Il caso Clausole campione

Il caso. Nel 1990 il Signor Xxxxxxxx D'Xxxxxx vendeva alla Società Finanziaria ICCRI – Bruxelles Xxxxxxx S.p.A. in liquidazione (di seguito "ICCRI"), i diritti per la sottoscrizione di azioni, impegnandosi nel contempo a riacquistare queste ultime dopo 12 mesi. Dal momento che l'obbligazione di riacquisto non veniva adempiuta, nel luglio 1992 la Società Compagnie de Partecipations Chimiques (di seguito "CPC"), controllata dal Signor Xxxxxxxx D'Xxxxxx qui ricorrente, si accordava con ICCRI per accollarsi, con effetto liberatorio verso il ricorrente, ogni obbligazione di quest'ultimo, subentrando così nell'obbligo di riacquisto delle azioni. L'accollo liberatorio prevedeva una clausola risolutiva espressa in difetto di un puntuale adempimento dell'obbligazione appena citata da parte dell'accollante CPC, che non adempiva correttamente. ICCRI pertanto risolveva l'accollo stipulato nel 1993 e azionava i diritti di cui all'originario contratto concluso con il ricorrente, nei confronti di questo. La ICCRI otteneva dal Presidente del Tribunale di Milano l'emissione di un decreto ingiuntivo, in data 5 aprile 1993, dell'importo di lire 1.100.000.000 nei confronti del ricorrente. Questo si opponeva con atto di citazione, proponendo eccezione di carenza di potere giurisdizionale, dal momento che era residente nel Principato di Monaco. Inoltre, e di interesse nella sentenza in epigrafe, il ricorrente eccepiva che gli effetti della risoluzione dell'accollo liberatorio non avrebbero comportato la riviviscenza del rapporto esistente tra debitore e creditore originari, come invece sostenuto dalla sentenza di primo grado, in quanto l'accollo era stato "liberatorio". L'opposizione veniva rigettata dal Tribunale nel 1995. La Corte di Appello di Milano nel settembre del 1998 confermava la decisione del giudice di primo grado. Anche la sentenza della Corte di Cassazione che qui si commenta conferma la decisione della Corte d'Xxxxxxx.
Il caso. Con Contratto Quadro del 6 aprile 1999, il Cedente, Alfa, ha regolato con il Factor le cessioni dei crediti d’impresa che Alfa avrebbe maturato nell’ambito della propria attività imprenditoriale di fornitura di prestazioni sanitarie in regime di accreditamento. Nell’ambito del rapporto di factoring, sono stati sottoscritti tra il Cedente e il Factor atti pubblici di cessione dei crediti i) in data 5 maggio 2007 in riferimento a crediti, nei confronti di una Azienda Sanitaria Locale, già maturati e che sarebbero maturati per prestazioni rese sino al dicembre 2007; e ii) in data 30 maggio 2008 in relazione a crediti, sempre nei confronti del medesimo debitore Ceduto, già a quella data maturati e che sarebbero venuti a esistenza per prestazioni rese sino al dicembre 2009. Nel corso del giudizio di primo grado, è tuttavia intervenuto in giudizio il Fallimento del Cedente (fallimento dichiarato il 3 aprile 2013 dal Tribunale di Napoli) il quale ha allegato che il Curatore si sarebbe sciolto dal contratto pendente ai sensi dell’art. 72 l.f., scioglimento del contratto che, secondo la tesi espressa dalla Curatela, avrebbe comportato il venir meno della legittimazione attiva del Factor alla riscossione del credito1. In sostanza, secondo la prospettazione del Fallimento, il rapporto intercorso tra Alfa e il Factor si sarebbe risolto in un contratto di mandato per la gestione dei crediti di Alfa, con la conseguenza per cui, scioltosi il rapporto a seguito della scelta effettuata dalla Curatela, sarebbe venuta meno la legittimazione del Factor a riscuotere il credito nei confronti della ASL. Lo scioglimento del contratto di factoring era peraltro stato autorizzato dal Giudice delegato presso il Tribunale di Napoli, con provvedimento reclamato dal Factor ai sensi dell’art. 26 l.f., reclamo contro il cui rigetto il Factor ha proposto ricorso in Cassazione.
Il caso. Un creditore propone domanda di insinuazione al passivo del fallimento della società debitrice per un credito pari a Euro 100.000, 00. Dal momento che la domanda è respinta dal Giudice Delegato, viene proposta opposizione dinanzi al Tribunale di Catania avverso lo stato passivo. Il Tribunale di Catania rigetta l’opposizione, ritenendo che la documentazione prodotta dall’opponente è inopponibile alla curatela poiché priva di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento, adducendo che il timbro postale apposto da un gestore di un servizio di posta privata su alcune lettere scambiate tra il debitore e il creditore non assurge a prova decisiva di data certa ai sensi dell’art. 2704 c.c. Contro tale decreto viene proposto ricorso in Cassazione, la quale, respingendolo, condivide la tesi del Tribunale di Catania. La Suprema Corte, infatti, rammenta che a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 22 luglio 1999, n. 261 e della conseguente liberalizzazione dei servizi postali, questi ultimi sono garantiti ed erogati sia da fornitori di un servizio postale, sia da fornitori del servizio universale a cui sono riservati i servizi inerenti le notificazioni o le comunicazioni di atti a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari. La Corte di Cassazione respinge il ricorso della creditrice concludendo che il timbro datario apposto da un soggetto privato, il cui personale dipendente è privo di poteri pubblicistici di certificazione, non può valere a rendere certa la data di ricezione di un plico consegnato dal mittente su cui vi è apposto un timbro datario.
Il caso. Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte, riscontrata la nullità del contratto preliminare di vendita di ramo d’azienda per mancanza dell'oggetto, che anziché essere costituito dal complesso dei beni aziendali materiali ed immateriali, risultava invece rappresentato dal solo avviamento, non autonomamente cedibile, afferma che l'esistenza dell'oggetto del contratto di promessa di vendita di ramo d'azienda non può ricavarsi dall'interazione degli effetti dei contratti contestuali collegati qualora, come nella specie, alcuni di questi non siano nulli, altrimenti, il collegamento negoziale finirebbe per essere un mezzo per eludere la nullità del singolo contratto collegato, con la conseguenza che, al contrario di quanto ritenuto dal giudice del merito, nella fattispecie esaminata, il collegamento negoziale non è idoneo a consentire di ritenere esistente l'oggetto costituito dal trasferimento del ramo di azienda. I contratti così concepiti quindi non si fondono in un accordo unico, rimanendo distinti l'uno dall'altro, pur essendo volti al perseguimento di un risultato economico comune voluto dai contraenti. Ciò non toglie che l'influenza reciproca debba escludere che vizi o mancanze di uno dei contratti possano essere compensate dal collegamento con gli altri, in quanto ogni contratto della struttura collegata deve essere valido ed efficace in sé, non potendo reperire aliunde elementi che sanino eventuali criticità. La conseguenza di quanto sinora detto è che da un lato ciascun accordo deve rimanere assoggettato alla propria disciplina, e dall’altro che il collegamento determina soltanto una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale complessivamente inteso: simul stabunt, simul cadent. Il contratto è lo strumento giuridico attraverso il quale si possono costituire, modificare od estinguere rapporti giuridici patrimoniali: è, dunque, un mezzo con cui si determinano gli spostamenti di ricchezza all’interno dell’ordinamento giuridico ed a tale fine, è indispensabile che tali spostamenti siano supportati da una causa. Ciò premesso, con la pronuncia in commento la Suprema Corte ribadisce il principio che in tema di collegamento tra contratti, il collegamento negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, essendo un meccanismo attraverso il quale le stesse parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, realizzato non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata ...
Il caso. La sentenza della Suprema Corte origina da un caso di cessione di credito e opponibilità della stessa al debitore ceduto – una Azienda Ospedaliera, dipendente da una Azienda Sanitaria Locale – che aveva contestato l’efficacia formale della notifica e la accettazione della cessione. Il credito nasce da un contratto di fornitura di un’apparecchiatura per la risonanza magnetica tra il debitore ceduto La società creditrice conclude un contratto di cessione del credito con un istituto di credito, il quale - anche in considerazione dell’esaurimento della fornitura - agisce nei confronti del debitore ceduto al fine di recuperare il proprio credito, formulando domanda principale per l’intero e domanda in via subordinata per una somma minore. Una volta instaurato il giudizio di primo grado, il Tribunale adito ha rigettato la domanda della Banca, reputando in primo luogo che, per l’origine del credito ceduto, la cessione avrebbe dovuto rispettare le formalità degli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440 del 1923, a suo dire applicabili anche alle A.S.L. In secondo luogo, ha ritenuto che non risultava comunque dimostrata una espressa accettazione dell’Azienda alla cessione. La Corte territoriale, andando in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado e in accoglimento dei motivi d’appello della Banca, dopo avere rilevato che la cessione era dimostrata solo per l’importo richiesto in via subordinata e avere affermato che risultava comunque una accettazione da parte dell’Azienda, ha escluso l’applicabilità della disciplina dell’art. 69, comma 3, del R.D. n. 2440 del 1923 sotto due distinti profili, cioè sia perché essa non trovava applicazione alle amministrazioni non statali, sia perché, nella specie, quella disciplina non sarebbe risultata comunque applicabile, in quanto la cessione era avvenuta quando il rapporto era esaurito.
Il caso. L’ordinanza di seguito annotata costituisce l’occasione per approfondire una delle più rilevanti implicazioni del processo di digitalizzazione dell’economia e, più in generale, della società, ovvero la sorte che subiscono i dati conservati in rete, una volta che il loro titolare abbia cessato di vivere. La tematica dell’eredità digitale rappresenta, infatti, solo uno dei molteplici aspetti in cui il diritto civile classico è costretto a mutare sembianze per adattarsi alle esigenze di una società sempre più complessa e nella quale la ricchezza non è più (necessariamente) materiale, bensì immateriale, poiché fondata sul possesso di dati [cfr. MARINO, Mercato digitale e sistema delle successioni mortis causa, Esi, 2022, 9 ss.; più in generale, sui delicati rapporti tra i diritti della persona e la rete, RODOTÀ, Tecnologia e diritti, Mulino, 1995, passim]. Il riferimento corre, inevitabilmente, a tutti quei provider che svolgono attività di raccolta e di conservazione dei dati personali: dai motori di ricerca ai social network, fino ad arrivare alle piattaforme di e-commerce e ai servizi di streaming, che traggono profitto, direttamente o indirettamente, dall’attività di profilazione degli utenti [Cfr. M. XXXXXX, Xx filter xxxxxx e il problema dell’identità digitale, in Medialaws, 2019, 2, 39 ss.]. Eppure, la pronuncia in esame costituisce un brillante esempio di come le classiche categorie del diritto civile consentano, all’esito dell’immancabile sforzo interpretativo del giurista, di far fronte anche a queste nuove problematiche. Questo, in estrema sintesi, il caso. Xxxxx, deceduto di recente, era proprietario di uno smartphone prodotto da uno dei colossi della new economy che, come noto, non è accessibile a terzi, sia perché protetto da un meccanismo di riconoscimento facciale, sia per via delle credenziali poste a tutela dell’account. Venuto a mancare Xxxxx, la moglie (ed unica erede) ricorreva dunque al Tribunale di Como domandando, in via cautelare e d’urgenza, di condannare il suddetto produttore a prestarle la dovuta assistenza sia per il recupero delle credenziali di accesso, sia per lo “sblocco” del dispositivo elettronico. Ai fini del periculum, rappresentava in particolare la ricorrente che la prolungata inaccessibilità dei dati conservati sul telefono e in rete le avrebbe impedito un’esatta ricostruzione della massa ereditaria, ad esempio consultando il saldo dei finanziamenti stipulati dal de cuius, oltre a ledere in modo irreparabile i suoi inte...
Il caso. La pronuncia in esame origina dall’azione promossa da una società operante nel campo farmaceutico nei confronti di una società di factoring, con la quale ha stipulato un contratto di factoring con garanzia pro soluto. Più precisamente, l’azione ha ad oggetto: i) la richiesta di risarcimento dei danni causati dalla violazione degli obblighi informativi sussistenti in capo al factor e attinenti l’aggravamento della situazione economica dei debitori insolventi; ed ii) la richiesta di pagamento delle somme dovute quale corrispettivo della cessione dei crediti. Con specifico riferimento alla seconda domanda attorea, il factor propone domanda riconvenzionale, lamentando che la violazione da parte del cedente degli obblighi di collaborazione pattuiti con il contratto di cessione abbia determinato la decadenza dalla garanzia pro soluto. Oggetto di specifica doglianza da parte del factor è l’omessa comunicazione dell’esistenza di insoluti pregressi relativi ai debitori ceduti. Dalla violazione di tali obblighi informativi deriverebbe l’esonero del factor al pagamento del corrispettivo dovuto in ragione della cessione dei crediti. Il Tribunale di Milano, respingendo la prima domanda proposta dal cedente, dedica ampia motivazione al mancato accoglimento della domanda riconvenzionale. Il rigetto di tale domanda ed il conseguente accoglimento della seconda domanda attorea trovano fondamento nel riconoscimento in capo al factor di un onere di ricerca documentale sul grado di solvibilità dei debitori ceduti. In particolare, il Tribunale assume il factor quale operatore professionale qualificato e pone a suo carico l’onere di acquisire autonomamente le informazioni necessarie a valutare la situazione economico–finanziaria del debitore.
Il caso. Con la risposta ad un interpello, di cui alla nota 30 agosto 2019, n. 363 (1), l’Agenzia delle entrate si pronuncia in merito all’applicabilità dell’IVA alle somme trasferite da un Comune ad una società in house, relative ad un contratto di servizio avente ad oggetto l’attività di gestione post-operativa, sorve- glianza e controllo di una discarica per rifiuti. La risposta presenta profili di interesse principal- mente per due ordini di motivi: il primo, legato ad un approfondimento circa la rilevanza ai fini IVA delle somme che il Comune è tenuto a versare, in virtù del contratto di servizio, alla società in house e, quindi, sotto un profilo di carattere prettamente tributario; il secondo, collegato alla tormentata natura giuridica delle società in house e, in particolare, alla sussistenza, o meno, di una loro “alterità” rispetto all’ente socio, tale da ritenere sussistente una rela- zione intersoggettiva che giustifichi, di conseguenza, l’applicabilità dell’IVA all’operazione in atto. La risposta dell’Agenzia delle entrate trae origine da una richiesta di interpello, presentata da un Comune, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), Legge n. 212/ 2000 (2), secondo cui un contribuente può
Il caso. A fronte del mancato rimborso delle somme anticipate dal factor al cedente nell’ambito di un contratto di factoring, il cessionario agisce in giudizio, ottenendo un decreto ingiuntivo per la restituzione delle citate somme, oltre interessi. Il cedente propone opposizione avverso il decreto ingiuntivo lamentando, inter alia, che il factor avrebbe applicato interessi usurari nel corso dell’intero rapporto. Ad opinione del cedente, dal confronto tra l’importo degli anticipi originariamente effettuati dal factor, così come riconosciuti dal cedente, e l’importo richiesto nel procedimento monitorio, emerge che il factor starebbe richiedendo il pagamento sia degli interessi di mora sia degli interessi corrispettivi, la cui somma determina il superamento del tasso soglia istituito dalla L. 108/1996.
Il caso. La sentenza scaturisce da una controversia relativa alla portata applicativa del perimetro soggettivo della normativa in materia di certificazione dei crediti della pubblica amministrazione di cui all’art. 9bis del D.l. 185/2008, come successivamente modificato ed integrato. Secondo la ricostruzione operata dal Ministero, il consorzio non sarebbe qualificabile in termini di pubblica amministrazione secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 2, D.lgs. 165/2001; diversamente, lo stesso sarebbe destinatario della disciplina in materia di accreditamento sulla piattaforma di certificazione dei crediti ai fini della sola comunicazione dei propri debiti commerciali, secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 7ter, D.l. 35/2013. Stando a quanto dedotto dalla ricorrente, il mancato completamento della procedura di certificazione preclude il perfezionamento della cessione pro soluto dei crediti assistita dalla garanzia dello Stato prevista dalla normativa in materia. A supporto delle proprie domande, e della possibilità di qualificare il consorzio, ente in house degli enti pubblici locali che lo costituiscono, in termini di pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.lgs. 165/2001, la ricorrente richiama, inter alia, la sentenza con cui il giudice ordinario ha escluso l’assoggettabilità a fallimento del consorzio, pur costituito in forma di società per azioni, in quanto esercente un servizio pubblico locale.