Contract
Il nuovo lavoro a termine
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxx Xxxxxxxxxx
1. L’apposizione del termine al contratto di lavoro
L’art. 1 del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in l. 16 maggio 2014, n. 78, riscrive, in termini di ampia liberalizzazione1, la disciplina di utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato. Fulcro dell’intervento legislativo è il superamento del regime delle causali di giustificazione della apposizione di un termine di durata al contratto di lavoro subordinato che rappresentavano il baricentro del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 3682.
Viene meno, in particolare, la necessità di indicare, ai sensi dell’originario art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, una esigenza di natura tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva per la legittima indicazione di un termine di durata del contratto di lavoro. Conseguentemente viene abrogato anche il successivo comma 1-bis, introdotto dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che consentiva una possibilità di deroga al regime delle causali oggettive nella ipotesi di primo rapporto di lavoro a tempo determinato, di durata non superiore ai dodici mesi, concluso tra un datore di lavoro e un lavoratore.
Resta invece confermata, nell’impianto del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, la previsione di cui all’art. 1, comma 0, introdotta con la novella del 2007, che dispone, in termini precettivi e dunque con possibili ricadute interpretative in caso di contezioso, il principio secondo cui «il contratto di lavoro subordinato
1 Cfr. X. Xxxxxxxx, Totale liberalizzazione del contratto a termine, in LavoroWelfare, 2014, n. 4, che parla di «totale liberalizzazione».
2 Cfr. X. Xxxxx, La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in X. Xxxxx (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Xxxxxxx, 2001, 3-20 e ivi, 87-110, anche X. Xxxxxxxxxx, Apposizione del termine (art. 1, decreto legislativo n. 368/2001).
a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». Detto principio – contemplato nel preambolo (ma non nella parte precettiva) della direttiva europea 1999/70/CE del 28 giugno 1999 che regola la materia – non risulta oggi più presidiato, nella lettera del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, da stringenti limitazioni sostanziali che non siano quelle relative al termine massimo di durata, al numero di proroghe e al regime dei rinnovi. Vero è, tuttavia, che potrebbe pur sempre rappresentare un imprescindibile punto di riferimento ermeneutico nella lettura di taluni punti oscuri della novella3, a partire dal regime sanzionatorio che, come vedremo (infra, § 4.1), solo apparentemente è affrontato e risolto dal legislatore.
L’intervento legislativo è indubbiamente incisivo e profondo anche se adottato sull’onda emergenziale del drastico incremento dei tassi di disoccupazione4 e, forse per questo, privo di una chiara logica di sistema posto che il regime limitativo dei licenziamenti in caso di assunzioni a tempo indeterminato imporrebbe, in termini di coerenza ed effettività, la presenza di vincoli alla assunzione a termine.
Difficile sostenere, ancor più all’esito dei correttivi introdotti dalla legge di conversione, un palese contrasto con le regole di matrice europea5 anche se
3 Resta del resto da vedere se il nuovo impianto normativo sia sufficientemente chiaro e robusto per superare definitivamente la tesi sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria secondo cui il lavoro a tempo determinato rappresenta pur sempre una eccezione alla fattispecie standard del lavoro dipendente stabile, con la inevitabile conseguenza che le ragioni che giustificano l’assunzione a termine, non potendo essere le medesime del contratto a tempo indeterminato, devono comunque rappresentare esigenze temporanee. Cfr., tra le tante, Xxxx. 21 maggio 2008, n. 12985; Cass. 26 luglio 0000, x. 00000; Trib. Bologna 30 novembre 2010,
n. 387; Trib. Teramo 7 ottobre 2010, n. 805; Trib. Monza 9 febbraio 2010, n. 72; Trib. Bari 20 luglio 2010, n. 7423; App. Potenza 17 giugno 2010, n. 445; Trib. Bolzano 20 aprile 2006; Trib. Bologna 7 febbraio 2006, n. 43; Trib. Firenze 11 luglio 2006; Trib. Bologna 2 dicembre 2004. Contra, in dottrina: X. Xxxxxxx, Apposizione del termine, successione di contratti a tempo determinato e nuovi limiti legali: primi problemi applicativi dell’art. 5, commi 4-bis e ter, d. lgs. n. 368/2001, in RIDL, 2008, 3, 289.
4 Cfr. X. Xxxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxxx, Priorità assoluta: creare nuove occasioni di lavoro, in LavoroWelfare, 2014, n. 4, secondo il decreto-legge è «un provvedimento emergenziale, e come tale urgente, […] necessario per stimolare le iniziative imprenditoriali senza le quali non potrebbe esserci sviluppo della occupazione».
5 Così invece X. Xxxxxxxx, op. cit., secondo cui il decreto-legge «introduce una totale fungibilità tra contratto a tempo determinato e rapporto di lavoro stabile, venendo di fatto a contrastare alcuni principi nazionali ed europei, come quello del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (previsto dal d.lgs. 368/2001 e dalla Direttiva 1999/70/CE)». Invero, oltre a talune chiare limitazioni di carattere strettamente normativo, il contratto a termine continua ad essere gravato di un costo
certamente permangono profili di criticità che potrebbero indurre a un intervento chiarificatore della Corte di giustizia europea (infra, § 7). E pur tuttavia, col venir meno della causale di utilizzo del lavoro a termine si rompe quell’equilibrio di sistema su cui ha fatto perno la normativa posta dall’ordinamento giuridico del lavoro in Italia, e cioè la simmetria tra le ragioni oggettive di carattere tecnico, produttivo, organizzativo che giustificano ex ante l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, e le identiche ragioni oggettive che sostengono ex post la liceità di un licenziamento nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In un quadro legale che limitava la possibilità di ricorrere al contratto di lavoro a tempo determinato «soltanto in presenza di ragioni oggettive, facendo peraltro salva sia l’applicazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sia l’operatività di un rigoroso regime di prevenzione degli abusi derivanti dalla utilizzazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a termine, l’unico elemento che […] veramente distingue le due tipologie contrattuali è infatti l’applicabilità o meno delle tutele (soprattutto quelle di tipo reale) stabilite dall’ordinamento in caso di licenziamento ingiustificato»6. Tutele (anche di tipo reale) che ora permangono per i rapporti a tempo indeterminato senza che, per contro, trovi spiegazioni oggettive, nell’ottica della normalità della gestione aziendale del personale, la scelta del datore di lavoro di ricorrere a rapporti a termine che, dunque, non è più verificabile ex post in sede di controllo giudiziale del corretto utilizzo dei poteri datoriali al punto da potere risultare arbitraria e non solo discrezionale. Vero è che l’interventismo del legislatore sul lavoro a tempo determinato, che dal 2001 ha portato alla approvazione di ben quattordici riforme (e controriforme) del perimetro di utilizzo della tipologia contrattuale7, continua a manifestare «il persistente imbarazzo che esiste ancora oggi in Italia nell’affrontare il vero snodo della modernizzazione del diritto del lavoro, che è quello della flessibilità in uscita, ad un tempo causa ed effetto della proliferazione delle forme contrattuali di lavoro atipico e irregolare»8.
contributivo maggiorato rispetto al lavoro a tempo indeterminato (+1,4%) che comunque rappresenta una alterazione del costo opportunità tra l’una e l’altra tipologia contrattuale.
6 Così, all’indomani dell’approvazione del d.lgs. n. 368/2001, X. Xxxxx, op. cit., 19.
7 Per una ricostruzione in chiave critica, della evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina del contratto a termine si veda X. Xxxxx Xxxxxx, X. Xxxxxxxxx, In attesa della nuova riforma: una rilettura del lavoro a termine, ADAPT University Press, 2013, 9.
8 Cfr., ancora, X. Xxxxx, op. cit.
Sul piano della politica del diritto la soluzione coerente da seguire dovrebbe essere, ancora, quella indicata dal Libro bianco sulla modernizzazione del mercato del lavoro dell’ottobre 2001, laddove ai fini della incentivazione della stabilità della occupazione si prospettava una «una riforma “simmetrica” della regolamentazione che si traduce in un duplice e contemporaneo intervento sulla normativa relativa sia al contratto a tempo determinato sia a quello a tempo indeterminato» in modo da «incentivare convenientemente il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato, così da incrementarne l’uso, evitando, nel contempo, che si diffondano forme di flessibilità in entrata per aggirare i vincoli o comunque le tutele predisposte per la flessibilità in uscita». In questo senso sembrano orientarsi ora le intenzioni del Legislatore che, seppur con opzioni discutibili sul piano del metodo e dei contenuti, non ha mancato di sottolineare, nel preambolo del decreto-legge in commento, che la riforma del contratto a termine interviene «[…] nelle more dell’adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente […]».
2. Il superamento del regime delle causali
Con l’entrata in vigore del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in l. 16 maggio 2014, n. 78, risulta ora sempre possibile, anche in assenza di motivazioni di ordine tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, il ricorso al contratto a tempo determinato, per qualunque tipo di mansione, entro il limite di trentasei mesi di durata del contratto, comprensivo di eventuali proroghe fissate in un massimo di cinque nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi9. Fatte salve diverse previsioni della contrattazione collettiva (e l’ipotesi derogatoria di cui al secondo periodo del comma 4-bis dell’art. 5), i trentasei mesi diventano ora il termine massimo di durata dei rapporti a termine proroghe e rinnovi compresi. Si generalizza così, indistintamente, la cosiddetta a-causalità del contratto a termine, introdotta dalla già citata l. 28 giugno 2012, n. 92, successivamente estesa dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, che, da mera eccezione, diventa regola generale.
Unica parziale compensazione alla rimozione dei vincoli giustificativi della apposizione del termine al contratto di lavoro è la previsione di una clausola
9 Art. 4, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.
legale di contingentamento in forza della quale il numero complessivo di contratti a termine attivati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione. Invero, resta salva la previsione di cui all’art. 10, comma 7, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che, nel rimettere alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare diversi limiti quantitativi, rende quantomeno dubbia la tenuta della novella rispetto alle previsioni imposte al nostro Paese dalla richiamata direttiva europea 1999/70/CE (infra,
§ 4).
3. Xxxxxx, proroghe, rinnovi e intervalli
La disciplina introdotta dal decreto-legge in commento rende inequivocabile10 la possibilità di proroga del contratto a termine, senza specificazione delle motivazioni, per non più di cinque volte, con il consenso del prestatore di lavoro. In questo senso si era già espresso il Ministero del lavoro, con nota del 14 marzo 2014, secondo cui rimarrebbe ora, quale unica condizione per le proroghe, «il fatto che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato». In verità, con riferimento al testo originario del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, l’affermazione del Ministero del lavoro risultava alquanto discutibile, stante la persistente vigenza del comma 2 dell’art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che pone in capo al datore di lavoro l’onere di provare le ragioni poste alla base della proroga del contratto termine. Bene dunque ha fatto il Parlamento ad abrogare il citato comma 2, dell’art. 4, che avrebbe indubbiamente alimentato incertezze interpretative e conseguente contenzioso giudiziale.
Nel complesso, quindi, si modifica in modo inequivocabile la pregressa disciplina basata sulla dicotomia, ora abrogata, causalità/a-causalità in virtù della quale la proroga del contratto causale era possibile una sola volta, col consenso del lavoratore, quando il contratto iniziale fosse inferiore a tre anni e solo in presenza di una ragione oggettiva.
10 L’art. 7, comma 1, del d.l. n. 76/2013 aveva provveduto ad abrogare l’art. 4, comma 2-bis, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 che escludeva la possibilità di proroga del contratto a termine a-causale introdotto dalla l. n. 92/2012. Tuttavia, stando a una interpretazione letterale e restrittiva della disposizione, anche per questa specifica tipologia di contratti a tempo determinato la eventuale proroga nel limite, nell’ambito dei dodici mesi di durata massima, doveva essere motivata da ragioni oggettive (ex art. 4, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368).
Solleva invece alcuni dubbi interpretativi l’inciso secondo cui le cinque proroghe sono ora ammesse, nell’arco dei complessivi trentasei mesi,
«indipendentemente dal numero dei rinnovi». Letteralmente, la disposizione dovrebbe essere interpretata nel senso che il numero massimo di proroghe non si riferisce ai singoli (molteplici) contratti a termine che, di rinnovo in rinnovo, possono concorrere al raggiungimento dei 36 mesi, ma al numero di proroghe ammissibili complessivamente, in relazione quindi all’attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato, ovvero alla medesima mansione.
Non contribuisce a rafforzare né a smentire tale interpretazione letterale il contenuto di un ordine del giorno approvato dal Senato, in cui si precisa che
«le nuove regole sulle proroghe non si applicano ai rinnovi». Non è del tutto chiaro, infatti, se la precisazione sia da intendere nel senso che i contratti a termine possono essere rinnovati senza limiti, fermo restando il tetto di 36 mesi, oppure se le 5 proroghe debbano essere calcolate indipendentemente dal numero dei rinnovi effettuati nell’arco dei 36 mesi. Il nodo è controverso e dovrà essere quanto prima sciolto dalla prassi amministrativa. L’interpretazione letterale della disposizione, che pare invero la più coerente con l’impianto normativo, determinerebbe invero un sostanziale peggioramento della situazione per quei settori, come il turismo, interessati da frequenti picchi di attività di durata breve o brevissima. Tipico il caso della montagna, che già nel corso dei primi dodici mesi attiva con il medesimo lavoratore 5 contratti (es. stagione invernale, Pasqua e ponti di primavera, pentecoste, stagione estiva, natale) e potrebbe dunque esaurire tutte le 5 proroghe già al primo anno.
Altro nodo critico riguarda la possibilità di impiegare un lavoratore con contratto di somministrazione, una volta raggiunto il limite massimo di 36 mesi con contratto a tempo determinato diretto. Stando a una interpretazione letterale della disposizione, la soluzione sembrerebbe non praticabile. Nonostante in sede di conversione, all’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 sia stato eliminato il riferimento al concetto di “utilizzatore”, il primo periodo dell’art. in commento, che fissa il tetto dei 36 mesi, continua a coprire i contratti di lavoro subordinato «sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276»11.
11 Va nella opposta direzione interpretativa un ordine del giorno approvato dal Senato che impegna il Governo «a valutare la possibilità di adottare le iniziative necessarie affinché la disposizione di cui all’art. 5, comma 4-bis, secondo periodo, del d.lgs. 6 settembre 2001,
Sempre in materia di durata massima, resta invariata la procedura di cui all’art. 5, comma 4-bis del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 in forza della quale in deroga al limite dei 36 mesi, «un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti può essere stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula avvenga presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato».
Resta altresì invariata la disposizione di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, in forza della quale se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di 36 mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
Il decreto-legge non interviene neppure sulla disciplina della successione dei contratti a termine e neppure sul relativo regime sanzionatorio. La disciplina resta quella dell’art. 5 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, e successive modifiche e integrazioni, ragione per cui qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 6 mesi, ovvero 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai 6 mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Lo stop and go opera ovviamente con riferimento alla successione di contratti a termine relativi alle medesime mansioni, che pure continuano ad essere assoggettati all’art. 5, comma 4-bis, del citato d.lgs. in forza del quale qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
n. 368, si interpreti nel senso che al termine del periodo massimo di durata del contratto a termine pari a trentasei mesi, al cui raggiungimento concorrono anche i periodi di somministrazione a tempo determinato, sia comunque consentito il ricorso al contratto di somministrazione a tempo determinato tra il medesimo utilizzatore e lavoratore». Cfr. ordine del giorno G/1464/18/11.
4. La clausola legale di contingentamento
Come anticipato, il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% da computare non più sull’organico complessivo, come prevedeva la versione originaria del decreto-legge, bensì sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione, come disposto dalla legge di conversione. Detto limite non si applica, oltre che alle ipotesi previste all’art. 10, comma 7 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di ricerca scientifica, ovvero alle imprese che occupano fino a cinque dipendenti, per le quali si ammette sempre la possibilità di stipulare un contratto di lavoro a termine.
La percentuale di contingentamento si riferisce alla sommatoria dei contratti temporanei privi di causale, intesi come lavoratori diretti e non anche somministrati. Nel nuovo art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, il limite del 20% è infatti riferito al «numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo […]». Sebbene non risulti in modo esplicito l’inapplicabilità della clausola di contingentamento legale ai lavoratori in somministrazione, la stessa può essere dedotta dall’inserimento in sede di conversione del decreto del riferimento puntuale ai “contratti a tempo determinato”, in luogo della più generica nozione di “rapporti di lavoro” utilizzata nella formulazione originaria che, accostata all’inciso successivo («ai sensi del presente articolo»), ricomprendeva entrambe le tipologie contrattuali menzionate al primo periodo della disposizione in commento (contratto a tempo determinato e contratto di somministrazione a termine). A conferma di tale interpretazione, un ordine del giorno approvato dal Senato impegna il Governo «a operare in sede di interpretazione e applicazione dell’articolo 1 del decreto-legge nella sua nuova formulazione confermando che i limiti di cui all’articolo 1, comma 1, e all’articolo 5, comma 4-bis, secondo periodo, del decreto legislativo n. 368/2001, così come modificati dal d.l. n. 34/2014, sono esclusivamente riferibili al contratto a tempo determinato e non al lavoro somministrato tramite agenzia»12.
Invero, il legislatore avrebbe potuto meglio precisare il punto in questione non fosse altro perché, solitamente, le percentuali apposte dalla contrattazione collettiva variano in ragione dell’una o dell’altra tipologia contrattuale
12 Ordine del giorno G/1464/4/11.
(termine, somministrazione), nonché in relazione alla sommatoria di entrambe le fattispecie. Ad esempio, il CCNL Terziario fissa il massimale al 20% per i normali contratti a tempo determinato, al 15% per i contratti di somministrazione a termine e al 28% nel caso di utilizzo contemporaneo dei due istituti; il CCNL Bancari prevede il solo tetto del 5% per i rapporti a termine in somministrazione (8% per imprese fino a 1500 dipendenti); mentre il CCNL Edilizia fissa il tetto al 25%, comprensivo dei rapporti a termine diretti e indiretti.
Il vero nodo critico della novella riguarda tuttavia non solo e non tanto il rapporto tra lavoratore e utilizzatore, quanto il rapporto tra agenzia (datore di lavoro formale) e lavoratore. Da una interpretazione letterale e anche sistematica del nuovo art. 1, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, in
combinato disposto con l’art. 22 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, sembrerebbe che anche le agenzie per il lavoro siano soggette, rispetto ai lavoratori interinali assunti per missioni a termine, al limite del 20%. Ciò in ragione del fatto che l’art. 22, comma 2, della legge Xxxxx dispone in modo imperativo, in caso di somministrazione a tempo determinato, che il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore sia soggetto al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, per quanto compatibile, fatta eccezione per il solo art. 5, comma 3 e seguenti del 368 in materia di rinnovi e durate massime.
La norma dell’art. 1 del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in l. 16 maggio 2014, n. 78, non prevede dunque profili di chiara inapplicabilità, in termini di incompatibilità, con la figura del datore di lavoro somministratore. Né si può ritenere che sia incompatibile la circostanza che il limite del 20% sarebbe ordinariamente superato, posto che le agenzie per il lavoro non sono obbligate ad assumere a termine per le somministrazioni a tempo determinato.
Questa lettura del disposto normativo, che al momento sembra alquanto difficile da smentire sul piano esegetico oltre che letterale13, potrebbe incidere non poco sulla operatività delle agenzie per il lavoro in Italia a cui pare affidata, in termini di attuazione dei principi europei di flexicurity, la tutela del lavoratore temporaneo a fronte di una totale liberalizzazione della possibilità per le agenzie di attivare contratti commerciali di somministrazione a favore di utilizzatori. Questa interpretazione, che compenserebbe l’ampia e generalizzata liberalizzazione della somministrazione di lavoro, consente del resto di giustificare sul piano sistematico l’esenzione delle imprese utilizzatrici
13 Una possibile alternativa interpretativa che fa perno sui contenuti peraltro incerti del citato ordine del giorno G/1464/4/11 è stata suggerita, assieme a tutti i limiti del caso, da X. Xxxxxxxx,
X. Xxxxxxxxxx, La somministrazione di lavoro dopo il decreto Poletti: una prospettiva di Flexicurity?, in questo volume.
dal tetto legale del 20%, ora previsto per le assunzioni dirette a termine, e pare altresì sostenuta dal già richiamato principio di cui all’art. 1, comma 01, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che, come detto, conferma nel lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune di lavoro.
La conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, avrebbe potuto rappresentare altresì l’occasione per una più puntuale individuazione delle tipologie contrattuali (es. tutti i rapporti a tempo indeterminato?) e delle casistiche da includere nel computo (es. anche lavoratori a tempo indeterminato distaccati o in aspettativa?), nonché della specifica articolazione aziendale da considerare (es. sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto dell’impresa, punto vendita oppure l’intera vastità aziendale?). Peraltro, ora che la norma è chiara nell’escludere i rapporti di lavoro a termine e altre tipologie contrattuali dal calcolo del 20%, si pone un problema di raccordo con i contratti collettivi, soprattutto di rilevanza aziendale, che, in alcuni casi, considerano nella forza lavoro complessiva anche gli stessi lavoratori assunti con contratto di somministrazione o a tempo determinato, che prendono in considerazione il totale dei dipendenti, escludendo tuttavia alcune specifiche ipotesi, o ancora che calcolano il massimale percentuale su una media variabile. Ad esempio, il contratto aziendale della Banchi Vending Group (2011) prevede la possibilità di utilizzo dei lavoratori atipici entro una percentuale dell’organico complessivo, inclusi gli stessi somministrati e gli stessi contratti a termine, pari al 12%; l’integrativo della Exide (2012) fissa al 12,5% il limite superiore medio annuale di lavoratori con contratto diverso da “indeterminato” sul totale dei dipendenti, escluse le sostituzioni per maternità, i congedi straordinari ex l.
n. 104/1992 e tutti le tipologie di aspettativa; l’aziendale della Lucchini (2010) prevede invece che il tetto del 15% della forza lavoro a tempo indeterminato, debba essere calcolato come media nel triennio, mentre l’accordo della Lanfranchi (2012) calcola il limite del 20% su base trimestrale.
Oltre a riconoscere alla contrattazione collettiva di rilevanza nazionale la possibilità di confermare o modificare, in aumento o in diminuzione, il limite del 20%, l’art. 10, comma 7, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, cui il decreto- legge in commento rinvia, dispone che restano in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi: a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici; b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni; c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con
lavoratori di età superiore a 55 anni. A questa elencazione, come si è detto, devono ora aggiungersi le due ulteriori ipotesi relative alle imprese fino a 5 dipendenti e ai rapporti di lavoro istaurati con istituti di ricerca. Nel merito, l’art. 10, comma 5-bis dispone che «Il limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, non si applica ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa. I contratti di lavoro a tempo determinato che abbiano ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere durata pari a quella del progetto di ricerca al quale si riferiscono».
Non pochi dubbi interpretativi desta la nuova disposizione introdotta in coda al comma 1, art. 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 in forza della quale per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato. Non è del tutto chiaro, innanzitutto, se il regime di eccezionalità entro cui vengono ricondotte le micro imprese si riferisca ad alcuni ovvero a tutti i limiti posti dalla nuova disciplina del contratto a termine. La prossimità della disposizione a quella relativa al tetto del 20% dell’organico complessivo induce senz’altro a leggere la previsione in stretta connessione a detto limite, anche considerato che questa interpretazione sarebbe peraltro l’unica conforme al diritto dell’Unione europea. Tuttavia, una lettura complessiva del comma 1, art. 1, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, a partire dall’incipit («È consentita l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato»), potrebbe anche aprire ad una interpretazione della disposizione tale da riferire il regime eccezionale cui vengono ricondotte le imprese che occupano fino a cinque dipendenti («Per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato») all’intero impianto del nuovo comma 1.
4.1. Regime sanzionatorio connesso alla violazione della clausola di contingentamento
Quanto al superamento della clausola legale di contingentamento di cui all’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, la legge di conversione del
d.l. 20 marzo 2014, n. 34, dispone, per ciascun lavoratore, l’applicazione di una sanzione amministrativa pari: a) al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale
non sia superiore a uno; b) al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore a uno. Gli introiti derivanti da tale sanzione andranno ad alimentare il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione.
L’intervento del legislatore solleva un dubbio interpretativo di non poca rilevanza in ordine al rapporto tra sanzione amministrativa e regime sanzionatorio di derivazione giurisprudenziale. In altre parole, non è chiaro se la sanzione amministrativa operi alternativamente alle forme di tutela reale del rapporto previste con riferimento alle violazioni delle regole sulla successione dei contratti14, ovvero se diversamente i due regimi debbano considerarsi complementari. Come indica il dibattito parlamentale l’intenzione del Legislatore sarebbe stata quella di prevedere la sanzioni amministrativa in alternativa alla previgente ipotesi sanzionatoria della conversione del contratto a tempo indeterminato che resta invece confermata per le atre ipotesi di non compliance con il testo di legge. Tuttavia, proprio il fatto che il Legislatore non si sia espresso puntualmente sulle conseguenze civilistiche della violazione, ma solo su quelle amministrative, induce a ritenere che, nel caso di mancato rispetto del limite percentuale (tanto il 20% di matrice legale che il diverso limite eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva), il lavoratore potrà comunque continuare a richiedere, come da orientamento giurisprudenziale sino ad oggi prevalente, la conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato. Xxxxxxxx questa interpretazione non solo il già richiamato principio ermeneutico del comma 0, dell’art. 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, ma anche la circostanza che il legislatore si riferisca esclusivamente alle conseguenze amministrative per il superamento della clausola di contingentamento legale di cui al nuovo comma 1 dell’art. 1, nulla disponendo in relazione al superamento delle differenti clausole di contingentamento disposte dalla contrattazione collettiva che, in caso di interpretazione innovativa rispetto al passato, risulterebbero prive di qualsivoglia regime sanzionatorio che non fosse il semplice inadempimento contrattuale.
Controversa è pure la questione riguardante le sorti dei contratti a termine oggetto della violazione della clausola legale di contingentamento. In assenza di specifiche previsioni al riguardo, lo sforamento del tetto del 20% dovrebbe implicare l’invalidità del contratto a termine e, conseguentemente, la cessazione del rapporto di lavoro associata alla sanzione amministrativa.
14 Art. 5, d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.
Parere contrastante è stato invece espresso in un ordine del giorno adottato dal Senato che impegna il Governo «ad adottare atti interpretativi utili a chiarire che in ogni caso i contratti a termine oggetto della violazione della percentuale consentita sono validi e proseguono fino alla scadenza inizialmente stabilita dalle parti»15.
Quanto alla decorrenza della sanzione amministrativa, il testo di legge prevede l’applicazione della stessa solo per i rapporti che comportino il superamento del limite del 20% instaurati dal 21 marzo 2014, ovvero dalla data di entrata in vigore del d.l. n. 34/2014.
4.2. Regime sanzionatorio e somministrazione
Con riferimento alla sanzione amministrativa si apre peraltro il tema dell’applicabilità o meno dello stesso regime alle ipotesi di sforamento delle percentuali previste dai contratti collettivi per i rapporti di lavoro in somministrazione, non soggetti alla clausola di contingentamento legale, in aggiunta alla facoltà per il lavoratore di ricorrere per ottenere la conversione del rapporto in capo all’utilizzatore ai sensi del combinato disposto art. 20, comma 4, e art. 27, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 27616. Da un lato, si potrebbe immaginare che in sede giudiziale possa esser data una interpretazione sistematica del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, alla luce del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, con conseguente riconoscimento della sanzione amministrativa anche in caso di violazione della clausola di contingentamento dei rapporti a termine in somministrazione. Ciò in ragione del fatto che il comma 4 dell’art. 20 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, nello stabilire le condizioni di liceità del contratto di somministrazione, ha previsto, tra l’altro, «l’individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato» che «è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368». Tale prospettiva è tuttavia da escludere in quanto la fattispecie risulta già espressamente sanzionata dall’art. 18, comma 3, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che prevede una sanzione pecuniaria da 250 a
1.250 euro. Considerato che nel sistema sanzionatorio amministrativo vige il principio del ne bis in idem, in caso di sforamento rispetto ai limiti di contingentamento contrattuali collettivi, dovrebbe scattare la sola sanzione del
15 Ordine del giorno G/1464/22/11 al ddl n. 1464.
16 Sul punto, si veda, da ultimo, Xxxx. 28 novembre 2013, n. 26654.
d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e non anche quella introdotta dal decreto- legge in commento.
Il principale nodo interpretativo riguarda, ancora, il rapporto a termine tra agenzia di somministrazione e lavoratore: accertato che la clausola di contingentamento legale di cui all’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001
n. 368, si applica anche a tale fattispecie (infra, § 4), ci si chiede se in caso di violazione del limite del 20% da parte delle agenzie di somministrazione, le stesse siano soggette alla sanzione amministrativa introdotta in sede di conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 34. Una risposta parrebbe venire da una attenta lettura dell’art. 22, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che, nel ricondurre la disciplina del rapporto di lavoro intercorrente tra somministratore e lavoratore all’interno del perimetro normativo sul lavoro a tempo determinato, fa salve le disposizioni di cui all’art. 5, comma 3 e seguenti d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, tra le quali figura anche la sanzione amministrativa introdotta dal decreto-legge in commento (art. 5, comma 4- septies, del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368). Sebbene da tale ricostruzione possa dedursi la non applicabilità della sanzione amministrativa al caso di specie, non può escludersi a priori una interpretazione difforme da parte della magistratura che consideri implicitamente abrogata ad opera del d.l. n. 34 l’esclusione prevista dall’art. 22, comma 2, della legge Biagi. Se si sostiene che la clausola di contingentamento legale si applica ai rapporti a termine tra agenzie e lavoratori, potrebbe essere nondimeno coerente agli occhi della magistratura sostenere l’applicazione della sanzione amministrativa alle ipotesi di violazione del limite percentuale da parte delle agenzie.
5. Altre previsioni
Il d.l. 20 marzo 2014, n. 34 incide, necessariamente, anche sui requisiti di forma del contratto, essendo venuto meno il principio per cui nel contratto a termine debbano essere specificate per iscritto, pena la nullità del termine, anche le ragioni che ne hanno determinato l’utilizzo. Ora si prevede che l’apposizione del termine sia priva di effetto se non risulti, direttamente o indirettamente, da atto scritto, con la conseguenza che si elimina così una previsione normativa che ha a lungo alimentato il contenzioso in materia e orientato in chiave fortemente restrittiva la lettura giurisprudenziale
dell’istituto17. Ad ogni modo l’apposizione del termine, come già previsto nella precedente disciplina e riconosciuto dalla giurisprudenza, non necessariamente deve discendere da un fatto di natura negoziale espresso, ma può essere rilevata anche, in via induttiva, dall’esame delle clausole contrattuali18.
Si segnala infine la previsione in forza della quale per le lavoratrici, il congedo di maternità intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza. Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.
6. Contratti in essere e transizione dal vecchio al nuovo regime
Il legislatore è intervenuto opportunamente nella regolazione del regime transitorio di applicazione del nuovo impianto legislativo, non contemplato nella versione del d.l. n. 34 licenziata dall’esecutivo, seppur con una soluzione discutibile sul piano degli effetti pratici. Si prevedere ora che le disposizioni di cui agli artt. 1 e 2 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, risolvendo il problema del se i rapporti acausali in essere, stipulati ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 potessero essere prorogati entro il limite massimo di trentasei mesi, in virtù della nuova regolamentazione, oppure se dovessero continuare a sottostare al precedente massimale annuo. In assenza di una previsione specifica, la risposta pareva essere positiva, in ragione del principio tempus regit actum, di modo che le proroghe di contratti acausali in essere, inizialmente attivati ai sensi della previgente disciplina, potessero essere disciplinati dal nuovo regime delle proroghe. Lo stesso ragionamento sarebbe dovuto valere, a ben vedere, anche per la proroga dei contratti a termine in essere sottoscritti prima della entrata in vigore della nuova disciplina in funzione di una ragione tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva. La opzione difforme intrapresa dal Legislatore, che limita l’applicazione del
17 Cfr. Cass. 21 maggio 2008, n. 12985, cui xxxx Xxxx. 26 luglio 2004, n. 14011, e ancora per
la giurisprudenza di merito Trib. Bari 20 luglio 2010, n. 7423; Trib. Bolzano 20 aprile 2006;
Trib. Bologna 7 febbraio 2006, n. 43; Trib. Firenze 11 luglio 2006.
18 Sul tema si veda Xxxx. 21 maggio 2008, n. 12985.
nuovo impianto normativo ai soli rapporti istaurati dal momento dell’entrata in vigore della novella, oltre a non porsi in sintonia con l’intento di semplificazione dei contratti a termine, potrebbe finire per penalizzare lo stesso lavoratore assunto con le vecchie regole che vede ora ridursi la possibilità di prosecuzione del rapporto o che, comunque, resta soggetto alle regole dello stop and go, per poter poi continuare l’attività lavorativa con un nuovo rapporto a termine attraverso il regime dei rinnovi.
Altre due disposizioni disciplinano il regime transitorio di applicazione del tetto del 20%. In sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’art. 1, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro. Residuano da questa previsione due ordini di problemi, il primo legato all’individuazione puntuale della fonte contrattuale, il secondo riguardante la nozione di “prima applicazione”. Quanto al primo aspetto, l’elemento di complicazione è dato dal fatto che in alcuni settori, i limiti percentuali alla stipula di rapporti di lavoro a termine sono stati apposti dalla contrattazione collettiva di rilevanza aziendale, talvolta per supplire al mancato intervento da parte del CCNL, come nell’industria metalmeccanica, talaltra modificando in diminuzione o in aumento la percentuale prevista dal CCNL19. Ci si chiede, quindi, se anche queste ipotesi debbano essere ricomprese nella riserva di cui al regime transitorio introdotto dal d.l. n. 34, oppure se con la puntuale individuazione del livello della fonte negoziale il legislatore abbia intenzionalmente voluto escludere il contributo della contrattazione aziendale. La seconda criticità attiene invece alla efficacia temporale del regime transitorio. Non è chiaro, infatti, se i tetti individuati dalla contrattazione collettiva sopravvivano solo in sede di prima applicazione del nuovo regime, e cioè soltanto al momento della stipula del primo nuovo contratto a termine successivo all’entrata in vigore del decreto, ovvero fino al 31 dicembre 2014, oppure se gli stessi mantengano la loro efficacia fino a che il contratto collettivo sia giunto a naturale scadenza.
Contribuisce solo parzialmente a dirimere i nodi fin qui evidenziati la successiva previsione in forza della quale il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data,
19 Per l’analisi di questo aspetto si rinvia al contributo che segue a cura di X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, Il nuovo lavoro a termine alla prova dei contratti collettivi, in questo volume.
non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel tetto del 20%. In questo passaggio, il legislatore utilizza il concetto di contratto collettivo applicabile nell’azienda, cui, secondo le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza sull’art. 19 della l. n. 30/1970, sono normalmente ascritti anche i contratti aziendali. Una lettura sistematica del testo di legge consente di poter dare una interpretazione estensiva al richiamo della nozione di “contratti collettivi nazionali di lavoro”, includendovi quindi anche i contratti aziendali che, di fatto, a prescindere dalla esistenza o meno di una delega da parte del CCNL di riferimento o del ricorso all’art. 8, d.l. n. 138/2011, convertito in l. n. 148/2011, sono intervenuti sull’istituto20. Complica invece non poco il quadro, il riferimento al concetto di limite percentuale o termine “più favorevole”, avendo il legislatore mancato di individuare l’indicatore rispetto al quale parametratale il principio del favor. È appena il caso di porre in evidenza, infatti, che nella regolazione del mercato del lavoro, diritti e tutele da un lato, e vincoli all’occupabilità dall’altro, sono sempre due facce della stessa medaglia. In altre parole, se la previsione da parte di un contratto collettivo di un tetto superiore al 20% può essere meno funzionale rispetto all’obiettivo di calmierare l’utilizzo del lavoro termine, dall’altro potrebbe aumentare, in astratto, le chance occupazionali della forza lavoro inoccupata.
7. Il lavoro a termine riformato alla prova del diritto UE
Restano infine sullo sfondo i dubbi legati alla compatibilità della nuova disciplina della tipologia contrattuale con il diritto dell’Unione europea. Rimosso l’obbligo di motivazione delle ragioni obiettive alla base della apposizione del termine al contratto, infatti, la nuova disciplina del lavoro a termine pone dubbi di incompatibilità rispetto ai contenuti dell’accordo quadro europeo trasposto nella Direttiva 1999/70/CE. Vale allora la pena rileggere, seppur brevemente, l’attuale impianto normativo sul contratto a termine alla luce dei requisiti previsti dalla clausola 5 della direttiva per cui gli Stati membri sono chiamati ad introdurre una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti o dei rapporti a termine; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
20 Sul punto, si rimanda ancora a X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, op. cit., in particolare, vedi il § 2.1.
Pur ponendosi in una prospettiva di rispetto formale della disciplina comunitaria in materia, per la quale il contratto a termine comunque resta sempre una eccezione, il legislatore sembra di fatto “tradirla” con la modifica della precedente disciplina secondo cui l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato era consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.
La piena liberalizzazione del ricorso al lavoro termine ha fatto venir meno la compatibilità della normativa interna rispetto alla lettera a) dell’accordo quadro europeo in quanto si è scardinato un assestamento della disciplina in virtù della quale la legittimità della apposizione del termine era valida peraltro non soltanto in presenza di una attività definita, ex ante, “temporanea”, o “eccezionale”, o “straordinaria”, o “imprevedibile”, ma anche sulla base dei criteri di normalità tecnico-organizzativa (o per le ipotesi sostitutive), sulla base di criteri di ragionevolezza che scaturivano dalla combinazione tra la durata delle attività e le esigenze di carattere non permanente, ciò anche grazie al contributo della giurisprudenza21.
Anche dopo le novità introdotte, dalla legge Fornero prima e dal pacchetto Letta poi, il riferimento specifico alle esigenze ordinarie sembrava consentire di estendere il contratto a termine causale anche ad ipotesi per le quali, in passato, c’era qualche dubbio: ciò che contava, in ogni caso, era che il principio di ragionevolezza fosse sempre rispettato. Anche in ossequio alle prescrizioni della direttiva 99/70/CE. Questo implicava la necessità di indicare le ragioni individuando, sulla base dei principi generali di correttezza e di lealtà che sovrintendono ogni rapporto di natura contrattuale, le esigenze specifiche che il datore di lavoro dovesse soddisfare attraverso il ricorso al lavoro a termine, anche con riferimento alle mansioni affidate. Le ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo, andavano dunque verificate ex ante e dovevano rispondere a requisiti di oggettività, rispetto ai quali era sempre del datore di lavoro il necessario apprezzamento.
Il d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, non soddisfa neppure requisito previsto dalla lettera c) dell’accordo quadro europeo trasposto nella direttiva 77/99/CE, posto che nulla prevede in ordine al numero dei rinnovi possibili del contratto a termine, ma fissa soltanto il limite massimo alla possibilità di proroga, nozione non certo assimilabile a quella di rinnovo: mentre la proroga del contratto consiste nel prolungamento dello stesso, ovvero del rinvio del
21 Si vedano sul punto Cass. 18 novembre 2009, n. 24330; Cass. 24 maggio 2011, n. 11358; Cass. 16 febbraio 2010, n. 3598.
termine stabilito inizialmente, il rinnovo si verifica quando, venuto a scadenza il primo contratto, se ne sottoscrive un altro.
La compatibilità della legislazione nazionale con la normativa europea dovrebbe invece essere garantita, rispetto al requisito di cui alla lettera b), dalla previsione del limite massimo del contratto a termine stabilito in 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi, fissato dal nuovo art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 e dall’art. 5, comma 4-bis, dello stesso decreto legislativo. Proprio quest’ultima disposizione, tuttavia, potrebbe esporre il nuovo impianto normativo al giudizio di illegittimità da parte della Corte di giustizia europea là dove apre a possibili interventi della contrattazione collettiva volti a modificare o finanche a rimuovere il massimale di trentasei mesi. Nel disciplinare la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di supero dei trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, infatti, la norma di legge fa salve «diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». L’inciso sulla contrattazione può aprire a diverse soluzioni, alcune compatibili con la direttiva altre meno. Per esempio, la contrattazione potrebbe prevedere una durata iniziale del primo contratto superiore a trentasei mesi, oppure la sommatoria dei periodi di lavoro a termine con periodi di collaborazioni coordinate e continuative o in somministrazione. D’altro canto, invece, l’apertura alla contrattazione collettiva potrebbe dar luogo non solo all’innalzamento o all’abbassamento del massimale, quanto alla totale rimozione dello stesso. Nonostante tale ultima prospettiva sia altamente irrealistica, considerando il costo opportunità che implicherebbe sul piano della dinamica negoziale, è sufficiente che la rimozione del vincolo sia anche solo potenziale per mettere in discussione la compatibilità del nuovo equilibrio normativo rispetto al diritto della Unione europea.
SCHEDA RIEPILOGATIVA
Articolo 1
Semplificazione delle disposizioni in materia di lavoro a termine
Apposizione del termine
• Si elimina dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 l’obbligo legale di motivazione della apposizione di un termine di durata al contratto di lavoro subordinato.
Durata massima e proroghe
• Risulta ora sempre possibile, anche in assenza delle motivazioni di ordine tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, il ricorso al contratto a tempo determinato, per qualunque tipo di mansione, entro il limite di trentasei mesi di durata del contratto, comprensivo di eventuali proroghe fissate in un massimo di cinque nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi.
Clausola legale di contingentamento
• Previsione di una clausola legale di contingentamento in forza della quale il numero complessivo di contratti a termine attivati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.
• Detto limite non si applica, oltre che alle ipotesi previste all’art. 10, comma 7, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di ricerca scientifica (comprese le attività di assistenza tecnica, coordinamento e direzione a supporto della ricerca), ovvero alle imprese che occupano fino a cinque dipendenti, per le quali si ammette sempre la possibilità di stipulare un contratto di lavoro a termine.
Sanzione
• In caso di violazione del limite del 20%, per ciascun lavoratore si applica una sanzione amministrativa con importi variabili in funzione del numero di lavoratori in supero e della durata del rapporto di lavoro.
Forma scritta
• L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto.
Congedo di maternità
• Per le lavoratrici, il congedo di maternità intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza. Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.
Articolo 2-bis Disposizioni transitorie
Regime transitorio
• Le nuove disposizioni sul lavoro a termine si applicano ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Limiti percentuali
• In sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’art. 1, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro.
• Il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel tetto del 20%.