PROCEDIMENTO DI LICENZIAMENTO E DINIEGO DI CONSULTAZIONE DEI DOCUMENTI ALLA BASE DELLA CONTESTAZIONE
PROCEDIMENTO DI LICENZIAMENTO E DINIEGO DI CONSULTAZIONE DEI DOCUMENTI ALLA BASE DELLA CONTESTAZIONE
Nota a Corte di Cassazione, Sezione Lavoro sentenza 27 marzo 2018, n. 7581. In tema di procedimento disciplinare, il datore di lavoro, pur non essendovi obbligato dall’ art. 7 st. lav. , è tenuto a offrire in consultazione al lavoratore i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di consentirgli un’adeguata difesa.
di Xxxxxx Xxxxxxxx
IUS/07 - DIRITTO DEL LAVORO
Articolo divulgativo - ISSN 2421-7123
Direttore responsabile
Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
Pubblicato, Venerdì 3 Aprile 2020
Sommario: 1. Il caso; 2. Il diritto di difesa del lavoratore; 3. La decisione; 4. Osservazioni conclusive
Abstract (italiano): In tema di procedimento disciplinare, il datore di lavoro, pur non essendovi obbligato dall’ art. 7 st. lav. , è tenuto a offrire in consultazione al lavoratore incolpato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di consentirgli un’adeguata difesa, in base ai princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, indipendentemente dalla comprensibilità dell’addebito.
Abstract (english): Regarding disciplinary proceedings, the employer, although not obliged to do so by art. 7 of Law 300/1970, is required to offer the company documents in consultation to the blamed worker where the examination of the same is necessary in order to allow him an adequate defense, based on the principles of correctness and good faith in the execution of the contract regardless of how understandable the charge is.
1. Il caso
La sentenza in commento interviene su un caso che coinvolge un macchinista, dipendente di Trenitalia S.p.a., licenziato per aver svolto – nella sua qualità di praticante avvocato – attività di udienza durante alcune giornate in cui risultava regolarmente presente in servizio oppure assente per malattia.
La sentenza di primo grado del Tribunale di Sulmona, confermata dalla Corte d’appello dell’Aquila, pronunciava l’illegittimità del licenziamento disciplinare, ritenuto viziato per violazione del procedimento ex art. 7 st. lav., dal momento che non era stata fornita al dipendente – che ne aveva fatto richiesta – la documentazione sulla cui base il datore di lavoro si era determinato a contestare l’addebito e irrogare la sanzione espulsiva.
La Corte aveva ritenuto, infatti, che “Nella fattispecie di causa la messa a disposizione dei documenti era necessaria all'esercizio del diritto di difesa: i fatti contestati erano risalenti nel tempo e relativi a condotte episodiche sicchè era verosimile che il lavoratore non ricordasse i singoli fatti (orari di lavoro e giornate di assenza) e fosse per lui necessario visionare quanto meno il prospetto elaborato dal sistema automatico di rilevazione delle presenze”.
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Il datore di lavoro ricorreva per Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 st. lav. e degli artt. 1175 e 1375 c.c. Questi sosteneva che le richieste del lavoratore di prendere visione dei documenti a sostegno della contestazione sarebbero
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state affette da genericità e, comunque, riferite agli accertamenti ed alle indagini svolte sulla presenza in udienza del dipendente per lo svolgimento della pratica forense in giorni ed orari destinati al servizio, piuttosto che ai dati relativi alla presenza sul lavoro. Aggiungeva che, in applicazione dei canoni di correttezza e buona fede, vi fosse comunque l'onere del lavoratore di specificare i documenti di cui richiedeva l'esame e che la documentazione rilevante fosse sicuramente in possesso del lavoratore (verbali di udienza, libretto di partica forense) o a lui accessibile (dati del sistema informatico delle presenze). Lamentava, inoltre, l’illogicità della motivazione, per avere considerato come necessari ad assicurare al lavoratore l'esercizio del diritto di difesa documenti rilevanti unicamente sotto il profilo probatorio.
2. Il diritto di difesa del lavoratore.
Prima di affrontare la questione giuridica sottesa al caso in esame, ossia la possibilità per il dipendente di accedere alla documentazione posta a fondamento della sanzione disciplinare, e, quindi interrogarsi sull’esistenza di un presunto diritto di accesso a tali documenti, è opportuno rammentare come l’intera disciplina del procedimento disciplinare garantisca il diritto di difesa del lavoratore.
Innanzitutto, l’art. 7 della L. 300 del 1970 garantisce la conoscibilità delle norme disciplinari relative alle sanzioni ed alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata nonchè alle procedure di contestazione delle stesse, mediante affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori.
Il datore di lavoro, inoltre, non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa; il lavoratore ha diritto a farsi assistere da un rappresentante delle associazioni sindacali. I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
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Orbene, tale disposizione prevede l'obbligo, per il datore di lavoro che intenda adottare un provvedimento disciplinare, di contestare l'addebito al lavoratore. La contestazione deve essere specifica, deve esporre i fatti in modo chiaro per consentire al lavoratore di individuare il comportamento contestato e difendersi. Inoltre la contestazione deve essere tempestiva rispetto all'accertamento della condotta sanzionabile, e non può essere modificata nei tratti essenziali in un momento successivo, cioè deve essere immutabile. La contestazione infine deve essere fatta per iscritto nei casi in cui il comportamento contestato porti all'applicazione di una sanzione più grave del rimprovero verbale.
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Il requisito della specificità della contestazione disciplinare è finalizzato unicamente a consentire al lavoratore di comprendere gli addebiti mossigli e, quindi, di difendersi in modo completo. Per tale ragione, la genericità della contestazione non può mai essere invocata nei casi in cui il dipendente sia stato messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa[1].
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “Nell’apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro contesto e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa”[2].
Il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito mosso al lavoratore licenziato e quello della tempestività del recesso datoriale, la cui ratio riflette l'esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell'organizzazione del datore di lavoro, per un'adeguata valutazione della gravità dell'addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite; l'accertamento al riguardo compiuto dal giudice di merito è insindacabile in Cassazione, se congruamente motivato[3]
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La giurisprudenza, inoltre, ha chiarito come il ritardo nella contestazione disciplinare possa costituire un vizio del procedimento solo ove determini un ostacolo alla difesa del lavoratore. Infatti, è auspicabile che il datore di lavoro compia una ponderata valutazione dei fatti prima di procedere alla contestazione, anche al fine di evitare accuse avventante o non supportate da una sufficiente certezza in ordine agli addebiti.
Ancora in relazione al diritto di difesa del lavoratore, si evidenzia come la L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, modificata dalla L. n. 92 del 2012, art. 37, comma 1, preveda che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.
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Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, il datore di datore deve assolvere l’obbligo di porre il lavoratore a conoscenza dell’addebito quale motivo fondante il recesso ed anzi l’anticipazione dell’esplicitazione dei motivi posti a fondamento del licenziamento nella lettera di contestazione è stata dettata proprio in funzione di tutela del diritto del lavoratore di portare elementi a propria discolpa. Sicchè è oggi sufficiente che
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nella lettera di licenziamento siano richiamati gli addebiti formulati nella contestazione disciplinare, senza necessità di descriverli nuovamente, per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non possano ritenersi abbandonati o superati[4].
Per quanto riguarda il contenuto della comunicazione relativa all’adozione della sanzione, la Cassazione ha, pertanto, affermato che sia sufficiente anche un generico richiamo a quanto già contestato nelle precedenti comunicazioni in quanto l'elemento di garanzia a favore del lavoratore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato.
La Suprema Corte, inoltre, ha ritenuto non lesiva del diritto di difesa, la contestazione formulata per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale, del quale il lavoratore sia già stato portato a conoscenza, posto che il rinvio è idoneo a garantire il rispetto del contraddittorio e del principio di correttezza[5].
Alla luce di quanto esposto, è evidente come la ratio della normativa sia diretta in maniera specifica a tutelare il diritto di difesa del lavoratore cosicchè questo possa tutelare le proprie ragioni dinnanzi al datore di lavoro, in sede di audizione, e soprattutto in sede giudiziale.
Tale diritto, dunque, deve essere tutelato anche a fronte di quelle situazioni in cui è necessario accedere alla documentazione su cui si basa la contestazione e, di conseguenza, la sanzione disciplinare irrogata.
Il datore di lavoro, pertanto, pur in assenza di un espresso obbligo di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore la documentazione su cui essa si basa, è tenuto ad offrire in consultazione all'incolpato che ne faccia richiesta, i documenti aziendali, laddove l'esame degli stessi sia necessario al fine di permettere al lavoratore un'adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto[6].
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La Suprema Corte, anche con un’altra decisione (tuttavia non citata dalla sentenza in commento) si è posta nel solco di questo orientamento per il quale il datore di lavoro è tenuto « ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa » , conseguentemente in tale ipotesi il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo avrà l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata
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necessaria alla difesa[7].
In virtù del suddetto principio giurisprudenziale, la Cassazione ha di conseguenza stabilito che la consultazione dei documenti interni all'azienda può essere rifiutata se non lede il diritto di difesa del dipendente. Ciò perché nessuna norma dello Statuto dei lavoratori (l'art. 7 in particolare) o altra disposizione lavoristica prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore - nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare - l'accesso alle "carte" interne della società. Si tratta in sostanza di una richiesta che poggia sui principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ex artt. 1175 e 1375 c.c. ed il lavoratore può solo chiedere quei documenti aziendali il cui esame sia strettamente necessario per comprendere le ragioni del provvedimento e per improntare un'adeguata difesa. Si chiarisce, inoltre, che resta ferma la possibilità, per il lavoratore, di ottenere, nel corso del processo di impugnazione del licenziamento, un ordine del giudice di esibizione di tutta la documentazione necessaria a valutare la fondatezza delle contestazioni mossegli.
Si evidenzia, dunque, come la contestazione dell’addebito abbia proprio lo scopo di fornire al lavoratore la possibilità di difendersi e, pertanto, a fronte di una contestazione specifica, ossia quando sia possibile individuare nella sua materialità il fatto nel quale il datore di lavoro abbia ravvisato la sussistenza di infrazioni disciplinari, il diritto di difesa del lavoratore deve ritenersi pienamente soddisfatto, e dunque non dovuta l’esibizione della documentazione disciplinare datoriale.
In sostanza, la giurisprudenza individua il discrimen tra il diritto di accesso ai documenti nella sede disciplinare, che chiarisce non essere tutelato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 7, ed il diritto di difesa, la cui tutela, garantita dal suddetto articolo 7, può rendere necessario l'accesso del dipendente agli atti della procedura disciplinare[8].
3. La decisione
La S.C. non accoglie le prospettazioni avanzate da Trenitalia S.p.a. - che limitano il diritto del lavoratore ai soli casi in cui la contestazione faccia riferimento ad atti esterni o, comunque, non sia altrimenti comprensibile - respinge il ricorso e, richiamando la propria giurisprudenza, ribadisce i principi di diritto sopra affermati.
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Ed invero, la sentenza chiarisce come non sia in questione l’intelligibilità dell'addebito, che costituirebbe ex se un vizio del procedimento disciplinare, ma piuttosto l’ulteriore esigenza di garantire al lavoratore una difesa effettiva ed adeguata e non meramente formale.
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Nella sentenza in commento, dunque, si ribadisce l’orientamento già espresso secondo cui, per quanto l’art. 7 st. lav. non preveda espressamente un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del sanzionando i documenti posti a fondamento della contestazione, il lavoratore vanta comunque il diritto a ottenere tale documentazione, ove ne avanzi richiesta, «laddove, l’esame degli stessi sia necessario al fine di permetter[gli] un’adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto».
La S.C. precisa che non è meritevole di tutela un generalizzato diritto di accesso ai documenti posti a fondamento delle contestazioni disciplinari, visto che l’art. 7 st. lav. non lo contempla, ma che – comunque – deve sempre garantirsi un adeguato diritto di difesa al lavoratore e che, qualora per il suo esercizio sia necessaria la diretta consultazione della documentazione di cui sopra, il datore di lavoro, a fronte della richiesta di controparte, ha l’obbligo di ottemperarvi, in ossequio ai principi sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c.
Nel caso in esame, la Cassazione rileva che le Corti di merito avevano opportunamente svolto il preliminare accertamento in fatto circa la necessità dell’esame dei documenti a base della contestazione (in particolare, i dati delle presenze) al fine dell'effettiva possibilità di difesa del lavoratore.
Avuto riguardo di ciò, la Corte precisa come tale accertamento costituisca un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione.
Nella fattispecie, tuttavia, la denunziabilità del vizio di motivazione era in radice preclusa dalla disposizione dell'articolo 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, applicabile ratione temporis, per l’identità delle ragioni di fatto poste a fondamento delle due decisioni rese in senso conforme nei due gradi di merito.
La pronuncia, dunque, si pone in rapporto di continuità con i precedenti summenzionati, consolidando ulteriormente l’orientamento di legittimità in tema di obblighi di esibizione e messa a disposizione dei documenti aziendali posti a base della sanzione disciplinare.
4. Osservazioni conclusive
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L’orientamento percorso dalla decisione in oggetto, peraltro, è stato confermato, sotto un diverso profilo, dall’ordinanza n. 32533 del 14 dicembre 2018 della Corte di Cassazione. Nel caso di specie, il lavoratore proponeva ricorso al Garante per la protezione dei dati
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personali, richiedendo, al fine di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, l’accesso ai propri dati valutativi, posti alla base della sanzione disciplinare irrogata. Il Garante riconosceva che, in presenza di dati valutativi di carattere personale, intesi quali informazioni che non hanno carattere oggettivo ma che siano riferite a giudizi, opinioni o ad altri apprezzamenti di tipo soggettivo, l’interessato può esercitare i diritti ex art. 7 del d.lgs. n. 196/2003, al fine di verificare ratione temporis l’avvenuto inserimento, la permanenza ovvero la rimozione di tali dati personali.
Il datore di lavoro proponeva opposizione avverso il suddetto provvedimento del Garante Privacy, giustificando il rifiuto all’accesso ai documenti, invocando, a propria difesa, la tutela della riservatezza aziendale e dei dati afferenti a terzi.
La Suprema Corte, in tale occasione, ha avuto modo di chiarire che il datore di lavoro, in virtù del diritto alla riservatezza dei dati aziendali, conserva la facoltà di individuare le misure opportune per evitare che il proprio lavoratore, in occasione dell’accesso ai propri dati personali, possa venire a conoscenza di informazioni estranee al procedimento disciplinare in corso.
Rigettando il ricorso proposto dal datore di lavoro, ha confermato le statuizioni del Giudice di merito, precisando che il diritto di accesso non può essere inteso, in senso restrittivo, come il mero diritto alla conoscenza di eventuali dati nuovi ed ulteriori rispetto a quelli già entrati nel patrimonio di conoscenza dell’interessato, avendo, quindi, tale diritto una portata più ampia, in ragione dello scopo dell’art. 7 del d.lgs. n. 196 del 2003 (oggi abrogato e sostituito dall’art. 15 GDPR Privacy del Regolamento UE n. 2016/679) che è quello di garantire, a tutela della dignità e riservatezza del soggetto interessato, la verifica ratione temporis dell'avvenuto inserimento, della permanenza, ovvero della rimozione di dati, indipendentemente dalla circostanza che tali eventi fossero già stati portati per altra via a conoscenza dell'interessato.
Del resto la Suprema Corte rammenta come abbia già avuto modo di rimarcare che la documentazione relativa alle vicende del rapporto di lavoro, imposta dalla legge (come per i libri paga e matricola), o prevista dall'organizzazione aziendale (tramite circolari interne), dà luogo alla formazione di documenti che formano oggetto di diritto di accesso, ex art. 7 del citato decreto legislativo consistendo in dati personali[9].
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In tal caso, dunque, la Cassazione si sofferma su un diverso profilo del diritto spettante al lavoratore, inserendo la problematica giuridica nell’ambito di un vero e proprio diritto di accesso dello stesso al proprio fascicolo personale, ex art. 7 Codice della Privacy (applicabile ratione temporis) che tutela l'accesso ai dati raccolti sulla propria persona in ogni e qualsiasi momento della propria vita relazionale.
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Con tale ultimo provvedimento, quindi, la Suprema Corte ha riconosciuto, senza la necessità di tener conto della tutela accordata dalla normativa giuslavoristica, che il diritto di accesso ai dati personali del dipendente è completo e deve considerarsi esteso anche alle valutazioni che il datore di lavoro opera sui detti dati personali.
In sede disciplinare, tuttavia, prescindendo dalla specificità del caso in cui il lavoratore chieda l’accesso ai dati personali, resta valido il discrimen prima tracciato, tra diritto di accesso ai documenti nella sede disciplinare, che la giurisprudenza ha chiarito non essere tutelato dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori ed il diritto di difesa, la cui tutela, garantita precipuamente dal sudddetto art. 7 può rendere necessario l’accesso del dipendente agli atti della procedura disciplinare. Ne consegue che, in base alla "ratio" della citata normativa, il datore di lavoro è tenuto ad offrire all'incolpato i documenti in consultazione solo in quanto e nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa. La pretesa attinente alla consultazione dei documenti aziendali da parte dell'incolpato si fonda, pertanto, non su una specifica disposizione di legge, ma sui principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 del Codice civile; inoltre, se il dipendente sostiene che la mancata esibizione di documenti gli ha impedito di approntare una valida e consapevole difesa contro il licenziamento, deve anche specificare il perché e quali documenti erano necessari per il predetto fine.
L'accesso ai documenti aziendali è un diritto solo nella misura in cui è necessario al dipendente per impugnare il licenziamento e per dimostrare che le accuse rivoltegli sono infondate. Negli altri casi, il datore di lavoro può rifiutarsi di concedere l'accesso agli atti interni (ossia la visione dei documenti aziendali) quando la contestazione disciplinare ha già descritto in modo dettagliato e sufficiente le condotte contestate.
Diverso, invece, è il caso in cui il dipendente chieda l’accesso ai propri dati personali ex art. 7 Codice privacy, sussistendo in tale ipotesi un vero e proprio diritto di acceso. Ne consegue che, nella specie, il datore di lavoro dovrà consentire sempre l’accesso, operando, ove necessario, un bilanciamento tra interessi contrapposti, il diritto di difesa del lavoratore e la riservatezza dei terzi, adottando le opportune cautele, ad esempio oscurando i dati dei soggetti terzi che si intendano tutelare.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Cass.18 aprile 2018 n. 9590
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[2] Cass. 20 marzo 2018 n. 6889
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[3] ex multis Cass. 15 giugno 2016 n. 12337; Cass. 3 febbraio 2003, n.1562
[4] Cass. 07 novembre 2018, n. 28471
[5] Cass. 6 agosto 2018 n. 20562
[6] Cass. 3 gennaio 2017, n. 50; Cass. 13 marzo 2013, n. 6337; Cass.18 dicembre 2010 n. 23304.
[7] Cass. 27 giugno 2017, n. 15966
[8] Cass. 30 agosto 2007, n. 18288; Cass. 17 marzo 2008, n. 7153
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[9] Cass. 26 aprile 2007 n. 9961
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