiarito che nel caso di passaggio al licenziamento (o far scattare l’aspettativa nel nostro settore), 3° livello di lavoratori provenienti non doveva comunque scendere al di sotto dei 3 o 6 mesi secondo l’anzianità sopra ricordata. Non a caso fondamentale era l’espresso riferimento all’”ultimo periodo” cui riferire la garanzia, da intendersi come la malattia in corso. Così, ad esempio, un lavoratore inserito nella fascia più bassa – 5 anni di anzianità con 6 mesi di comporto – ammalato dal 1° gennaio al 31 maggio e riammalatosi dal 1° luglio, con il regime previgente sarebbe stato teoricamente non licenziabile sino al 30 settembre; senza il richiamo della legge la garanzia del posto di lavoro sarebbe terminata il 31 luglio. Per cui, ripetiamo, sparito il riferimento agli ultimi sei mesi, la disposizione risulta inutile. Così come risulta inutilizzabile, ancor più intuitivamente, posta all’interno del sistema del comporto per sommatoria. Questo parte da una valutazione da farsi secondo equità, ossia secondo modalità che prescindono, per definizione, da criteri oggettivi. Anzi, l’equità svolge proprio funzione di supplenza nell’impossibilità di applicare criteri oggettivi. La conclusione che vogliamo mettere in evidenza è che con l’applicazione del conteggio per sommatoria non esiste un periodo predefinito minimo (da riferire all’ultima malattia) al disotto del quale non è possibile far scattare il licenziamento; viceversa, basta anche solo una giornata isolata di malattia per porre teoricamente termine al periodo di comporto. Un’altra particolarità che distanzia il riferimento ai 48 mesi di cui al comma in regime livello la differenza di comporto per sommatoria rispetto ai sei mesi retribuzione di cui alla norma precedente in regime di comporto fisso, almeno 3.000.000 è quella che mentre questi ultimi partivano dal primo giorno dell’ultima malattia, rimanendo in questo senso un dato fisso, i 48 mesi sono quelli che precedono l’ultimo giorno di assenza, e costituiscono un dato da ricostruire di volta in volta. Ancora una volta ricorriamo ad un esempio. Un lavoratore - cui per semplicità attribuiamo, nel caso della sommatoria, il periodo di comporto minimo di otto mesi – è stato assente per malattia il 9 e il 10 aprile 1997, e poi nel tempo successivo, supponiamo a partire dal maggio ’97, per altri 7 mesi e 26 giorni, comunque distribuiti. La sera dell’8 aprile 2001, che supponiamo effettivamente lavorato, la situazione aggiornata porta ad un totale di comporto già utilizzato di 7 mesi e 28 giorni, con due soli giorni residui; il giorno 9 aprile il lavoratore rimane assente per malattia: promosso avrebbe conseguito qualora avesse effettuato tutti i 48 mesi precedenti pongono come data di inizio del computo il 9 aprile 1997, portando la sua situazione a 7 mesi e 29 giorni, con un solo giorno residuo; il giorno successivo il lavoratore è ancora assente per malattia: questa volta la sua situazione rimane ferma a 7 mesi e 29 giorni e questo perché se l’assenza del giorno fa aumentare il contatore di “1”, contestualmente però esce il 9 aprile 1997 (!); stesso ragionamento per l’eventuale assenza per malattia del giorno successivo, il 10 aprile: il contatore resterà ancora fermo a 7 mesi e 29 giorni; solo la malattia proseguita anche il giorno successivo, l’11, rimetterà in moto il contatore, determinando nell’esempio considerato il termine del comportopassaggi intermedi.

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NOTE. La stesura della norma L’applicazione delle c.d.”10 ore mensili”, e di conseguenza il trattamento delle ore eccedenti detto limite, per i quadri direttivi di 1° e 2° livello, ha costituito fin da subito uno dei temi più ostici sotto il profilo applicativo di tutto l’accordo di rinnovo, e a tutt’oggi, a dispetto dei numerosi momenti di chiarimento intervenuti con l’ABI, sulle modalità con cui l’istituto è stato applicato le distanze fra l’ABI e le XX.XX. permangono notevoli. Trattandosi per lo più di questioni di natura più “politica” che tecnica, non riteniamo di farne oggetto di commento in materia questa sede, con l’impegno di comporto per malattia è stata inevitabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale che è venuto consolidandosi in questi anni ritornare sull’argomento avendo come riferimento un quadro più stabile e che ha portato all’elaborazione di una nuova forma di comportodefinito. Unica eccezione, detto per sommatoria, che collandare del tempo ha finito per diventare l’unico il criterio di computo delle predette “10 ore”, necessario al singolo lavoratore per dirimere ritenere esaurito il suo obbligo nei confronti dell’azienda. E proprio sulla obbligatorietà delle 10 ore è opportuna una precisazione. La lettera della disposizione è di tenore non ambiguo: la retribuzione del quadro di 1° e 2° è commisurata ad un orario che somma a quello ordinario settimanale praticato nell’unità operativa dal personale della 3a area professionale, 10 ore medie mensili. Ora si può anche ritenere che il quadro possa di sua iniziativa gestire come meglio crede questo surplus, reputare persino non strettamente necessario effettuarlo integralmente, ma nel caso in cui l’azienda richieda la prestazione, questa è dovuta. Ma quale è la misura prevista? Nessun dubbio che le controversie 23 ore annue di riduzione d’orario concesse per le aree professionali entrino in sede contenziosagioco anche per i quadri direttivi, sostituendosi al modello ma in modo del tutto diverso. Più precisamente, ai quadri direttivi non è stata concessa la scelta fra portare l’orario settimanale a 37 ore o mantenerlo a 37 ore e 30, beneficiando del cumulo del pacchetto di natura contrattuale23 ore, ma è come se fosse stato loro imposta la prima opzione. Ne consegue che il quadro direttivo che continui a praticare un orario di 37 ore e 30 settimanali, già per questo fatto viene a superare l’orario di riferimento di mezz’ora, tempo che ovviamente dovrà essere computato nelle 10 ore di surplus. E qui sta però un’altra differenza con le 23 ore conseguenti all’opzione per gli appartenenti alle aree professionali. Per questi lavoratori, una volta riversate nella banca delle ore entrano nella disponibilità del lavoratore, e lì rimangono anche se il lavoratore non le lavori, in tutto o in parte, a causa di una assenza retribuita. Diversamente, il cosiddetto comporto seccoquadro direttivo decurta quanto dovuto, solo per quanto effettivamente presta. La nuova disciplina introduce Solo in questi termini può essere corretto affermare che la disponibilità delle 10 ore rapportata ad anno porta il totale ad 87 ore. Sempre ammesso che il minuendo di partenza sia 110! Perché qui si apre un altro problema nient’affatto pacifico: le 10 ore mensili rapportate ad anno a che risultato portano? 120 o 110, scalando in quest’ultimo caso il mese complessivo di xxxxx ed ex festività? Non a caso l’ABI, continua nelle sue circolari a parlare di “10 ore medie mensili”, senza specificare null’altro. Viceversa, continuiamo a ribadire che il mese di ferie ed ex festività va detratto e che quindi le 10 ore medie mensili rapportate ad anno diventano 110, che a loro volta scendono ad 87 per effetto di un orario reale praticato di 37 ore e 30 settimanali. Il primo periodo del 6° comma prende in considerazione il lavoro nei giorni festivi, al sabato nel caso di settimana lavorativa distribuita dal lunedì al venerdì, e più in generale nei periodi che rivestono il significato del “sabato”, se si può usare questa espressione, nel caso di distribuzioni d’orario particolari. In breve, la norma si occupa della prestazione svolta nelle “occasioni” non lavorative che non costituiscono un proseguimento del normale orario di lavoro, con la sola eccezione del lavoro domenicale che rimane integralmente soggetto alle norme di legge. In quanto prestazione che si aggiunge all’orario ordinario praticato nel nucleo operativo cui il quadro direttivo è addetto, essa dà diritto ad una sorta di doppio regime cheriposo compensativo. E’ una disposizione già presente nel vecchio contratto che ha in un certo senso anticipato il criterio dell’autogestione e come tale può persino apparire pleonastica. Semmai può essere utile sciogliere ogni possibile commistione di questa fattispecie con l’ipotesi di intervento di cui all’art. 32, schematicamentenaturalmente laddove questo sia effettuato nei medesimi periodi di cui sopra, risulta e limitatamente al personale potenzialmente soggetto all’istituto dell’intervento. Una prima fondamentale distinzione va fatta sui soggetti interessati. Le “eccezionali temporanee esigenze” che ai sensi dell’art. 71 giustificano la prestazione lavorativa in dette giornate possono riguardare tutti i quadri direttivi, senza distinzione di livello e di mansione. Non così articolato: Con riferimento ad entrambi per il lavoro effettuato a titolo di “intervento”, che opera su presupposti diversi per i sistemiquadri di 1° e 2° livello rispetto a quelli di 3° e 4°. Per il primo raggruppamento, l’articolo ha mantenuto l’intervento è ammesso solo a seguito della “messa in vita la regola reperibilità” del lavoratore interessato, condizione necessaria per rendere l’intervento obbligatorio, e che per l’ultimo periodo non può questo deve essere praticato un trattamento meno favorevole di quello stabilito dal R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825; ricordiamo comunque remunerata con la specifica indennità. Con la conseguenza che questa legge, meglio nota come legge sull’impiego privato, a differenza del sistema contrattuale, differenzia la garanzia relativa alla conservazione del posto dagli aspetti retributivi; in dettaglio, garantisce un periodo di conservazione del posto pari a 3 mesi per il lavoratore con anzianità non collocato in reperibilità può legittimamente rifiutarsi di servizio non superiore a 10 anni, elevati a 6 mesi recarsi al lavoro per un’anzianità di servizio di oltre 10 anni, mentre per quanto riguarda il trattamento economico, per la fascia sotto i 10 anni garantisce - parliamo sempre dell’ultimo periodo - l’intera retribuzione per il primo mese e la metà per i successivi due, per l’altra l’intera per i primi due e la metà per gli altri. Vediamoli separatamente. Per quanto concerne il diritto alla conservazione del posto, sicuramente dei due quello più delicato, in presenza della norma di contratto così riscritta quanto stabilito dalla legge in parola ha finito per perdere di significato. Il dato di partenza è che la garanzia contenuta nella legge n. 1825 è chiaramente riferita al comporto di tipo “secco”, rispetto al quale i periodi da essa fissati operano come un “minimo” al disotto del quale le norme di contratto non possono andare. Richiamare questi minimi aveva dunque senso nel regime previgente in cui si era costruito una sorta di ibrido, in cui al computo secco della malattia in corso si potevano sommare tutte le assenze per malattia dei sei mesi antecedenti l’inizio dell’ultima. Il richiamo alla legge sull’impiego privato all’interno di un simile impianto aveva dunque la precisa funzione di ribadirne la sua natura di comporto di tipo secco, nel senso che la possibilità concessa di ripescare le malattie degli ultimi sei mesi non poteva comunque stravolgere la durata dell’ultima malattia che, per poter procedere al licenziamento (o far scattare l’aspettativa nel nostro settore), non doveva comunque scendere al di sotto dei 3 o 6 mesi secondo l’anzianità sopra ricordata. Non a caso fondamentale era l’espresso riferimento all’”ultimo periodo” cui riferire la garanzia, da intendersi come la malattia in corso. Così, ad esempio, un lavoratore inserito nella fascia più bassa – 5 anni di anzianità con 6 mesi di comporto – ammalato dal 1° gennaio al 31 maggio e riammalatosi dal 1° luglio, con il regime previgente sarebbe stato teoricamente non licenziabile sino al 30 settembre; senza il richiamo della legge la garanzia del posto di lavoro sarebbe terminata il 31 luglio. Per cui, ripetiamo, sparito il riferimento agli ultimi sei mesi, la disposizione risulta inutile. Così come risulta inutilizzabile, ancor più intuitivamente, posta all’interno del sistema del comporto per sommatoria. Questo parte da una valutazione da farsi secondo equità, ossia secondo modalità che prescindono, per definizione, da criteri oggettivi. Anzi, l’equità svolge proprio funzione di supplenza nell’impossibilità di applicare criteri oggettivi. La conclusione che vogliamo mettere in evidenza è che con l’applicazione del conteggio per sommatoria non esiste un periodo predefinito minimo (da riferire all’ultima malattia) al disotto del quale non è possibile far scattare il licenziamento; viceversa, basta anche solo una giornata isolata di malattia per porre teoricamente termine al periodo di comporto. Un’altra particolarità che distanzia il riferimento ai 48 mesi di cui al 2° comma in regime di comporto per sommatoria rispetto ai sei mesi di cui alla norma precedente in regime di comporto fisso, è che mentre questi ultimi partivano dal primo giorno dell’ultima malattia, rimanendo in questo senso un dato fisso, i 48 mesi sono quelli che precedono l’ultimo giorno di assenza, e costituiscono un dato da ricostruire di volta in volta. Ancora una volta ricorriamo ad un esempio. Un lavoratore - cui per semplicità attribuiamo, nel caso della sommatoria, il periodo di comporto minimo di otto mesi – è stato assente per malattia il 9 e il 10 aprile 1997, e poi nel tempo successivo, supponiamo a partire dal maggio ’97, per altri 7 mesi e 26 giorni, comunque distribuiti. La sera dell’8 aprile 2001, che supponiamo effettivamente lavorato, la situazione aggiornata porta ad un totale di comporto già utilizzato di 7 mesi e 28 giorni, con due soli giorni residui; il giorno 9 aprile il lavoratore rimane assente per malattia: i 48 mesi precedenti pongono come data di inizio del computo il 9 aprile 1997, portando la sua situazione a 7 mesi e 29 giorni, con un solo giorno residuo; il giorno successivo il lavoratore è ancora assente per malattia: questa volta la sua situazione rimane ferma a 7 mesi e 29 giorni e questo perché se l’assenza del giorno fa aumentare il contatore di “1”, contestualmente però esce il 9 aprile 1997 (!); stesso ragionamento per l’eventuale assenza per malattia del giorno successivo, il 10 aprile: il contatore resterà ancora fermo a 7 mesi e 29 giorni; solo la malattia proseguita anche il giorno successivo, l’11, rimetterà in moto il contatore, determinando nell’esempio considerato il termine del comportoeffettuare l’intervento.

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