IL CASO Clausole campione
IL CASO. La fattispecie ha ad oggetto l’impugnazione proposta da una società di factoring - che ha chiesto di essere ammessa al passivo del fallimento della società cedente, in ragione di un credito di oltre un milione di euro, per un saldo debitore avente base in un contratto di factoring riferito a diversi rapporti - avverso il decreto che ha rigettato sia l’opposizione dalla medesima proposta allo stato passivo sia l’impugnazione dello stato passivo per l’ammissione del credito di altro soggetto insinuato. La tesi difensiva della società di factoring, pur nella minimale ricostruzione del fatto evincibile dalla sentenza in commento, è la seguente. Il patto di incedibilità di un credito che le parti, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, possono lecitamente stipulare ai sensi del secondo comma dell’art. 1260 c.c. possiede efficacia non reale, bensì esclusivamente inter partes, in ossequio al dettato dell’art. 1372 c.c. secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti. Per l’effetto, in caso di cessione di un credito incedibile realizzata attraverso il contratto di factoring, il factor, estraneo al patto di incedibilità, potrebbe riscuotere il credito, di cui è divenuto esclusivo titolare in forza della cessione, nei confronti del debitore ceduto. Nella fattispecie, poiché in ragione del contratto di factoring, il factor aveva anticipato alla cedente importi corrispondenti a crediti ceduti, per tali importi assumeva di potersi (come ha fatto) insinuare al passivo del fallimento, a condizione del mancato soddisfacimento del proprio credito ceduto pro solvendo da parte del o dei debitori ceduti. In altri termini il factor assume di poter riscuotere i propri crediti direttamente dal debitore ceduto, salvo in difetto insinuarsi al passivo fallimentare. Con riferimento all’opposizione allo stato passivo, dopo aver ammesso la configurabilità di un contratto di factoring avente ad oggetto crediti convenzionalmente incedibili, il Tribunale ha essenzialmente affermato che, in simile ipotesi, a seguito di fallimento del cedente, spetta al Fallimento chiedere al debitore ceduto il pagamento del credito incedibile, dal momento che, diversamente argomentando, il debitore ceduto potrebbe rifiutarsi di pagare sia al cessionario, opponendogli il patto di incedibilità, sia al cedente, invocando l’intervenuta cessione. Avverso il provvedimento del Tribunale, è stato dunque promosso ricorso per Cassazione da parte della società di factoring, in base a tre motivi no...
IL CASO. La sentenza in commento interviene su un caso che coinvolge un macchinista, dipendente di Trenitalia S.p.a., licenziato per aver svolto – nella sua qualità di praticante avvocato – attività di udienza durante alcune giornate in cui risultava regolarmente presente in servizio oppure assente per malattia. La sentenza di primo grado del Tribunale di Sulmona, confermata dalla Corte d’appello dell’Aquila, pronunciava l’illegittimità del licenziamento disciplinare, ritenuto viziato per violazione del procedimento ex art. 7 st. lav., dal momento che non era stata fornita al dipendente – che ne aveva fatto richiesta – la documentazione sulla cui base il datore di lavoro si era determinato a contestare l’addebito e irrogare la sanzione espulsiva. La Corte aveva ritenuto, infatti, che “Nella fattispecie di causa la messa a disposizione dei documenti era necessaria all'esercizio del diritto di difesa: i fatti contestati erano risalenti nel tempo e relativi a condotte episodiche sicchè era verosimile che il lavoratore non ricordasse i singoli fatti (orari di lavoro e giornate di assenza) e fosse per lui necessario visionare quanto meno il prospetto elaborato dal sistema automatico di rilevazione delle presenze”. Il datore di lavoro ricorreva per Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 st. lav. e degli artt. 1175 e 1375 c.c. Questi sosteneva che le richieste del lavoratore di prendere visione dei documenti a sostegno della contestazione sarebbero state affette da genericità e, comunque, riferite agli accertamenti ed alle indagini svolte sulla presenza in udienza del dipendente per lo svolgimento della pratica forense in giorni ed orari destinati al servizio, piuttosto che ai dati relativi alla presenza sul lavoro. Aggiungeva che, in applicazione dei canoni di correttezza e buona fede, vi fosse comunque l'onere del lavoratore di specificare i documenti di cui richiedeva l'esame e che la documentazione rilevante fosse sicuramente in possesso del lavoratore (verbali di udienza, libretto di partica forense) o a lui accessibile (dati del sistema informatico delle presenze). Lamentava, inoltre, l’illogicità della motivazione, per avere considerato come necessari ad assicurare al lavoratore l'esercizio del diritto di difesa documenti rilevanti unicamente sotto il profilo probatorio.
IL CASO. La vicenda processuale culminata, in primo grado, con la sentenza in epigrafe scaturisce dal ricorso ex art. 447-bis c.p.c. promosso da una moglie avverso il marito e la società di cui quest’ultimo ed il figlio risultano soci amministratori. In breve, i due sposi, coniugati in regime di comunione legale dei beni, sono comproprietari di alcuni immobili, tra i quali un negozio, un laboratorio, un appartamento ed un’autorimessa. Nel negozio e nel laboratorio si è svolta, sin dal 1972, un’attività di pasticceria, che, dopo essere stata esercitata per svariati anni da un’impresa familiare riconducibile al marito ed alla quale collaborava anche la moglie, è stata proseguita, in concomitanza con il ricorso per separazione proposto dalla donna, da una nuova società di cui sono soci amministratori il marito ed il figlio. Xxxxxxxxx, e questo è l’aspetto che qui rileva, il marito concludeva, all’insaputa della moglie, un contratto di locazione commerciale infranovennale con la società di nuova costituzione, concedendo alla stessa in godimento il negozio ed il laboratorio, beni entrambi in comunione legale. Venuta a conoscenza della stipulazione, la donna aveva manifestato il proprio dissenso alla locazione, sia perché reputava il canone pattuito troppo esiguo, sia perché tale vincolo negoziale le precludeva la possibilità di una giusta divisione immobiliare conseguente alla separazione; la donna provvedeva peraltro a trattenere, a titolo di acconto dell’indennità da occupazione sine titulo, le somme di denaro nel frattempo pervenutele quale canone locatizio. Nell’atto introduttivo del giudizio, la ricorrente lamentava la violazione del precetto di cui all’art. 180, cpv, c.c., per l’effetto domandando l’annullamento del contratto di locazione ai sensi dell’art. 184 c.c. nonché la condanna all’immediato rilascio dell’immobile illegittimamente occupato. Si noti che, pur rigettando le richieste avanzate dalla moglie, il giudice di prime cure ha preso atto dell’esistenza di un contrasto interpretativo in dottrina, tale da giustificare la decisione di compensazione delle spese. E da questa divergenza di opinioni il Tribunale ha infatti preso le mosse per risolvere il quesito sottoposto alla sua attenzione, concludendo nel senso della piena efficacia e validità del contratto contestato e rinvenendo sul terreno meramente risarcitorio l’unica forma di tutela della moglie estromessa dalla stipulazione. Peraltro, stante il difetto di una espressa domanda di risarcimento dei dan...
IL CASO. Nel giugno del 2010 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sanzionato il Consiglio nazionale dei geologi per intesa restrittiva della con- correnza ex art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In particolare l’Antitrust, all’esito del procedimento nei confronti del citato Con- siglio, ha accertato e sanzionato un’intesa avente ad oggetto una fissazione di “prezzo”, consistente nel richiamo, contenuto nel codice deontologico1 della professione, al principio del “decoro” nella commisurazione dei compensi e all’art. 2233, comma 2, c.c., il quale prevede appunto che «in ogni caso la
1 In dettaglio, ai sensi dell’art. 17 del codice deontologico, intitolato ai parametri tariffari, «Nella determinazione dei compensi professionali il geologo deve attenersi a quanto stabilito dal d.l. n. 223/2006; al principio di adeguatezza di cui all’art. 2233 comma 2 codice civile e, comunque, al complesso delle vigenti disposizioni di legge regolanti la materia. La tariffa professionale approvata con d.m. 18 novembre 1971 e la tariffa in materia di lavori pubblici approvata con d.m. 4 aprile 2001 per la parte applicabile ai geologi, costituiscono legittimo ed oggettivo elemento di riferimento tecnico-professionale nella considerazione, determinazione e definizione dei compensi tra le parti». Analogo rilievo viene formulato con riferimento al richiamo al decoro contenuto nell’art. 18 codice deontologico, intitolato alla commisurazione della parcella, il quale stabilisce che «Nell’ambito della normativa vigente, a garanzia della qualità delle prestazioni, il geologo che esercita attività professionale nelle varie forme (...) deve sempre commisurare la propria parcella all’importanza e difficoltà dell’incarico, al decoro professionale, alle conoscenze tecniche e all’impegno richiesti». Il medesimo richiamo al decoro è contenuto anche nell’art. 19, dedicato all’evidenza pubblica, il quale prevede che «Per le procedure ad evidenza pubblica, ove la pubblica amministrazione legittimamente non utilizzi quale parametro compensativo la tariffa professionale, il geologo dovrà comunque commisurare la propria offerta all’importanza e difficoltà dell’incarico, al decoro professionale, alle conoscenze tecniche ed all’impegno richiesti». In sostanza si è ritenuto che le norme del Codice deontologico relative alla determinazione del compenso inducano i geologi a non assumere condotte autonome nell’individuazione dei prezzi delle proprie prestazioni professional...
IL CASO. La sentenza della Suprema Corte origina da un caso di cessione di credito e opponibilità della stessa al debitore ceduto – una Azienda Ospedaliera, dipendente da una Azienda Sanitaria Locale – che aveva contestato l’efficacia formale della notifica e la accettazione della cessione. Il credito nasce da un contratto di fornitura di un’apparecchiatura per la risonanza magnetica tra il debitore ceduto La società creditrice conclude un contratto di cessione del credito con un istituto di credito, il quale - anche in considerazione dell’esaurimento della fornitura - agisce nei confronti del debitore ceduto al fine di recuperare il proprio credito, formulando domanda principale per l’intero e domanda in via subordinata per una somma minore. Una volta instaurato il giudizio di primo grado, il Tribunale adito ha rigettato la domanda della Banca, reputando in primo luogo che, per l’origine del credito ceduto, la cessione avrebbe dovuto rispettare le formalità degli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440 del 1923, a suo dire applicabili anche alle A.S.L. In secondo luogo, ha ritenuto che non risultava comunque dimostrata una espressa accettazione dell’Azienda alla cessione. La Corte territoriale, andando in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado e in accoglimento dei motivi d’appello della Banca, dopo avere rilevato che la cessione era dimostrata solo per l’importo richiesto in via subordinata e avere affermato che risultava comunque una accettazione da parte dell’Azienda, ha escluso l’applicabilità della disciplina dell’art. 69, comma 3, del R.D. n. 2440 del 1923 sotto due distinti profili, cioè sia perché essa non trovava applicazione alle amministrazioni non statali, sia perché, nella specie, quella disciplina non sarebbe risultata comunque applicabile, in quanto la cessione era avvenuta quando il rapporto era esaurito.
IL CASO. Il caso da cui prende le mosse la pronuncia qui in commento concerne una controversia tra una società di factoring, XXX Factoring S.p.A., ed una società operante nel settore della realizzazione e commercializzazione di attrezzature enologiche ed alimentari, YYY S.r.l. S.r.l. (quale acquirente) e ZZZ S.r.l. (quale venditrice). Il contratto di compravendita prevedeva una clausola di gradimento all’esito della prova dell’impianto; quale corrispettivo, era stato concordato il pagamento di: (i) un acconto, al momento dell’ordine; e (ii) il saldo, successivamente alla consegna. Il relativo credito è stato poi ceduto a XXX Factoring. Nell’esecuzione contrattuale YYY, avendo ricevuto un macchinario (a suo dire) privo dei componenti essenziali, inservibile dunque per gli scopi per il quale avrebbe dovuto essere utilizzato, non ha adempiuto al suo obbligo di pagamento. A fronte di detto inadempimento, XXX Factoring ha agito mediante procedimento monitorio; per contro, YYY ha promosso opposizione al decreto ingiuntivo; detta opposizione è stata respinta sia in primo grado sia in appello. In particolare, la Corte di Xxxxxxx ha ritenuto che quanto dedotto da YYY circa l’inadempimento del contratto originario fosse privo di rilevanza, posto che YYY aveva riconosciuto per iscritto la regolarità della fornitura, la liquidità e l’esigibilità del credito e promesso il pagamento alla cessionaria. Secondo la Corte di Appello tale dichiarazione, di natura confessoria, ha prodotto due effetti: (i) sia quello di impegnare la ceduta nei confronti della cessionaria al pagamento del corrispettivo; (ii) sia quello di portare XXX Factoring a corrispondere le anticipazioni alla società cedente. La Corte di Appello, dunque, ha confermato la decisione di primo grado, favorevole a XXX Factoring.
IL CASO. [1] Con atto di citazione notificato nel marzo del 2007, l’attore si rivolge al Tribunale per chiedere la condanna sia dell’Azienda ospedaliera, che del medico, al risarcimento del danno iatrogeno e quello derivato dalla mancata informazione circa la natura e le conseguenze dell’intervento medico. In primo grado le domande attoree vennero respinte, mentre in secondo grado, la Corte di Appello ritenne fondata esclusivamente la domanda relativa al danno derivato dalla mancata corretta informazione, escludendo la responsabilità in relazione all’intervento in sé considerato, essendo stato questo eseguito a regola d’arte nonostante l’esito sfavorevole per il paziente. Nel giudizio di cassazione instaurato dal paziente, i convenuti propongono ricorso incidentale nel quale contestano la mancata allegazione e prova del fatto che, in presenza di più compiuta informazione, il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento. [1] Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di cassazione, nel confermare la decisione della Corte di appello, ritiene non corretta la tesi prospettata dai ricorrenti incidentali in virtù della quale l’inadempimento dell’obbligo informativo si avrebbe solo in caso di allegazione e prova, da parte del paziente, di un suo probabile rifiuto all’intervento in caso di avvenuta adeguata informazione; al riguardo, la Corte di cassazione evidenzia la natura contrattuale dell’obbligo gravante sul medico e quindi la sufficienza dell’allegazione dell’inadempimento da parte del paziente-creditore. Dunque, secondo la Suprema Corte, il paziente deve essere risarcito anche se l’intervento è stato eseguito a regola d’arte, in quanto l’obbligo informativo che grava sul medico ha natura contrattuale e trova il proprio fondamento nel diritto all’autodeterminazione e non nel diritto alla salute ex art. 32 Cost. [1] Con la sentenza in esame la Suprema Corte respinge l’orientamento dottrinale minoritario secondo il quale l’obbligo informativo gravante sul medico è da ricondursi al principio di buona fede, al cui rigoroso rispetto sono tenute le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), la cui violazione da parte del sanitario integrerebbe responsabilità di tipo extra-contrattuale, con la conseguenza che la prova del fatto illecito – la mancata acquisizione del consenso – dovrebbe essere fornita dal paziente. Dunque, la Corte di cassazione accoglie la tesi contrattuale del rapporto medico-paziente, in virtu’ della qual...
IL CASO. La trascrizione del contratto preliminare potrebbe non tutelare il costruttore in caso di recesso da parte dell’acquirente dal contratto preliminare (per le motivazioni più varie) come anche nell’ipotesi in cui l’acquirente si renda inadempiente al versamento degli acconti a stato di avanzamento lavori. Una possibile soluzione, da definire negozialmente, prevede l’inserimento di una condizione risolutiva di inadempimento con contenuto da definire (che andrebbe annotata a margine della trascrizione). Le parti dovrebbero poi sottoscrivere un mandato a terzo soggetto arbitratore che dovrà eventualmente intervenire per accertare l’avversarsi dell’evento dedotto in condizione.
IL CASO. La sentenza scaturisce da una controversia relativa alla portata applicativa del perimetro soggettivo della normativa in materia di certificazione dei crediti della pubblica amministrazione di cui all’art. 9bis del D.l. 185/2008, come successivamente modificato ed integrato. Secondo la ricostruzione operata dal Ministero, il consorzio non sarebbe qualificabile in termini di pubblica amministrazione secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 2, D.lgs. 165/2001; diversamente, lo stesso sarebbe destinatario della disciplina in materia di accreditamento sulla piattaforma di certificazione dei crediti ai fini della sola comunicazione dei propri debiti commerciali, secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 7ter, D.l. 35/2013. Stando a quanto dedotto dalla ricorrente, il mancato completamento della procedura di certificazione preclude il perfezionamento della cessione pro soluto dei crediti assistita dalla garanzia dello Stato prevista dalla normativa in materia. A supporto delle proprie domande, e della possibilità di qualificare il consorzio, ente in house degli enti pubblici locali che lo costituiscono, in termini di pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.lgs. 165/2001, la ricorrente richiama, inter alia, la sentenza con cui il giudice ordinario ha escluso l’assoggettabilità a fallimento del consorzio, pur costituito in forma di società per azioni, in quanto esercente un servizio pubblico locale.
IL CASO. La pronuncia trae origine dal ricorso in Cassazione proposto dalla Banca contro la sentenza emanata dalla Corte d’Appello di Firenze, la quale in riforma della pronuncia di primo grado ha condannato l’istituto bancario a risarcire il danno non patrimoniale per lesione al diritto alla immagine subito dalla società a causa della erronea segnalazione alla Centrale Rischi effettuata dall’istituto di credito, lamentando canoni insoluti relativi ad un contratto di leasing.