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Dottorato di ricerca: DIRITTO ROMANO, TEORIA DEGLI ORDINAMENTI E DIRITTO PRIVATO DEL MERCATO Curriculum: DIRITTO DEI CONTRATTI ED ECONOMIA D’IMPRESA XXVIII CICLO |
L’USO DI CLAUSOLE VESSATORIE COME PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA |
TUTOR: DOTTORANDO: XX.XX XXXX. XXXXXXXXX XXXXXXX XXXX. XXXXXXXXX XXXXXXXX |
Ai miei Genitori
CAPITOLO I
INTRODUZIONE: LA DIRETTIVA 93/13/CEE E LA DIRETTIVA 2005/29/CE NEL DIRITTO DEL CONSUMO.
1. Introduzione. Il metodo. 5
2. La direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 e il codice del consumo (D. Lgs. 206/2005). L’àmbito di applicazione e la trattativa individuale. 9
2.1 (Segue) La clausola generale di abusività (rectius: vessatorietà). La buona fede 17
2.2 (Segue) I rimedi e il nuovo art. 37 bis cod. cons. 23
3. La direttiva 29/2005/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 per il nuovo diritto delle pratiche commerciali sleali. Àmbito di applicazione 28
3.1 (Segue) L’architettura della disciplina sulle pratiche commerciali sleali (rectius: scorrette). Rinvio. 38
3.2 (Segue) I rimedi e la tutela dei consumatori collettivamente considerati. 45
CAPITOLO II
UN PRIMO CONFRONTO: UNA DIVERSA PROSPETTIVA PER DIVERSI EFFETTI.
1. Il mutamento di prospettiva: dal consumatore «individuale» al consumatore «medio». Dall’«atto» all’«attività» 52
2. Ancora sul distinto piano di rilevanza delle due discipline: l’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE e il nesso con il diritto dei contratti 62
3. (Segue) L’incidenza di una pratica commerciale sleale sulla natura abusiva di una clausola. Il caso Xxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx contro SOS financ spol. s r. o. e la sentenza della Corte di Giustizia, Sez. I^, del 15/03/2012, C-453/10 69
CAPITOLO III
LA PRATICA DELL’«UTILIZZO» DI CLAUSOLE VESSATORIE COME PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA.
1. La dimensione super-individuale della direttiva 1993/13/CEE. L’«utilizzo» di clausole abusive come «pratica commerciale». 78
2. La slealtà/scorrettezza della pratica di «utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie. Premessa. 85
2.1 (Segue) La contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio di una pratica commerciale 88
2.2 (Segue) Il caso dell’«utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie e la loro potenzialità «ingannevole» nella fase esecutiva del rapporto contrattuale 99
3. Il caso dell’uso di clausole non «chiare» e «comprensibili» (ex artt. 5 della direttiva 1993/13/CEE e 35, comma 2°, cod. cons.) come «omissione ingannevole» (ex artt. 7, para 2 e 4, della direttiva 2005/29/CE e 22, commi 2° e 4°, cod. cons.). 105
CAPITOLO IV
L’ESIGENZA DI UN COORDINAMENTO: LA DIMENSIONE TRASVERSALE DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE E LA COERENZA DEL DIRITTO DELLE PRATICHE COMEMRCIALI SLEALI.
1. Il problema. 113
2. Il significato della locuzione «in caso di contrasto» di cui all’art. 3, para 4, della direttiva 2005/29/CE (art. 19, comma 3°, cod. cons.) e il criterio di specialità. Una prima interpretazione e i primi orientamenti dei Giudici amministrativi italiani. 119
3. (Segue) La procedura di infrazione n. 2013/2169 e il nuovo comma 1° bis dell’art. 27 cod. cons. Le sentenze “gemelle” nn. 3-4/2016 dell’Adunanza plenaria e la (tardiva) rimessione della questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 128
4. Il caso del rapporto tra la direttiva 2005/29/CE e la direttiva 1993/13/CEE. Considerazioni critiche 144
5. Conclusioni. 152
BIBLIOGRAFIA 155
CAPITOLO I
INTRODUZIONE: LA DIRETTIVA 93/13/CEE E LA DIRETTIVA 2005/29/CE NEL DIRITTO DEL CONSUMO.
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il metodo; 2. La direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 e il codice del consumo (D. Lgs. 206/2005). L’àmbito di applicazione e la trattativa individuale; 2.1 (Segue) La clausola generale di abusività (rectius: vessatorietà). La buona fede; 2.2 (Segue) I rimedi e il nuovo art. 37 bis cod. cons. 3. La direttiva 29/2005/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 per il nuovo diritto delle pratiche commerciali sleali. Àmbito di applicazione; 3.1 (Segue) L’architettura della disciplina sulle pratiche commerciali sleali (rectius: scorrette). Rinvio. 3.2 (Segue) I rimedi e la tutela dei consumatori collettivamente considerati.
1. Introduzione. Il metodo.
La direttiva 1993/13/CEE «concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori» e la direttiva 2005/29/CE «relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno» costituiscono, senza timore dell’enfasi, due tra i più significativi e rivoluzionari interventi del legislatore europeo spesi nel tentativo di sistemazione del «diritto del consumo»1.
1 Si intende preferire la locuzione «diritto del consumo», piuttosto che quella di «diritto dei consumatori», e tanto sulla scorta dell’insegnamento di X. XXXXXXXXX, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. dir. proc. civ., 1998, pp. 17 ss. L’attributo «consumatore» – spiega l’Autore (p. 21) – ha invero un’«intonazione più sociologica che giuridica», valendo esso a
«individuare in termini soggettivi l’atto di consumo», più che una «precisa categoria tecnico- giuridica». «In conclusione, gli interventi normativi determinati dalle fonti comunitarie dimostrano un tale grado di frammentarietà e settorialità da rendere improbabile, se non arbitrario, intraprendere un processo di generalizzazione volto alla costruzione d’una categoria giuridica definita e univoca, che metta capo a un autonomo soggetto di diritto: il consumatore. A tale stregua si deve affermare che consumatore non significa nient’altro dal comune soggetto di diritto, rispetto al quale trovano applicazione certe tutele in relazione alle modalità oggettive del suo operare nel traffico giuridico, con i limiti e per le finalità caratterizzate da un particolare ambito di rilevanza. Perciò l’attenzione finisce con il concentrarsi sulle specifiche finalità perseguite dalle regole poste a tutela del privato» (pp. 21-22).
Di là del diverso àmbito di operatività e della diversa forza armonizzante, le due direttive in commento sono state, invero, le prime – nonché, a oggi, anche le uniche2 – a recare discipline dalla dimensione «orizzontale»: la direttiva 1993/13/CEE si proponeva di ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’utilizzo da parte dei professionisti di clausole abusive in tutti i contratti stipulati con i consumatori3, indipendentemente cioè dalla modalità di contrattazione, dall’oggetto e dalla causa del contratto; del pari, la direttiva 2005/29/CE si proponeva di armonizzare la disciplina relativa a tutte le pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori (cd. business to consumers – anche “B2C”) poste in essere prima, durante e dopo (la conclusione di) un’operazione commerciale relativa a un qualsivoglia prodotto, a prescindere dal settore economico di riferimento e dalla natura dei beni o servizi offerti dal professionista4.
Detta condivisa caratteristica “sistemica” delle due direttive si riflette con evidenza anche nella tecnica normativa – la medesima, non a caso – con cui il legislatore europeo ha inteso strutturare i rispettivi impianti normativi. Ciò nel
2 Non si ritiene di poter considerare a carattere «orizzontale» o «trasversale» la direttiva 2011/83/UE (cd. Consumers Rights), recepita nell’ordinamento italiano con il D.lgs. n. 21/2014, giacché, diversamente dalla proposta originaria della Commissione di delineare una sorta di statuto dei diritti del consumatore, nella sua versione finale essa si è limitata a introdurre una disciplina destinata a trovare applicazione ai soli contratti a distanza (sostituendo la direttiva 85/577/CEE), ai contratti negoziati fuori di locali commerciali (sostituendo la direttiva 97/7/CE), ai contratti di vendita e di servizi (nei termini X. XXXXXXXX, Dei diritti dei consumatori nei contratti, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, a cura di X. XXXXX XXXXXX, Torino, 2015, pp. 87-88).
3 Cfr. Art. 1, para 1, e considerando 10 della direttiva n. 93/13/CEE; cfr. X. XXXXX, La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Clausole abusive e direttiva comunitaria – Atti del convegno di studi sul tema ‘Condizioni generali di contratto e direttiva C.E.E. n. 93/13 del 5 aprile 1993’, a cura di X. XXXXXX, Padova, 1994, pp. 83 ss., secondo il Quale la direttiva 93/13/CEE veniva a collocarsi su di un «piano generale», al livello cioè «del sistema del diritto dei contratti»; essa - prosegue l’A. - «concorre, infatti – come ulteriore, notevolissima tessera – a comporre il mosaico dei nuovi interventi normativi»; negli stessi termini ID., La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Le ragioni del diritto – Scritti in onore di Xxxxx Xxxxxxx, Vol. I, 1995, Milano. pp. 689 ss.; cfr. altresì X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumi in Italia, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., pp. 8-9; X. XXXXX DE MARINIS, Le clausole vessatorie a vent’anni dalla direttiva CEE 93/13, in Rass. dir. civ., 2014, II, p. 615.
4 Art. 3, para 1, direttiva n. 2005/29/CE; cfr. X. XXXXXXX, Le informazioni, Padova, 2012,
p. 98, il Quale riconosce la portata innovativa della direttiva 2005/29/CE, il cui «carattere generale» e il cui obiettivo della armonizzazione completa hanno attribuito «unità ed identità normativa» a una materia prima oggetto di sole normative settoriali; cfr. X. XXXXXXXX, Le pratiche commerciali scorrette, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., p. 162.
senso che la comune dimensione trasversale delle discipline non poteva non imporre che le valutazioni di abusività (rectius: vessatorietà) e slealtà (rectius: scorrettezza) si imperniassero su clausole di portata «generale»: come in base alla disciplina recata dalla direttiva 1993/13/CEE, le cui norme di attuazione oggi sono contenute negli artt. 33 ss. del D.lgs. 206/2005 (Codice del consumo), sono vessatorie tutte le clausole contenute nei contratti tra professionisti e consumatori che i) non siano state oggetto di trattativa individuale e che ii), «malgrado la buona fede», abbiano determinato a carico del consumatore «un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto»5; così, in base alla direttiva 2005/29/CE, le cui norme di attuazione si rinvengono oggi agli artt. 18 ss. cod. cons., sono sleali tutte le pratiche commerciali business to consumers che siano i) contrarie alla diligenza professionale e che ii) falsino o siano idonee a falsare «in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica sia diretta a un determinato gruppo di consumatori»6.
Può, allora, senz’altro condividersi l’opinione di Xxxxxx ha efficacemente rilevato come le due direttive in esame costituiscono i due grandi pilastri del sistema europeo recanti le regole, i.e. gli standard comportamentali, cui i professionisti debbono attenersi nella promozione, istaurazione e esecuzione di qualsivoglia rapporto commerciale con i consumatori; «un sistema che – è stato felicemente osservato – d’ora in poi sarà essenzialmente imperniato su due fondamentali divieti: il divieto di inserire (unilateralmente e senza «trattativa individuale») clausole abusive nei regolamenti negoziali destinati a disciplinare i rapporti contrattuali intercorrenti con consumatori e il divieto di ricorrere a
5 Così, precisamente, recita l’art. 3, para 1, della direttiva 1993/13/CEE: «una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto»; cfr. art. 33, comma 1°, del D.lgs. 206/2005.
6 Così l’art. 20, comma 2°, cod. cons.; cfr. artt. 5, para 2, della direttiva 2005/29/CE. Sul valore della clausola generale di slealtà e sul rapporto con le fattispecie “particolari” di pratiche commerciali ingannevoli e pratiche commerciali aggressive, v. infra, § 3.1.
«pratiche commerciali sleali» per promuovere l’istaurazione o in sede di esecuzione di tali rapporti»7.
È proprio una siffatta attitudine di queste due direttive, tale da erigerle a riferimento essenziale di ogni strategia di mercato per le imprese che vogliano operare nello spazio unico europeo, a stimolare un’indagine che non si limiti a trattarle isolatamente e separatamente, ma che piuttosto, in una prospettiva per così dire “ordinante”, sia per l’appunto in grado di coglierne la dimensione di sistema. E in tale prospettiva, l’interprete non potrà non sforzarsi di tentare – come in effetti i più attenti hanno tentato – un coordinamento tra le direttive in esame con ogni altro atto normativo europeo a esse preesistente e successivo; nonché, e anzi prim’ancora, un coordinamento tra le due stesse «direttive- pilastro» nn. 1993/13/CEE e 2005/29/CE.
Dopo tutto, un tale approccio – si crede – costituisce oggi un’esigenza ineludibile, ove si tenga debitamente a mente che gli interventi normativi dei primi decenni di politiche europee del consumatore hanno concepito, in ragione della loro specificità, una disciplina frammentaria, venutasi a comporre
«gradualmente e asistematicamente»8. È nota, in questo senso, la tendenza fatta propria dal legislatore europeo (e, appresso, di quello italiano), che negli anni si è principalmente adoperato a «ricomporre l’esistente» piuttosto che a «disegnare il futuro»9, mostrandosi più preoccupato di rispondere a esigenze economiche e
7 Così G. DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di ID., Torino, 2007, pp. 124-125.
8 Nei termini X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumi in Xxxxxx, xxx., x. 0. Ci riferiamo, in particolare, al periodo che l’A. descrive come «prima fase» dell’evoluzione delle politiche dei consumatori, caratterizzata da interventi che incidono sui diversi segmenti nei quali si articola il rapporto individuale tra il consumatore e il professionista; cfr. altresì X. XXXXX, La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Clausole abusive e direttiva comunitaria – Atti del convegno di studi sul tema ‘Condizioni generali di contratto e direttiva C.E.E. n. 93/13 del 5 aprile 1993’, cit., p. 83, il Quale, nel commentare la portata innovativa della direttiva 93/13/CEE, definisce «alluvionale» il ritmo con cui si sono accumulati i precedenti interventi normativi. Nel complesso, osserva l’A. (p. 84), si tratta di «un imponente materiale normativo che si carica tutto insieme sul tavolo dello studioso del diritto contrattuale, obbligandolo a un complicato lavoro di analisi, di ricostruzione, di risistemazione».
9 Le espressioni sono sempre di X. XXXXX XXXXXX, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Eur. dir. priv., 2010, f. 3, p. 685; cfr. X. XXXXXXXX, Per l’assetto normativo del mercato interno europeo: proposte e prospettive, in Riv. dir. civ., 2003, I, pp. 400 ss.
sociali estemporanee di una realtà complessa e in continuo mutamento, e dunque per lo più «attento a problemi contingenti ai quali intende dare una risposta immediata»10, che non di soddisfare esigenze sistematiche11.
In questa prospettiva, il presente contributo – dopo un breve ricognizione in ordine a portata e àmbito di applicazione delle direttive n. 1993/13/CEE in materia di clausole abusive e n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali cd. B2C – tenterà di illustrare come i rispettivi impianti normativi interagiscono e si coordinano tra loro, sia là dove essi convivono12, sia là dove i rispettivi àmbiti di azione si sovrappongono13.
2. La direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 e il codice del consumo (D. Lgs. 206/2005). L’àmbito di applicazione e la trattativa individuale.
La direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 199314, «concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori»15, ha segnato – come
10 X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 685; cfr. ID., Diritto comunitario, «legislazione speciale» e
«codici di settore», in Riv. notariato, 2009, f. 1, pp. 11 ss., la Quale efficacemente rileva come il sistema non rappresenta più «un qualcosa di «dato», un «prius» posto dal potere legislativo, che funge da indirizzo certo per la soluzione dei diversi problemi che si vengono a porre in concreto. Esso, semmai, rappresenta il «risultato» che emerge dal raffronto, frutto di un’opera di coordinamento, delle diverse risposte che il legislatore ha dato per la soluzione dei problemi specifici».
11 Sul delicato ruolo dell’interprete si veda già X. XXXXXXXXX, La logica e i concetti giuridici, in Diritto civile, metodo, teoria, pratica, Milano, 1951, pp. 667 ss.
12 V. infra, Cap. 2.
13 Per tale profilo v. infra, Capp. 3-4.
14 G.U.C.E., n. L. 095 del 21 aprile 1993, pp. 29 ss.
15 La letteratura sul tema è molto vasta. In commento alla direttiva 93/13/XXX x. X. XXXXXXXX, I contratti con i consumatori e le clausole abusive nella direttiva comunitaria: prime note, in Riv. crit. Dir. priv., 1992, pp. 467 ss.; X. XXXX, Le clausole abusive nei contratti dei consumatori, in Corr. giur., 1993, pp. 635 ss.; X. XXXXX – X. XXXXXXXXXX, Clausole abusive, in Enciclopedia Giuridica, Vol. VI, Roma, 1994, pp. 1 ss.; X. XXXXXXXXX, in Clausole abusive, pardon vessatorie: verso l'attuazione di una direttiva abusata, in Riv. crit. dir. priv., 1995, pp. 523 ss.; X. XXXXXXX XXXXXX, Le clausole abusive nei contratti conclusi con i consumatori, in Rass. dir. civ., I, 1995, pp. 347 ss. In commento alla normativa di recepimento, di cui agli artt. 33 ss. D.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (già artt. 1469 bis ss. c.c.), v. AA.VV., Clausole vessatorie e contratto del consumatore (artt. 1469-bis e ss.), a cura di X. XXXXXX, Padova, 1996; X. XXXXX, Clausole vessatorie, in Enciclopedia Giuridica, Vol. VI, Roma, 1996, pp. 1 ss.; AA.VV., La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel Codice civile, a cura di X. XXXXXXXX, Napoli, 1996; X. XXXXXXX, La tutela del consumatore: le clausole abusive, in Corr. giur., 1996, 3, pp. 248 ss.; X. XXXXXXX, Clausole vessatorie, clausole abusive: le linee di fondo di una nuova disciplina. Commento alla l. 6 febbraio 1996 n. 52, in Notariato, 1996, pp. 284 ss.; AA.VV., Clausole “vessatorie” e “abusive” – Gli artt. 1469-bis ss. c.c. e i contratti col consumatore, a cura di U.
anticipato – una vera e propria svolta nella disciplina dei contratti del consumatore. Essa, alla data della sua adozione, rappresentava senza alcun dubbio l’intervento legislativo comunitario più importante in materia di disciplina dell’attività di impresa e di tutela dei consumatori16.
Per tutto il periodo antecedente la sua entrata in vigore, gli interventi normativi europei di protezione del consumatore avevano invero recato discipline di tipo «verticale», aventi a oggetto per lo più singoli tipi negoziali o singole tipologie di operazioni «merceologicamente» individuate, in quanto riferite a specifici settori di mercato o a determinati beni e servizi (contratti turistici, assicurativi, bancari, di intermediazione finanziaria, ecc.)17. La direttiva sulle clausole abusive inserite nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori si connotava, per contro, per recare una disciplina di tipo «orizzontale», avendo a riferimento modalità di contrattazione e contenuti negoziali in potenza riscontrabili, indistintamente, in ogni operazione negoziale e nei più vari settori del mercato.
Xxxxx dalla preoccupazione che le «notevoli disparità» tra le legislazioni nazionali in materia di protezione del consumatore avverso le clausole imposte e predisposte dal professionista potesse determinare gravi «distorsioni di concorrenza»18, nonché dal connesso obiettivo di stimolare le transazioni
XXXXXXX, Milano, 1997; AA.VV., Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori. Commentario agli artt. 1469-bis – 1468-sexies del codice civile; a cura di X. XXXX – X. XXXXX, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXXXXX, Profili della disciplina nuova delle clausole cd. vessatorie cioè abusive, in Europa e dir. priv., 1998, pp. 5 ss.; X. XXXXXXXXX, L’inefficacia delle clausole abusive, in Europa e dir. priv., 1998, pp. 45 ss.; AA.VV., Commentario al Capo XIV-bis del codice civile: dei contratti del consumatore, a cura di C.M. BIANCA – X.X. XXXXXXXX, Xxxxxx, 0000; X. XXXXXXXXX, Tutela del consumatore e clausole vessatorie, Napoli, 1999; C.M. XXXXXX, Il contratto, in Diritto civile, Vol. 3, Milano, 2000, pp. 373 ss.; X. XXXXXXXX, I contratti con i consumatori, Milano, 2000; AA.VV., Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di X. XXXX-S. PATTI, Milano, 2003; AA.VV., I contratti dei consumatori, a cura di X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, in Trattato dei contratti, diretto da X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, Vol. 3, Torino, 2005; AA.VV., Codice del consumo. Commentario, a cura di X.XXXX. – X. XXXXX XXXXXX, Napoli, 2005; AA.VV., Codice del consumo. Commentario, a cura di X. XXXXXXX, Padova, 2007; AA.VV., Codice del consumo, a cura di X. XXXXXXX, Xxxxxx, 0000; AA.VV., Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di X. XXXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Padova, 2013; X. XXXXX, I contratti del consumatore: le clausole vessatorie, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., pp. 47 ss.;
16 G. ALPA, Codice del consumo. Commentario, a cura di ID. – X. XXXXX XXXXXX, cit., p. 25.
17 Così X. XXXXX, o.u.c., p. 1.
18 Cfr. considerando 2.
commerciali a livello transnazionale19, il legislatore europeo ha così elaborato un nucleo minimo di «regole uniformi», valevoli in tutti gli Stati membri e per tutti i contratti stipulati tra professionisti e consumatori (cd. mercato finale)20. La tecnica normativa adoperata è stata, precisamente, quella della cd. armonizzazione minima, col che rimanendo consentito agli Stati membri di adottare o mantenere disposizioni più severe, compatibili con il Trattato, per garantire un più elevato livello di protezione per il consumatore21.
Nell’ordinamento italiano - come noto - la direttiva 1993/13/CEE è stata dapprima recepita, ai sensi dell’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52, con l’introduzione di un gruppo di disposizioni, gli artt. 1469-bis ss., inserite nel (nuovo) Capo XIV-bis del codice civile, rubricato “Dei contratti del consumatore”22. Con l’introduzione del codice del consumo, le disposizioni di attuazione della direttiva sono poi confluite, con la medesima formulazione e lo stesso contenuto precettivo, negli artt. 33 ss. (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), mentre l’art. 1469-bis c.c. si è trasformato in una norma di raccordo tra la disciplina del codice civile e quelle a tutela del consumatore contenute nel codice del consumo o in altre disposizioni settoriali23. Quanto alla tecnica legislativa impiegata dal legislatore italiano, sin da un prima e rapida lettura delle disposizioni, emerge che il tenore letterale delle stesse ricalca quasi
19 Cfr. considerando 7, ove si legge che l’eliminazione delle clausole abusive dai contratti con i consumatori faciliterà i venditori di beni e i prestatori di servizi «nelle loro attività commerciali sia nel proprio Stato che in tutto il mercato unico» e stimolerà «la concorrenza, contribuendo così a maggiori possibilità di scelta per i cittadini comunitari in quanto consumatori».
20 Cfr. considerando 10.
21 Cfr. considerando 12 e art. 8: «Gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore».
22 Per un’analitica illustrazione dell’iter parlamentare v. X. XXXX, Introduzione, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori – Commentario agli artt. 1469-bis – 1468- sexies del codice civile; cit., pp. XXXII ss.; X. XXXXX, o.u.c., pp. 1-2.
23 L’attuale art. 1469-bis c.c., come modificato dall'art. 142 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, così recita: «Le disposizioni del presente titolo si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore». Si ritiene che la funzione della norma sia quella di dettare i criteri mediante i quali risolvere eventuali antinomie che si dovessero riscontrare fra una disposizione del Titolo II del Libro IV c.c. e una disposizione del codice del consumo o di altri provvedimenti normativi (cfr. X. XXXXXXXX, sub art. 1469 bis, in Commentario breve al codice civile, a cura di X. XXXX, Padova, 2014, pp. 1618- 1619; X. XXXXXXX, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contratti, n. 2, 2006, p. 172- 173).
pedissequamente, anche là dove non risultava necessario, quello delle disposizioni della direttiva, secondo un prassi legislativa oramai collaudata nel recepimento delle direttive europee e che spesso – e a ragione – è stata tacciata di superficialità e ruvidezza stilistica24. L’unico spunto terminologico degno di nota del legislatore nazionale ha visto l’utilizzo del termine «vessatorie» in luogo del termine
«abusive»; una scelta, questa, che ai più è sembrata venata da un certo nazionalismo linguistico25, dettata cioè dall’idea di evocare una sorta di continuità con la normativa portata dagli artt. 1341, comma 2°, e 1342 c.c., relativa per l’appunto a clausole anch’esse tradizionalmente – anche se non normativamente – definite «vessatorie».
L’àmbito di applicazione della disciplina è limitato, sul piano soggettivo, ai soli contratti intercorrenti tra le due categorie del consumatore e professionista (artt. 1, para 1, direttiva 1993/13/CEE e 33, comma 1°, cod. cons.), come definite
- nella sostanza in modo corrispondente alla definizioni date dalla direttiva all’art. 2, lett. a) e b)26 - dall’art. 3, lett. a) e c), cod. cons. (già art. 1469-bis, comma 2°, c.c.). Il consumatore27, precisamente, è «la persona fisica che agisce per scopi
24 Molto critico è X. XXXXXXX, Le problematiche generali, in Clausole “vessatorie” e “abusive” – Gli artt. 1469-bis ss. c.c. e i contratti col consumatore, cit., p. 7. In commento agli artt. 1469-bis ss., l’A. osserva come la portata innovativa della novella codicistica avrebbe meritato ben altra attenzione e cura nella sua formulazione: «la novella precipuamente consiste in mera – e talora errata – traduzione del testo linguistico della direttiva da attuare; addirittura calata come corpo bruto all’interno del codice civile».
25 Così X. XXXXX, o.u.c., p. 2. L’A. ricorda, xxxxxx, che il termine «abusive» era senz’altro il più accreditato a livello internazionale (sotto l’influenza delle discipline tedesca e francese), come peraltro dimostra che lo stesso è stato poi utilizzato dalla versione italiana della direttiva 1993/13/CEE (cfr. artt. 2, lett. a), e 3, para, 1).
26 Queste le definizioni di cui all’art. 2, lett. b) e c) della direttiva 1993/13/CEE: consumatore è «qualsiasi persona fisica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale»; professionista è «qualsiasi persona fisica o giuridica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata».
27 L’art. 3, lett. a), per la verità, contiene il riferimento alle figure di «consumatore» e
«utente». Al riguardo, è stato rilevato come l’impiego nella definizione della congiunzione disgiuntiva «o» da parte del legislatore sembrerebbe suggerire che il significato e la portata dei due termini siano identici (così E. XXXXXXXXX, Dei contratti del consumatore in generale, Torino, 2010, p. 36). Altri, invece, muovendo dal rilievo che in tutte le altre disposizione del codice il termine «utente» è accostato al termine «consumatore» dalla congiunzione «e», ritiene che l’incertezza terminologica possa essere superata attribuendo alla figura dell’«utente» la funzione di designare le persone fisiche che usufruiscono di servizi pubblici. Gli «utenti» non sarebbero, cioè, altro che una species del più ampio genus «consumatori», rispetto al quale si specificherebbero in forza della natura pubblica del servizio di cui sono destinatari (così G. DE CRISTOFARO, sub. art. 3, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 65).
estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»28; professionista è, invece, «la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale e professionale, ovvero un suo intermediario»29.
Sotto il profilo oggettivo, s’è detto che la disciplina prescinde dal tipo contrattuale o dallo specifico settore dell’attività professionale30. Avuto riguardo alla ragione della normativa - che introduce un controllo sostanziale dei contratti contro gli abusi di chi ha il potere di predisporne e imporne il contenuto31 - il suo àmbito di operatività è però da circoscriversi alle sole clausole che siano state
28 Secondo il costante orientamento della giurisprudenza (di legittimità e merito), per escludere che un contratto possa essere qualificato come «contratto del consumatore» non è indispensabile che sia stato stipulato «nell’esercizio» dell’attività imprenditoriale o professionale, essendo per contro sufficiente che sia stato posto in essere per uno «scopo connesso all’esercizio» di siffatte attività. È invece sempre «del consumatore» il contratto che sia stato posto in essere dal soggetto che, ancorché esercitante un’attività imprenditoriale o professionale, abbia agito per il soddisfacimento di bisogni privati (personale o familiare) o di esigenze della vita quotidiana. Cfr., tra i più recenti pronunciamenti, Giudice di pace Milano Sez. III, 04/05/2017; Trib. Nuoro, 12/10/2015; Cass. civ. Sez. VI - 3 Ordinanza, 12/03/2014, n. 5705; Cass. civ. Sez. VI - 1 Ordinanza, 28/08/2012, n. 14679; Cass. civ. Sez. VI Ordinanza, 14/07/2011, n. 15531; tutte in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx. In dottrina v. X. XXXXX, sub art. 3, in Codice del consumo, cit.,
p. 19. Non sembra dunque aver trovato accoglimento l’opinione di quella dottrina secondo cui
«contratto del consumatore» è anche quello che, pur essendo stipulato nel quadro dell’attività professionale o imprenditoriale, si ponga rispetto a tali attività in un rapporto di strumentalità meramente occasionale (cfr. X. XXXXXXXXX, Il consumatore e il professionista, in I contratti dei consumatori, a cura di X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, in Trattato dei contratti, diretto da X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, cit., p. 21). Quanto ai contratti stipulati per «finalità promiscue» o
«scopi misti», la Corte di Giustizia ha escluso che questi possano essere imputati a un
«consumatore» (Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:2005:32), 20/01/2005, C-464/01, in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx).
29 Si ritiene che ai fini della qualificazione come «professionista» rilievo decisivo assumono le caratteristiche dell’attività nell’esercizio della quale viene concluso il contratto: l’attività deve i) avere natura economica, ii) essere connotata da abitualità, ovvero svolta in modo non occasionale e iii) essere connotata da un minimo di organizzazione (così G. DE CRISTOFARO, o.u.c., pp. 80 ss.). Si considera altresì «professionista» colui il quale abbia contratto nello svolgimento di attività preparatorie e strumentali rispetto a una futura attività imprenditoriale o professionale (cfr. Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:1997:337), 03/07/1997, C-269/95, in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx).
30 A tal riguardo, deve rilevarsi che, già con l’art. 25 della l. 21 dicembre 2012, n. 526 («Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee – Legge comunitaria 1999»), è stato eliminato l’inciso che limitava l’àmbito di applicazione della disciplina al contratto «che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi» e che, nell’originaria formulazione dell’art. 1469-bis, era inserito immediatamente dopo il termine «professionista». La detta soppressione, precisamente, si è resa necessaria per adeguare il testo normativo alle indicazioni della Commissione Europea (cfr. procedura di infrazione n. 98/2026 ex art. 169 del Trattato di Roma) che aveva ritenuto la formulazione nazionale limitativa dell’àmbito di tutela del consumatore (cfr. G. ALPA – X. XXXXX, Introduzione, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di IDD., cit., pp. 12 ss.).
31 Così C.M. XXXXXX, Il contratto, in Diritto civile, cit., p. 377.
predisposte unilateralmente dal professionista, costituiscano o meno esse
«condizioni generali di contratto» (ex art. 1341 c.c.). La disciplina di protezione del consumatore contro le clausole abusive, in altri termini, muove dalla empirica constatazione che la capacità di predisporre e imporre unilateralmente il contenuto del regolamento contrattuale da parte del professionista/contraente «forte» spesso impedisce al consumatore/contraente «debole» di compiere una scelta libera, informata e (dunque) razionale, così costringendolo a un regolamento
«squilibrato». È invece irrilevante, di per sé32, che le clausole unilateralmente predisposte sia utilizzate dal professionista per regolare una serie indefinita di rapporti contrattuali omogenei33; anche se appare innegabile – come mostra costantemente la prassi – che la disciplina è destinata a operare per lo più proprio nel campo delle condizioni generali di contratto, là dove, in ragione delle esigenze imposte dai frenetici ritmi della moderna produzione di massa, il regolamento contrattuale non è normalmente oggetto di negoziato tra le parti34.
32 La circostanza che determinate clausole vengano utilizzate per disciplinare in modo uniforme tutti i rapporti del professionista non incide, di per sé, sulla natura vessatoria delle stesse. Essa, piuttosto, introduce un particolare regime della prova ai fini dell’accertamento della vessatorietà: se in virtù della regola generale di ripartizione della onere probatorio (art. 2967 c.c.), il consumatore che voglia far valere la vessatorietà di una clausola è tenuto a provare il fatto della sua unilaterale predisposizione, nell’ipotesi in cui questa sia inserita in condizioni generali di contratto sarà il professionista, ex art. 34, comma 5°, cod. cons., a dover provare che le clausole siano state negoziate. Opera cioè un’inversione dell’onere della prova, fondata su di una presunzione legale relativa concernente l’assenza di negoziato (cfr. P. SIRENA, sub art. 1469-ter, 5°, comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di X. XXXX-X. XXXXX, cit., pp. 1007-1008; X. XXXXXXXXXX, sub. art. 1469 ter, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore (artt. 1469-bis e ss.), a cura di X. XXXXXX, cit., p. 419; X. XXXXXXXX, sub. art. 34, in Codice del consumo, cit., p. 225).
33 La disciplina recata dalla direttiva 93/13/CEE è «disciplina dei contratti per adesione, non necessariamente dei contratti standard» (così. X. XXXXX, o.u.c., p. 3)
34 Cfr. C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 375. È proprio il frequente ricorso da parte degli operatori professionistici a modelli contrattuali uniformi a determinare la coesistenza della disciplina consumeristica con quella codicistica (ex artt. 1341-1342 cod. civ.); sul distinto àmbito di applicabilità delle due discipline e sulla possibilità di un loro concorso, v. in giurisprudenza, per tutte, Cass. civ. Sez. III, 20/03/2010, n. 6802, in Giust. civ. Mass., 2010, 3, 407, secondo cui: «La disciplina di tutela del consumatore posta dagli art. 33 e ss. d.lg. 6 settembre 2005 n. 206 (c.d. Codice del consumo) prescinde dal tipo contrattuale prescelto dalle parti e dalla natura della prestazione oggetto del contratto, trovando applicazione sia in caso di predisposizione di moduli o formulari in vista dell'utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, che di contratto singolarmente predisposto. Infatti, detta disciplina è volta a garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale, con la conseguenza che la vessatorietà della clausola può ben attenere anche al rapporto contrattuale che sia stato singolarmente ed individualmente negoziato per lo specifico affare (come nella specie, concernente un contratto di appalto privato di lavori di ristrutturazione di un immobile), risultando,
Sul piano oggettivo, pertanto, l’assenza di trattativa individuale si atteggia – come è stato rilevato – a presupposto applicativo (negativo) della disciplina di protezione del consumatore, quale elemento valevole cioè a definire in negativo il campo di applicazione della tutela35. E in questo senso sembrerebbe dover essere inteso l’inciso di cui all’art. 3, para 1, della direttiva 1993/13/CEE («Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale […]»)36, in tal guisa volendo il legislatore europeo escludere in radice dallo spettro di applicazione della regola le clausole individualmente negoziate37.
Non si è compresa, per contro, la diversa scelta operata dal legislatore nazionale, il quale, abbandonando la traccia formale e l’impostazione di fondo della direttiva 1993/13/CEE, ha inserito la corrispondente previsione non tra gli elementi della fattispecie che ne definiscono il campo di applicazione, bensì all’interno della disposizione (art. 34, comma 4°, cod. cons.; già art. 1469-ter, comma 4°, c.c.) che disciplina le modalità di «accertamento della vessatorietà»38. È proprio in forza di tale diversa prospettiva formale adottata dal legislatore italiano che il negoziato individuale, anche alla luce del tenore letterale dell’incipit dell’art.. 33, comma 4° («Non sono vessatorie…»), è a taluni parso rappresentare uno degli elementi incidenti sulla valutazione della natura vessatoria della clausola, come fosse una sorta di «qualità redimente»39 o «fattore impeditivo»40 della vessatorietà.
quindi, categoria diversa dall'onerosità ex art. 1341, comma 2, c.c., con cui concorre unicamente nell'ipotesi, per l'appunto, di contratti unilateralmente predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell'utilizzazione per una serie indefinita di rapporti». In dottrina, sul doppio concorrente controllo (formale e sostanziale), v. X. XXXXXXXX, sub art. 33, in Codice del consumo, cit., pp. 223-224; X. XXXXX, o.u.c., pp. 13-14; C.M. XXXXXX, o.u.c., pp. 375-376.
35 L’espressione è di X. XXXXXXX, sub. art. 34, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 386 ss.
36 Così, per intero, l’art. 3, para 1:«Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto» (il corsivo è nostro).
37 Cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., p. 386.
38 X. XXXXXXX, o.u.l.c.
39 Così X. XXXXXXXXX, in o.u.c., pp. 529 ss. e, precisamente, p. 531.
40 cfr. X. XXXXX, o.u.c., p. 9; C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 380; X. XXXXXXXXXXXX, Principi generali e disciplina speciale nell’interpretazione dei contratti dei consumatori, in Riv. dir. comm., 1997, pp. 947 ss.; X. XXXXXXXXXX, Profili della disciplina nuova delle clausole cd.
La tesi non è sembrata però convincente ai più, i quali, muovendo dal rilievo che per l’art. 3, para 1, della direttiva (come anche per l’art. 33, comma 1°, cod. cons.) il carattere vessatorio di una clausola è fatto dipendere esclusivamente dal
«significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», hanno condivisibilmente osservato come l’assenza (o la presenza) di una trattativa individuale non può dirsi assurgere a elemento costitutivo (o impeditivo) della vessatorietà della clausola, quanto piuttosto, e più semplicemente, a elemento o presupposto determinante (o meno) l’operatività della disciplina41. Tale orientamento appare maggiormente condivisibile posto che meglio coglie – si crede – la ratio della disciplina in esame, volta com’è a tutelare la pienezza e l’integrità dell’autonomia privata del consumatore; esigenza di protezione, questa, che, per converso, viene meno proprio in presenza di una trattativa individuale, la cui effettiva conduzione e positiva conclusione fanno ritenere «integra» l’autonomia negoziale del consumatore42. «La regolamentazione dell’assetto di interessi emergente all’esito delle specifiche trattative – è stato felicemente osservato -, pur se oggettivamente non vantaggiosa e anzi penalizzante per il consumatore, […] non può infatti ricondursi che all’esplicazione nel caso dell’autonomia privata delle parti e all’operare nei loro confronti del principio di autoresponsabilità»43.
vessatorie cioè abusive, cit., pp. 8 ss.; G. ALPA - X. XXXXXXX, L’applicabilità della disciplina sulle clausole abusive ai contratti di locazione di immobili urbani, in Arch. Loc., 1997, p. 9 ss.; B. POSTIGLIONI, L’impatto della direttiva comunitaria 92/13, e della legge di attuazione 52/96, sulla prassi dei contratti assicurativi, in Resp. Comunic. Impr., 1997, pp. 75 ss.; X. XXXXXXX, x.x.x., x. 000.
00 Cfr. L.A. XXXXXXX, sub art. 1469-ter, 4°comma, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori. Articoli 1469-bis – 1469-sexies del Codice Civile, a cura di X. XXXX – X. XXXXX, cit., p. 941 ss.; X. XXXXXXXX, sub. art. 1469-bis, 3° comma, n. 1 – art. 1469-quinquies, 2° comma, n. 1, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di X. XXXX-X. XXXXX, cit., p. 221; X. XXXXXXXX, sub art. 34, in Codice del consumo, cit., p. 225.
42 In questo senso sembra deporre anche l’art. 3, para 2, secondo il quale a fronte di una clausola che non sia stata oggetto di negoziato individuale – quale è quella «redatta preventivamente in particolare nell'ambito di un contratto di adesione» – il consumatore non ha il potere di «esercitare alcuna influenza sul suo contenuto».
43 Così L.A. XXXXXXX, o.u.c., p. 948. Nello stesso senso anche X. XXXXXXXXX, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, cit., p. 26, il Quale così rileva: «se questa [la trattativa, n.d.r.] v’è stata, quelle clausole, dal medesimo contenuto, non vanno più neanche qualificati come vessatorie […]. Si tutela dunque il contratto, come mezzo di scambio negoziato, per consentire al mercato di funzionare, e non il consumatore, in sé, il quale può ben addossarsi, dopo averli negoziati col professionista, obblighi eccessivi, comunque «squilibrati» a fronte dei diritti
2.1 (Segue) La clausola generale di abusività (rectius: vessatorietà). La buona fede.
Alla direttiva n. 13 del 5 aprile 1993 deve riconoscersi il pregio di avere condotto a conclusione un tormentato dibattito lungo oltre un secolo, quello relativo alle modalità e al contenuto della tutela dell’aderente a condizioni contrattuali unilateralmente predisposte44.
Nella prospettiva dell’ordinamento italiano, in particolare, l’intervento del legislatore europeo ha rappresentato la spinta per superare definitivamente la resistenza che, per decenni, la giurisprudenza e il legislatore italiani avevano opposto all’introduzione di controlli di tipo sostanziale dei contratti standard. Il contenuto e la portata precettiva degli artt. 1341 e 1342 c.c. - la cui collocazione nella sezione dedicata all’accordo delle parti già tradiva lo scopo di garantire la mera sussistenza dei presupposti formali di un consenso - non avevano invero consentito il ricorso a criteri più elastici, quale quello della buona fede (intesa nella sua portata oggettiva), che consentissero un controllo di tipo sostanziale- contenutistico45.
Sulla scorta dell’esperienza tedesca, e in particolare del modello di cui al § 9 della legge del 1976 (AGB-Gesetz)46, la direttiva 1993/13/CEE ha quindi imposto
derivanti dal contratto»[…]». Per più completo un quadro delle posizioni dottrinali, si rimanda a
X. XXXXXXX, sub art. 34, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 386 ss.
Quanto ai caratteri essenziali della trattativa, v., su tutti, L.A. XXXXXXX, x.x.x., pp. 969 ss., secondo il quale essi sono: i) l’individualità, ii) la serietà, iii) l’effettività.
44 Così X. XXXXX, Introduzione, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori. Commentario agli artt. 1469-bis – 1468-sexies del codice civile, a cura di X. XXXX – ID., cit., p. XLV.
45 E tanto nonostante fosse numerosi i riferimenti normativi che nel nostro codice civile (artt. 1175, 1337, 1366 e 1375 c.c.) avrebbero senz’altro potuto rappresentare la base di un controllo sostanziale (cfr. X. XXXXX, o.u.c., XLVII). In questo senso l’esigenza di un siffatto controllo era stata messa in luce dalla Commissione Bianca, che, già nel 1981, aveva elaborato in questa direzione un progetto di riforma della disciplina delle condizioni generali di contratto. Il progetto, più precisamente, ispirato al modello della legge tedesca sulle condizioni generali di contratto, avrebbe voluto introdurre una clausola generale che giudicava nulle le clausole che
«alterano l’equilibrio del contratto in pregiudizio dell’aderente senza giustificarsi obiettivamente nell’economia dell’affare» e che, in generale, non sono «conformi alle regole della correttezza, anche professionale, e dell’equità» (il testo del progetto di riforma è consultabile in S. TONDO, Su un progetto di riforma della disciplina delle condizioni generali di contratto (in margine al convegno di Fiuggi del 5-6 giugno 1981), in Xxxx.xx, 1981, V, pp. 282 ss., precisamente p. 292).
46 Oltre all’esperienza tedesca, anche quelle inglese (Unfair Contract Terms del 1977) e francese (Loi Xxxxxxxxx del 1978) avrebbero costituito modelli di riferimento per il legislatore comunitario (cfr. X. XXXXXXX, sub. art. 33, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 256).
agli Stati membri l’adozione di un controllo sostanziale (i.e. di contenuto) delle condizioni unilateralmente predisposte nei contratti tra professionisti e consumatori; controllo che risulta imperniato su di una clausola generale, seguita da un elenco non esaustivo (contenuto nell’allegato n. 1 della direttiva) di clausole il cui carattere abusivo, ancorché con evidenza più marcato, doveva avere solamente valore indicativo47.
La clausola generale, precisamente, trova collocazione nell’art. 3, para 1, della direttiva, e definisce come «abusiva» la clausola contrattuale che, oltre a non essere stata oggetto di negoziato tra le parti, determina a carico (e a danno) del consumatore, «malgrado il requisito della buona fede», un «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto».
La formulazione della clausola generale di vessatorietà adottata dal legislatore italiano, oggi contenuta nell’art. 33, comma 1°, cod. cons. (già art. 1469-bis c.c.), non si discosta significativamente da quella comunitaria. Essa, invero, definisce «vessatoria» la clausola contrattuale «che, malgrado la buona fede, determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto», ovvero uno squilibrio cd. normativo48. Raccogliendo il suggerimento della direttiva, il legislatore italiano ha inoltre recepito (all’art. 33, comma 2°, cod. cons, già art. 1469-bis, comma 3°, c.c.)
47 cfr. considerando 17 e art. 3, para 3.
48 Tale è lo squilibrio che corre tra le rispettive posizioni giuridiche che la clausola attribuisce alle parti. Pertanto, il controllo di vessatorietà non può estendersi «al sindacato della stretta convenienza economica dell’affare, ossia alla congruità del rapporto esistente tra il valore della prestazione principale a carico di una parte e il corrispettivo a cui l’altra è tenuta (c.d.
«squilibrio economico»), la determinazione di quest’ultimo rimanendo, in linea di principio, nella disponibilità delle parti» (così X. XXXXXXX, o.u.c., p. 268): il che, peraltro, sembra trovare sicura conferma nel disposto dell’art. 34, comma 2°, cod. cons. (già art. 1469 ter, comma 2°, c.c.), a mente del quale «la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
È stato però osservato come la distinzione operata dal legislatore tra «equilibrio normativo» e «equilibrio economico» si presti ad alcuni rilievi critici, in primo luogo per la considerazione che
«qualsiasi clausola del contratto, e non soltanto quelle che definiscono la natura delle prestazioni principali, è potenzialmente in grado di incidere sulla convenienza, anche economica, dell'affare per l'una o per l'altra parte […], e questo per l'ovvia ragione che il contratto è, per definizione, e in tutti i suoi aspetti, strumento per regolare la sfera dei rapporti patrimoniali dei contraenti» (X. XXXXXXX, sub art. 1469-bis, 1° comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, cit., p. 68 ss.).
l’elenco di clausole indicativamente vessatorie contenuto nell’allegato49, cui ha attribuito un preciso e diverso valore normativo, invero stabilendo che le clausole ivi contenute debbono presumersi vessatorie50. Ha rappresentato invece una significativa novità rispetto alla disciplina della direttiva l’elenco di tre clausole, contenuto nell’art. 36, comma 2°, cod. cons. (già art. 1469-quinquies, comma 2°, c.c.) da considerarsi nulle «quantunque oggetto di trattativa»51.
Ai fini che qui interessano, nell’ottica cioè di un raffronto con la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, conviene in particolare soffermarsi sul significato e sulla portata applicativa della clausola generale di abusività (o
49 Delle clausole così elencate sembra condivisile la classificazione offerta già dai primi commentatori, che vede: da un lato, i) le cd. clausole di «squilibrio», tutte accomunate dal dato (positivizzato nella stessa formula della clausola generale) di prevedere determinati pesi contrattuali a carico del solo consumatore, ovvero determinati vantaggi a favore del solo professionista; dall’altro, ii) le cd. clausole di «sorpresa», il cui connotato comune (originariamente presente nella formula dell’art. 3, para 1°, della direttiva, poi espunto) è di rendere l’esecuzione del contratto significativamente differente da quella che il consumatore legittimamente si potrebbe attendere (così X. XXXXX, o.u.c., p. 5 ss.; X. XXXXX – X. XXXXXXXXXX, Clausole abusive, in Enciclopedia Giuridica, cit., p. 3 ss.).
50 Al riguardo, è stato correttamente rilevato come il contenuto della disposizione – secondo cui «si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole» ivi contenute – sia in realtà estraneo al modello della presunzione legale relativa (cd. juris tantum), che invero può avere a oggetto (ex art. 2727 c.c.) solamente un fatto, e non anche un giudizio: «la norma, piuttosto, prevede una regola particolare sull’onere della prova, divergente da quella dettata dall’art. 2697 c.c.» (così P. SIRENA, sub art. 1469-bis, 3° comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di X. XXXX-X. XXXXX, cit., p. 207; cfr. X. XXXXXXXXXX, o.u.c, p. 10 ss.). La norma, in altri termini, ricorrendo una delle clausole ivi elencate, addossa al professionista l’onere di allegare e provare il difetto del «significativo squilibrio malgrado la buona fede».
51 Si tratta di un’innovazione senz’altro legittima, stante la facoltà espressamente riconosciuta (considerando 12 e art. 8) agli Stati membri di introdurre disposizioni più severe al fine di garantire un più elevato livello di tutela del consumatore. Anche in tale caso, però, il legislatore ha peccato di imprecisione e incoerenza, giacché le stesse tre clausole contemplate dall’art. 36, comma 2° (che sono nulle «quantunque oggetto di trattativa»), sono altresì contemplate dall’art. 33, comma 2°, lett. a), b) e l) (tra le clausole, cioè, che si presumono vessatorie fino a prova contraria). In assenza di un espresso criterio di orientamento, il rapporto tra le due disposizioni è stato ricostruito dalla dottrina secondo due diverse interpretazioni: per taluni, la ripetizione delle medesime clausole nell’art. 36 cod. cons. varrebbe unicamente a escludere che per vincere la presunzione relativa di vessatorietà non sarebbe concesso ricorrere alla prova contraria della trattativa, ma soltanto a altre diverse prove (in questo senso X. XXXXX, o.u.c., p. 9;
X. XXXXX, Gli elenchi di clausole vessatorie, in I contratti dei consumatori, a cura di X. XXXXXXXXX
– X. XXXXXXXXX, in Trattato dei contratti, diretto da X. XXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, cit., pp. 194-195;
X. XXXXXXXXX, Tutela del consumatore e clausole vessatorie, cit., pp. 170 ss.); per altri, la ripetizione delle medesime clausole nelle due diverse disposizioni sarebbe il frutto della negligenza del legislatore, a fronte della quale non vi sarebbe altra soluzione che interpretare l’elenco di cui all’art. 36, comma 2°, come una «lista nera» di clausole, da considerarsi sempre e senz’altro nulle perché oggetto di una presunzione assoluta di vessatorietà (Cfr. X. XXXXXX, art. 1469-quinquies, in La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel Codice civile, a cura di X. XXXXXXXX, cit., pp. 196 ss.; X. XXXXXXXX, o.u.c., pp. 221 ss.).
vessatorietà), sulla concretizzazione del cui contenuto precettivo si sono negli anni concentrati i maggiori sforzi degli studiosi.
In particolare, come noto, ad animare il dibattito è stata principalmente l’infelice formulazione «malgrado il requisito della buona fede» di cui all’art. 3, para 1, della direttiva 1993/13/CEE, poi riproposta nella normativa interna con l’espressione «malgrado la buona fede» (già art. 1469-bis c.c., oggi art. 33 cod. cons.). Ci si è chiesti, in particolare, se detta formula dovesse intendersi nel senso che il giudizio di abusività debba fondarsi (anche) sull’accertamento della violazione del principio della buona fede (intesa in senso oggettivo), ovvero se, in linea con il significato semantico del termine «malgrado», il «requisito» della buona fede (intesa in senso soggettivo) risulti del tutto irrilevante in siffatta valutazione.
Già all’indomani dell’entrata in vigore della direttiva, e prima ancora dell’introduzione della novella, l’utilizzo del termine «malgrado» era stato considerato il frutto di un vero e proprio errore di traduzione52, come peraltro appariva evidente dal raffronto con le altre versioni della direttiva nelle diverse lingue della Comunità, ove emergeva che la disciplina intendesse avere riguardo a un’ipotesi di clausole che si ponessero «in contrasto» con (o «in violazione» de) il principio della buona fede oggettiva53. In questo senso induceva anche il considerando 16 della direttiva, che definiva la buona fede come «uno strumento idoneo ad attuare una valutazione globale dei vari interessi in causa», nonché quale precetto (una vera e propria regola di condotta) che impone al professionista di trattare «in modo leale ed equo la controparte, di cui deve tenere presenti i legittimi interessi». Tali argomenti sono rimasti convincenti ai più anche dopo l’entrata in vigore della novella codicistica (art. 1469-bis ss. c.c.) e del codice del
52 Molto critici furono i primi commentatori, tra cui X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 528, che definì la formulazione «una vistosa cantonata», e G. DE NOVA, La tutela dei consumatori nei confronti delle clausole standard abusive, in Contr., 1993, p. 356, che attribuisce la traduzione «alla donna delle pulizie».
53 Nella versione tedesca si leggeva «entgegen dem Gebot von Xxxx und Glauben»; nella versione francese «en dépit de l’exigence de bonne foi»; nella versione inglese «contrary to the requirement of good faith». A favore dell’interpretazione che legge la buona fede in senso oggettivo, è stata altresì addotta la considerazione che proprio in questa direzione andava anche la clausola generale del para 9 dell’AGB-Gesetz (oggi § 307 BGB), che aveva – come già rilevato – rappresentato il principale modello normativo di riferimento del legislatore europeo (cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., p. 56).
consumo (artt. 33 ss. c.c.), nonostante il permanere nelle rispettive normative della formula concessiva, in luogo di una diversa (auspicata) avversativa54. E tanto in forza del noto – quanto ineludibile – principio che impone di interpretare le norme di attuazione in senso conforme alle (rationes delle) direttive comunitarie55.
Secondo altra parte della dottrina, invece, la scelta del legislatore di mantenere la stessa formulazione dell’art. 3 della direttiva («…malgrado…») e di eliminare contestualmente il riferimento alla buona fede in termini di «requisito» - scelta poi confermata con l’entrata in vigore del codice del consumo - starebbe indubbiamente a significare l’irrilevanza (almeno per il legislatore italiano) dello stato soggettivo del professionista ai fini della valutazione della vessatorietà della clausola: una clausola che determini un «significativo squilibrio» a carico del consumatore sarebbe colpita da nullità anche ove il professionista non si fosse avveduto della potenzialità lesiva degli interessi della controparte, ovvero del carattere vessatorio (perché squilibrante) della stessa clausola56. L’espressione normativa «malgrado la buona fede» sancirebbe, in altri termini, l’irrilevanza della buona fede soggettivamente intesa.
Sennonché le due letture - e questo è il dato più rilevante - pur muovendo da un approccio formale (e linguistico) diverso, giungono nella sostanza al medesimo risultato. Anche quanti finivano per cedere al significato semantico del termine
«malgrado», invero, non negavano ciononostante rilievo al requisito della buona fede oggettivamente intesa. Si rilevava in effetti come, su di un piano
54 X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 40-41. Cfr, ID., sub. art. 33, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 261, il quale ha altresì rilevato che il termine «malgrado» nella lingua italiana, oltre ad avere una portata concessiva, può altresì avere – seppur più raramente – una portata avversativa, equivalente alle espressioni «ad onta di», «a dispetto di».
55 Cfr. X. XXXXX – X. XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 3; X. XX XXXX, Le clausole vessatorie, Milano, 1996, p. 16; X. XXXXXXXXX XXXX, Condizioni generali di contratto e buona fede in Clausole abusive e direttiva comunitaria – Atti del convegno di studi sul tema Condizioni generali di contratto e direttiva C.E.E. n. 93/13 del 5 aprile 1993, a cura di X. XXXXXX, Padova, 1994, p. 32;
X. XXXXX, La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Clausole abusive e direttiva comunitaria – Atti del convegno di studi sul tema ‘Condizioni generali di contratto e direttiva C.E.E. n. 93/13 del 5 aprile 1993’, cit., pp. 93 ss.; X. XXXXXXXX, I contratti con i consumatori e le clausole abusive nella direttiva comunitaria: prime note, cit., p. 485; X. XXXXXXXXXX, o.u.c., pp. 32 ss..
56 In questo senso, fra i molti, X. XXXXX, sub art. 1469-bis, 1° comma, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore (artt. 1469-bis e ss.), a cura di X. XXXXXX, Padova, 1996, p. 30 ss.; X. XXXXXXXX, sub art. 1469-bis, in La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel Codice civile, a cura di A. ID., Napoli, 1996, p. 41; X. XXXXXXX, x.x.x., pp. 285 e 290; C. M XXXXXX, o.u.c., p. 379.
interpretativo, il testo (cfr. considerando 16) e il contesto storico della normativa comunitaria evidenziassero senza margini di dubbio che il legislatore comunitario avesse voluto ancorare la valutazione della abusività di una clausola al requisito della buona fede intesa (oggettivamente) quale regola di condotta57, così come un inquadramento (ex art. 38 cod. cons.) della stessa normativa comunitaria nell’àmbito dei principi che informano la disciplina generale del contratto e dell’obbligazione (in primis, proprio il principio della buona fede ex artt. 1337, 1358, 1366, 1375 e 1175 c.c.) non potesse non portare a considerare il riferimento alla buona fede oggettiva quale implicito nel concetto di «significativo squilibrio»58.
Può allora dirsi che il requisito della buona fede oggettiva – lo si voglia intendere quale elemento positivizzato dalla norma, ovvero quale requisito recuperabile per via interpretativa perché implicito nel concetto di «significativo squilibrio» – svolge un ruolo centrale nel giudizio di abusività/vessatorietà delle clausole predisposte dai professionisti. Detto principio costituisce anzi, secondo l’opinione quasi unanime della dottrina, esso stesso il criterio per valutare la significatività dello squilibrio normativo cagionato dalla clausola in danno del consumatore. In questa prospettiva, la stessa nozione di significativo squilibrio e i criteri espressamente individuati (ex art. 34 cod. cons.) per la valutazione della vessatorietà di una clausola (che impongono di tenere conto della natura dei beni e servizi, delle circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto, delle altre clausole del contratto e dei contratti collegati), derivano dall’applicazione diretta del principio della buona fede, inteso generalmente come
«precetto che regola l’esercizio di poteri discrezionali, e che qui si specifica come
57 X. XXXXX, x.x.x., x. 00; X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 39; X. XXXXXXX, x.x.x., x. 000; F.D. XXXXXXXX, o.u.c., p. 26. Dopotutto – è stato rilevato da C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 379 - «il convincimento personale del professionista di agire secondo legge non potrebbe mai rendere lecite le clausole vietate».
58 Significativo era in questo senso che, prima dell’entrata in vigore del D.lgs 206/2005, la novella codicistica in materia di clausole abusive (artt. 1469-bis ss. c.c.) fosse stata collocata nel Titolo II del Libro delle obbligazioni, ovvero nell’àmbito della disciplina del contratto in generale. L’inserimento della normativa nel codice del consumo non ha mutato questa interpretazione stanti, da un lato, il chiaro disposto dell’art. 38 secondo cui la disciplina delle clausole vessatorie continua a essere retta dai principi generali del diritto dei contratti, e, dall’altro, il riconoscimento ex art. 39 dei «principi di buona fede, di correttezza e lealtà» nell’esercizio delle attività commerciali (cfr. X. XXXXXXX, sub art. 33, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 263).
precetto di non abusare del potere di autoregolamentazione del contratto […]»59. La significatività dello squilibrio è essa stessa – è stato efficacemente rilevato -
«espressione dello contrarietà a buona fede, in quanto è alla stregua di questa che ne va accertata la sussistenza»60, ovvero una sua «concretizzazione contenutistica […] e dunque forma speciale e assertiva di esso»61.
La formula dell’art. 33 cod. cons. potrebbe quindi essere riletta nel senso che sono vessatorie tutte le clausole unilateralmente predisposte dal consumatore che determinano un significativo squilibrio a danno del consumatore, in tal modo ponendosi in contrasto con la buona fede (oggettiva)62.
2.2 (Segue) I rimedi e il nuovo art. 37 bis cod. cons.
Il rispetto di siffatta regola di condotta è affidata, nella struttura della direttiva, a un sistema «multilivello»63 di rimedi, aventi funzioni differenti e operanti con modalità diverse tra loro.
59 Così C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 379.
60 Così X. XXXXXXX, sub art. 1469-bis, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore.
Artt. 1469-bis – 1469-sexies, cit., p. 64.
61 Così X. XXXXX, x.x.x., x. 00.
62 Questa lettura della clausola generale e del ruolo della buona fede sembra trovare conferma nell’esperienza tedesca, cui il legislatore comunitario – come già detto – si è ispirato. Nel testo del § 307 BGB (già § 9 dell’ABG-Gesetz), l’elemento dello «sproporzionato svantaggio» (unangemessene Benachteiligung) non è, invero, mai parso operare come criterio ulteriore e concorrente con quello della contrarietà alla «dettami della buona fede» (entgegen den Geboten von Treu und Glauben), quanto piuttosto come una sua specificazione e concretizzazione contenutistica (cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 56 ss.). Detta lettura interpretativa è stata sostenuta anche dal Consiglio di Stato nel Parere reso dalla Sezione consultiva nel corso dell’iter di approvazione del codice del consumo (n. 11602/2004, Adunanza del 20 dicembre 2004), là dove (cfr. para 7.1) veniva suggerito di sostituire il termine «malgrado» con l’espressione «in contrasto», o, in alternativa, di eliminare del tutto il riferimento alla buona fede, considerata implicita nel parametro del significativo squilibrio, di cui costituisce «una “figura sintomatica”, un modo di manifestarsi della contrarietà a buona fede». La tesi sembra infine trovare ulteriore conferma nella scelta della Commissione europea di non sollevare alcun rilievo nei confronti della Francia, la quale ha invero recepito la clausola generale omettendo ogni riferimento al criterio della buona fede (così X. XXXXXXX, sub art. 33, o.u.c., p. 266). Contra, ma la tesi sembra oramai minoritaria, v. X. XXXXXXX, o.u.c., p. 290, secondo il quale il significativo squilibrio e la contrarietà alla buona fede dovrebbero essere entrambi presenti ai fini di un positivo giudizio di vessatorietà; in questo senso cfr. altresì X. XXXXXXX GRIFFI, Le clausole abusive nei contratti conclusi con i consumatori, cit. p. 366. Diversa ancora è la posizione di X. XXXX, Le clausole abusive nei contratti dei consumatori, in Corr. giur., 1993, p, 642, il quale sembra optare per un giudizio di abusività che può indipendentemente e disgiuntamente conseguire sia dall’accertata presenza di un significativo squilibrio, sia dall’accertata violazione del precetto della buona fede.
63 X. XXXXXXX, sub art. 37 bis, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p.
433.
In primo luogo, sotto un primo profilo che potrebbe definirsi
«soggettivo/individuale»64, l’uso di clausole abusive è sanzionato, secondo il disposto dell’art. 6 della direttiva, con la non vincolatività delle stesse clausole, mentre «il contratto rest[a] vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». Nell’ordinamento italiano, l’inidoneità delle clausole vessatorie a creare qualsivoglia vincolo tra professionista e consumatore è stata dapprima tradotta in «inefficacia» (ex art. 1649-quinquies c.c.)65, e poi, come disposto dall’attuale art. 36 cod. cons., in
«nullità» (cd. di protezione, secondo la rubrica della stessa disposizione). Si tratta, come è ben noto, di un rimedio apprestante una tutela individuale ed ex post (cd. private enforcement), la cui disciplina differisce dalla quella tradizionale della nullità codicistica sotto (almeno) tre diversi profili: i) in primo luogo, si è dinnanzi a una nullità a legittimazione cd. relativa, potendo essa essere fatta valere dal solo consumatore (art. 33, comma 3°)66; ii) inoltre, sempre in linea con l’esigenza di tutela di un contraente considerato «istituzionalmente» debole67, la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice nell’interesse del solo consumatore (art. 33, comma 3°)68; e iii) in deroga al disposto di cui all’art. 1419, comma 1°, c.c., la
64 Cfr. X. XXXXX XXXXXX, La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie, in Obbl. contr., 7, 2012, p. 493.
65 È noto come la dottrina abbia poi variamente inteso detta inefficacia come nullità (cfr. X. XXXX, Il nuovo capo XIV-bis (Titolo II, Libro IV) del codice civile, sulla disciplina dei contratti con i consumatori, in Studium juris, 1996, p. 417; C.M. XXXXXX, o.u.c., pp. 388 ss.), come annullabilità (cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., p. 294) e come inefficacia in senso stretto (A. ORESTANO, L’inefficacia delle clausole vessatorie: «contratto del consumatore» e condizioni generali, in Riv. crit. dir. priv., 1996, pp. 501 ss.; X. XXXXXXX, sub. art. 1469-quinquies, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore (artt. 1469-bis e ss.), cit., pp. 478 ss.; X. XXXX, Sul recepimento della direttiva comunitaria in tema di clausole abusive, in Nuova giur. civ. comm., II, 1996, pp. 46 ss.).
66 Appare senz’altro condivisibile l’osservazione - che trae forza anche dalla ratio della stessa disciplina - secondo cui la legittimazione a far valere la nullità della clausola vessatorie non può essere riconosciuta in capo al professionista, il quale, in effetti, difetterebbe di un interesse ad agire. Osserva X. XXXXX, L’inefficacia delle clausole abusive, in Contr. impr., n. 3, 2006, p. 669 (nota 30) che «quanto alla legittimazione assoluta, anche in capo al professionista, essa realizzerebbe un venire contra factum proprium nella misura in cui le clausole vessatorie sono il frutto dell’esercizio abusivo dell’autonomia contrattuale da parte sua».
67 C.M. XXXXXX, o.u.c., pp. 389 e 394.
68 Come rilevato dalla Corte di Giustizia, l’autorità giurisdizionale nazionale opererebbe come supplente ogni qual volta il consumatore non sia in grado di riconoscere i «difetti» del contratto, ovvero lo squilibrio contrattuale determinato dalla clausola. Cfr., su tutte, Corte Giust., 27/06/2000, C-240/98, consultabile in xxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/; Xxxxx Xxxxx., 00/00/0000, X- 244/98, consultabile in xxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/; Xxxxx Xxxxx., 00/00/0000, C-168/05, consultabile
nullità della clausola vessatoria non determina la caducazione dell’intero contratto (art. 36, comma 1°)69.
Accanto alla tutela individuale così delineata, l’uso di clausole abusive è, in una diversa prospettiva (per così dire) macroeconomica70, contrastato attraverso la previsione di altre due forme di tutela, aventi rilevanza collettiva e natura preventiva (cd. ex ante): l’una operante per via giurisprudenziale (art. 37), l’altra per via amministrativa (art. 37 bis)71.
L’art. 37 riconosce alle associazioni dei consumatori (di cui all’art. 137), alle associazioni dei professionisti e alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura di convenire in giudizio il professionista o l’associazione dei professionisti che utilizzano o che raccomandano l’utilizzo di condizioni
in xxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/; Corte Giust., 04/06/2009, C-243/08, consultabile in xxxx://xxx- xxx.xxxxxx.xx/
69 In questo senso v. le conclusioni dell’avv. generale Xxxxxxx nella causa C-302/04 (consultabile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/), secondo il quale l’art. 6 della direttiva 1993/13/CEE osta a una normativa nazionale che preveda che in presenza di una clausola abusiva il contratto rimanga per il resto vincolante solo se le parti lo avrebbero concluso anche in assenza di detta clausola. In altri ordinamenti – è stato rilevato da X. XXXXX, sub. art. 36, in Commentario al diritto dei consumatori, cit., p. 400 ss. – si è prospettato che la nullità della clausola vessatoria potrebbe portare alla caducazione dell’intero contratto quando, ad es., l’eliminazione di un gran numero di clausole rischierebbe di lasciare il contratto privo di significato; nel caso in cui, a seguito della sua integrazione, il contratto risulterebbe modificato al punto da perdere l’originaria identità; oppure nel caso in cui risulterebbe squilibrato in maniera insostenibile a vantaggio di una delle parti. Altra ipotesi in cui la nullità della(e) clausola(e) possa portare alla caducazione dell’intero contratto potrebbe ravvisarsi – a dire dell’A. – allorquando la vessatorietà colpisca l’oggetto negoziale, tutte le volte in cui la clausola che lo descrive sia formulata in modo poco chiaro e comprensibile (ai sensi dell’art. 34, comma 2°, cod. cons.): ciò potrebbe costituire un’ipotesi in cui, a mente dell’art. 6 della direttiva, il contratto non può sussistere «senza le clausole abusive». Cfr. X. XXXXX, I contratti del consumatore: le clausole vessatorie, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, a cura di X. XXXXX XXXXXX, cit., pp. 74 ss. secondo cui la regola della nullità parziale subisce una deroga nell’ipotesi in cui i) la clausola vessatoria concerne uno degli elementi essenziali del contratto e qualora ii) risulti che il consumatore non avrebbe stipulato il contratto senza quella parte colpita da nullità.
La scelta di far sopravvivere il contratto alla caducazione delle clausole vessatorie pone, inoltre, il delicato problema dell’integrazione dello stesso; problema a cui, però, il legislatore italiano non ha dato risposta (cfr. X. XXXXX, o.u.c., p. 399 ss.).
70 Muta invero la prospettiva della tutela, rispondente in questa ottica all’esigenza di
«vigilare sulla correttezza del mercato, anche con l’obiettivo di reprimere comportamenti e offerte che possano incidere sulla libertà e/o sulla consapevolezza del consumatore» (così X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 493).
71 V. art. 7 della direttiva 1993/13/CEE. Cfr. X. XXXXX – X. XXXXXXXXXX, o.u.c., pp. 1 e 6 che distinguono i) un regime «comune e generale» applicabile a tutte le clausole tra professionisti e consumatori che non abbiano formato oggetto di negoziato, e ii) un «sub-regime» o «regime particolare» apprestante un rimedio di tipo generale, applicabile alle sole clausole che siano state redatte per un impego generalizzato.
generali di contratto72 al fine di ottenere una pronuncia che inibisca l’uso di quelle di cui sia accertata la vessatorietà. Si tratta della cd. azione inibitoria, che può specificarsi in inibitorie cd. finali, scaturenti cioè in provvedimenti inibitori pronunciati in forma di sentenza e conclusivi di un processo ordinario di cognizione (art. 37, comma 1°), e in inibitorie cd. provvisorie, ossia in forme cautelari di tutela giurisdizionale cui è possibile ricorrere allorquando sussistano i
«giusti motivi di urgenza» di cui agli artt. 669 bis ss. c.p.c. (art. 37, comma 2°)73.
A oltre vent’anni dall’entrata in vigore della disciplina, detta forma di tutela inibitoria, su cui originariamente era ricaduta la scelta del mezzo per far cessare
«l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore», si è tuttavia rivelata uno strumento nient’affatto adeguato ed efficace74, sì da evidenziare l’opportunità di affiancare a esso un rimedio amministrativo, dalla medesima dimensione «oggettiva/collettiva»75. L’art. 5 del
d.l. 24/1/2012, n. 1 (convertito con modifiche in l. 24/3/2012, n. 27) ha così introdotto l’art. 37-bis - rubricato «tutela amministrativa contro le clausole vessatorie» - che attribuisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (A.G.C.M.) il potere di accertare, all’esito di una procedura istruttoria avviabile
«d’ufficio e su denuncia»76, la vessatorietà della clausole che assumano il carattere della «serialità»77, inserite cioè nei contratti dei consumatori che si
72 Cfr. X. XXXXXXXXX, Dei contratti del consumatore in generale, cit,, p. 120, il quale correttamente puntualizza che la norma, pur riferendosi espressamente alle sole condizioni generali di contratto, ben è applicabile anche ai moduli e formulari «in virtù di un’elementare operazione di interpretazione estensiva».
73 Si tratta di una forma di tutela la scelta della quale è stata ancora una volta tratta dalla legge tedesca sulle condizioni generali di contratto (AGB-Gesetz) del 1° aprile 1977 (cfr. G. DE NOVA, La nuova legge tedesca sulle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. civ., 1978, I, 134 ss.; F. XXXXXXXX, sub art. 1469-sexies, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, a cura di X. XXXX-X. XXXXX, cit., p. 1149 ss.).
74 X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 492; X. XXXXXXXXXX, La tutela amministrativa dei consumatori contro le clausole vessatorie, in Corr. giur., 2, 2012, p. 48. Per una sintesi del dibattito, sorto in sede di recepimento della direttiva 1993/13/CEE, circa l’opportunità di contrastare la diffusione di clausole abusive per mezzo di un controllo giurisdizionale o di un sindacato amministrativo v. T. RUMI, Il controllo amministrativo delle clausole vessatorie, in I contratti, 7, 2012, p. 643 ss.
75 X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 493.
76 V. art. 23 della Delibera AGCM 1 aprile 0000, x. 00000 (X.X. del 23 aprile 2015, n. 94).
77 L’espressione è di T. XXXX, o.u.c., p. 638. Si consideri che, in tale prospettiva, la nuova competenza dell’A.G.C.M. viene ad affiancarsi al controllo esercitato dalle Camere di Commercio
concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o sottoscrizione di moduli o formulari78. L’accertamento da parte dell’AGCM dell’eventuale natura vessatoria delle clausole diffusamente utilizzate dai professionisti non ha però l’effetto di inibirne l’uso per il futuro, né tantomeno incide sulla loro validità (il cui accertamento rimane demandato all’autorità giurisdizionale79). L’accertamento dell’Autorità amministrativa ha, da un lato, uno scopo principalmente «informativo» e «divulgativo», rispondendo invero all’esigenza di informare compiutamente i consumatori dell’esistenza di condizioni generali di contratto potenzialmente idonee a determinare uno squilibrio normativo nel rapporto contrattuale80: il provvedimento - dispone il comma 2° dell’art. 37 bis - è invero diffuso mediante pubblicazione su apposita sezione del sito istituzionale dell’Autorità, sul sito del professionista e mediante ogni altro mezzo ritenuto all’uopo opportuno. D’altro lato, proprio alla divulgazione del provvedimento non potrà non riconoscersi anche una finalità lato sensu sanzionatoria - facente leva sul discredito commerciale cui l’operatore viene irrimediabilmente a essere esposto81 - nonché, per conseguenza, un effetto «dissuasivo» dell’utilizzazione delle clausole vessatorie82, stante anche il maggiore rischio per il professionista che pensasse ciononostante di utilizzarle di essere convenuto in giudizio dal singolo consumatore per l’accertamento della invalidità della clausola, ovvero dalle associazioni rappresentative e dalle camere di commercio per l’inibizione alla diffusione e utilizzazione delle medesime clausole.
Finalità «dissuasiva» deve altresì attribuirsi al controllo preventivo (cd. interpello), previsto e disciplinato dal comma 3° dell’art. 37 bis. Detta
circa l’eventuale esistenza di clausole vessatorie contenute in contratti standard (cfr. art. 2, comma 2°, lett. i) del D.lgs. 23/2010).
78 Non rientrano, pertanto, nel sindacato dell’A.G.C.M. le clausole contrattuali predisposte dal professionista appositamente per una singola operazione. Vi rientrano invece i negozi unilaterali conclusi dai consumatori sulla base di moduli e formulari predisposti dal professionista, trattandosi di negozi inter vivos a contenuto patrimoniale, cui si estende ex art. 1324 c.c. la disciplina dei contratti (in questo senso X. XXXXXXXXXX, x.x.x., x. 00).
79 V. comma 4° dell’art. 37 bis, che lascia intatta la giurisdizione del giudice ordinario in punto di validità delle clausole eventualmente già sottoposte al giudizio dell’A.G.C.M.
80 X. XXXXXXXXXX, x.x.x., x. 00; X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 494.
00 X. XXXXXXXXXX, x.x.x., p. 57.
82 T. XXXX, o.u.c., p. 644; XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 495.
disposizione - come noto - riconosce al professionista «interessato» la facoltà di interpellare preventivamente l’Autorità per verificare se le clausole che questi intenda utilizzare con i consumatori siano o meno vessatorie83: l’accertamento potrà avere esito negativo, nel qual caso la stessa autorità non potrà più valutarle
«per gli effetti di cui al comma 2», ovvero a essa risulterà impedito di aprire ex commi 1° e 2° un’istruttoria avente a oggetto le medesime clausole già approvate; ma potrà avere esito positivo, nel qual caso il professionista sarà indotto a modificare le clausole non approvate o comunque a non servirsene nella regolazione dei rapporti contrattuali con i consumatori, diversamente non potendosi sottrarre al controllo ordinario dall’esito evidentemente scontato84.
3. La direttiva 29/2005/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 per il nuovo diritto delle pratiche commerciali sleali. Àmbito di applicazione.
L’adozione della direttiva 2005/29/CE85, «relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno»86, è stata salutata con grande
83 V. art. 23 della Delibera AGCM 1 aprile 0000, x. 00000 (X.X. del 23 aprile 2015, n. 94).
84 X. XXXXXXXXX, La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, in Nuove leg. civ. comm., 2012, f. 3, p. 567; cfr. X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 495, secondo cui l’interpello tende a scongiurare, oltre che l’azione amministrativa, «anche, sia pure indirettamente, l’azione inibitoria».
85 Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), in G.U.C.E., n. L. 149 dell’11 giugno 2005, pp. 22 ss. I lavori preparatori iniziarono con il Green Paper on Consumer Protection: COM(2001) 531 (2 ottobre 2001); cui seguì la Commission’s Follow-ip Communication to the Green Paper on EU Consumer Protection dell’11 giugno 2002: COM(2002) 289. Essa si compone di due parti. La prima (artt. 2-13) contiene la nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali; la seconda prevede l’introduzione di una serie di modifiche a provvedimenti comunitari già vigenti: precisamente, alla direttiva 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa (art. 14), alle direttive 97/7/CE e 2002/65/7CE in materia di contratti conclusi a distanza (art. 15), alla direttiva 98/27/CE in tema di provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori e al regolamento CE n. 2006/2004 «sulla cooperazione per la tutela dei consumatori» (art. 16).
86 Anche sul tema della pratiche commerciali sleali/scorrette la letteratura è molto ampia. Cfr. AA.VV., The Forthcoming EC Directive on Unfair Commercial Practices. Contract, Consumer, and Competition Law Implications, a cura di X. XXXXXXX, Xxxxxx-Xxx Xxxx, 0000; AA.VV., Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, a cura di
X. XXXXXXXXX e X. XXXXX XXXXXX, Milano, 2007; AA.VV. Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di X. XX XXXXXXXXXX, Xxxxxx, 0000; AA.VV., The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive
entusiasmo tra gli studiosi e operatori del settore di tutta Europa, stanti la rilevante portata innovativa e il forte impatto sistematico della disciplina da essa recata. Da taluni è stata significativamente accolta come «the most exciting event» degli ultimi anni nel campo del diritto (della protezione) dei consumatori («consumer protection law») e del diritto delle concorrenza (s)leale («fair trading law»)87.
2005/29. New Rules and New Techniques, a cura di X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, Xxxxxx, 0000; AA.VV., I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, a cura di X. XXXXXXXX, Padova, 2008; AA.VV., Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di X. XX XXXXXXXXXX, Xxxxxx, 0000; AA.VV., Codice del consumo. Aggiornamento. Pratiche commerciali scorrette e azione collettiva, a cura di X. XXXXXXX, Padova, 2009; AA.VV., Codice commentato della concorrenza e del mercato, a cura di A. CATRICALÀ – X. XXXXXXX, Xxxxxx, 0000, pp. 1671 ss.; AA.VV., Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di X. XXXXXXXXXX – X. XXXXXXXX, Padova, 2013, pp. 116 ss.; X. XXXXXXXXXXXX, The Unfair Commercial Practices Directive in Context: From Legal Disparity to Legal Complexity?, in Common Market Review, 2010, 147 ss.; G. DE CRISTOFARO, La difficile attuazione della direttiva 2005/29/CE, concernente le pratiche commerciali sleali nei rapporti fra imprese e consumatori: proposte e prospettive, in Contr. Impr./Europa, 2007, p. 1 ss.; ID., Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori (d.lgs. 2 agosto 2007, n. 146 e artt. 2,4 e 8 d.lgs. 23 ottobre 2007, n. 221), in Nuove leg. civ. comm., 2008, 4-6, pp. 1057 ss.; ID., Pratiche commerciali scorrette, in Enc. Dir., Milano, 2012, p. 1079 ss.; ID., La direttiva n. 05/29/CE e l’armonizzazione completa delle legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali. Commento alla sentenza della Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, Xxx. X, 00 aprile 2009, cause C-261/07 e C-299/07, in Nuova giur. civ. comm., 2009, pp. 1059 ss.; M. DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, a cura di ID., Torino, 2008, pp. 15 ss.; X. XXXXXXXXXX, Le pratiche commerciali scorrette, in Obbl. contr., 2011, pp. 165 ss.; X. XXXXXXXX, Pratiche sleali, diligenza professionale e regola de minimis. Commento alla sentenza della Corte dei Giustizia UE, Sez. I, 16 aprile 2015, causa C- 388/13, in Contr., 2015, 8-9, pp. 770 ss.; X. XXXXX, The Unfair Commercial Practices Directive: a Law and Economics perspective, in European Review of Contract Law, 2006, pp. 4 ss.; X. XXXXXXXX, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbl. contr., 2007, pp. 776 ss.; X. XXXXXXXXX, Le pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, Milano, 2010; X. XXXXXXXXX, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contr. impr., 2009, pp. 73 ss.; X. XXXXXXX, The use of unfair contractual terms as un unfair commercial practice, in European Review of Contract Law, 2011, pp. 25 ss.; ID., Le Informazioni, Padova, 2012; X. XXXXXXXX, Le pratiche commerciali scorrette, in Diritto dei consumi – Soggetti – atto – attività – enforcement, a cura di X. XXXXX XXXXXX, cit., pp. 161 ss.; X. XXXXXXXX, Fair Trading in EC Law - Information and Consumar Choice in the Internal Market, Xxxxxxxxx, 0000;
X. XXXXX, Xxxxx concorrenza sleale alle pratiche commerciali scorrette nella prospettiva rimediale, in Dir. ind., 2011, pp. 45 ss.; X. XXXXXX, X. XXXXXX e X. XXX XXXX, Confidence through fairness? The new directive on unfair business-to-consumer commercial practices in the internal market, in Common Market Law Review, 2006, pp. 107 ss.; X. XXXXXXXXXXX, Harmonizing Unfair Commercial Practices Law: the Cultural and Social Dimensions, in Xxxxxxx Hall Law Journal, 2006, pp. 461 ss.
87 Così, precisamente, X. XXXXXX, X. XXXXXX e X. XXX XXXX, o.u.c., p. 107: «For lawyers and scholars in the field of consumer protection and fair trading law the adoption of the total harmonization Diretctive 2005/29/CE […] is without any doubt the most exciting event in the past years. The objectives of the UCPD are far-reaching, its methods are innovative, and its legal impact is likely to be massive»
Al pari della direttiva 1993/13/CEE in materia di materia di clausole abusive e differentemente da ogni altra intervento normativo adottato in àmbito europeo per la protezione dei consumatori, la direttiva 2005/29/CE reca una disciplina dal respiro «trasversale» (o «orizzontale», che dir si voglia), destinata com’è a trovare applicazione a qualsiasi «pratica commerciale», quale che sia la natura del bene e del servizio che costituisce oggetto dell’operazione economica cui la pratica si riferisce (i.e. il settore dell’attività professionale) e quale che sia la causa dei contratti alla cui conclusione essa è diretta o che si trovano a «valle» della pratica stessa88.
In questa prospettiva - come è stato autorevolmente evidenziato - può dirsi che la direttiva 2005/29/CE ha introdotto nell’ordinamento europeo il diritto
«generale» delle pratiche commerciali sleali89, in tal senso attribuendo «unità» e
«identità»90 a una materia disorganica, frammentaria e, fino alla sua entrata in vigore, a-sistematicamente organizzata; materia, questa, che precedentemente era stata fatta oggetto di sole normative settoriali, tutte disciplinanti, attraverso specifici obblighi o divieti, le condotte imprenditoriali dalla rilevanza meta- individuale che, nei diversi settori merceologici del mercato, sono idonee a influenzare i comportamenti economici dei consumatori relativamente alla conclusione ed esecuzione dei contratti con i professionisti91.
88 La direttiva 2005/29/CE trova applicazione anche al settore dei prodotti alimentari, come risulta dal considerando 5 del Regolamento UE 1169/2011, là dove viene precisato che le norme ivi contenute in materia di fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori costituiscono
«norme specifiche» che vanno a integrare i «principi generali» sulle pratiche commerciali sleali. Sono altresì soggetti alla disciplina della direttiva 2005/29/CE i servizi di comunicazione elettronica, come precisato dalla sentenza della Corte di Giustizia UE, Sez. III, 11 marzo 2010, causa C-522/08, reperibile in xxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/, e come ricavabile dall’art. 1, para 4, della direttiva 2002/22/CE (come modificato dalla direttiva 2009/136/CE), per il quale «Le disposizioni della presente direttiva relative ai diritti degli utenti finali si applicano fatte salve le norme comunitarie in materia di tutela dei consumatori, in particolare le direttive 93/13/CEE e 97/7/CE, e le norme nazionali conformi al diritto comunitario». La direttiva 2005/29/CE trova infine applicazione a tutti i servizi finanziari in generale (servizi di investimento, assicurativi, bancari e di pagamento), come risulta senza margini di dubbio dall’art. 3, para 9 della stessa direttiva che espressamente autorizza gli Stati membri a prevedere in tale settore regole più rigorose.
89 L’espressione è di X. XXXXXXX, Le informazioni, cit., p. 173.
90 Così X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 98 e 175-176.
91 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 98.
A muovere l’intervento del legislatore comunitario è stato, dunque, l’obiettivo di costruire un «diritto uniforme»92 delle pratiche commerciali sleali business to consumers, la cui esigenza era stata fortemente avvertita stanti le marcate difformità caratterizzanti tali discipline settoriali nei diversi ordinamenti nazionali. «Le leggi degli Stati membri in materia di pratiche commerciali sleali - si legge nel considerando 3 della direttiva - [erano] caratterizzate da differenze notevoli che [potevano] provocare sensibili distorsioni della concorrenza e costituire ostacoli al buon funzionamento del mercato interno», giacché con evidenza rappresentavano - si legge nel considerando 4 - «fonte di incertezza per quanto concerne le disposizioni nazionali da applicare alle pratiche commerciali sleali lesive degli interessi economici dei consumatori», in tal senso generando significativi ostacoli sia alle imprese, per le quali risultava inevitabilmente «più oneroso l’esercizio delle libertà del mercato interno, soprattutto ove tali imprese intend[essero] effettuare attività di marketing, campagne pubblicitarie e promozioni delle vendite transfrontaliere», sia ai consumatori, che vedevano sacrificata la certezza dei propri diritti93.
La direttiva 2005/29/CE ha introdotto pertanto una disciplina di carattere generale94, un unitario corpus normativo per una materia della quale, in maniera del tutto coerente con la sua finalità, ha inteso assicurare un’armonizzazione massima95. Col che rimanendo precluso agli Stati membri non solo di ridurre il
92 Così X. XXXXX XXXXXX, Dalla comunicazione commerciale alle pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, a cura di
E. XXXXXXXXX e ID., cit., p. 10; cfr. X. XXXXXXX, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale?, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, a cura di X. XXXXXXXX, cit., p. 2.
93 Cfr. altresì considerando 5, dal quale emergono i due obiettivi del legislatore comunitario: i) il corretto funzionamento del mercato interno (anche nella dimensione transfrontaliera; cfr. considerando 2); ii) la certezza del diritto, tanto per gli operatori professionistici quanto per i consumatori.
94 X. XXXXXXXX, L’àmbito di applicazione della direttiva 2005/29/CE: la nozione di
«pratica commerciale», in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G. DE CRISTOFARO, cit., p. 82.
95 L’obiettivo della massima armonizzazione è ricavabile: i) dall’assenza di una disposizione (invece presente nelle direttive di cd. armonizzazione minima) che autorizzi gli Stati membri a introdurre o mantenere in vigore disposizione più rigorose volte a garantire un più elevato livello di tutela dei consumatori; ii) dal considerando 15 che fa espresso riferimento alla
«piena armonizzazione introdotta dalla presente direttiva»; iii) dall’art. 3, para 5, che autorizzava gli Stati membri a mantenere, fino al 12 giugno 2013, disposizioni più severe purché si trattasse di disposizioni introdotte in attuazione di una direttiva di armonizzazione minima, essenziali al fine
livello di tutela di protezione assicurato dalla direttiva ai consumatori, ma anche di incrementarlo, mantenendo o introducendo disposizioni più favorevoli96.
Nell’ordinamento italiano - come noto - la direttiva 2005/29/CE è stata recepita mediante l’adozione di due decreti legislativi, entrambi del 7 agosto 2007: da un lato, il d.lgs. 145/2007 recante, in attuazione dell’art. 14 della direttiva, la disciplina della pubblicità ingannevole e illecita comparativa nei rapporti tra professionisti, che così è stata espunta dal codice del consumo; dall’altro, il d.lgs. 146/2007 recante la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, che, invece, è stata inserita agli artt. 18-27 quater, Titolo III, Capo II del medesimo codice. Anche in tale caso - proprio come avvenuto per il recepimento della direttiva 1993/13/CEE - la normativa nazionale non si discosta dalla versione italiana della direttiva 2005/29/CE, della quale risulta, salvo poche e non significative varianti terminologiche, una fedele riproduzione. Lo stesso uso del termine «scorrette» impiegato del legislatore nazionale, in luogo del termine
«sleali» proprio della versione italiana della direttiva, non ha alcuna sostanziale rilevanza, essendo stato dettato con ogni probabilità solamente per evidenziare anche a livello lessicale le diversità di ratio, obiettivi di tutela e àmbito di applicazione delle nuove disposizioni rispetto alla disciplina generale della concorrenza sleale di cui agli artt. 2598 ss. c.c.97
L’aspirazione della direttiva 2005/29/CE a porsi come «direttiva-quadro» nella materia da essa armonizzata si riflette nella definizione che l’art. 2, lett. d) della direttiva e, appresso, l’art. 18, lett. d) cod. cons. danno di «pratica
di garantire un’adeguata protezione dei consumatori dalle pratiche commerciali sleali e proporzionate a tale obiettivo (cfr. G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, rationes, caratteristiche, in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di ID., cit. pp. 32 ss.).
96 X. XXXXXX, X. XXXXXX E T. XXX XXXX, Confidence through fairness? The new directive on unfair business-to-consumer commercial practices in the internal market, cit., p. 115; X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 162.
97 Così X. XX XXXXXXXXXX, sub art. 20, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 149-150, il quale peraltro rileva come, se tale è stato l’intento del legislatore, la scelta non è ricaduta sul termine più idoneo, giacché all’interno del codice del codice del consumo le locuzioni «lealtà» e «correttezza» risultano «utilizzate entrambe […] sempre in combinazione con la nozione di «buona fede» (oggettiva), senza che appaia possibile e ragionevole attribuire all’una un significato ed una portata non pienamente corrispondenti a quelli propri dell’altra»; ID., Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di ID., cit., pp. 125 ss.
commerciale» tra professionisti e consumatori: si tratta, invero, di una definizione dalla portata assai ampia98, capace com’è di far ricadere nell’àmbito di applicazione della normativa qualsiasi azione (anche meri atti materiali), omissione, condotta, dichiarazione (dal contenuto negoziale o meno) e comunicazione commerciale, ivi comprese la pubblicità e le attività di commercializzazione del prodotto (marketing), posta in essere da un professionista e connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto99 ai consumatori. A dispetto del significato semantico che può assumere il termine
«pratica»100, peraltro, oggi si ritiene del tutto irrilevante, ai fini della qualificazione come pratica commerciale sleale e dunque ai fini della irrogazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 27 cod. cons., la circostanza che la condotta professionistica sia stata tenuta una sola volta e abbia interessato un solo consumatore: «infatti – ha osservato la stessa Corte di Giustizia – né le definizioni fornite agli articoli 2, lettere c) e d), 3, paragrafo 1, nonché 6, paragrafo 1, della direttiva sulle pratiche commerciali sleali né quest’ultima, considerata nel suo insieme, contengono indizi secondo cui l’azione o l’omissione da parte del professionista dovrebbe presentare carattere reiterato o riguardare più di un consumatore»101.
98 X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 75; cfr. sentenza della Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, Xxx. X, 00 aprile 2009, cause C-261/07 e C-299/07, in Nuova giur. civ. comm., 2009, pp. 1059 ss.; cfr. altresì sentenza della Corte di Giustizia UE, Sez. I, 14 gennaio 2010, causa C-304/08, para 36, reperibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/; sentenza della Corte di Giustizia UE, Sez. I, 9 novembre 2010, causa C- 540/08, para 17, reperibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/; sentenza della Xxxxx xx Xxxxxxxxx XX, Xxx. X, 00 gennaio 2013, causa C-206/11, para 26, reperibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/.
99 Anche il termine «prodotto» ha un significato molto ampio, per esso intendendosi
«qualsiasi bene o servizio, compresi beni immobili, i diritti e le obbligazioni» (artt. 2, lett. c) della direttiva e 18, lett. c) cod. cons.).
100 Per «pratica» s’intende normalmente «usanza», «costume», «consuetudine»: V. xxxx://xxx.xxxxxxxx.xx/xxxxxxxxxxx/xxxxxxx/.
101 Sentenza della Corte di Giustizia UE, Sez. I, 16 aprile 2015, causa C-388/13, para 42, reperibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/. Si veda anche la nota sentenza della Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2012, causa C-453/10, in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, ove è stata qualificata come pratica commerciale sleale la condotta consistente nell’inserimento in un contratto sottoscritto da un singolo consumatore dell’indicazione di un TAEG non corrispondente al complesso dei costi dell’operazione di finanziamento: la Corte non si è cioè preoccupata di accertare se il testo fosse o meno impiegato in maniera sistematica per la stipulazione di una pluralità di contratti.
In realtà, la questione non è sempre stata pacifica per la giurisprudenza amministrativa italiana: talvolta è stato ritenuto che la condotta dovesse essere reiteratamente posta in essere con carattere di apprezzabile omogeneità (così TAR Lazio-Roma, 6/4/2009, n. 3692, in xxxx://xxxxxx- xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx), ovvero che si inserisse in una più ampia «prassi», tale essendo il significato da attribuire al termine «pratica» (Cons. Stato, 7/11/2012, n. 4753, in xxxx://xxxxxx-
L’ampiezza della nozione di pratica commerciale si lascia apprezzare anche sul piano temporale, quanto cioè al “momento” in cui le condotte in essa considerate sono poste in essere102. Come disposto dall’art. 3, para 1, della direttiva e dal corrispondente art. 19, comma 1°, cod. cons., la nozione di pratica commerciale investe l’intero arco temporale dell’attività di consumo, comprendendo tutte le condotte poste in essere antecedentemente, contestualmente o successivamente alla conclusione dell’«operazione commerciale»103: in essa sono quindi destinate a essere ricomprese i) tutte le forme di messaggio pubblicitario e comunicazione commerciale volte a sollecitare e promuovere la conclusione del contratto104; ii) tutte le condotte della fase precontrattuale propriamente intesa, a partire cioè dall’istaurazione del contatto iniziale con il consumatore fino al momento della conclusione del contratto105; nonché iii) ogni altra condotta connessa alla fase esecutiva o di cd. post- vendita106. Ciò che risulta necessario è dunque che la condotta del professionista sia posta in essere in relazione107 con la promozione e/o commercializzazione di
xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx); in altri casi, è stata considerata irrilevante la significatività statistica del dato numerico dei consumatori interessati dalla pratica commerciale (TAR Lazio-Roma, 11/6/2009, n. 5570, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx).
102 X. XXXXXXXX, o.u.c., pp. 169-170.
103 L’espressione «operazione commerciale» deve senz’altro essere intesa come sinonimo di
«contratto» (cfr. G. DE XXXXXXXXXX, sub art. 19, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 133)
104 Tanto trova conferma nello stesso art. 2, lett. d) della direttiva, che espressamente comprende nella definizione di pratica commerciale la pubblicità e il marketing.
105 X. XX XXXXXXXXXX, o.u.c., pp. 133-134, secondo il quale vengono in considerazione sia i comportamenti volti a incidere sulla scelta del consumatore relativa alla conclusione del contratto (an), sia i comportamenti volti a incidere sulle scelte del consumatore inerenti le condizioni economiche e giuridiche dell’affare.
106 Cfr. considerando 13, ove è così statuito: «Per sostenere la fiducia da parte dei consumatori il divieto generale dovrebbe applicarsi parimenti a pratiche commerciali sleali che si verificano all’esterno di un eventuale rapporto contrattuale tra un professionista ed un consumatore o in seguito alla conclusione di un contratto e durante la sua esecuzione».
107 Cfr. X. XXXXXX, sub art. 18, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, a cura di A. CATRICALÀ – X. XXXXXXX, cit., pag. 1677, secondo il quale è proprio la «relazione» esistente tra la pratica (o condotta professionistica) e la promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori a rendere una pratica «commerciale» ai sensi della direttiva 2005/29/CE. Al riguardo viene poi segnalato come il legislatore italiano abbia sostituito l’espressione
«direttamente connessa» con l’espressione «in relazione», evidentemente più generica e omnicomprensiva (X. XXXXXX, ibidem).
un prodotto o un servizio108, potendo poi incidere indifferentemente sulla
«percezione dei beni e dei servizi», ovvero sulla percezione dei contratti e/o dei
«diritti contrattuali»109.
Un così vasto àmbito di operatività della nuova disciplina sotto il profilo oggettivo trova un unico limite, di tipo funzionale, che non risulta espressamente menzionato nella definizione positivizzata (dalla direttiva e dal codice del consumo) di «pratica commerciale». È stato invero attentamente osservato che la direttiva 2005/29/CE intende occuparsi non di qualsiasi condotta commerciale connessa alla promozione e/o commercializzazione di un bene o servizio, bensì delle sole pratiche commerciali sleali che, oltre a connotarsi nei termini appena descritti, siano altresì idonee a influenzare il comportamento economico dei consumatori110. Ciò risulta inequivocabilmente dal considerando 7 della direttiva, ove viene espressamente precisato che «la presente direttiva riguarda le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti», nonché indirettamente dal considerando 6, nel quale è precisato che la novella non intende proibire pratiche pubblicitarie e di marketing «in grado di incidere legittimamente sulla percezione dei prodotti da parte dei consumatori e di influenzarne il comportamento senza però limitarne la capacità di prendere una decisione consapevole»: col che, per l’appunto, intendendosi che la direttiva vuole regolare siffatte pratiche proprio in considerazione di tale «orientamento» e tali «capacità»111.
Il legislatore europeo, in altri termini, ha inteso disciplinare le sole pratiche commerciali che presentano siffatta attitudine, nella consapevolezza che di essa gli imprenditori sovente abusano allo scopo di indurre il consumatore a compiere una scelta commerciale che altrimenti non avrebbe compiuto. Lo scopo della direttiva, detto ancora in altre parole, è quello di stabilire «a quali condizioni
108 Cfr. TAR Lazio-Roma, 9 agosto 2010, n. 30428, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx/.
109 Cfr. art. 2, lett. k) della direttiva e art. 18, lett. m) cod. cons. In dottrina, X. XXXXXXX,
o.u.c., p. 108.
110 L’osservazione è sempre di X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 105 ss. Lo evidenzia anche X. XXXXXXXX, La tutela collettiva contro le pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, a cura di X. XXXXXXXXX e X. XXXXX XXXXXX, cit., pp. 315-316.
111 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 106.
influenzare è legittimo (leale) e a quali condizioni diventa illegittimo (sleale)»112, ovvero – parafrasando la formula della clausola generale di slealtà113 – di stabilire quando la pratica commerciale (non si limita a influenzare, ma) falsa o è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore.
Sotto il profilo soggettivo, l’àmbito di applicazione della direttiva 2005/29/CE coincide pienamente con quello della direttiva 93/13/CEE, essendo essa destinata a regolare le pratiche commerciali poste in essere tra
«professionisti»114 e «consumatori». Le stesse definizioni nella sostanza coincidono, e le relative varianti terminologiche o espressive possono ritenersi irrilevanti115.
Quanto alla categoria del «consumatore», per il vero, l’art. 2, lett. a) della direttiva 2005/29/C riferisce ai «fini» per cui il consumatore agisce con maggiore precisione rispetto all’art. 2, para 1, lett. a), della direttiva 1993/13/CEE: mentre per la prima disposizione «consumatore» è colui che agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività «commerciale, industriale, artigianale o professionale», per la seconda «consumatore» è – come visto – colui che agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività (solamente)
«professionale»; differenza però, quest’ultima, che nel codice del consumo viene fortemente ridotta116. Non costituisce invece una categoria, destinataria della disciplina in analisi, il «consumatore medio» (artt. 5 della direttiva e 20 cod.
112 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 107.
113 Artt. 5, para 2, lett. b) e art. 20, comma 2.
114 Non è dato comprendere il motivo per cui l’art. 3, para 1, della direttiva riferisca, nel definire l’ambito di applicazione della novella, alle «imprese» piuttosto che al «professionista». In effetti, tra le definizioni passate in rassegna dall’art. 2 figura, alla lett. b), per l’appunto il
«professionista», non anche l’«impresa» o l’«imprenditore».
115 Cfr. X. XXXXXXXXX, Le nozioni di consumatore e di consumatore medio nella direttiva 205/29CE, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, a cura di X. XXXXXXXXX e X. XXXXX XXXXXX, cit., p. 144, secondo il quale la nozione di consumatore propria della direttiva 2005/29/CE è conforme a quella che si rinviene in tutte le altre direttive.
116 Ai sensi dell’art. 3, lett. a), consumatore (o utente) è «la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»; ai sensi dell’art. 18, lett. a), consumatore è «qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale». L’essere stato in tal ultima disposizione preferito l’aggettivo «industriale» a quello «imprenditoriale» non sembra, anche in tale caso, avere alcuna rilevanza (così G. DE XXXXXXXXXX, sub art. 18, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 121).
cons.), che opera piuttosto quale «criterio di riferimento» della slealtà di una pratica, elemento cioè rispetto al quale parametrare l’idoneità dell’«influenzare» e/o «falsare» della condotta professionistica117.
Analoghe considerazione valgono per la categoria del «professionista», che risulta descrittivamente più ambia nella direttiva 2005/29/CE, ma che nel codice del consumo trova la medesima definizione agli artt. 3, lett. c) e 18, lett. b)118.
Se nella prospettiva europea la disciplina sulle clausole abusive e quella sulle pratiche commerciali abusive hanno un coincidente àmbito di operatività soggettivo, altrettanto non può invece dirsi avendo riguardo alla normativa nazionale. Nella quale, invero, in accoglimento di un’istanza analoga a quella che parte della dottrina aveva già evidenziato in materia di clausole vessatorie119, la disciplina delle pratiche commerciali scorrette è stata estesa oltre i rapporti tra professionisti e consumatori120. Con il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (art. 7), convertito con modificazioni con l. 24 marzo 2012, n. 27, il Titolo III, Parte II, cod. cons. è divenuto applicabile anche «alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese» (art. 19, comma 1°)121, per tali ultime intendendosi
117 X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 145.
118 Cfr. X. XX XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 122, secondo il quale della definizione contenuta dall’art. 18, lett. b) «si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno: sarebbe stato invero sufficiente adeguare la formula testuale della definizione «generale» contenuta nella lett. c dell’art. 3 c.cons., sostituendo l’ambiguo riferimento al «suo intermediario» con il più corretto riferimento a
«chiunque agisca in nome o per conto di un professionista»». Per l’A. nessuna rilevanza può, anche in tale caso, essere attribuita alla circostanza che nella lett. b) dell’art. 18 cod. cons. all’aggettivo «imprenditoriale» sia stato preferito l’aggettivo «industriale», invece utilizzato dall’art. 3, lett. c) cod. cons.
119 La novella è stata introdotta su sollecitazione dell’A.G.C.M., a mezzo della Segnalazione del 5 gennaio 2012 indirizzata al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere, intitolata «Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza» (x. Xxxx. A.G.C.M., ed. spec. del 9 gennaio 2012, pp. 19-60).
120 Nel senso di estendere la tutela tradizionalmente riconosciuta ai soli consumatori anche ad altri soggetti, x. xx xxxxxxxxx 0000/00/XX (xx. Consumers rights), recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. n. 21/2014: in particolare, v. il considerando 13 ove si prevede che gli Stati membri possono «decidere di estendere l’applicazione delle norme della presente direttiva alle persone giuridiche o alle persone fisiche che non sono consumatori ai sensi della presente direttiva, quali le organizzazioni non governative, le start-up o le piccole e medie imprese».
121 Avuto debito riguardo alla ratio della novella – ovvero fornire un’adeguata tutela delle microimprese nei confronti delle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive poste in essere dai professionisti (v. rubrica dell’art. 7 del d.l. n. 1/2012) – la nozione di «pratiche commerciali tra professionisti e microimprese» deve propriamente essere intesa nel senso di escludere che tale nozione comprenda anche pratiche commerciali poste in essere da microimprese nei confronti di imprenditori. Rientrano, invece, in tale nozione le pratiche commerciali poste in essere da
(art. 18, lett. d) bis) tutte le «entità, società o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un'attività economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 3, dell'allegato alla raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003». In verità, il legislatore italiano – la cui scelta di ampliare l’àmbito di operatività della direttiva è senz’altro legittima122 – non ha esteso l’intera disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette a tutte le pratiche tra professionisti e microimprese, giacché la tutela di quest’ultime
«in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145» (art. 19, comma 1°, cod. cons.). Ciò significa che quando la pratica posta in essere dal professionista nei confronti della microimpresa debba qualificarsi come pubblicità (ai sensi dell’art. 2, lett. a), d.lgs. 145/2007), a essa non trovano applicazione gli artt. 21-23 cod. cons. (relativi alle pratiche commerciali ingannevoli), dovendo l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario essere valutata ai sensi dell’art. 2, lett. b) e 3 d.lgs. 145/2007.
3.1 (Segue) L’architettura della disciplina sulle pratiche commerciali sleali (rectius scorrette). Rinvio.
La disciplina delle pratiche commerciali idonee sleali recata dalla direttiva 2005/29/CE non impone ai professionisti obblighi di contenuto positivo, con ciò rinunciando a individuare gli elementi al ricorrere dei quali una pratica possa definirsi «leale». La direttiva, piuttosto, si limita a porre un unico, generale divieto: il divieto di ricorrere a pratiche commerciali «sleali»123. Cui segue la
microimprese nei confronti di altre microimprese, purché le prime abbiano i caratteri del
«professionista», ovvero agiscano nel quadro della loro attività economica (così X. XXXXXXX,
o.u.c., p. 157-158).
000 Xxx. X. XX XXXXXXXXXX, sub art. 19, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 136; X. XXXXXXX, o.u.c., p. 161; X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 167.
123 Così art. 5, para 1, della direttiva: «Le pratiche commerciali sleali sono vietate».
fissazione dei criteri e dei parametri in applicazione dei quali può stabilirsi se e in quale misura detto divieto debba considerarsi violato124.
A tale fine, il legislatore europeo ha fatto ancora una volta proprio il modello tedesco, mutuando in particolare l’approccio adottato dal legislatore teutonico nel Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb (UWG) del 2004, recante la disciplina della concorrenza sleale125. Alla stessa stregua di tale disciplina126, invero, anche la direttiva 2005/29/CE ha adottato una struttura normativa a piramide, detta anche a cerchi concentrici, comprendente una clausola generale («grand general clause», art. 5, para 2) che fornisce la definizione dell’intera categoria di pratica commerciale «sleale», e due ulteriori clausole («small general clauses», art. 5, para 4) relative ad altrettante sottocategorie di pratiche commerciali sleali (i.e. «ingannevoli» di cui agli artt. 6-7, e «aggressive» di cui agli art. 8-9). In aggiunta a ciò, sono altresì previste, all’allegato I della direttiva, due liste cd. nere di pratiche che sono considerate «in ogni caso sleali» (ingannevoli o aggressive)127.
La medesima impostazione è stata seguita anche dal legislatore italiano che, nel dare attuazione alla direttiva con la consueta fedeltà, ha quindi previsto un divieto generale di porre in essere pratiche commerciali «scorrette» (art. 20, comma 1° cod. cons.), cui seguono una clausola generale di «scorrettezza» (art. 20, comma 2°, cod. cons.), due clausole più circoscritte (art. 20, comma 4°) relative alle pratiche commerciali «ingannevoli» (artt. 21 ss., cod. cons.) e
«aggressive» (art. 24 ss., cod. cons.), nonché due liste di pratiche considerate «in
124 G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di ID., cit., p. 11.
125 Segnala però X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 181-182, che il test di slealtà previsto dalla disciplina tedesca è più ampio, contrastando essa tanto le pratiche commerciali lesive degli interessi dei concorrenti, quanto le pratiche commerciali lesive degli interessi dei consumatori.
126 Cfr. § 3 contenente la clausola generale di «slealtà» («Grosse Generalklausel») che vieta le pratiche commerciali sleali in danno dei consumatori e dei concorrenti e §§ 5 e 7 («Kleine Generalklausel») relativi, rispettivamente, alle pratiche commerciali «ingannevoli» («Irreführend») e alle pratiche commerciali «moleste» («Belästigung»).
127 Cfr. X. XXXXXXXXX, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, a cura di X. XXXXXXXX, cit., pp. 28- 29; ID., Xxxxxxxx generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., pp. 73-74.
ogni caso ingannevoli» (art. 23 cod. cons.) e «in ogni caso aggressive» (art. 26 cod. cons.).
Secondo l’interpretazione prevalente tra gli studiosi, con una tale architettura la direttiva, a dispetto dell’ambizioso obiettivo di creare un diritto generale e uniforme delle pratiche commerciali sleali, non avrebbe però introdotto un concetto unitario di (s)lealtà. È stato invero ritenuto che le liste nere delle pratiche commerciali vietate in «ogni caso» e le due più circoscritte fattispecie di pratiche commerciali «ingannevoli» e «aggressive» sarebbero del tutto autonome rispetto al divieto generale di pratica commerciale «sleale»/«scorretta» (artt. 5, para 2, della direttiva e 20, comma 2°, cod. cons.). Dette disposizioni, cioè, recherebbero delle norme speciali rispetto al più generale divieto di pratica commerciale «sleale»/«scorretta», con la conseguenza che i) ove si accertasse che una pratica rientri in una delle fattispecie considerate nelle liste nere, siffatta pratica sarebbe senz’altro vietata, senza che sia ammessa la possibilità di valutare se ricorrano o meno i requisiti per considerarla ingannevole (ai sensi degli artt. 6-7 della direttiva e 21-22 cod. cons.), aggressiva (ai sensi degli artt. 8-9 della direttiva e 24-25 cod. cons.) o «generalmente sleale» (ai sensi degli art. 5, para 2, della direttiva e 20, comma 2°, cod. cons.); e che ii) ove una pratica, pur non essendo rientrante tra le ipotesi di pratiche senz’altro sleali, presenti i requisiti per essere qualificata «ingannevole» o «aggressiva», sarebbe irrilevante se essa abbia o meno i requisiti per essere considerata «generalmente sleale», ovvero se sia contraria alla diligenza professionale e idonea a falsare il comportamento del consumatore medio128. In altri termini, la clausola generale di cui agli artt. 5, para
128 In questi termini X. XXXXXXXXX, The Unfair Commercial Practices Directive and its General Prohibition, in The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, a cura di X. XXXXXXXXX – X. XXXXXXX, cit., p. 20 ss.; G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo
– Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di ID., cit., pp. 12 e 139 ss.; ID., La direttiva 2005/29/Ce. Contenuti, rationes, caratteristiche, in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di ID., p. 12; X. XXXXXXXX, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, cit., p. 777; X. XXXXXX, X. XXXXXX E T. XXX XXXX, o.u.c., pp. 132- 133, i quali, peraltro, ritengono che tanto dovesse avvenire anche nella disciplina tedesca della concorrenza sleale UWG del 2004 (p. 124, nota 81). In questa direzione sembrerebbe orientata anche la Corte di Giustizia: Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2009:244), 23.04.2009, C-261/07 e C-299/07, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 56, ove così si legge: «La direttiva redige anche, al suo allegato I, un elenco esaustivo di 31 pratiche commerciali che, conformemente
2, della direttiva e 20, comma 2°, cod. cons. avrebbe un valore normativo meramente residuale (o sussidiario, che dir si voglia), essendo destinata a colpire le sole pratiche commerciali non generalmente o tipicamente ingannevoli e aggressive, quelle che il legislatore non è stato cioè in grado di prevedere, e quindi per consentire alla direttiva di superare «the test of the time»129.
Altra parte della dottrina, di contro, ha ritenuto di non potere leggere nella clausola generale di cui all’art. 5, para 2, una mera norma di chiusura del sistema, difettando un tale orientamento interpretativo di «coerenza sistematica»130. La connessione tra i diversi precetti appare, per il vero, resa palese già dal dato testuale del para 4 dell’art. 5 della direttiva (nonché comma 4° dell’art. 20 cod. cons.), che mostra di considerare le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive come esemplificazioni della più ampia e generale categoria di pratica commerciale sleale131.
Non è parso, in ogni caso, affatto adeguato il richiamo al principio di specialità cui rimanda più o meno consapevolmente l’orientamento maggioritario, giacché l’architettura della direttiva 2005/29/CE - come tutti gli altri sistemi in cui vengono in esame norme «generali» e norme «speciali» esemplificative - non evoca l’esigenza di comporre un’antinomia tra norme diverse «caratterizzate da
all’art. 5, n. 5, della direttiva, sono considerate sleali «in ogni caso». Conseguentemente, come espressamente precisato dal diciassettesimo ‘considerando’ della direttiva, si tratta delle uniche pratiche commerciali che si possono considerare sleali senza una valutazione caso per caso ai sensi delle disposizioni degli articoli da 5 a 9 della direttiva»; Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2010:12), 14.01.2010, C-304/08, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 45; Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2013:574), 19.09.2013, C-435/11, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, che ha concluso che la direttiva 2005/29/CE deve essere interpretata nel senso che «nell’ipotesi in cui una pratica commerciale soddisfi tutti i criteri enunciati all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva per poter essere qualificata come pratica ingannevole nei confronti del consumatore, non occorre verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima perché essa possa essere legittimamente ritenuta sleale e, pertanto, essere vietata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della stessa direttiva».
129 Così la Commissione nel XXXX/00/000, Xxxxxxxxx, 12 dicembre 2007, the Unfair commercial practices Directive. Questions and answers, para 2-3, consultabile in xxxx://xxxxxx.xx/.
130 Così X. XXXXXXXXX, Clausola generale e disposizioni particolari, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, cit., p. 32; ID., Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 77.
000 X. XXXXXXX, sub art. 20, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cura di
A. CATRICALÀ – X. XXXXXXX, cit., p. 1701.
parziale sovrapposizione delle fattispecie e da diversità di sanzioni»132, quanto piuttosto l’esigenza di ordinare a sistema fattispecie appartenenti allo stesso corpus normativo e tra loro accomunate dal medesimo elemento caratterizzante,
i.e. l’attitudine a «falsare» le decisioni di natura commerciale del consumatore medio.
Detta lettura appare più convincente. È proprio la comune attitudine ad alterare considerevolmente le capacità decisionali dei consumatori, sì da indurli a compiere scelte economiche che diversamente non avrebbero compiuto, a costituire - ci sembra - l’elemento decisivo che induce a preferire una lettura di insieme delle varie fattispecie, così ravvisando nella clausola generale una norma di principio (disciplinante le pratiche commerciali generalmente scorrette) rispetto alla quale le clausole particolari e le liste speciali (previdenti pratiche commerciali specialmente e tipicamente scorrette) costituisco norme esemplificative133. Detto tratto qualifica tutte le pratiche commerciali sleali/scorrette e, in effetti, da un lato, è riassunto nella formula della clausola generale come l’idoneità a falsare «in misura rilevante il comportamento economico […] del consumatore medio», nonché, dall’altro, richiamato nelle stesse clausole «intermedie» di slealtà, con varie (ma nel significato corrispondenti) formule134: come idoneità «a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (artt. 6 e 7 con riferimento alle azioni e omissioni ingannevoli); ancora come idoneità a «limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, [come idoneità] ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti
132 X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 77.
133 In questo senso X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 141 ss; X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1701; M XXXXXXXXX, o.u.c., pp. 80 ss.
134 Riteniamo in questo senso di non poter condividere l’opinione di X. XX XXXXXXXXXX, La nozione generale di pratica commerciale «scorretta», in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di ID., cit., p. 153, secondo il quale l’elemento della «idoneità a falsare» in misura apprezzabile il comportamento del consumatore non dovrebbe essere accertato nelle pratiche suscettibili di essere qualificate come generalmente o tipicamente ingannevoli e aggressive. In tutte dette fattispecie ricorre invero il requisito della idoneità della pratica a indurre in consumatore a compiere una scelta che altrimenti non avrebbe preso, ovvero a limitare considerevolmente la libertà di scelta o comportamento del consumatore. Requisito, questo, che, seppure enunciato con formule non sempre pienamente corrispondenti, esprime la stessa attitudine sintetizzata dalla formula della «idoneità a falsare» della clausola generale.
preso» (art. 8 con riferimento alle pratiche commerciali aggressive); ovvero come idoneità a «limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole» (art. 2, lett. j), con riferimento alla definizione di indebito condizionamento)135.
La bontà di questa lettura sembra peraltro trovare conferma in un altro dato accomunante tutte le ipotesi di p.c. scorrette previste dal legislatore, simmetrico rispetto all’attitudine sopra descritta, e, non a caso, anch’esso sintetizzato nella clausola generale: la contrarietà alla buona fede (oggettivamente intesa) della condotta del professionista. S’intende che falsare il comportamento economico del consumatore altro non significa che abusare136 del potere, di fatto proprio di ogni professionista, di influenzare il comportamento economico dei consumatori137; una condotta, questa, qualificabile come sleale, scorretta, o, per l’appunto, contraria a buona fede.
E anche detto elemento è, da un lato, riassunto nella clausola generale con la formula (pur ambigua per l’interprete italiano138) della «contrarietà alla diligenza professionale»139, e, dall’altro, parimenti richiamato nelle clausole particolari attraverso la descrizione di quelle peculiari modalità in cui si esplicano le condotte ingannevoli o aggressive140. Ci sembra, in altre parole, che il
135 X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 97.
136 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 117.
137 Si è visto supra che le pratiche commerciali destinatarie della disciplina recata dalla direttiva 2005/29/CE sono unicamente le pratiche che presentano l’idoneità a influenzare il comportamento economico dei consumatori (considerando 6-7) e che la finalità della stessa direttiva è di stabilire quando suddetto «influenzare» diviene, nella sua connotazione illegittima, un «falsare».
138 Sul punto si tornerà più diffusamente infra, Cap. 3, § 2.1.
139 Cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., p. 118, per il quale il principio della buona fede è richiamato attraverso la formula della «diligenza professionale».
140 In tale ottica, è stato evidenziano come la connessione tra norma generale e norme esemplificative deve essere apprezzata sotto il profilo interpretativo, nel senso che le fattispecie previste dagli artt. 21,22, 24 e le più analitiche fattispecie di cui alle liste nere devono essere lette alla luce dei parametri su si fonda la xxxxxxxx xxxxxxxx xx xxx. 00 (X XXXXXXXXX, x.x.x., x. 00; X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 142-144; X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1701). Xxxx, detta inscindibile connessione deve essere intesa come «reciproca» (così X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 1701-1702), ovvero operante «in due direzioni di chiarimento» (così S. ORLANDO, o.u.c., p. 144), nel senso che anche le figure particolari di p.c. scorrette possono contribuire a definire il significato della clausola generale (in questo senso anche L. DI NELLA, Le pratiche commerciali sleali «aggressive», in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di X. XX XXXXXXXXXX, cit., p. 221).
professionista violi sempre il precetto della buona fede (i.e. della diligenza professionale) ogni qual volta ponga indifferentemente in essere un’azione ingannevole (fornendo informazioni non corrispondenti al vero o comunque inducendo in errore il consumatore medio circa gli elementi essenziali per prendere una decisione consapevole), un’omissione ingannevole (omettendo informazioni rilevanti), una condotta aggressiva (esercitando violenza, coercizione, indebito condizionamento o forza fisica), ovvero ponendo in essere le condotte passate in rassegna nelle liste di pratiche in ogni caso «ingannevoli» e
«aggressive»141.
Sul punto, ovvero su significato e portata del requisito della «diligenza professionale», si tornerà infra142. Valga ora solamente segnalare che, senza margini di dubbio, è ancora una volta la buona fede a rappresentare il criterio cardine cui i professionisti debbono conformare la propria condotta143, rappresentando esso in definitiva il discrimine tra un influenzare legittimo e un influenzare illegittimo (i.e. un «falsare»)144. Tale principio, in questi termini, esprime un dovere di solidarietà cui i professionisti sono tenuti verso i consumatori, della cui libertà e consapevolezza nelle scelte economiche debbono garantire un elevato standard di tutela145.
Bene lo ha compreso e sicuramente meglio enunciato il legislatore italiano che, da un lato, all’art. 2, comma 2, lett. c bis), cod. cons., ha riconosciuto il diritto fondamentale dei consumatori e utenti «all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà», e, dall’altro, all’art. 39 cod. cons., ha sancito in termini generali che tutte le attività commerciali «sono
141 Così, precisamente, X. XXXXXXX, o.u.c., p. 142: «[…] deve ritenersi che i comportamenti ingannevoli e aggressivi, come rappresentati nelle fattispecie generali degli artt. 21, 22 e 24 Codice del consumo e nelle fattispecie tipiche di cui alle liste nere degli articoli 23 e 26 Codice del consumo, sono comportamenti vietati come p.c. scorrette in quanto ritenuti dal legislatore contrari per definizione alla diligenza professionale» (il corsivo è dell’Autore).
142 V. infra, Cap. 3, § 2.1.
143 È indubitabile, dopotutto, che la buona fede sia «presente oggi come principio pervasivo in tutti gli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale» (così X. XXXXXXX, Il principio generale di buona fede, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di X. XXXXXXXXXX – X. XXXXXXXXX, Milano, 2007, Vol. II, p. 495).
144 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 143, gli attribuisce «valore ermeneutico ordinante all’interno del sistema della nuova disciplina».
145 Cfr. X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 96.
[rectius debbono, ndr] essere improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutate alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie dei consumatori»146.
Ciò, allora, consente di concludere147 – come d’altronde concludono più o meno consapevolmente anche quanti intendono predicare una autonomia tra le diverse clausole – che la qualificazione in termini di «scorrettezza» di una pratica commerciale nel senso di cui agli artt. 20 ss. cod. cons. (indifferentemente dunque se tanto avvenga in forza della clausola generale, di quelle speciali o delle liste nere) esprime senz’altro la non rispondenza di tale pratica ai «principi di buona fede, correttezza e lealtà» ex art. 39 cod. cons.148, nonché la contestuale violazione del corrispondente diritto fondamentale del consumatore, di cui all’art. 2, comma 2, lett. c bis), a che la pratica risponda a tali requisiti149.
3.2 (Segue) I rimedi e la tutela dei consumatori collettivamente considerati.
La direttiva 2005/29/CE reca – come si è visto – un’analitica e dettagliata disciplina delle fattispecie sostanziali di pratiche commerciali sleali. Altrettando non può invece dirsi quanto alla previsione dei rimedi esperibili nel caso di
146 Non deve fuorviare l’utilizzo da parte del legislatore italiano anche dei termini di
«lealtà» e «scorrettezza», accanto alla «buona fede». Fanno correttamente notare G. DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di ID., cit., p. 126 e X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1698, che le nozioni di «lealtà» e «correttezza» vengono utilizzate sempre in combinazione con la «buona fede», di cui, in definitiva, rappresentano solamente particolari articolazioni dai medesimi significato e portata.
147 Cfr. G. DE CRISTOFARO, sub art. 39, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 435-436, il quale correttamente osserva, a bontà della lettura qui sostenuta, che alla norma in commento non possa essere attribuita «la funzione di individuare parametri di valutazione della liceità delle condotte dei professionisti diversi e ulteriori rispetto a quelli dettati dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette contenuta negli artt. 18 ss.».
148 Nella relazione illustrativa del D.lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo) si legge invero che la disposizione dell’art. 39 «introduce regole generali nelle attività commerciali, conformi ai principi generali di diritto comunitario in tema di pratiche commerciali sleali».
149 Anche la relazione al D.lgs. n. 221/2007 - che ha introdotto la lett. c bis) all’art. 2, comma 2 - evidenzia come il richiamo ai principi di correttezza e buona fede sia stato introdotto in conformità ai principi sanciti dalla direttiva 2005/29/CE e dal D.lgs. 147/2007 che a quella ha dato attuazione.
violazione del generale divieto di porre in essere siffatte pratiche, rispetto ai quali agli Stati membri è stato riconosciuto un più significativo margine di manovra.
L’art. 11 della direttiva ha invero lasciato ai legislatori nazionali il compito di assicurare «che esistano mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali […]», limitandosi a imporre che detti mezzi includano (ma non si esauriscano in) «[…] disposizioni giuridiche ai sensi delle quali le persone o le organizzazioni che secondo la legislazione nazionale hanno un legittimo interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali, inclusi i concorrenti, possono: a) promuovere un’azione giudiziaria contro tali pratiche commerciali sleali, e/o b) sottoporre tali pratiche commerciali sleali al giudizio di un’autorità amministrativa competente a giudicare in merito ai ricorsi oppure a promuovere un’adeguata azione giudiziaria». Del pari liberi sono stati lasciati gli Stati membri di individuare le sanzioni (purché effettive, proporzionate ed effettive) che le Autorità competenti possono irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in recepimento della direttiva (art. 13), fermo solo restando il riconoscimento del potere – che deve loro essere necessariamente attribuito – «a) di far cessare le pratiche commerciali sleali o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per ingiungere la loro cessazione, o b) qualora la pratica commerciale sleale non sia stata ancora posta in essere ma sia imminente, di vietare tale pratica o di proporre le azioni giudiziarie appropriate per vietarla, anche in assenza di prove in merito alla perdita o al danno effettivamente subito, oppure in merito all’intenzionalità o alla negligenza da parte del professionista»150.
Il legislatore italiano – come noto – ha inteso affidare all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (A.G.C.M.) il compito di garantire l’enforcement delle disposizioni adottate in recepimento della direttiva 2005/29/CE. Si è trattata di una scelta dettata da ragioni di opportunità, da più parti auspicata, considerate, da un lato, la scarsa affidabilità che la tutela giurisdizionale avrebbe offerto in relazioni a interessi dalla natura diffusa e sopra-individuale151, e, dall’altro,
150 Cfr. art. 11, para 2.
151 Cfr. X. XXXXXX, Gli strumenti di tutela individuale e collettiva, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di X. XX XXXXXXXXXX, cit., pp. 383 ss., il quale evidenzia come le controversie in materia, dato lo scarso valore economico che nella stragrande maggioranza dei casi avrebbero avuto, sarebbero rientrate nella competenza del Giudice
l’efficienza e l’autorevolezza con cui da anni l’A.G.C.M. aveva mostrato di saper operare nell’àmbito della tutela della concorrenza e del mercato, in applicazione precisamente della disciplina antitrust (l. n. 287/1990) e della disciplina in materia di pubblicità ingannevole (D.lgs. n. 74/1992). L’Autorità, peraltro, soddisfaceva pienamente le esigenze di imparzialità prescritte dall’art. 11, para 3, lett. a) della direttiva152 e di affidabilità organizzativa e professionale prescritta dall’art. 4, para 7, del regolamento n. 2006/2004/CE «sulla cooperazione per la tutela dei consumatori»153.
L’art. 27 cod. cons. (rubricato «tutela amministrativa e giurisdizionale») ha così attribuito così all’A.G.C.M.154 poteri di accertamento, inibitori e sanzionatori, da esercitarsi all’esito di un articolato procedimento amministrativo
– avviabile d’ufficio155 o su istanza di parte – come attualmente disciplinato dagli artt. 4 ss. della Delibera dell’Autorità n. 25411 dell’1/04/2015, (G.U. del 23 aprile 2015, n. 94)156.
di pace, con tutti rischi a ciò connessi, compresi il non infrequente ricorso al «pericoloso strumento dell’equità» e le «inevitabili complicazioni» che avrebbe comportato la diversa competenza funzionale del Tribunale per la sola tutela d’urgenza. Nello stesso senso ID., La tutela amministrativa e giurisdizionale, in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G. DE CRISTOFARO, cit. 270-271, ove veniva l’illustrata l’inopportunità («un monstrum giuridico») anche della diversa possibile scelta di riservare all’Autorità giurisdizionale ordinaria la competenza dell’enforcement in materia, riconoscendo a un organo amministrativo il solo potere di promuovere l’azione.
152 Cfr. art. 10 della l. n. 287/1990.
153 Così precisamente l’art. 4, para 7: «Gli Stati membri si adoperano affinché le autorità competenti dispongano delle risorse necessarie all’applicazione del presente regolamento. I funzionari competenti rispettano le norme professionali e sono soggetti ad adeguate procedure interne o regole di condotta che garantiscono, in particolare, la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali, l’imparzialità procedurale e il rispetto delle norme in materia di riservatezza e segreto professionale di cui all’articolo 13».
154 L’A.G.C.M. è competente per l’accertamento e repressione delle pratiche commerciali scorrette anche nei settori regolati, come disposto dal comma 1 bis dell’art. 27, introdotto dalla D.lgs. 21/2014 in recepimento della direttiva 2011/83/UE (cd. Consumers Rights). Sul punto v. più diffusamente infra, Cap. IV, § 3.
155 Sulla possibilità di procedere d’ufficio da parte dell’A.G.C.M. all’accertamento della scorrettezza di una pratica è particolarmente favorevole X. XXXXXXXX, L’enforcement e le tutele, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, a cura di ID., cit., pp. 229-230, la quale evidenzia come in tal modo sia stata superata «ogni esigenza di verifica sulla legittimazione del denunciante».
156 Si tratta - come chiarisce il suo art. 2 - del regolamento che, nel rispetto dei principi del contraddittorio, della piena cognizione degli atti e della verbalizzazione, «si applica ai procedimenti dell’Autorità in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, di pratiche
Più precisamente, è prevista la possibilità che chiunque ne abbia interesse (sia un consumatore, un professionista o una microimpresa) possa richiedere attraverso una formale comunicazione (art. 4 Reg.) l’intervento dell’Autorità157, la quale, all’esito di una prima valutazione di tutti gli elementi portati alla sua conoscenza, potrà stabilire se procedere alla fase istruttoria vera e propria, ovvero semplicemente archiviare l’stanza o dichiararla irricevibile (per motivi espressamente individuati dall’art. 5 Reg.). Di particolare rilievo in detta fase (cd. pre-istruttoria) è la possibilità per il responsabile del procedimento, dopo averne informato il Collegio, di invitare «professionista, per iscritto, a rimuovere i profili di possibile ingannevolezza o illiceità di una pubblicità ovvero di possibile scorrettezza di una pratica commerciale»: si tratta della cd. moral suasion, strumento di razionalizzazione dell’attività amministrativa dell’Autorità, funzionale com’è a evitare di aprire un procedimento istruttorio vero e proprio nell’ipotesi in cui sia verosimilmente fondata l’esistenza di una pratica scorretta158.
Con l’apertura della fase istruttoria propriamente detta – che avviene con avviso da comunicarsi da parte del responsabile del procedimento alle parti interessate (art. 6) – s’istaura un pieno contradditorio tra queste e l’Autorità, la quale quindi procederà all’istruzione della pratica, eventualmente ricorrendo a tutti gli strumenti istruttori già riconosciutigli dalla disciplina antitrust, quali la richiesta di informazioni, l’esibizione di documenti (art. 12) e la disposizione di ispezioni (art. 14). Nel corso di detta fase, o contestualmente alla sua apertura, l’Autorità, ogni qual volta ricorrano motivi d’urgenza, potrà altresì disporre, d’ufficio e con atto motivato, la sospensione provvisoria della pratica commerciale scorretta (art. 27, comma 3°, cod. cons., e art. 8 Reg.). È la c.d. fase
commerciali scorrette, di violazioni dei diritti dei consumatori nei contratti, di violazioni del divieto di discriminazioni, nonché di clausole vessatorie».
157 X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 211 evidenzia come la possibilità di denunciare all’A.G.C.M. «a costo zero» una pratica commerciale scorretta sia pienamente coerente con la finalità di garantire un elevato standard di tutela del consumatore e del mercato, giacché la totale assenza di «costi di reazione» non può che favorire l’emersione, la denuncia e il contrasto delle pratiche commerciali scorrette.
158 Cfr. art. 4, comma 5°, del Regolamento.
cautelare, il cui provvedimento di sospensione è adottabile solo ove ricorrano i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Esaurita l’istruttoria, gli atti (compresi gli scritti difensivi e i documenti offerti dalle parti interessate) vengono rimessi al Collegio decidente (art. 16), il quale con provvedimento motivato potrà i) chiudere il procedimento per accertata inesistenza di una pratica commerciale scorretta ovvero «per insufficienza degli elementi probatori, o per una delle ragioni di cui all’articolo 5, comma 1» [art. 17 Reg. lett. a)]; ii) accertare l’esistenza di una pratica commerciale scorretta [art. 17 Reg. lett. b)], nel qual caso verrà vietata la diffusione o continuazione della pratica (art. 27, comma, 8°, cod. cons.), irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 27, comma 9°, cos. cons.) ed eventualmente disposta la pubblicazione di estratto del provvedimento e/o di una dichiarazione rettificativa (art. 27, comma 8°, cod. cons.). Il procedimento potrà altresì chiudersi con provvedimento dell’Autorità che iii) accolga l’impegno del professionista - da presentarsi entro e non oltre il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione della comunicazione di avvio del procedimento (art. 9 Reg.) - a porre fine all’infrazione, cessando la diffusione della pratica o modificandola sì da eliminare i profili di illegittimità (art. 27, comma 7°, cod. cons.): in tale caso il provvedimento renderà gli impegni obbligatori per il professionista, senza accertamento dell’infrazione contestata in sede di avvio del procedimento (artt. 17, lett. c, e 9 Reg.)159.
L’articolata disciplina di controllo e repressione prevista dall’art. 27 cod. cons. ha negli anni pienamente soddisfatto le aspettative, garantendo efficacemente l’enforcement della disciplina di recepimento della direttiva 2005/29/CE160. Non sorprende, pertanto, che siffatto controllo di ordine
159 Il riconoscimento della facoltà dell’A.G.C.M. di accogliere gli impegni eventualmente proposti dal professionista, pur non essendo contemplata dalla direttiva 2005/29/CE, deve considerarsi pienamente legittima (X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 237; X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 227) trovando esplicita previsione nell’art. 4, para 6, lett. e) del Regolamento 2001/2004/CE ai sensi del quale le autorità nazionali responsabili della normativa che tutela i consumatori possono
«ottenere dal venditore o fornitore responsabile delle infrazioni intracomunitarie l’impegno di porre fine all’infrazione intracomunitaria e, laddove opportuno, disporre la pubblicazione dell’impegno in questione».
160 È quanto emerge dai dati delle relazioni dell’attività svolta dall’Autorità negli ultimi anni (reperibili in xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxx-xxxxxxx.xxxx). A titolo esemplificativo, nell’anno 2016, su 112 procedimenti istruttori conclusi nelle materie di competenza dell’Autorità, 53 hanno riguardato pratiche commerciali scorrette nei confronti di consumatori o di microimprese, e 25 hanno visto l’applicazione della disciplina delle pratiche scorrette congiuntamente con quella
amministrativo abbia avuto maggiore diffusione rispetto altri rimedi pure preposti alla tutela degli interessi dei consumatori (sempre collettivamente considerati161) contro le pratiche commerciali scorrette162. Il riferimento è, da un lato, al meccanismo di tutela «autodisciplinare» di cui all’art. 27 ter cod. cons. e, dall’altro, alla già collaudata forma di tutela giurisdizionale di cui all’art. 140 cod. cons.
Ai sensi dell’art. 27 ter cod. cons. è previsto che – per l’ipotesi in cui le associazioni o organizzazioni imprenditoriali e professionali abbiano adottato, in relazione a una o più pratiche commerciali o ad uno o più settori imprenditoriali specifici, appositi codici di condotta «che definiscono il comportamento dei professionisti che si impegnano a rispettare tali codici (art. 27 bis cod. cons.) – i consumatori, i concorrenti, individualmente o tramite le proprie associazioni e organizzazioni163, possano convenire con il professionista di adire preventivamente il soggetto responsabile o l'organismo incaricato del controllo del codice di condotta relativo ad uno specifico settore per la risoluzione concordata della controversia, volta a vietare o a far cessare la continuazione della pratica commerciale scorretta164.
consumer rights. Si sono inoltre registrati ben 51 casi in cui l’Autorità, intervenendo con lo strumento della moral suasion, ha ottenuto da parte dei professionisti la rimozione di profili di scorrettezza/ingannevolezza di non eccessiva gravità ed ha così potuto procedere alla loro archiviazione senza svolgere accertamenti istruttori.
000 X. XXXXXXXX, Xx “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, cit., pp. 777-778.
162 Lo aveva previsto G. DE CRISTOFARO, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori (d.lgs. 2 agosto 2007, n. 146 e artt. 2,4 e 8 d.lgs. 23 ottobre 2007,
n. 221), cit., p. 1109.
163 Condivisibile è la qualificazione del presente rimedio come «a tutela dei consumatori collettivamente considerati»: cfr. X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 778, il quale evidenzia come il ricorso a questa forma di alternative dispute resolution, essendo finalizzata a vietare o far cessare la continuazione della pratica, proietta «i propri effetti sull’intero mercato: nei confronti, cioè, dei consumatori (e dei concorrenti) globalmente considerati».
164 Ciò in conformità all’art. 10 della direttiva 2005/29/CE che invero «non esclude il controllo […] delle pratiche commerciali sleali esercitato dai responsabili dei codici né esclude che le persone o le organizzazioni di cui all’articolo 11 possano ricorrere a tali organismi qualora sia previsto un procedimento dinanzi ad essi, oltre a quelli giudiziari o amministrativi di cui al medesimo articolo».
Per altro verso, e sempre nell’ottica di una tutela collettiva degli interessi della categoria del consumatore165 e (quindi) del buon funzionamento del mercato166, l’art. 139 cod. cons. prevede che le associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale (inserite nell’elenco istituito ai sensi dell’art. 137 presso il Ministero dello sviluppo economico) e i soggetti comunitari di cui al comma 2° del medesimo articolo possono (i.e. hanno la legittimazione ad) agire, ai sensi dell’art. 140, dinnanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria per la tutela degli interessi degli utenti e consumatori, compreso evidentemente quello «all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà» [art. 2, lett. c bis)]. Ciò al fine di ottenere l’ordine di cessazione della pratica già posta in essere o il divieto di diffusione di quella di imminente attuazione, l’eventuale condanna del professionista al pagamento di una somma di denaro per ogni eventuale successivo inadempimento all’ordine giudiziale, la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani nazionali o locali, nonché ogni altra misura idonea a correggere o eliminare gli effetti della pratica.
165 Cfr. X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 777; X. XX NELLA, o.u.c., p. 352; X. XX XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 1108, il quale osserva che tale rimedio sia esperibile ogni qual volta la violazione del divieto di cui all’artt. 20 ss. cod. cons. assuma una dimensione «collettiva», non esaurendosi in un comportamento tenuto una tantum nei confronti di un singolo consumatore.
166 Cfr. X. XXXXX XXXXXX, Le tutele. Cenni introduttivi, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., pp. 221 ss., la quale mette in evidenzia come sia sempre «più evidente una sorta di circolarità, che più non consente separazioni nette, in primo luogo fra concorrenza e consumatori e, di conseguenza, fra public e private enforcement» (il corsivo è dell’Autore). In altri termini, la funzione riequilibratrice del mercato e la tutela del consumatore rappresentano obiettivi inevitabilmente convergenti. Con specifico riferimento all’azione inibitoria collettiva v. X. XXXXXXX, Le tutele collettive, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., p. 266, secondo cui detta azione è «strumento di tutela dei consumatori e del mercato».
CAPITOLO II
UN PRIMO CONFRONTO: UNA DIVERSA PROSPETTIVA PER DIVERSI EFFETTI.
SOMMARIO: 1. Il mutamento di prospettiva: dal consumatore
«individuale» al consumatore «medio». Dall’«atto» all’«attività»; 2. Ancora sul distinto piano di rilevanza delle due discipline: l’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE e il nesso con il diritto dei contratti; 3. (Segue) L’incidenza di una pratica commerciale sleale sulla natura abusiva di una clausola. Il caso Xxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx contro SOS financ spol. s r. o. e la sentenza della Corte di Giustizia, Sez. I^, del 15/03/2012, C-453/10.
1. Il mutamento di prospettiva: dal consumatore «individuale» al consumatore «medio». Dall’«atto» all’«attività».
È noto come il movimento di azione e opinione denominato “consumerism” abbia avuto origine negli Stati Uniti d’America nei primi anni del secolo XX, allorquando la figura del “consumatore”, dapprima oggetto delle analisi dottrinali degli economisti e sociologi, divenne argomento di elaborazione giuridica167. È a questo periodo che risalgono i primi interventi del governo federale americano, tra i quali meritano menzione l’emanazione del Pure and Food Drug Act del 1906 e l’istituzione della Federal Trade Commission nel 1914, l’organo (una “bipartisan federal agency”) ancora oggi deputato alla tutela dei consumatori e alla promozione di un mercato competitivo attraverso l’esercizio di competenze funzionali alla repressione delle pratiche commerciali anticompetitive e sleali “business to consumers”.
È altrettanto noto come l’esperienza europea, di contro, abbia acquisito con forte ritardo la consapevolezza dell’opportunità di una tutela del consumatore e,
167 Per un’esaustiva illustrazione della nascita ed evoluzione del fenomeno (oggi anche tradotto con il termine “consumerismo”), si veda X. XXXX, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2006, pp. 4 ss.
più in generale, di una disciplina dell’atto di consumo168. Alquanto lungo e faticoso è stato il percorso che – dalla Risoluzione sui diritti dei consumatori del Consiglio del 1975 riguardante il “Programma preliminare della Comunità Economica Europea per una politica di protezione e di informazione del consumatore”169 al Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (ratificato in Italia con legge 3 novembre 1992, n. 454; in G.U. 24 novembre 1992, n. 277, suppl. ord., entrato in vigore in data 1 novembre 1993) – ha condotto la tutela del consumatore da una posizione meramente strumentale rispetto all’obiettivo di
168 Da taluni (X. XXXX, ibidem; X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumatori in Italia, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., pp. 3 ss.) è stato rilevato come, per la verità, già il legislatore italiano del 1942 ebbe l’intuizione della centralità del ruolo del consumatore nel mondo degli scambi. Nella Relazione al Re (n. 238) del Libro V - Del Lavoro - del codice civile vigente (approvato con r.d. 30/01/1941-XIX, n.17), in commento all’art. 2597 c.c. sull’obbligo a contrarre del monopolista con chiunque e in condizione di parità di trattamento, la Commissione aveva così osservato: «un tale principio si impone a difesa del consumatore come necessario temperamento della soppressione della concorrenza, tenuto conto che il regime di monopolio legale, per ragioni varie e non tutte contingenti, va estendendosi molto al di là di quei particolari settori (come i trasporti ferroviari) nei quali tradizionalmente si soleva considerare tale fenomeno». Analogamente, un indiretto riferimento al diritto del consumo sembrava potersi rinvenire nella disciplina delle c.d. condizioni generali di contratto ex artt. 1341 e 1342 x.x., xx xxxx, xxxx xxxxx xx xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxx organizzative e produttive degli «imprenditori» con quella di tutela dei «clienti» da potenziali abusi, venivano (come anche oggi vengono) previste
«formalità speciali […] per la conclusione dei contratti su moduli e formulari predisposti da una sola parte o dei contratti con rinvio a condizioni generali». Risulta difficile dire quanto il legislatore italiano fosse consapevole della centralità della figura del consumatore e di una disciplina specificamente rivolta al diritto del consumo. Appare, pur tuttavia, altrettanto arduo rinvenire in detti due isolati riferimenti normativi i prodromi di un vero e proprio diritto dei consumi, come invece iniziatosi a sviluppare, a partire dagli anni settanta, a livello comunitario.
169 Nella piena consapevolezza che - si legge nella Risoluzione (in G.U.C.E., 25/4/1975, C 92/1) - «il consumatore non è più considerato come compratore e utilizzatore di beni e di servizi per il proprio uso personale, familiare o collettivo, ma come individuo interessato ai vari aspetti della vita sociale che possono direttamente o indirettamente danneggiarlo come consumatore», venivano quindi fissati i fondamentali obiettivi in materia, cui corrispondevano altrettanti diritti “fondamentali”, quali: a) il diritto alla protezione della salute e della sicurezza; b) il diritto alla tutela degli interessi economici; c) il diritto al risarcimento dei danni; d) il diritto all'informazione e all'educazione; e) il diritto alla rappresentanza e il diritto di essere ascoltato. Seguiranno un
«Secondo programma della Comunità Economica Europea per una politica di protezione e informazione dei consumatori» del 19 maggio 1981 (in G.U.C.E., 3/5/1982, C 133/1) con l’obiettivo di proseguire e approfondire, in continuità con il primo programma, l’azione di tutela e di contribuire, in particolare, alla creazione delle condizioni per un migliore dialogo tra consumatori e produttori-distributori; nonché una terza Risoluzione del Consiglio del 23 giugno 1986 (in G.U.C.E., 5/7/1986, C 167/1) «concernente il futuro orientamento della politica della Comunità economica europea per la tutela e la promozione degli interessi del consumatore», sempre proiettata sull’obiettivo di garantire la protezione della salute, della sicurezza e degli interessi economici, nonché la promozione dell'educazione e dell'informazione del consumatore.
istaurazione e integrazione del mercato interno170, ad assurgere ad autonoma politica nell’ambito delle finalità istituzionali dell’Unione Europea171.
170 Il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 non contemplava norme ad hoc sui diritti dei consumatori e sulla loro tutela. Ben pochi erano i riferimenti: nell’art. 39, tra le finalità della politica agricola comunitaria si menzionava quella di «assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori»; nell’art. 40, nel perseguimento delle predette finalità, alla costituenda organizzazione comune dei mercati veniva assegnato il compito di «escludere qualsiasi discriminazione tra produttori o consumatori della Comunità»; nell’art. 86, tra le politiche incompatibili con il mercato comune, venivano considerate quelle che tendono a «limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnologico a danno dei consumatori».
In altri termini, la tutela del consumatore non godeva affatto di significativa considerazione nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea; e, a ben vedere, di ciò davano conto anche i primi programmi d’intervento summenzionati (cfr. nota che precede), nei preamboli di ciascuno dei quali veniva significativamente ricordato che il riconoscimento dei diritti dei consumatori non costituisse una politica della CEE, dovendo piuttosto essere garantito «da azioni intraprese nell’ambito di politiche specifiche quali, ad esempio, la politica economica, la politica agricola comune, la politica sociale, le politiche dell'ambiente, dei trasporti e dell'energia, nonché di ravvicinamento delle legislazioni che, tutte, incidono sulla situazione del consumatore», ovvero che gli interessi del consumatore venivano presi in considerazione solo «nell'ambito di altre politiche comunitarie, segnatamente quelle concernenti il completamento del mercato interno». Che la tutela del consumatore fosse un “riflesso” della formazione e dell’integrazione del mercato interno ne sono testimonianza anche le due ulteriori Risoluzioni del Consiglio in tema, rispettivamente, di «integrazione della politica dei consumatori nelle altre politiche comuni» del 15 dicembre 1986 (in G.U.C.E., 7/1/1987, C 3/1) e «future priorità per il rilancio della politica dei consumatori» del 9 novembre 1989 (in G.U.C.E., 22/11/1989, C 294/1). In particolare, in quest’ultima si legge che «i lavori relativi al mercato interno dovrebbero progredire anche nel senso di una liberalizzazione del commercio e di una maggiore concorrenza di cui dovrebbe beneficiare anche il consumatore». In quest’ottica, dunque, la tutela del consumatore altro non costituiva che una ricaduta del processo di integrazione del mercato interno.
La situazione non mutò neppure con l’Atto Unico Europeo, firmato a Lussembungo il 17 febbario 1986 e ratificato in Italia con legge 23 dicembre 1986, n. 909, (in G.U. 29 dicembre 1986,
n. 300, entrato in vigore in data 1 luglio 1987), con cui venivano apportate alcune modifiche al Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea. Per quel che qui interessa, veniva aggiunto il nuovo art. 100 A, ove si stabiliva che la Commissione, nel formulare proposte «in materia di sanità, sicurezza, protezione dell'ambiente e protezione dei consumatori, si basa su un livello di protezione elevato». È indubbio che con esso, per la prima volta, si rinveniva finalmente un espresso riferimento “alla protezione del consumatore” in una fonte di diritto primario; ma è altrettanto indubbio che l’esercizio del potere propositivo della Commissione rimaneva pur sempre strumentale all’adozione, da parte del Consiglio, di «misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno»: la tutela del consumatore, in altri termini, rimaneva sempre in una posizione ancillare, divenendo rilevante - seppur «di livello elevato» - solo se coinvolta nelle dette misure dirette all’istaurazione e al funzionamento concorrenziale del mercato comunitario.
171 È proprio nel trattato di Maastricht che la protezione del consumatore assurge,
nell’ambito delle finalità istituzionali della nuova Unione Europea (art. 2), a politica autonoma [art. 3, lett. s)] e a essa è dedicato un apposito Titolo, l’undicesimo (XI). La Comunità – così recitava l’art. 129 A - «contribuisce al conseguimento di un livello elevato di protezione dei consumatori» non più e solamente mediante «a) misure adottate in applicazione dell' articolo 100 A nel quadro della realizzazione del mercato interno», ma anche mediante, «b) azioni specifiche di sostegno e di integrazione della politica svolta dagli Stati membri al fine di tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori e di garantire loro un'informazione adeguata».
La medesima attenzione alla tutela degli interessi dei consumatori è prestata dal successivo Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 e ratificato in Italia con legge 16 giugno 1998, n. 209 (in G.U. 6 luglio 1998, n. 155, suppl. ord. n. 114, entrato in vigore in data 1 maggio 1999). Il
Di questo lungo percorso europeo e della sua evoluzione è stata autorevolmente offerta una partizione in diverse fasi, tra loro distinte sotto il profilo temporale e della produzione normativa172; una partizione che appare opportuno richiamare giacché, seppure concepita in termini generali, appare efficacemente cogliere il tratto che, da un lato, sintetizza la principale peculiarità della disciplina della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, e, dall’altro, contestualmente traccia la più evidente linea distintiva tra quest’ultima e la disciplina recata della direttiva 1993/13/CEE sulle clausole abusive.
È stato rilevato come per quasi tre decenni la politica europea di tutela del consumatore sia stata caratterizzata da interventi normativi tutti relativi a determinate operazioni commerciali e/o singole modalità di conclusione di contratti, talora anche incidenti sul contenuto sostanziale del regolamento contrattuale. Le direttive che si sono incessantemente succedute in questo primo periodo, pur rispondenti a istanze di protezione diverse tra loro, possono accomunarsi per avere tutte disciplinato «diversi segmenti nei quali si articola il rapporto individuale» (e dunque - potrebbe dirsi - propriamente contrattuale) tra il
nuovo art. 153 (Titolo XIV), in sostituzione dell’art. 129 A, enfatizzava, già al primo comma, l’esigenza di «tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché [di] promuovere il loro diritto all'informazione, all'educazione e all'organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi»; tanto mediante misure adottate a norma dell'articolo 95 (già art. 100 A) nel quadro della realizzazione del mercato interno, quanto mediante misure di sostegno, integrazione e controllo della politica svolta dagli Stati membri. Sembrava trovare maggiore enfasi l’esigenza di protezione del consumatore anche nella definizione delle altre «politiche o attività comunitarie», in una nuova disposizione (comma 2° dello stesso art. 153) che può definirsi dal carattere “orizzontale”, nel senso di imporre la considerazione delle istanze di protezione dei consumatori in ogni azione comunitaria, qualunque sia l’area istituzionale di intervento.
L’esigenza di tutela del consumatore veniva quindi richiamata nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (in G.U.C.E., 26/10/2006, C 326/391), precisamente all’art. 38 (rubricato «Protezione dei consumatori»), ove veniva espressamente previsto che «Nelle politiche dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori»; e da ultimo, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) (in G.U.C.E. n. C 326 del 26/10/2012), là dove, dove aver collocato la protezione dei consumatori tra i «principali settori» in cui l'Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri [art. 4, comma 2°, let. f)], si riconferma la necessità di tenere in considerazione le esigenze di tutela dei consumatori in sede di definizione e attuazione delle altre politiche comunitarie (art. 12), e si ripropone l’esigenza di assicurare loro un livello elevato di protezione, contribuendo «a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all'informazione, all'educazione e all'organizzazione».
172 Il riferimento è a X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 6 ss.; ID., Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., pp. 4-5 della versione digitale; negli stessi termini anche G. ALPA, Considerazioni conclusive, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, cit., pp. 365-366.
consumatore e il professionista»173. È a questo periodo che, a titolo esemplificativo, risalgono la direttiva 85/577/CEE del Consiglio del 20 dicembre 1985 in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali174, la direttiva 90/314/CEE del Consiglio del 13 giugno 1990 concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti «tutto compreso»175, la direttiva del Parlamento europeo del Consiglio 97/7/CEE del 20 maggio 1997 in materia di contratti a distanza176, la direttiva 99/44/CEE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999 su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo177.
E a questo periodo risale anche la direttiva 1993/13/CE sulle clausole abusive, diffusamente considerata la più importante178 tra quelle della sua
«generazione» in virtù – come visto179 – del suo carattere trasversale, per essere cioè destinata a regolare ogni “tipo” della contrattazione consumeristica. Ma come le altre direttive a essa coeve, anche la n. 13 del 1993 della Comunità Economica Europea ha a riferimento la disciplina del rapporto individuale intercorrente tra il consumatore e il professionista, nel quale, più precisamente, intende evitare l’esistenza di un cd. «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto». Di tale dimensione individuale, che ineludibilmente colloca la disciplina delle clausole vessatorie nel più ampio alveo del diritto dei contratti, danno sicuro riscontro due dati normativi positivizzati nelle disposizioni della direttiva (e negli artt. 33 ss. cod. cons.).
In primo luogo, vengono in rilievo i tre criteri «positivi» espressamente menzionati dall’art. 4, para 1, della direttiva (art. 34, comma 1, cod. cons.) di cui l’autorità giurisdizionale deve tenere conto nel giudizio di vessatorietà della clausola o delle clausole oggetto del suo sindacato. Si tratta di criteri normativi dal carattere soggettivo, individualizzante e concreto: essi guidano cioè verso una
173 Così X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumatori in Italia., cit., p. 7.
174 In G.U.C.E., L 372 del 31/12/1985.
175 In G.U.C.E., L. 158/60, 23/06/1990.
176 In G.U.C.E., L 144 del 04/06/1997.
177 In G.U.C.E., L 171/12, 07/07/1999.
178 X. XXXXX XXXXXX, o.u.c., p. 8, la definisce una «pietra miliare nella storia del diritto del consumo».
179 X. xxxxx, Xxx. 0, §0-0.
necessaria contestualizzazione del giudizio, avendo la precipua funzione di orientare l’attenzione dell’interprete alla singola e particolare fattispecie negoziale nei termini specifici in cui si presenta all’indagine del giudice, ovvero valorizzando tutti gli elementi e le vicende che abbiano condotto all’istaurazione di quel particolare rapporto. Negli equilibri del giudizio di vessatorietà il giudice dovrà quindi tenere in debita considerazione la natura di quel particolare bene o servizio oggetto del contratto, far riferimento a tutte le specifiche circostanze esistenti al momento della sua conclusione, nonché valorizzare il contenuto sostanziale di ogni altra clausola di quel particolare contratto o di altro specificamente collegato o da cui dipende, sempre - s’intende - stipulato tra quel singolo consumatore e quel singolo professionista sulla di cui controversia è chiamato a pronunciarsi180.
L’accertamento della natura vessatoria di una clausola si caratterizza, dunque, per la rilevante complessità del relativo apprezzamento, essendo esso sempre e inevitabilmente ancorato a una valutazione di carattere concreto e individuale181. È in questo senso che meglio si coglie la considerazione - pienamente condivisibile - di quanti hanno rilevato come i criteri di cui all’art. 34, comma 1°, cod. cons. rappresentano una sorta di concretizzazione pratica del principio di buona fede182 ex art. 33 cod. cons., di cui contribuiscono congiuntamente a specificarne il contenuto operativo183.
A tradire la dimensione prevalentemente individuale della direttiva 1993/13/CEE è, in secondo luogo, il disposto dell’art. 6 della stessa, là dove - come visto - agli Stati membri è imposto di prevedere che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore e un professionista non
180 Stando così le cose, dovrà ammettersi l’eventualità che una medesima clausola possa considerarsi vessatoria e, come tale, nulla nel contratto stipulato da un dato consumatore, ma pienamente valida e efficace per un altro, nei cui confronti, ricorrendo altre “riequilibranti” contingenze, non si determina alcuno «significativo squilibrio» normativo.
181 X. XXXXXX, sub art. 34, in Codice del consumo – Commentario, a cura di X. XXXXXXX, Padova, 2007, p. 337.
000 X. XXXXXXX, sub art. 0000-xxx, Xxxxxxxx vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, p. 64.
183 Cfr. X. XXXXX, Accertamento della vessatorietà, sub. art. 1469-ter comma 1° e 2°, in Le nuove leggi civili commentate, I, 1997, p. 1144.
vincolino il consumatore. Al legislatore comunitario è parso cioè opportuno che la “lotta” alle clausole abusive dovesse anzitutto muovere dall’iniziativa dei singoli consumatori (o, in supplenza, della stessa autorità giurisdizionale da questi adita), attraverso il riconoscimento di un rimedio – che nell’ordinamento italiano ha assunto la veste di «nullità di protezione» (art. 36 cod. cons.) – dalla dimensione ancora una volta individuale, esperibile com’è ex post dal singolo consumatore vessato (cd. private enforcement).
La direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, per contro, muove da un angolo prospettico radicalmente opposto, avendo inteso affidare la repressione di siffatte pratiche a rimedi esclusivamente preventivi e generali, espressione della necessità di una tutela di interessi tipicamente diffusi dei consumatori, collettivamente intesi quali macrocategoria operante nel mercato interno; nonché espressione di una tutela che non interviene ex post sul singolo regolamento contrattuale, ovvero sull’«atto», ma che, in una più ampia prospettiva macroeconomica, incide, arginandola, su qualsivoglia «pratica» (o, se si vuole,
«comportamento» o «attività») professionistica in grado di illegittimamente incidere sulle scelte commerciali del consumatore, e dunque, «slealmente» spostare la domanda verso i propri prodotti.
Sono proprio questi i tratti che, seppure già parzialmente presenti già nella direttiva 1993/13/CEE184 (come meglio si vedrà infra, Cap. III, § 1), andranno a costituire le peculiarità della successiva disciplina delle pratiche commerciali sleali di cui alla direttiva 2005/29/CE, una normativa recante regole di mercato
«concernenti, per l’appunto, pratiche e dunque comportamenti, attività»185, e destinate a proteggere, in via preventiva e generale, interessi collettivi e diffusi186 dei consumatori.
184 Se, per un verso, non può certamente negarsi che la direttiva 1993/13/CEE abbia una dimensione individuale, non può, per altro, del pari negarsi che essa anche abbia anche una dimensione superindividuale, come reso evidente dai rimedi collettivi ex artt. 37 e 37 bis cod cons. Sul punto si tornerà con maggiore precisione infra, Cap. III, § 1.
185 X. XXXXX XXXXXXX, Il contratto di consumo e la libertà del consumatore, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da X. XXXXXXX, Padova, 2012, p. 164.
186 X. XXXXX XXXXXX, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 4 (versione digitale). X. XXXXX XXXXXXX, o.u.c., p. 165 e nota 5; X. XXXXXXXX, Le “pratiche commerciali
Tale ultimo aspetto, in particolare, emerge con chiarezza già nell’individuazione del destinatario della disciplina, con riferimento al quale l’autorità dovrà condurre la valutazione circa la potenzialità della pratica a falsarne il comportamento economico. Questi non è più, invero, il consumatore individuale con cui il professionista è entrato in contatto o che è stato concretamente colpito dalla pratica, bensì il «consumatore medio», ovvero un
«virtuale consumatore tipico […] normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici»187. La scorrettezza di una pratica commerciale dovrà allora essere valutata alla stregua di un parametro generale e astratto, qual è quello di consumatore medio, rispetto al quale le istanze individuali del consumatore rimarranno del tutto estranee: con ciò ben potendosi ammettere che uno stesso comportamento, seppur contrario a buona fede nel rapporto individuale che lega il professionista a uno specifico consumatore, possa invece non esserlo avendo riguardo alla caratteristiche medie della categoria di consumatori cui quel comportamento è indirizzato; e che, viceversa, una pratica possa essere scorretta avendo riguardo al «consumatore medio», senza purtuttavia esserlo in relazione alle qualità del singolo consumatore con cui il professionista abbia contratto o stia per contrarre188.
scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, cit., pp. 777- 778.
187 Cfr. considerando 18 della direttiva.
188 Così X. XXXXXXX, sub art. 20, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1699, il Quale, muovendo dalla dicotomia consumatore «medio»/consumatore
«individuale», esclude che, sotto il profilo risarcitorio, possa sussistere una corrispondenza automatica tra la violazione del precetto della buona fede di cui all’art. 20 cod. cons. e la violazione della buona fede ai sensi della disciplina del codice civile (in particolare ex artt. 1337 e 1375 c.c.): «ciò in quanto, se comune è la nozione di buona fede, non del tutto coincidenti sono tuttavia, nell’uno e nell’altro contesto normativo, i criteri alla stregua dei quali la violazione della buona fede deve essere valutata». Contra S. ORLANDO, Xx informazioni, cit., p. 171, nota 246, secondo il Quale, avendo sempre riguardo al profilo risarcitorio, una siffatta conclusione non può considerarsi generalmente valida. Invero, secondo l’Autore, il comune carattere illegittimo di tutte le fattispecie di p.c. scorrette le caratterizza come «fatt[i] illecit[i] ai fini dell’accertamento della fondatezza di pretese risarcitorie individuali, tutte le volte in cui la p.c. scorretta cagioni un danno. In particolare, ciò equivale ad indicare che nel nostro ordinamento la p.c. scorrette sono idonee a comportare una responsabilità risarcitoria del professionista al quale siano imputabili nei confronti di quanti […] subiscano un danno in conseguenza della loro commissione» (così ID., sub artt. 24- 26, in Codice del consumo. Aggiornamento. Pratiche commerciali scorrette e azione collettiva, cit., p. 106). Pertanto, sempre secondo l’A., a fronte di una pratica commerciale aggressiva per il consumatore medio, potrà avanzare pretese risarcitorie anche quel consumatore individuale il quale, in quanto più che mediamente capace di reagirvi, non abbia intrapreso alcuna trattativa né
Nella medesima prospettiva, significativo è altresì che la direttiva 2005/29/CE non fornisca alcun rimedio individuale al consumatore che sia stato vittima di una pratica commerciale scorretta. Essa, agli artt. 11, 12 e 13 richiede – come visto – solamente che gli Stati membri stabiliscano per siffatte pratiche un trattamento giuridico dalla dimensione superindividuale (cd. public enforcement), precisamente consistente in un rimedio funzionale a inibirne la diffusione o continuazione; e tanto indipendentemente dalla rilevanza giuridica delle medesime pratiche sui rapporti individuali189: le pratiche commerciali scorrette, in altri termini, «hanno – come è stato attentamente osservato – una rilevanza giuridica esterna a quella ad essa eventualmente collegabile alla stregua degli ordinamenti degli Stati membri che disciplinano i rapporti individuali tra professionisti e consumatori»190.
L’avere attribuito all’agire del consumatore un «rilievo macroeconomico» quale espressione della domanda in generale191 non rappresenta, però, l’unico tratto caratterizzante la disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
Venendo al secondo aspetto che connota tale normativa, va detto che ciò che la distingue rispetto a quelle precedenti, compresa la disciplina sulle clausole vessatorie, è, altresì, l’avere svincolato il consumatore dalla sua posizione di mero contraente per destinarlo a una tutela ben più pervasiva192, perché non più ristretta al solo momento dell’acquisto, bensì permeante l’intero processo di consumo. È quanto significativamente indicato dalla definizione di pratica commerciale scorretta, la quale non è invero circoscritta alla sola attività contrattuale propriamente detta, ma comprende - come visto - «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla
avuto alcun contatto con il professionista molesto, ma che ciononostante abbia subito un danno (ad es. per avere sopportato costi per far cessare o sottrarsi a quelle molestie).
189 X. XXXXXXX, Le informazioni, cit. pp. 167-168.
000 X. XXXXXXX, Xx informazioni, cit. p. 166.
191 Così X. XXXXX XXXXXX, Cenni introduttivi. Le tutele, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., p. 222.
192 M. DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del consumo, cit., p. 5.; X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumi in Italia, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., p. 13.
promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori». Ed è anche quanto reso palese dalla rilevanza «temporale» di detti comportamenti, che sono invero passibili di essere qualificati come pratiche commerciali scorrette indipendentemente dalla fase del rapporto di consumo in cui vengono in rilievo, ovvero indifferentemente dalla circostanza che essi siano posti in essere «prima, durante e dopo» l’operazione commerciale193.
Il consumatore è, pertanto, destinatario di una tutela che – come illustrato supra (Cap. I, § 3) – abbraccia (già) i primi approcci del professionista volti a promuovere l’operazione commerciale, allorquando, ad esempio, il consumatore è un soggetto passivamente destinatario di una pratica pubblicitaria; che copre la fase precontrattuale propriamente detta, allorquando vengono istaurati i primi diretti contatti con il professionista; e che comprende anche la fase esecutiva del rapporto ormai istauratosi, là dove, ad esempio, vengono in rilievo le decisioni del consumatore circa l’esercizio o meno di un diritto contrattuale.
Si è così determinato quel mutamento di prospettiva nella disciplina della tutela del consumatore che è stato felicemente sintetizzato come passaggio
«dall’atto all’attività»194: un mutamento che – sempre ricorrendo alla autorevole ripartizione dell’evoluzione del diritto dei consumatori – ha aperto le porte a una terza fase e dato vita – come pure si è detto – a «una terza generazione di direttive a tutela dei consumatori», con la quale la «la normazione europea si è estesa ai comportamenti»195 e l’attenzione si è spostata «dall’atto e dalla struttura del contratto, ovvero dal suo profilo statico, all’attività e al profilo funzionale del comportamento, ovvero al profilo dinamico»196.
193 X. XXXXXXXXXX, Le pratiche commerciali scorrette, cit., p. 166.
194 X. XXXXX XXXXXX, Dalla comunicazione commerciale alle pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento xxxxxxxx, xxx., x. 00; ID., Il diritto dei consumatori in Italia, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit.,
p. 9; ID., Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., pp. 6-7 (versione digitale); X. XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 166; X. XXXXX XXXXXXX, o.u.c, p. 164.
195 X. XXXX, o.u.c., p. 366.
196 X. XXXXX XXXXXX, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 6 (versione digitale). È interessante notare come, quanto al fenomeno della contrattazione standardizzata, già la meno recente dottrina aveva ricorso alla distinzione tra «atto» e «attività», in particolare al fine di discernere le forme di tutela che tengano conto della dimensione collettiva del fenomeno (per l’appunto configurantesi come forme di controllo di attività) e le forme di tutela che invece si
2. Ancora sul distinto piano di rilevanza delle due discipline: l’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE e il nesso con il diritto dei contratti.
Le considerazioni che precedono consentono di approdare a una prima - forse la più intuitiva - conclusione dell’analisi del rapporto che intercorre tra la disciplina delle clausole vessatorie e la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette. L’una è principalmente destinata a incidere, imponendone ex post un controllo sostanziale (i.e. di tipo contenutistico), sul rapporto individuale tra il consumatore e il professionista, dacché deve inferirsi il suo inquadramento nella disciplina generale del diritto dei contratti197. L’altra reca regole di (corretto funzionamento del) mercato interno volte a proteggere, in via preventiva e generale, gli interessi collettivi dei consumatori avverso ogni forma comportamentale sleale198, sicché essa si colloca su di un piano diverso da quello del diritto dei contratti, da taluni definito come proprio del nuovo diritto (generale) delle pratiche commerciali scorrette199, da talaltri identificato - ma senza con ciò volerne attribuire una diversa portata - come peculiare della
«disciplina della concorrenza in senso lato, vale a dire della disciplina volta ad assicurare il corretto e efficiente funzionamento della disciplina della concorrenza
limitano a un approccio individualizzante (configurantesi come forme di controllo di atti) (cfr. in questo senso X. XXXXX, Contratti standard, Milano, 1975, pp. 105 ss.).
197 In questo senso X. XXXXXXX, The use of unfair contractual terms as un unfair commercial practice, cit., pp. 35-36 il Quale motiva l’appartenenza della suddetta normativa alla disciplina del contratto muovendo dalla non vincolatività delle clausole abusive, così come disposto dal’art. 6. Così, precisamente, rileva l’Autore: «Article 6 of the UTD provided for the legal tratment of the unfair terms as a matter of contract law, i.e. at the level of the individual contractual relationships between traders and consumers, by requiring Member States to ensure that unfair terms are legally not-binding on the consumer in the contractual relationships between traders and consumers» (il corsivo è dell’A.).
Dopotutto, in termini di teoria generale, è noto come il contratto, in una prospettiva di stampo individualistico, sia anzitutto composizione di interessi (per l’appunto) individuali: esso poggia sulla spontaneità delle determinazioni delle singole parti che così lo adibiscono alle loro necessità e utilità (cfr. X. XXXXXXXX, Contratto (dir. priv.), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1961, pp. 808 e 813 ss.; cfr. X. XXXXX XXXXXXX, o.u.c., p. 166).
Quanto poi alla possibilità di ricondurre le discipline dei contratti stipulati dai consumatori alla parte generale del diritto contrattuale v., in particolare, P. SIRENA, L’integrazione del diritto dei consumatori nella disciplina del contratto, in Xxx. xxx. xxx., 0000, x. 0, xx. 1, pp. 787 ss. e, più precisamente, pp. 792 ss., il Quale ben illustra come tale integrazione possa fondarsi sulla esistente compatibilità assiologica tra i corrispondenti contesti normativi.
198 Così X. XXXXX XXXXXX, Il diritto dei consumatori in Italia, in Diritto dei consumi – Soggetti, atto, attività, enforcement, cit., p. 9.
000 X. XXXXXXX, Xx informazioni, cit., p. 173.
nell’interesse generale e di tutti i soggetti che agiscono sul mercato come operatori e come consumatori»200.
Stando così le cose, sotto tale profilo, sembra corretto rilevare come il rapporto tra le due direttive in analisi debba essere sussunto sotto il più ampio e generale rapporto che intercorre tra il diritto delle pratiche commerciali sleali (o, ove si preferisca, della concorrenza sleale) e il diritto dei contratti, del quale ultimo vengono in particolare rilievo le norme in materia di (in)validità del contratto.
Sebbene esuli dall’oggetto del presente lavoro ripercorrere l’ampio dibattito relativo all’incidenza che una pratica commerciale scorretta possa avere sui singoli rapporti eventualmente istauratisi tra il professionista e i consumatori e, in particolare, sulle sorti del contratto stipulato «a valle» di siffatta pratica, appare purtuttavia opportuno richiamarne alcune considerazioni che certamente ben tornano utili in questa sede, anche nell’affrontare l’ulteriore peculiare, ma non dissimile, questione - persino oggetto di un recente arresto della Corte di giustizia europea - relativa alla possibile influenza di una pratica commerciale sleale sulla qualificazione di una clausola come «abusiva».
Ora, il dato normativo primo da cui muovere deve senz’altro rinvenirsi nel disposto, avente con evidenza un ruolo chiave nella delicata ricostruzione del rapporto in analisi, dell’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE, il quale così dispone: «La presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un
200 Cfr. X. XXXXXX, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale?, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette – Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/CE, cit, p. 6, per il Quale la disciplina recata dalla direttiva 2005/29/CE mira precisamente a reprimere quella non trascurabile parte di atti di concorrenza sleale che pregiudicano in modo diretto gli interessi dei consumatori e in modo indiretto gli interessi dei concorrenti. Precisamente, l’Autore rileva che già «l’uso del termine “sleali” per indicare il criterio di valutazione delle pratiche commerciali suggerisce subito che la direttiva intenda introdurre una disciplina generale volta a reprimere le condotte delle imprese sul mercato contrarie a regole di correttezza che abbiano una diretta efficacia lesiva degli interessi dei consumatori integrando così la tradizionale repressione della concorrenza sleale […]». Per il vero, anche, X. XXXXXXX, o.u.c.,
p. 151, rileva come il “posto“ del nuovo diritto delle pratiche commerciali sleali sembra collocarsi idealmente insieme al diritto della concorrenza a presidio del corretto funzionamento del mercato interno e, più precisamente, a tutela dell’idea «di far funzionare il mercato interno attraverso i contratti, in quanto per il legislatore comunitario il mercato interno funziona correttamente attraverso i contratti se vi è una concorrenza effettiva e leale tra le imprese e se i professionisti non falsano il comportamento economico dei consumatori».
contratto». Detto disposto - è stato comunemente evidenziato - altro non vuole significare che la direttiva, nonostante sancisca un assai generale divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali relativamente a ogni fase del rapporto di consumo e imponga agli Stati membri di predisporre che il citato divieto venga rispettato e la sua eventuale trasgressione sanzionata, ha recisamente inteso escludere che tutto ciò debba ripercuotersi sul diritto privato dei contratti degli stessi Stati xxxxxx000. Certamente, i legislatori nazionali, ove lo avessero voluto (e lo volessero), ben avrebbero potuto (e potrebbero) prevedere specifici rimedi contrattuali in capo al singolo consumatore eventualmente colpito da una pratica commerciale sleale, giacché previsioni di tale natura, seppure non imposte, non erano (e non sono) neppure vietate202: non essendo invero «pregiudicate» dall’applicazione della direttiva, le norme nazionali in materia contrattuale non ricadono nell’opera di armonizzazione del legislatore europeo, onde la determinazione dei loro contenuti è rimasta alla discrezionalità dei singoli Stati membri203. Dei quali, in effetti, alcuni sono variamente intervenuti prevedendo specifiche conseguenze sul rapporto individuale tra consumatore e professionista inciso dalla pratica sleale204, mentre altri, come l’Italia, hanno serbato quello che è stato definito un «clamoroso»205 silenzio.
201 Così G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), cit., p. 20; Cfr. X. XXXXXXXXX, The Relationship of the Unfair Commercial Practices Directive to European and National Contract Law, in The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, cit., p. 145.
202 In questo senso cfr. anche il considerando 9, ove si chiarisce che la direttiva 2005/29/CE
«non pregiudica i ricorsi individuali proposti da soggetti che sono stati lesi da una pratica commerciale sleale».
203 Così X. XX XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 23; cfr. X. XXXXXXX, Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 479;
X. XXXXXXXXX, o.u.c., pp. 139 ss.
204 Si vedano i casi della Francia, ove l’art. X 000-00 xxx Xxxx xx la Consommation, come modificato dall’art. 39 della Loi n. 2008-3 del 3/1/2008 prevede la nullità (e l’inefficacia) del contratto stipulato «a valle» di una pratica commerciale aggressiva; del Portogallo, ove l’art. 14 del decreto-lei n. 57 del 26 marzo 2008 dispone che il consumatore possa alternativamente chiedere l’annullamento del contratto ovvero la sua riduzione a equità, o ancora l’eliminazione delle clausole il cui inserimento sia stato influenzato dalla pratica commerciale scorretta; del Lussemburgo, ove l’art. 11, comma 2, della Loi relative aux pratiques commerciales déloyales del 29 aprile 2009 stabilisce che qualsiasi clausola o combinazione di clausole di un contratto in violazione della medesima legge si reputa «nulla e non scritta»; del Belgio, ove l’art. 41 della Loi relative aux pratiques du marché et à la protection du consommateur del 6 aprile 2010, prevede che il contratto stipulato sotto l’influenza di una pratica commerciale sleale si converta, ex lege, da
Con formula quasi coincidente a quella comunitaria, l’art. 19, comma 2, lett. a), cod. cons. dispone invero che il titolo III, parte II del medesimo codice non pregiudica «l'applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto».
Xxx xxxxxx è stata dunque la scelta di politica legislativa del legislatore italiano. Della quale, la si condivida o meno, non può che prendersi atto e trarre i dovuti esiti.
S’intende che dalla mancata previsione di specifici rimedi contrattuali nella disponibilità del singolo consumatore colpito dalla pratica commerciale scorretta non potrà che dedursi che nessun contratto possa ex se, ovvero per il solo fatto di essere stato preceduto da una siffatta pratica, essere considerato affetto da nullità («strutturale» o «virtuale» che sia)206, annullabilità207, ovvero essere suscettibile di sciogliersi unilateralmente per atto di recesso ad nutum del
oneroso a gratuito, potendo il consumatore pretendere la ripetizione delle somme versate senza dover restituire quanto ricevuto; della Danimarca, ove il § 20, comma 1, del Lov om markedsføring del 2005, come modificato dalla legge di recepimento della direttiva 2005/29/CE, prevede che il giudice, contestualmente all’adozione dell’ingiunzione di astenersi dal continuare a porre in essere la pratica commerciale sleale, possa altresì disporre che tutti i contratti eventualmente stipulati dal professionista in violazione di tale divieto si considerino invalidi. Per una più precisa analisi comparatistica delle scelte operate dai Paesi membri si rinvia a G. DE CRISTOFARO, Le conseguenze privatistiche della violazione del divieto di pratiche commerciali sleali: analisi comparata delle soluzioni accolte nei diritti nazionali dei Paesi UE, in Rass. dir. civ., n. 3, 2010, pp. 892 ss. e in particolare pp. 897 ss., e X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 480 ss.
205 Cfr. X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 778. Come l’Italia, anche Malta, Ungheria e Romania hanno espressamente previsto, così replicando la formula di cui all’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE, che le nuove disposizione concernenti le pratiche commerciali scorrette «non pregiudicano» le regole del diritto dei contratti. Altri paesi, come Germania, Austria, Spagna e Paesi Bassi, non solo non hanno preso alcuna posizione sulle possibili conseguenze privatistiche del divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali, ma non hanno neppure riprodotto la formula del citato art. 3, para 2. Altri paesi ancora, come Irlanda e Regno Unito, hanno invece espressamente escludo che la violazione del divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette possa determinare, di per sé sola, l’invalidità del contratto concluso «a valle» della pratica. Si v. sempre X. XX XXXXXXXXXX, o.u.c., pp. 892 - 897.
206 Contra v. L. DI NELLA, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali aggressive, in Contr. impr., 2007, p. 62; X. XXXXXXX, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contratti, n. 2, 2006, p. 171; F. DI MARZIO, Codice del consumo, nullità di protezione e contratti del consumatore, in Riv. dir. priv., 2005, p. 837.
207 X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 781 per il quale «l’ambito di operatività del “rimedio” dell’annullabilità non coincide affatto con quello dei “rimedi” collettivi apprestati dalla novella in attuazione della dir. 2005/29/CE»; cfr. altresì D’AMICO, Formazione del contratto (voce), in Enc. Dir., Annali, II, 2, Milano, 2008, pp. 586 ss.
consumatore208, né – sembra doveroso anticipare – che possa qualificarsi in alcune sue parti affetto da squilibrio normativo nel senso e per gli effetti (cd. nullità di
«protezione») della disciplina sulle clausole vessatorie. Ne deriva altresì che, nel caso di violazione del divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette (art. 20, comma 1, cod. cons.), la disponibilità e i presupposti di azionabilità da parte del consumatore dei summenzionati rimedi contrattuali non potranno che ricercarsi nel corrispondente sistema normativo in cui trovano fonte e disciplina, sia esso il codice civile o, come nel caso della disciplina delle clausole vessatorie, il codice del consumo (agli art. 33 ss.)209.
È una scelta, questa compiuta da legislatore italiano, che è stata più o meno condivisa. Appare tuttavia difficile non apprezzarne la ragionevolezza, essendo essa coerente con la rilevanza meta-individuale che il legislatore europeo ha inteso conferire alla struttura normativa della direttiva 2005/29/CE, rispetto alla quale, come visto, estraneo rimane l’assetto individuale dei rapporti tra consumatori e professionisti. Senza considerare, peraltro, che prevedere e disciplinare un unico e specifico rimedio che il consumatore possa esperire
208 X. XXXXXX, sub art. 19, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1690; X. XXXXXX, Pubblicità e invalidità del contratto: la tutela individuale contro le pratiche commerciali sleali, in AIDA, 2008, p. 326.
209 Cfr. in particolare X. XXXXXXXX, x.x.x., x. 000-000 che, con specifico riferimento alla configurabilità di un’ipotesi di “nullità virtuale” del contratto stipulato in esito a una pratica commerciale scorretta (per violazione del divieto ex art. 20, comma 1, cod. cons., eventualmente inteso quale norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.), osserva: «così, ad es., se il “prodotto” oggetto della vendita del consumatore dovesse rilevarsi “inesistente”, il relativo contratto sarà nullo non (ex art. 1418, 1° co., c.c.) perché il professionista (in violazione del divieto di cui all’art. 21, 1° co., lett. a, c. cons.) abbia falsamente affermato la sua esistenza, bensì (ex art. 1418, 2° co., c.c.) nella misura in cui il suo “oggetto” dovesse risultare carente del requisito della possibilità (art. 1436 c.c.); se la vendita del “prodotto” dovesse rilevarsi “illecita”, il relativo contratto sarà nullo non (ex art. 1418, 1° co., c.c.) perché il professionista (in violazione del divieto di cui all’art. 23, 1° co., lett. i, c. cons.) abbia falsamente affermato e generato comunque l’impressione che detta vendita fosse lecita, bensì (ex art. 1418, 2° co., c.c.) nella misura in cui “illeciti” dovessero risultare la «causa» o il suo «oggetto» (artt. 1343 e 1346 c.c.); se l’acquisto effettuato dal consumatore dovesse rilevarsi frutto di una violenza fisica che abbia annientato la volontà, al punto di rendere solo apparentemente a lui riferibile la dichiarazione negoziale, il relativo contratto sarà nullo non (ex art. 1418, 1° co., c.c.) perché il professionista (in violazione del divieto di cui all’art. 24) abbia posto in essere una “pratica commerciale aggressiva” in danno del consumatore, bensì (ex art. 1418, 2° co., c.c.) nella misura in cui detta “pratica” dovesse risultare aver determinato il difetto di quel “requisito essenziale” del contratto costituito dal “consenso” (art. 1325, 1° co., n. 1, c.c.)»; cfr. X. XXXXXX, ibidem.
quando vittima di una pratica commerciale scorretta sarebbe, oltre che non doveroso, alquanto arduo210.
Non può invero non rilevarsi come nel disegno delle fattispecie generali e particolari di pratiche commerciali scorrette risultino del tutto assenti «quelle distinzioni e quelle specificazioni che sono viceversa necessarie per la disciplina dei rapporti individuali. Ciò si spiega in quanto, come detto, le fattispecie previste dalla direttiva 2005/29/CE non sono pensate per la produzione di effetti inerenti ai rapporti individuali»211, bensì «in funzione della produzione di effetti inerenti al livello di protezione del mercato […] e specificamente per eliminare dal mercato certe condizioni ostacolanti delle pre-condizioni di negozialità della generalità delle decisioni dei consumatori circa la conclusione e esecuzione dei contratti»212. Ciò appare evidente in primo luogo con riferimento alla figura del
«consumatore medio», che costituisce il parametro di riferimento nel valutare la contrarietà alla diligenza professionale di una pratica commerciale ai sensi dell’art. 20 cod. cons., ma che invece non sempre si giustifica nella prospettiva dei rapporti individuali, là dove, ad esempio nella disciplina dei vizi del consenso o dei rimedi rescissori, sono invece le condizioni dell’effettivo contraente - potenzialmente sempre distinte - ad avere rilievo213. Assai significativa è, in secondo luogo, la generale indifferenza nell’àmbito di siffatta disciplina dell’effettivo grado di incidenza che il «falsare» di una pratica determina sulla volontà del consumatore: superata la soglia dell’«apprezzabilità» (art. 20 cod.
210 Secondo S. ORLANDO, sub art. 24-26, in Codice del consumo. Aggiornamento. Pratiche commerciali scorrette e azione collettiva, cit., pp. 105 ss., l’unica generale rilevanza per il nostro ordinamento che le pratiche commerciali scorrette possono avere sul piano dei rapporti individuali deve rinvenirsi nella loro idoneità, in quanto comportamenti per definizione contra legem (ex art. 20, comma 1, cod. cons.), a fondare pretese risarcitorie tutte le volte in cui producano un danno. Cfr. supra, nota 188.
211 X. XXXXXXX, Le informazioni, cit. p. 168. Con specifico riferimento alle pratiche commerciali aggressive v. ID., sub art. 24-26, in Codice del consumo. Aggiornamento. Pratiche commerciali scorrette e azione collettiva, cit., pp. 101 ss.
212 X. XXXXXXX, Le informazioni, cit., pp. 169-170.
213 Significativo in questo senso è, per esempio, il disposto di cui all’art. 1435 c.c., il quale, per valutare l’idoneità della violenza a fare impressione sopra una persona sensata, impone che si abbia riguardo all’età e al sesso e alle altre condizioni (concrete ed effettive) della persona (X. XX XXXXXXXXXX, La violenza morale nei contratti, Napoli, 1996, pp.106 ss.). Del pari significativo è il disposto dell’art. 1436 c.c. nel prevedere che l’annullamento del contratto è rimesso al prudente apprezzamento da parte del giudice delle (specifiche e concrete) circostanze del caso quando riguardi una persona diversa dal coniuge, dal di lui discendente o ascendente.
cons.), risulta cioè indifferente ai fini della qualificazione di una pratica come scorretta se questa abbia avuto forza determinante la sua decisione – ovvero se abbia indotto il consumatore alla stipula di un contratto che altrimenti non avrebbe concluso – o se, invece, abbia avuto mera forza incidente – ovvero se abbia influito solamente sulle condizioni negoziali di un contratto che il consumatore avrebbe comunque stipulato214; ciò che, per contro, ha decisivo rilievo nella disciplina codicistica in materia di annullabilità per dolo, là dove la forza determinante o meno che il raggiro abbia avuto sulla volontà del contraente condiziona, positivamente o meno, la disponibilità del rimedio invalidante215. Ancora, la peculiarità del disegno delle fattispecie di cui agli artt. 20 ss. cod. cons.
- tale da svincolarle da una prospettiva rimediale personale e individualizzante - ben può apprezzarsi ove si consideri che la tutela (amministrativa) contro le pratiche commerciali scorrette è accordata ogni qual volta essa siano risultate anche solamente idonee «a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico» del consumatore (art. 20 cod. cons.), dacché non è richiesto che le pratiche medesime abbiano effettivamente determinato quest’ultimo alla conclusione del contratto (cd. illecito di pericolo)216; ciò che, ad esempio, è invece richiesto ai fini dell’annullamento del contratto per i vizi del dolo o della violenza, non potendosi in tal caso prescindere dall’accertamento (che uno specifico contratto sia stato concluso e) che tra la conclusione di quello specifico contratto e il raggiro o la minaccia vi sia un nesso causale217. Si pensi inoltre, e ancora più in generale, all’elasticità e all’estensione strutturale di dette fattispecie, come ben risulta con riguardo alle pratiche commerciali aggressive, nel cui ampio divieto
214 X. XXXXXX, sub art. 18, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1679: «[…] l’induzione ad assumere una decisione che il consumatore altrimenti non avrebbe preso, rileva non soltanto quando determina il consumatore ad accettare la stipulazione o la risoluzione del contratto, ma anche quando è decisiva nell’indurlo […] ad accordarsi secondo modalità o condizioni differenti da quelle che avrebbe scelto».
215 Come noto, invero, ai sensi dell’art. 1439 c.c., il dolo è causa di annullamento del contratto solamente quando i raggiri sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato; mentre, ai sensi dell’art. 1440 c.c., se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, salvo il solo diritto al risarcimento del danno dovuto dal contraente in mala fede (Cfr. X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 781- 782 e X. XXXXXXX, o.u.c., p. 169).
216 X. XXXXX, sub art. 21, Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 166.
217 Cfr. X. XXXXXX, sub art. 19, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1691; X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 781.
rientrano indistintamente comportamenti professionali assai diversi tra loro e diversamente rilevanti sul piano dei rapporti individuali, quali il ricorso alla forza fisica, la coercizione psicologica, le molestie o l’indebito condizionamento218.
In altri termini, tentare di individuare un unico e costante rimedio individuale da riconoscere nella disponibilità del singolo consumatore vittima di una pratica scorretta condurrebbe lungo una via difficilmente praticabile, proprio in ragione dei diversi effetti per i quali siffatte fattispecie sono state pensate e, per conseguenza, della diversa struttura di cui sono state dotate; in ciò, in particolare, rilevando l’ineludibile ampiezza e generalità delle stesse (rispetto - s’intende - alla prospettiva del diritto dei contratti) che non potrà che rendere azionabili i diversi specifici rimedi individuali dei quali, di volta in volta, risulteranno integrati gli elementi costitutivi.
3. (Segue) L’incidenza di una pratica commerciale sleale sulla natura abusiva di una clausola. Il caso Xxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx contro SOS financ spol. s r. o. e la sentenza della Corte di Giustizia, Sez. I^, del 15/03/2012, C-453/10.
Possono ora trarsi le fila del discorso e fare dunque applicazione delle considerazioni sopra illustrate sul più ampio rapporto tra il diritto delle pratiche commerciali scorrette e il diritto dei contratti al più circoscritto, ma pur sempre partecipe della medesima natura, rapporto tra la direttiva 2005/29/CE e la direttiva 1993/13/CEE.
La questione è stata peraltro di recente affrontata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella oramai nota sentenza del 15/03/2012, pronunciata nella causa C-453/10, Xxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxx contro SOS financ spol. s r.
o. Là dove, in particolare, il giudice europeo è stato chiamato a valutare, inter alia, se la qualificazione di una pratica commerciale come «sleale» ai sensi della direttiva 2005/29/CE possa influire sulla qualificazione di una clausola come
«abusiva» ai sensi della direttiva 1993/13/CE, ovvero, detto in termini più precisi, se una pratica che falsi o sia idonea a falsare il comportamento economico del consumatore in contrasto con la diligenza professionale (ai sensi degli artt. 5 della
218 X. XXXXXXX, sub artt. 24-26, cit., pp. 104-105.
direttiva e 20 cod. cons.) possa determinare un «significativo squilibrio dei diritti e obblighi delle parti derivanti dal contratto» (ai sensi degli artt. 3 della direttiva e 33 cod. cons.).
Il caso demandato all’attenzione della Corte aveva a oggetto un contratto di concessione di credito stipulato tra la società SOS e i sig.xx Xxxxxxxxxx-Perenič, nel quale il tasso effettivo globale (TAEG) formalmente indicato (nella percentuale del 48,63%) risultava, secondo i calcoli del giudice di rinvio, inferiore a quello effettivo (pari al 58,76%) in quanto la società concedente non aveva considerato alcuni non marginali costi connessi all’operazione. Con rinvio ai sensi dell’art. 269 TFUE, il giudice polacco (Okresný súd Prešov) domandava quindi se tale errata informazione sul prezzo del credito potesse integrare una pratica commerciale sleale ai sensi della direttiva 2005/29/CE e, in caso positivo, quali fossero le conseguenze da trarre da siffatta qualificazione nell’àmbito della valutazione del carattere abusivo delle clausole del contratto di credito (ai sensi dell’art. 4, para 1), anche ai fini della validità dello stesso nel suo complesso (ai sensi dell’art. 6, para 1)219.
Ebbene, la Corte, dopo avere osservato che la pratica consistente nell’indicazione di una falsa informazione sul costo complessivo del credito (TAEG) possa considerarsi «ingannevole» (ai sensi dell’art. 6, para 1, lett. d), della direttiva 2005/29/CE) se induce o è idonea a indurre il consumatore medio a assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso220, giungeva a escludere perentoriamente che essa postesse, di per sé sola, determinare il carattere abusivo delle singole clausole contrattuali e, per logica conseguenza, l’invalidità dell’intero contratto. Tanto, come chiaramente si evince da una pur succinta motivazione, muovendo dalla ineludibile considerazione che l’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE, non pregiudicando l’applicazione di quell’insieme di norme ordinamentali concernenti la formazione, la validità e l’efficacia del contratto, non pregiudica neppure l’applicazione delle norme, al medesimo insieme appartenenti, recate dalla direttiva 1993/13/CEE e sulla base
219 Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:2012:144), 15/03/2012, C-453/10, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 37, p. 10.
220 Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:2012:144), 15/03/2012, C-453/10, cit., para 41, p. 10.
della quali unicamente il giudice (di rinvio) è tenuto a condurre la valutazione di abusività delle clausole contrattuali221. L’iter argomentativo della Corte di Giustizia si fonda, dunque, sulla già evidenziata considerazione che la violazione del divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali non ha alcuna ripercussione sul diritto dei contratti, avendo quest’ultimo un àmbito di applicazione del tutto distinto da quello della normativa recata dalla direttiva 2005/29/CE.
Salvo quanto più avanti si dirà, ciò significa che, sotto tale profilo, ai sensi dell’art. 3, para 2, rimane escluso che tra le norme recate dalla direttiva 1993/13/CEE e le normativa recata dalla direttiva 2005/29/CE (ma analogamente ciò vale avendo riguardo alle rispettive discipline interne di recepimento) potrà mai originarsi l’occasione di un’antinomia222.
Condivisibili a tale riguardo risultano le parole, cui peraltro la stessa sentenza della Corte rimanda, spese dall’avvocato generale in commento all’art. 3, para 2. Esse, anche per la chiarezza che le contraddistingue, meritano senz’altro di essere richiamate. Questi così ha osservato: «In considerazione del suo tenore letterale («non pregiudica») e della sua collocazione sistematica nell’articolo 3, che disciplina l’ambito di applicazione della direttiva e il suo rapporto con gli altri atti di diritto dell’Unione, questa regola deve essere letta come una norma di delimitazione che, per espressa volontà del legislatore dell’Unione, permette di far ricorso a disposizioni specifiche di diritto dell’Unione e questo indipendentemente dall’eventuale applicazione della direttiva 2005/29. In questo modo continua ad essere possibile il ricorso a strumenti specifici a tutela del consumatore e disciplinati nei rispettivi atti giuridici. Sulla base dell’idea che fonda la regola stabilita nell’articolo 3, paragrafo 2, il fatto che la direttiva
221 Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:2012:144), 15.03.2012, C-453/10, cit., para 44-45, p.
11.
222 In questo senso, seppure in termini più generali, v. G. DE CRISTOFARO, sub art. 19, in
Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 138, che precisamente osserva come dalla mancata diretta incisione sul diritto dei contratti della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (ai sensi dell’art. 19, comma 2°, lett. a), cos. cons.), deriva «in primo luogo, che non sussiste né potrebbe crearsi, fra una disposizione inserita negli artt. 18-27 quater c.cons. e una disposizione inserita nel Titolo II del Libro IV del c.c., una antinomia tale da costringere l’interprete (ex art. 1469 bis) ad applicare in via esclusiva la regola dettata dal c. cons. in materia di pratiche commerciali, a discapito della confliggente norma del c.c.».
2005/29 sia applicabile ad una determinata fattispecie, non limita in alcun modo le forme di tutela giuridica spettanti al consumatore in forza del diritto dei contratti, quali il recesso dal contratto o la riduzione della controprestazione dovuta»223. «Tra le norme - prosegue l’avvocato generale - che disciplinano il diritto contrattuale e in particolare la validità del contratto, cui fa riferimento l’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29, rientrano indubbiamente le disposizioni della direttiva 93/13. Il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 e descritto all’inizio, di cui la regola contenuta nell’articolo 6 costituisce una parte essenziale, inerisce infatti ad aspetti del diritto dei contratti, specialmente all’efficacia giuridica di singole clausole contrattuali impiegate dai professionisti negli scambi commerciali con i consumatori. Vi si rinviene una disciplina dei rapporti giuridici contrattuali individuali tra due diverse categorie di privati, in base alla quale le clausole abusive non devono vincolare i consumatori e gli Stati membri devono attivarsi affinché anche i rispettivi ordinamenti di diritto civile prevedano tale conseguenza. Applicando coerentemente la norma di delimitazione di cui all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29, non si dovrebbe considerare escluso il ricorso alle disposizioni della direttiva 93/13»224. «La ratio della norma di delimitazione contenuta nell’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2005/29 - viene quindi concluso - è di garantire che tra le due direttive non si verifichino sovrapposizioni indesiderate sul piano delle conseguenze giuridiche»225, al fine cioè di evitare che «una singola fattispecie, alla quale in linea di principio sono applicabili entrambe le direttive, venga valutata in modi differenti sotto il [medesimo, n.d.r.] profilo giuridico. È necessaria invece un’interpretazione coerente delle disposizioni di legge di volta in volta applicabili per evitare valutazioni contraddittorie»226.
223 Così le Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10 (ECLI:EU:C:2011:788), disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 83, p. 19.
224 Così le Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 84, p. 19.
225 Così le Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 89, pp. 19-20.
226 Così le Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 90, p. 22.
Come dunque nessun contratto potrà ex se, ovvero per il solo fatto di essere stato preceduto da una siffatta pratica, essere considerato affetto da nullità e annullabilità o legittimare l’azionabilità di altro rimedio individuale, del pari nessuna clausola contrattuale potrà, per il solo fatto di trovarsi «a valle» di siffatte pratiche, essere vessatoria, ovvero dirsi determinante uno squilibrio normativo nel rapporto tra le parti. E ciò in quanto, come in generale rimane indifferente all’impianto normativo della direttiva 2005/29/CE l’impatto che le pratiche commerciali sleali possono avere sui rapporti individuali, così, più in particolare, a esso rimane indifferente se con tali pratiche il professionista abbia determinato nel singolo rapporto un tale squilibrio.
Fin qui, dunque, nihil sub sole novum, essendosi la Corte e l’avvocato generale limitati a fare coerente applicazione di una norma generale - quella ricavabile dal disposto dell’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE - a un’ipotesi particolare sotto la stessa sussumibile.
Se quanto osservato sembra difficilmente revocabile in dubbio, appare, purtuttavia, opportuno altresì evidenziare che da tale norma non debba rigorosamente postularsi una totale impermeabilità tra le due normative in analisi.
Tra gli stessi studiosi, dopotutto, è opinione comune che l’esegesi dell’art. art. 19, comma 1, lett. a) (corrispondente, come visto, all’art. 3, para 2 della direttiva), se, da un lato, vale a escludere che i precetti ex artt. 18 ss. cod. cons. possano apportare in via diretta modificazioni, integrazioni o deroghe alle disposizioni dettate in materia contrattuale, dall’altro, non esclude però che gli stessi precetti possano avere ripercussioni, e dunque rilevare per via indiretta, sull’interpretazione e sull’applicazione delle dette disposizioni227. Si è anzi osservato come i dettami contenuti nella direttiva 2005/29/CE inducono a un ripensamento di numerosi istituti privatistici, a partire, in primo luogo, dai vizi del consenso228.
227 In questi termini G. DE XXXXXXXXXX, sub art. 19, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 139; X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 146.
228 X. XXXXX XXXXXX, Dalla Comunicazione commerciale alle pratiche commerciali sleali, cit., p. 22; G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce. Contenuti, rationes, caratteristiche, cit., p. 27; negli stessi termini ID., La direttiva 2005/29/Ce, cit., p. 27; X. XXXXXXXX, x.x.x., pp. 783-784;
X. XXXXXXXX, Verso l’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in Europa e dir. priv., 2007, p. 529; X. XXXXXX, X. XXXXXX E T. XXX XXXX, Confidence through fairness? The new directive on unfair business-to-consumer commercial practices in the internal market, cit., p. 142.
Con specifico riferimento alle due normative qui in analisi, ci sembra, in particolare, doversi valorizzare un dato in tal senso alquanto significativo, costituente non a caso - come è stato osservato - la matrice comune delle due direttive229. Il riferimento è al precetto della buona fede, in via generale concepibile come divieto di abuso di una poziore posizione di forza, cui ineludibilmente le condotte dei professionisti che vogliano operare nel mercato europeo debbono conformarsi: è affermazione che appare inoppugnabile, alla luce
- come visto supra - dei dati testuali e sistematici, quello secondo cui la buona fede in senso oggettivo costituisce il comune principio ispiratore della tutela apprestata dal legislatore europeo per difendere il consumatore contro le clausole vessatorie e le pratiche commerciali scorrette230.
Certamente, detta condivisa matrice tra la direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e la direttiva sulle clausole vessatorie non vale a concludere che la violazione del precetto della buona fede nell’un caso comporti automaticamente anche la violazione del corrispondente precetto nell’altro. S’è invero visto che nelle due direttive diverso è il parametro con riferimento al quale deve essere valutata la conformità a buona fede della condotta professionistica,
i.e. il consumatore individuale nella direttiva 1993/13/CEE e il consumatore medio nella direttiva 2005/29/CE. Si è altresì evidenziato che nelle due direttive diversamente si concreta la violazione di tale precetto: nella direttiva 1993/13/CEE specificandosi nell’abuso del potere di autoregolamentazione del contratto231 e, da ultimo, nell’imposizione di un assetto regolamentare
229 Così DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., p. 125.
230 È significativo in questo senso osservare - come osserva sempre DE XXXXXXXXXX, o.u.c.,
p. 124 (nota 37) - che per gli stessi organi comunitari la buona fede di cui alla lett. h) dell’art. 2 della direttiva 2005/29/CE è la stessa buona fede (oggettiva) di cui all’art. 3, para 1, della direttiva 1993/13/CEE: è quanto emerge dalla formulazione che per la definizione di «diligenza professionale» il Parlamento europeo aveva proposto di adottare (emendamento n. 108) nel Parere reso in prima lettura sulla proposta di direttiva sulle pratiche sleali presentata dalla Commissione nel 2003, formulazione che invero parlava di «buona fede così come richiamata nella direttiva 1993/13/Cee del Consiglio del 5 aprile». Nella posizione comune del Consiglio il riferimento espresso all’art. 3, para 1, della direttiva 1993/13/CEE venne poi abbandonato, con ciò non volendosi però escludere la validità della proposta del Parlamento, ma semplicemente perché i concetti contenuti negli emendamenti nn. 21 e 108 - come si legge nella motivazione della posizione comune - dovevano considerarsi già stati integrati nella nuova formulazione della lett. h).
231 C.M. XXXXXX, Il contratto, cit., p. 379.
“squilibrato”; nella direttiva 2005/29/CE traducendosi nell’abuso del potere di influenzare i più vari comportamenti economici del consumatore nelle diverse fasi del rapporto di consumo232. Di talché il carattere abusivo di una clausola contrattuale non potrà che rimanere ancorato alle disposizioni contenute nella direttiva 93/13, quale diritto immediatamente applicabile233.
Ciò posto, non sembra purtuttavia possa trascurarsi l’indiscutibile compatibilità assiologica234 dei due impianti normativi, che risultano ordinati intorno al medesimo principio ispiratore, un comune valore ermeneutico che, come visto, li erige a grandi pilastri del sistema comunitario recanti le regole, i.e. gli standard comportamentali, cui i professionisti debbono attenersi nella promozione, istaurazione e esecuzione di qualsivoglia rapporto contrattuale con i consumatori235.
Dell’importanza che tale «minimo comune denominatore» tra le due direttive possa avere sembra dare significativa testimonianza la prassi. Nella quale, invero, non affatto remoto è che una significativa influenza esercitata dal professionista sul comportamento economico del consumatore possa sfociare in una situazione di squilibrio contrattuale a detrimento di quest’ultimo236. Si pensi, ad esempio, allo stesso caso portato all’attenzione della Corte di Giustizia, là dove la falsa informazione sul costo del credito, che ben potrebbe costituire una pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’art. 6, para 1, lett. d) (art. 21, comma 1, lett d), allo stesso tempo, ai sensi dell’art. 4, para 2 (art. 34, comma 2, cod. cons.), ben può condurre alla nullità della corrispondente clausola contrattuale237. Del pari
232 X. XXXXXXX, Le informazioni, cit., p. 117.
233 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 125, p. 29.
234 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 90, p. 29, il quale, rinviando rispettivamente al sesto, settimo e ottavo considerando della direttiva 2005/29, e all’ottavo e quindicesimo considerando della direttiva 93/13, osserva che «le due direttive perseguono una stessa finalità di tutela, mirando entrambe a tutelare la capacità di valutazione e la libertà di scelta nel commercio».
235 Così sempre DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., pp. 61, 124-125.
236 Così le Conclusioni dell’Avvocato Generale, Xxxxxx Xxxxxxxxx, nella causa C-453/10, (ECLI:EU:C:2011:788), cit., para 125, p. 29.
237 Tanto accadrebbe senz’altro ove si volesse accedere alla tesi secondo le clausole che difettano di «chiarezza» e «comprensibilità» sono da considerarsi nulle e/o inefficaci. Così X.
non improbabile è che il professionista profitti dell’impressione, da questi creata, che il consumatore non possa lasciare il locale commerciale fino alla conclusione del contratto - il che costituisce in ogni caso una pratica commerciale aggressiva ai sensi dell’art. 26, comma 1°, lett. a) - per imporre allo stesso l’adesione, con ogni probabilità non pienamente libera, a condizioni contrattuali «squilibrate».
Che una pratica commerciale scorretta possa rappresentare l’occasione di uno squilibrio normativo a livello contrattuale - ovvero che l’abuso della generale forza influenzante del comportamento professionistico sulle scelte del consumatore possa rappresentare l’occasione per un successivo abuso da parte dello stesso professionista del potere di regolamentazione contrattuale - aveva mostrato, già in tempi non “sospetti”, di essere consapevole lo stesso legislatore europeo del 1993, quando ritenne invero opportuno che la valutazione della vessatorietà di una clausola, e dunque della contrarietà a buona fede della condotta del professionista, dovesse condursi non solo avendo riguardo all’assetto regolamentare del rapporto, ma anche a tutte le circostanze esterne che a tale assetto avessero condotto. È l’art. 4, para 1 della direttiva - come visto - a stabilire che «il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato […] facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione»; ed è il sedicesimo considerando, più in particolare, a segnalare che nel valutare la conformità a buona fede del comportamento professionistico occorre rivolgere particolare attenzione tanto
«alla forza delle rispettive posizioni delle parti», quanto «al quesito se il consumatore sia stato in qualche [i.e. qualunque, n.d.r.] modo incoraggiato a dare il suo accordo alla clausola».
CIAN, Il nuovo capo XIV-bis (titolo II, libro IV) del codice civile: sulla disciplina dei contratti con i consumatori, in Studium iuris, 1996, p. 419; S.T. XXXXXXX, Commento all’art. 1469 quater, in La nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice civile, a cura di X. XXXXXXXX, Napoli, 1996,
p. 156; X. XXXXXXXXX, sub art. 1469-quater, 1°, 2° e 3° comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, cit., pp. 1023 ss.; ID., sub art. 1469-quater, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori – Commentario agli articoli 1469-bis – 1469-sexies del Codice Civile, cit., pp. 675 ss.; X. XXXXXXX, L’utilizzo di clausole abusive come pratica commerciale scorretta, in Obbl. Contr., 2009, p. 348 (nota 12). Così anche la giurisprudenza: Trib. Roma, 3.3.2005, in Giud. Dir., 05, n. 30, pp. 63 ss.; Trib. Bergamo, 10.05.2005, Contr., 06, pp. 592 ss.; Trib. Vigevano, 6.6.2003, in Studium iuris, 04, pp. 115 ss.; Trib. Genova, 14/02/2013, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx/; contra Trib. Viterbo, 03/04/2015, in xxxx://xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx/. Si rimanda, per una più ricostruzione dei termini del problema, al Cap. 3, § 3, e in particolare alla nota 313.
Se, dunque, una pratica commerciale sleale che abbia preceduto o accompagnato la conclusione di un contratto non può, per se, certamente determinare la natura vessatoria di alcuna delle clausole in esso contenuto, a essa - come anche concluso della Corte di Giustizia - non può invece negarsi il valore di elemento sul quale, insieme con altri, il giudice competente può fondare, ai sensi dell’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, la sua valutazione del carattere abusivo delle stesse clausole del contratto238. L’accertamento di una pratica commerciale sleale, in altre parole, può, coerentemente con la sua dimensione super-individuale e conformemente al disposto di cui all’art. 3, para 2, produrre esclusivamente effetti indiretti sull’accertamento del carattere abusivo di una clausola contrattuale, quale indice sintomatico, dal valore solo indiziario, che l’illecita influenza esercitata dal professionista sulla scelta del consumatore abbia rappresentato la via della “vessazione” di quest’ultimo.
238 Corte Giustizia UE (ECLI:EU:C:2012:144), 15/03/2012, C-453/10, cit., para 43, 48 (sub
2), pp. 11-12.
CAPITOLO III
LA PRATICA DELL’«UTILIZZO» DI CLAUSOLE VESSATORIE COME PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA.
SOMMARIO: 1. La dimensione super-individuale della direttiva 1993/13/CEE. L’«utilizzo» di clausole abusive come «pratica commerciale»; 2. La slealtà/scorrettezza della pratica di «utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie. Premessa; 2.1 (Segue) La contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio di una pratica commerciale; 2.2 (Segue) Il caso dell’«utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie e la loro potenzialità «ingannevole» nella fase esecutiva del rapporto contrattuale. 3. Il caso dell’uso di clausole non «chiare» e
«comprensibili» (ex artt. 5 della direttiva 1993/13/CEE e 35, comma 2°, cod. cons.) come «omissione ingannevole» (ex artt. 7, para 2 e 4, della direttiva 2005/29/CE e 22, commi 2° e 4°, cod. cons.).
1. La dimensione super-individuale della direttiva 1993/13/CEE. L’«utilizzo» di clausole abusive come «pratica commerciale».
L’indagine fin qui condotta ha consentito di approdare a una prima conclusione nell’analisi del rapporto che intercorre tra le direttive nn. 13/1993 e 29/2005 (e le corrispondenti normative nazionali che le hanno recepite). Si tratta, come visto, di due direttive che intervengono muovendo da diverse prospettive (sull’«atto» e sul suo contenuto regolamentare l’una, sull’«attività» professionistica idonea a influenzare le scelte dei consumatori l’altra) e operano in distinti àmbiti, idealmente delimitabili da una linea di confine che contrappone distinte percezioni della figura di consumatore (consumatore singolo e concreto da un lato, consumatore medio e astratto dall’altro) e distinti livelli di tutela dello stesso (individuale e successiva da un lato, collettiva e preventiva dall’altro).
Così impostata, la bontà di una siffatta ricostruzione non sembra potersi revocare in dubbio, trovando peraltro essa sicuro puntello normativo nell’art. 3, para 2, della direttiva 2005/29/CE (art. 19, comma 2, lett. a) cod. cons.), a mente del quale - non è inopportuno ricordare - la normativa sulle pratiche commerciali sleali (scorrette) non pregiudica (né è pregiudicata) direttamente (dal)l’applicazione delle disposizioni in materia contrattuale, comprese quelle dettate dalla direttiva 1993/13/CEE e dalla norme interne che ne hanno dato attuazione.
Sennonché, dell’inadeguatezza di tale conclusione a compiutamente ricostruire la reale portata del rapporto tra i due impianti normativi è del pari agevole dare conto, non appena si consideri che anche alla normativa recata dalla direttiva 1993/13/CEE non può non riconoscersi, proprio come riconosciuto alla normativa recata dalla direttiva 2005/29/CE, una portata «superindividuale».
Se innegabile, invero, è che i criteri necessariamente individualizzanti che debbono guidare la valutazione della vessatorietà di una clausola nelle singole controversie (ai sensi dell’art. 35 cod. cons.) e la dimensione individuale che deve riconoscersi al rimedio ex post concesso al consumatore vessato debbono ricondurre la disciplina delle clausole vessatorie nell’alveo del diritto dei contratti, non meno vero è che la pretesa del legislatore comunitario che gli Stati membri predispongano altresì mezzi «adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori» (art. 7239), impone, per contro, di inserire la medesima disciplina in un àmbito che, almeno sotto tale ultimo profilo, trascende quello del diritto dei contratti.
Al legislatore europeo (e a quelli nazionali) apparve innegabile, quanto non trascurabile, che il fenomeno di un generalizzato «utilizzo» da parte dei professionisti di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori sconfinasse la pur rilevante dimensione individualistica dei singoli rapporti contrattuali: la pratica dell’uso di clausole abusive in condizioni generali di
239 Detti mezzi devono includere, a mente del para 2 del medesimo art. 7, «disposizioni che permettano a persone o organizzazioni, che a norma del diritto nazionale abbiano un interesse legittimo a tutelare i consumatori, di adire, a seconda del diritto nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché stabiliscano se le clausole contrattuali, redatte per un impiego generalizzato, abbiano carattere abusivo ed applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di siffatte clausole».
contratto è in grado di determinare «un predominio di fatto a danno della generalità di contraenti», alla repressione del quale la dimensione contrattuale che le clausole vessatorie assumono nei singoli rapporti risultava del tutto inadeguata. Il rimedio contrattuale, per il vero, «non tocca il problema della tutela contro un abuso che opera a livello collettivo»240.
In particolare, l’esigenza della predisposizione di un rimedio dalla dimensione collettiva e natura preventiva, da accompagnare a quello individuale e successivo fondato sul precetto della non vincolatività (o nullità) della clausola abusiva (o vessatoria), appariva chiara - come tale era già apparsa alla più attenta dottrina italiana nel dibattito de jure condendo condotto tra gli anni settanta e ottanta sulla tutela avverso le condizioni generali di contratto ex artt. 1341 e 1342
c.c. - là dove solo si fosse tenuto a mente, da un lato, che il consumatore nella pratica è assai poco avvezzo a un’iniziativa giudiziale volta all’ottenimento di una sentenza che accerti la natura abusiva/vessatoria di una clausola e, dall’altro, degli evidenti limiti derivanti dalla parziarietà degli effetti di un giudizio (art. 2909 c.c.), la cui natura necessariamente episodica241, oltre a ostacolare l’affermarsi di principi e orientamenti sicuri242, avrebbe peraltro assai difficilmente impedito al professionista di continuare a utilizzare le medesime clausole con altri consumatori. È stato in particolare tale ultimo aspetto a destare le maggiori preoccupazioni, giacché la diffusione di clausole vessatorie in condizioni generali di contratto, seppure non vincolanti, ben avrebbe potuto ingannare i consumatori che, non sempre esperti di problemi giuridici, avrebbero potuto essere indotti a ritenerle valide e efficaci e dunque a rinunciare ad azionare lo stesso rimedio individuale loro concesso, così rendendone vana la previsione 243.
240 Sono le osservazioni di C.M. XXXXXX, Le autorità private, Napoli, 1977, p. 69, che, seppure espresse quasi quarant’anni xxxxxx nell’àmbito del dibattito sulla tutela giurisdizionale avverso le condizioni generali di contratto ex artt. 1341-1342 c.c., appaiono ancora oggi attuali.
241 O.T. XXXXXXXXXX, La «natura» dei contratti standard: un problema di metodo, in Riv. trim. dir. e proc., 1979, p. 976.
242 C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 77
243 In questo senso, pur sempre nel dibattito sulle condizioni generali di contratto, v. X. XXXXXXXX, L’inibitoria come strumento di controllo delle condizioni generali di contratto, in Le condizioni generali di contratto, a cura di C.M. BIANCA, Milano, 1981, pp. 303-304.
Tale la portata della pratica dell’uso da parte del professionista di clausole abusive nei contratti con i consumatori, insistere sul solo momento contrattuale presentava, con evidenza, «il pericolo di far perdere di vista la realtà del fenomeno e di ricercare negli usuali rimedi negoziali una soluzione che il singolo contratto difficilmente consente»244.
Di qui l’opportuna predisposizione di strumenti di tutela generale, collettiva e preventiva del consumatore, idonei a espungere dal mercato le clausole abusive nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori; dal nostro legislatore dapprima individuati nella sola azione inibitoria (ordinaria e cautelare) ex art. 37 cod. cons. e, in seconda battuta, anche nell’accertamento amministrativo della vessatorietà delle clausole inserite in condizioni generali di contratto ex art.
37 bis cod. cons., avente - come supra meglio osservato245 - funzioni informativa/divulgativa e dissuasiva. Rimedi, questi, che, proprio come il rimedio ex art. 27 cod. cons., sono espressione di una tutela di interessi diffusi dei consumatori, collettivamente intesi quali macrocategoria operante nel mercato interno; nonché espressione di una tutela che, prescindendo da un intervento ex post sui singoli regolamenti contrattuali, ovvero sull’«atto», è in grado di arginare la diffusione della pratica professionistica di «utilizzazione» di clausole vessatorie nella generalità246 dei contratti stipulandi con i consumatori247.
244 C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 69.
245 Cfr. supra, Cap. I, § 3.3.
246 Rilevava già X. XXXXX, Contratti standard, Milano, 1975, pp. 105 ss., come un controllo che tenga conto della dimensione collettiva del fenomeno della contrattazione standardizzata si configurasse non tanto come controllo sull’atto, quanto, piuttosto, sull’attività, dal momento che la predisposizione di un regolamento uniforme e di generale applicazione concreta senza dubbio un’attività.
247 Significativa in questo senso è l’inapplicabilità all’azione inibitoria della regola della “interpretatio contra stipulatorem” (così l’art. 35, comma 3, cod. cons.), sicché, rimanendo imposta la rimozione della clausola dubbia, piuttosto che la sua «conservazione edulcolorata», si realizza un indubbio potenziamento della capacità demolitrice dell’azione inibitoria (cfr. X. XXXXXXXXX, sub art. 35, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 395). In tale senso cfr. anche Corte Giustizia 9/9/2004, C-70/03, in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, che evidenzia come l’eliminazione della clausola risulta più vantaggiosa per la generalità dei consumatori.
Al riguardo, a ulteriormente testimoniare l’importanza rivestita per il legislatore europeo dal fronte “collettivo” e “generale” della lotta alle clausole abusive, è la procedura di infrazione n. 98/2026 (ex art. 169 del Trattato di Roma) aperta in data 6/4/1998, con cui la Commissione, inter alia, ebbe a rilevare come la mancata esclusione dalla disciplina dell’azione inibitoria della regola della “interpretatio contra stipulatorem” (come invece previsto dall’art. 5 della direttiva 1993/13/CEE) riduceva fortemente gli spazi di tutela dei consumatori: il giudice, invero, potendo correggere in via ermeneutica il significato della clausola oscura o incomprensibile, avrebbe potuto
Non appare un caso, in tale nuova acquisita prospettiva, che l’azionabilità di siffatti rimedi cessa di essere rimessa al singolo consumatore per venire attribuita, ai sensi dell’art. 37 cod. cons., ad associazioni dei consumatori che siano in grado di garantire un effettiva rappresentatività della categoria e un significativo radicamento territoriale (di livello nazionale)248, ovvero, ex art. 37 bis, all’iniziativa ex officio della stessa autorità amministrativa (come anche previsto per la repressione delle pratiche commerciali scorrette ex art. 27 cod. cons.), l’avvio del cui procedimento potrà al più solo essere sollecitata da uno o più consumatori eventualmente vittima/e della pratica.
Non stupisce neppure che l’accertamento della natura vessatoria da parte dell’autorità giurisdizionale e di quella amministrativa (A.G.C.M.), rispettivamente ai sensi degli artt. 37 e 37 bis cos. cons., debba incontrare - secondo l’opinione maggiormente diffusa - quei limiti giocoforza insiti nella
«generalità» di tale verifica. Rimarrebbe cioè precluso il ricorso a quegli
«elementi di specificità e di concretezza» che, in quanto «collegati al singolo contratto», sono per l’appunto incompatibili con un procedimento «di tipo
consentire al professionista di continuare a impiegarla, con buona pace del precetto ex art. 7 della direttiva. Con l’art. 25 della l. 21/12/1999, n. 526 (legge comunitaria 1999) il legislatore italiano, in accoglimento integrale delle osservazioni della Commissione, ha conformemente modificato la disposizione (allora) codicistica (art. 1469 quater). Per una più esaustiva illustrazione delle contestazioni mosse dalla Commissione in siffatta procedura, cfr. G. ALPA - X. XXXXX, Introduzione, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, cit., pp. 12 ss.
248 Il riferimento è ai requisiti previsti dall’art. 137 cod. cons., al ricorrere unicamente dei quali alle associazione dei consumatori è consentita l’iscrizione nell’elenco delle «associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale» (istituito presso il Ministero dello sviluppo economico). Detti requisiti costituiscono il presupposto per il riconoscimento della legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, in quanto espressione della capacità dell’ente di interpretare, esprimere e attuare i valori e le esigenze avvertite come preminenti per la categoria, agli appartenenti della quale l’agire dell’associazione, pur non incidendo direttamente nella loro sfera giuridica, produce un giovamento di fatto (così X. XXXXXX, La rappresentatività delle associazioni dei consumatori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di X. XXXXX, Napoli, 2000, p. 77 ss.; cfr. altresì X. XXXXXXXX, sub art. 137, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 912 ss.). Tra gli indici di un’adeguata rappresentatività degli interessi dei consumatori, particolare menzione meritano la dislocazione territoriale delle stesse associazioni e la consistenza numerica degli iscritti (lett. c), nonché la democraticità dello statuto e l’esclusività dello scopo di tutela degli interessi dei consumatori (lett. a) (cfr. X. XXXX, Associazioni dei consumatori, interessi collettivi e servizi pubblici, in Corr. Xxxx., 2002, 2, p. 261; X. XXXXXX, Tutela esecutiva ed azione inibitoria delle associazioni dei consumatori, in Riv. esec. forzata, 2003, pp. 315 ss.).
generale, preventivo e astratto»249. In siffatte ipotesi - è stato felicemente rilevato -
«viene meno la stessa praticabilità di un esame esteso alle circostanze concrete: vi osta l’astrattezza del riscontro»250. Non potranno quindi trovare applicazione il criterio che rimanda alle circostanze esistenti al momento della conclusione di un contratto (potendo, peraltro, neppure essere stato concluso un contratto)251, quello che impone un rinvio alle clausole di altro contratto collegato o da cui dipende252, e l’esimente della trattativa, dovendo essa rivestire i caratteri - necessariamente oggetto di un riscontro circostanziato e personalizzato - della individualità, della serietà e della effettività253.
Stando così le cose, non sembra affatto errato rilevare come la direttiva 1993/13/CEE, nella parte in cui impone agli Stati membri di prevedere idonei mezzi volti a evitare l’inserzione di clausole abusive nei contratti con i consumatori, contenga una disposizione “pionieristica” rispetto alla futura disciplina introdotta, oltre dieci anni dopo, dalla direttiva 2005/29/CE: l’art. 7, seppure solo indirettamente, attraverso la previsione del rimedio inibitorio, sancisce il divieto di una pratica commerciale, quella per l’appunto consistente
249 Così X. XXXXXXXXX, Contratti dei consumatori e tutela collettiva nel codice del consumo, in Contr. e Impr., 2006, p. 644, il Quale attentamente nota come l’art. 4, para 1, della direttiva, che individua i criteri di valutazione dell’abusività di una clausola, contiene l’inciso iniziale «fatto salvo l’art. 7» (disciplinante per l’appunto la tutela collettiva). Precisazione, questa, che invece è ingiustificatamente assente nella disciplina italiana (artt. 34 e 37 cod. cons.). In questo senso anche X. XXXXX, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Xxxx.xx, 1996, p. 152; X. XXXXXXXXXX, La tutela amministrativa dei consumatori contro le clausole vessatorie, cit., pag. 52. Si vedano anche le seguenti pronunce dell’Autorità amministrativa: AGCM, 27/3/2013, CV 28 - Xxxxxxxxxxx.xxx, provv. N. 24288, in Boll. AGCM 22/4/2013, n. 15, p. 89; AGCM, 27/3/2013, CV 29 - Mediamarket, provv. N. 24289, in Boll. AGCM, n. 15, p. 101.
250 X. XXXXXXXX, Ibidem.
251 X. XXXXXXXXXX, ibidem; X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 644; ID., La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, in Nuove leggi civ. comm., 2012, p.
571. Cfr. AGCM, 11/6/2013, CV 27 - Maggiore Rent, provv. N. 24399, in Boll. AGCM 1/7/2013, n. 25, p. 106.
252 X. XXXXXXXX, Contratti dei consumatori e tutela collettiva nel codice del consumo, cit.,
p. 644; ID., La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, cit., p. 572; contra X. XXXXXXXXXX, ibidem.
253 X. XXXXXXXXXX, ibidem; X. XXXXXXXXX, Contratti dei consumatori e tutela collettiva nel codice del consumo, cit., p. 645; ID., La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, cit., p. 572. Cfr. altresì AGCM, 27/3/2013, CV 28 - Xxxxxxxxxxx.xxx, provv. N. 24288, cit., pp. 84, 88 ss. e 90; AGCM, 27/3/2013, CV 00 - Xxxxxxxxxxx, xxxxx. X. 00000, cit., pp. 98, 101. Quanto all’esatta determinazione dei criteri della trattativa si rinvia, su tutti, a L.A. XXXXXXX, sub art. 1469-ter, 4° comma, in Clausole vessatorie nei contratti del consumatore. Artt. 1469-bis – 1469-sexies, cit., p. 969 ss.
nell’«utilizzo» da parte dei professionisti di clausole abusive nei contratti con i consumatori254. Tale precetto non reca una disciplina dell’atto contrattuale - o, se si preferisce, dei suoi effetti negoziali - al fine di imporre un determinato assetto regolamentare (come invece impone il disposto ex art. 6 attraverso la sanzione dell’inefficacia della clausola “squilibrante”); esso, per contro, proprio nell’ottica di una tutela del pubblico dei consumatori, intende prevenire ab origine che l’assetto regolamentare venga squilibrato, prevenendo, per mezzo di un divieto e/o di altri a ciò idonei strumenti (quale quello informativo ex art. 37 bis cod. cons.), quei comportamenti (illegittimi) che di tale squilibrio sono causa255. Esso non si rivolge al passato, ma al futuro, per evitare la commissione, continuazione o ripetizione di siffatte pratiche256.
In questa prospettiva risulta difficile negare che la direttiva 1993/13/CEE abbia anche una portata superindividuale: «[…] the level of intervention conceived by Article 7 of the UTD: (i) does not concern contract law, but rather commercial practice law, (ii) deals not with unfair terms, but rather with “use” of unfair terms by traders, and (iii) has no effect with respect to ex post individual remedies, but applies to collective remedies, i.e. remedies available to consumers’ associations or other persons or organizations having a legitimate interest under national law in protecting consumers, aimed at preventing the continued use of unfair terms by traders»257.
L’idea che l’utilizzo di clausole abusive sia configurabile come pratica commerciale trova, peraltro, positivo riscontro nella stessa definizione che di
254 È X. XXXXXXX, The use of unfair contractual terms as un unfair commercial practice, cit., p. 36, a mettere in rilievo che «as a matter of logic, the request addressed to Member States to adopt means to prevent a certain practice presupposes the establishments of a corrisponding legal prohibition, i.e. the prohibition on the use of such commercial practice».
255 Dopo tutto, le prime forme di reazione dell’ordinamento giuridico avverso un illecito non possono che consistere in azioni dirette a impedire o far cessare il comportamento lesivo (in questo senso, sempre con riferimento alla prospettazione di un’azione inibitoria per fronteggiare il fenomeno delle condizioni generali di contratto, X. XXXXXXXX, o.u.c., p. 306-307).
256 Così si esprime, con riferimento all’azione inibitoria, X. XXXXXXXX, voce «Inibitoria (azione)», in Enc. del dir., XXI, Milano, 1971, p. 560.
257 Così X. XXXXXXX, o.u.l.c, cit., p. 36, il quale peraltro mette in rilievo come la direttiva 1993/13/XXX xxxxx un doppio approccio, individuale (così rilevando per il diritto dei contratti) e super individuale (così rilevando per il diritto delle pratiche commerciali). Per conseguenza, anche la disciplina ex art. 7 introduce «a legal regime [being] distinct from, although complementary to, the contract law regime of the unfair terms regulating the individual contractual relationships between traders and consumers».
pratica commerciale dà il disposto dell’art. 2, lett. d) (art. 18, lett. d) cod. cons.) – quale «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione […] direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori», posta indifferentemente in essere prima, durante e dopo l’operazione stessa (v. art. 3, comma 1, della direttiva e 19, comma 1, cod. cons.) – entro i cui ampi confini è certamente sussumibile la pratica di utilizzazione di clausole abusive258. È in effetti difficilmente discutibile che una tale pratica, pur non essendo (almeno) direttamente strumentale alla promozione e alla vendita di un bene o di un servizio oggetto del contratto stipulando con il consumatore, presenti un nesso diretto e immediato con il rapporto giuridico che scaturisce dalla stipulazione di tali contratti259.
2. La slealtà/scorrettezza della pratica di «utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie. Premessa.
La possibilità di sussumere la fattispecie dell’uso in condizioni generali di contratto di clausole abusive/vessatorie sotto la definizione positiva di pratica commerciale di cui all’art. 2, lett. d) della direttiva 2005/29/CE (e art. 18, lett. d) cod. cons.) consente (e impone) di andare oltre nell’analisi del rapporto che intercorre tra le normative in esame, e quindi di sottoporre la pratica di
«utilizzazione» di clausole abusive/vessatorie al test di slealtà/scorrettezza ai sensi della direttiva 2005/29/CE.
258 X. XXXXX, Trasparenza e vessatorietà delle clausole nei contratti per adesione, in I
«principi» del diritto comunitario dei contratti. Acquis communautaire e diritto privato europeo, a cura di X. XX XXXXXXXXXX, Xxxxxx, 0000, pp. 483-484, secondo la Quale nella definizione dell’art. 18, lett. d), della direttiva 2005/29/CE può certamente rientrare la fattispecie della predisposizione di regolamenti contrattuali unilateralmente predisposti dal professionista e destinati a regolare la generalità dei rapporti negoziali con i consumatori; X. XXXXX XXXXXX, Il comportamento ostativo del professionista tra “ostacoli non contrattuali” e ostacoli contrattuali, in Studi celebrativi del ventennale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, a cura di X. XXXXXXX - X XXXXXXX XXXXXXX, Xxxxxx, 0000, pp. 1216 SS.; X. XXXXXXX, L’uso di clausole abusive come pratica commerciale scorretta, in Obbl. contr., 2009, p. 346; ID., Le informazioni, cit., p. 115; ID., The use of unfair contractual terms as un unfair commercial practice, cit., p. 36; G. DE CRISTOFARO, sub art. 19, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 134.
259 Nei termini G. DE XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 134.
Ora, come supra già rilevato (Cap. 1, § 3.1), secondo l’opinione maggiormente diffusa tra gli studiosi260 e formalmente avallata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia261, la valutazione della natura sleale di una pratica commerciale deve seguire l’iter procedimentale così articolato: in primo luogo, dovrà verificarsi la ricorrenza di una delle pratiche elencate nelle cd. liste nere (allegato I alla direttiva e artt. 23 e 26 cod. cons.); in caso di riscontro negativo, dovrà verificarsi la ricorrenza di una delle fattispecie delle cd. «small general clauses», ovvero delle pratiche commerciali ingannevoli o aggressive (artt. 6, 7 e 8 della direttiva e 21, 22 e 24 cod. cons.); infine, in ipotesi di negativo riscontro anche in tale ultimo caso, ricorrere alla clausola generale e verificare quindi la ricorrenza degli elementi di cui all’art. 5, para 2, della direttiva e 20, comma 2° cod. cons. (cd. «grand general clause»), ovvero della i) contrarietà della pratica alla diligenza professionale e della ii) sua idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio.
In questa direzione ben si può procedere anche in questa sede, per valutare se e in quali ipotesi la pratica di «utilizzazione» di clausole abusive possa
260 In questi termini X. XXXXXXXXX, The Unfair Commercial Practices Directive and its General Prohibition, in The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, cit., p. 20 ss.; G. DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo – Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), cit., pp. 12 e 139 ss.; ID., La direttiva 2005/29/Ce. Contenuti, rationes, caratteristiche, in Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori – La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, p. 12; X. XXXXXXXX, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, cit., p. 777 ss.; X. XXXXXX, X. XXXXXX E
T. XXX XXXX, o.u.c., pp. 132-133, i Xxxxx, peraltro, ritengono che tanto dovesse avvenire anche nella disciplina tedesca della concorrenza sleale UWG del 2004 (p. 124, nota 81).
261 Cfr. Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2009:244), 23.04.2009, C-261/07 e C-299/07,
disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 56, ove così si legge: «La direttiva redige anche, al suo allegato I, un elenco esaustivo di 31 pratiche commerciali che, conformemente all’art. 5, n. 5, della direttiva, sono considerate sleali «in ogni caso». Conseguentemente, come espressamente precisato dal diciassettesimo ‘considerando’ della direttiva, si tratta delle uniche pratiche commerciali che si possono considerare sleali senza una valutazione caso per caso ai sensi delle disposizioni degli articoli da 5 a 9 della direttiva»; nello stesso senso Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2010:12), 14.01.2010, C-304/08, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, para 45; così anche Corte di Giustizia EU (ECLI:EU:C:2013:574), 19.09.2013, C-435/11, disponibile in xxxx://xxxxx.xxxxxx.xx/, che ha concluso che la direttiva 2005/29/CE deve essere interpretata nel senso che «nell’ipotesi in cui una pratica commerciale soddisfi tutti i criteri enunciati all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva per poter essere qualificata come pratica ingannevole nei confronti del consumatore, non occorre verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima perché essa possa essere legittimamente ritenuta sleale e, pertanto, essere vietata ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, della stessa direttiva».
costituire una pratica commerciale scorretta. Si tratta invero di un modus operandi nella pratica senz’altro e generalmente condivisibile, volto com’è a facilitare il compito dell’interprete nell’accertamento della natura sleale o scorretta di una pratica262.
Ove però si tenga nella debita considerazione quanto pure già rilevato (cfr. supra, § 3.1) – ovvero che non appare corretto predicare un’autonomia tra la clausola generale di scorrettezza, da un lato, e le clausole particolari di ingannevolezza e aggressività e le cd. liste nere di pratiche commerciali senz’altro scorrette, dall’altro, e che, anzi, il rapporto tra esse debba intendersi nel senso che la prima opera come norma di principio e che le seconde come norme esemplificative della prima – allora il test di slealtà nella specie pure dovrà, opportunamente e in primo luogo, condursi attraverso l’accertamento che tale pratica dell’uso di clausole vessatorie sia effettivamente contraria alla «diligenza professionale» e, come tale, idonea a «falsare il comportamento economico del consumatore», secondo cioè la «grand general clause»; ciò anche laddove l’indagine sulla natura scorretta/sleale della pratica dovesse avere esito positivo già al riscontro dei requisiti di una delle fattispecie «particolarmente» scorrette/sleali. Dopo tutto – non pare inopportuno rilevare – tale è anche il modus operandi dell’Autorità preposta all’accertamento e alla sanzione delle pratiche commerciali scorrette in Italia (AGCM), che invero nei suoi provvedimenti costantemente si preoccupa di argomentare in ordine alla sussistenza dei requisiti della contrarietà alla «diligenza professionale» e della idoneità a «falsare in misura apprezzabile il comportamento economico» del consumatore, anche ove la pratica sanzionata risulti già (e ictu oculi) sussumibile sotto una delle fattispecie particolari di pratiche ingannevoli o aggressive263.
262 S. ORLANDO, Le Informazioni, cit., p.142, il Quale rileva che l’impianto normativo a piramide, adottato dal legislatore europeo e da quello italiano, si spiega sulla base delle perseguite esigenze di uniformità e certezza del diritto, considerando che il concetto di contrarietà alla diligenza professionale avrebbe altrimenti potuto dare luogo ad applicazioni difformi nei vari Stati membri (pp.141-142 e p. 144, nota 210).
263 Tra i più recenti – tutti rinvenibili sul sito web dell’Autorità: xxxx://xxx.xxxx.xx/xxxxxxxxxxx--xxxxxxxx/xxxxxxxxxxx- provvedimenti/search.html?limit=15&ric=1&limitstart=0 – si vedano Airways Helicopters- Trasporto Aereo, Provvedimento n. 26502 del 22.03.2017; Acqua & Farma-Dispositivi dell’Acqua, Provvedimento n. 26503 del 22.03.2017; Firefly-Addbeiti Arbitrari, Provvedimento n. 26297 del 15.12.2016; Aloe Ghignone-Proprietà Terapeutiche, Provvedimento n. 26250 del
In questo senso, l’accertamento della contrarietà alla diligenza professionale di una pratica (come anche di quella in commento) e della sua idoneità a falsare il comportamento dei consumatori – elementi, questi, che ben possono dirsi due facce della stessa medaglia264 – rappresenterà la “prova del nove”265 circa la sua certa qualificazione come pratica commerciale scorretta.
2.1 (Segue) La contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio di una pratica commerciale.
L’accertamento della natura sleale o scorretta della pratica di utilizzazione di clausole vessatorie ai sensi della clausola generale di cui agli artt. 5, para 2, della direttiva e 20, comma 2°, cod. cons. impone di soffermarsi su significato e portata dei due elementi che testualmente la compongono: i) la contrarietà alla diligenza professionale e ii) l’idoneità a falsare in misura rilevante (o
23.11.2016; Università Popolare di Milano-Xxxxxx Xxxxxxxxxx, Provvedimento n. 26197 del 29.09.2016; Exquisa Latticino-Solo0,0025% di colesterolo, Provvedimento n. 26147 del 27.07.2016).
264 V. infra, successivo § 2.1.
265 Come già evidenziato, sembra innegabile che il criterio della diligenza professionale operi come «valore ermeneutico ordinante all’interno del sistema della nuova disciplina» (così S. ORLANDO, Le informazioni, cit., p. 143) e che, come tale, esso giochi un ruolo interpretativo decisivo delle fattispecie di p.c. scorrette (G. DE XXXXXXXXXX, sub art. 20, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., 13, p. 154; X. XXXXXXX, sub art. 20, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1701; M XXXXXXXXX, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 85). In questa ottica deve dunque leggersi quella giurisprudenza della Corte di Giustizia passata in rassegna sotto la precedente nota: l’accertamento della ricorrenza di una pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’art. 6, o aggressiva ai sensi dell’art. 7 o ancora di una delle p.c. elencate nell’allegato I (art. 5, para 5), non rende necessario verificare se tale pratica sia parimenti contraria alle norme di diligenza professionale ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a), della direttiva medesima giacché detto ultimo accertamento è implicito nella ricorrenza dei requisiti delle fattispecie particolari di p.c. sleali. In questo senso X. XXXXXXX, o.u.c., p. 142 rileva come «i comportamenti ingannevoli e aggressivi, come rappresentati nelle fattispecie generali degli artt. 21, 22 e 24 del Codice del consumo e nelle fattispecie tipiche di cui alle liste nere degli articoli 23 e 26 Codice consumo, sono comportamenti vietati come p.c. scorrette in quanto ritenuti dal legislatore contrari per definizione alla diligenza professionale» (corsivo dell’Autore). Ancora, secondo lo stesso A.:
«Mentre è vero che di fronte a comportamenti generalmente o tipicamente ingannevoli o aggressivi l’interprete non deve chiedersi se essi siano vietati, deve riconoscersi che tale soluzione è valida solo in quanto la sussunzione di comportamenti concreti nelle varie fattispecie di p.c. ingannevoli o aggressive sia operata sulla base di una corretta interpretazione delle relative norme, e cioè a condizione che le norme che rappresentano in astratto i vari comportamenti ingannevoli e aggressivi siano rettamente intese alla luce del concetto della contrarietà alla diligenza professionale» (ID., o.u.c., p. 142).
“apprezzabile”, secondo il testo della disposizione di recepimento) il comportamento economico del consumatore medio cui la pratica è diretta.
Va detto che, secondo l’opinione pressoché unanime della dottrina, i richiamati requisiti debbono ricorrere cumulativamente, e non alternativamente. In tale senso s’è così osservato che una pratica commerciale della quale sia positivamente accertata la contrarietà alle regole della diligenza professionale non possa per ciò solo essere qualificata e sanzionata come «scorretta», tanto presupponendo altresì il contestuale accertamento della sua concreta attitudine a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore; e, viceversa, che una pratica che presenti solamente tale ultima attitudine, senza essere anche contraria alla diligenza professionale, non possa del pari essere sussunta sotto la fattispecie della cd. «grand general clause»266. A tale conclusione parrebbe legittimamente indurre il tenore letterale delle disposizioni (artt. 5, para 2, della direttiva e 20, comma 2° cod. cons.), che, invero, considerando disgiuntamente i due requisiti, sembrerebbe anche predicarne una distinzione concettuale.
Altra dottrina, per contro, ha osservato come l’adesione a una tale interpretazione (letterale) delle richiamate disposizioni condurrebbe a una conclusione inaccettabile sotto il profilo logico, e, non a caso, sarebbe inidonea a evocare esempi concreti: «se si può convenire sul fatto che una pratica possa essere idonea ad «influenzare» in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio in modo conforme a diligenza professionale […] lo stesso non può dirsi se in predicato è – non già l’«influenzare» – bensì il «falsare»: non si può falsare il comportamento economico dei consumatori in modo conforme alla diligenza professionale»267.
È una lettura, quest’ultima, che merita senz’altro di essere condivisa, e non solo in quanto il termine «falsare», nella sua accezione spregiativa (propria anzitutto del linguaggio comune), mal si presta a descrivere una condotta che
266 X. XX XXXXXXXXXX, sub. art. 20, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit.,
p. 155: ID, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale
«sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., p. 119; X. XXXXXXX, sub art. 20, in
Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1703.
267 Nei termini X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 103, 104.
possa definirsi «diligente». Essa appare altresì coerente con l’oggetto e la finalità propri della disciplina recata dalla direttiva 2005/29/CE.
Come s’è già osservato (cfr. supra, Cap. 1, § 3), il legislatore europeo non ha inteso disciplinare qualsiasi condotta commerciale connessa alla promozione e/o commercializzazione di un bene o servizio, bensì le sole pratiche commerciali sleali che presentino ulteriormente il requisito della idoneità a influenzare il comportamento economico dei consumatori268. Tanto risulta espressamente dal considerando 7 della direttiva, ove viene precisato che «la presente direttiva riguarda le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti», nonché, e principalmente, dal considerando 6, ove viene precisato che la novella non intende proibire pratiche pubblicitarie e di marketing «in grado di incidere legittimamente sulla percezione dei prodotti da parte dei consumatori e di influenzarne il comportamento senza però limitarne la capacità di prendere una decisione consapevole».
In tale prospettiva – è stato pure osservato – la finalità della disciplina recata dalla direttiva 2005/29/CE nel sancire il divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali, è allora di stabilire «a quali condizioni influenzare è legittimo (leale) e a quale condizioni diventa illegittimo (sleale)»269, ovvero di fissare un criterio normativo cui l’interprete possa attingere per stabilire quando l’«influenzare» diviene un «falsare», sì da «alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso» (art. 2, lett. e) della direttiva; cfr. art. 18, lett. e) cod. cons.).
Ebbene, il criterio normativo che fissa lo scarto che un’influenza legittima (leale/corretta) e un’influenza illegittima (ovvero un “falsare”) è dal legislatore evidentemente individuato proprio nella diligenza professionale, la violazione delle cui regole integra il “primo” requisito (letteralmente) richiamato dalla clausola generale di slealtà/scorrettezza ex artt. 5, para 2, della direttiva e 20,
268 Cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 105 ss. Lo evidenzia anche X. XXXXXXXX, La tutela collettiva contro le pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, cit., pp. 315-316.
269 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 107.
comma 2° cod. cons. È stato in proposito così osservato: «L’idoneità a «falsare» in misura rilevante un comportamento economico del consumatore medio […] altro non è quindi che l’atteggiamento, espresso in termini negativi con tale verbo, dell’influenza illegittima esercitata da una pratica commerciale allorché essa si sia manifestata attraverso modalità contrarie alla «diligenza professionale»»270.
Dunque, i due requisiti della i) contrarietà alla diligenza professionale e della ii) inidoneità a falsare il comportamento economico del consumatore non sono concettualmente distinti, potendo anzi essi sintetizzarsi in uno solo271, come fossero “due facce della stessa medaglia”. Una pratica commerciale è quindi
«corretta» quando essa è conforme alle regole della diligenza professionale, i.e. essa legittimamente (o “lealmente”) influenza il comportamento economico dei consumatori; una pratica è invece «scorretta» quanto è contraria alla diligenza professionale, in tal caso potendosi dire che essa, in violazione delle regole della diligenza, falsa (ovvero, se si preferisce, influenza illegittimamente o “slealmente”) il comportamento economico dei consumatori272.
Resta ora da stabilire quali sono le regole della diligenza professionale cui ogni professionista deve attenersi nelle pratiche business to consumer, sì che le decisioni di natura commerciale dei consumatori siano legittimamente influenzate, ovvero - come s’è parzialmente già anticipato e come meglio si vedrà - siano assunte in libertà e con consapevolezza.
A tale riguardo, occorre muovere dalla definizione normativa di «diligenza professionale». L’art. 2, lett. h) della direttiva così precisamente recita: «rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista, [la diligenza professionale è] il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori». Questa invece la definizione di «diligenza professionale» contenuta nell’art. 18, lett. h) cod. cons.: «il normale grado della specifica competenza e attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti
270 ORLANDO, o.u.c., p. 110.
271 ORLANDO, o.u.c., p. 111, 132, 133.
272 ORLANDO, o.u.c., p. 132.
rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista».
Ora - ferme le evidenti (e non apparentemente irrilevanti) differenze testuali nelle due formulazioni definitorie273, di cui a breve si dirà - un dato è immediatamente ricavabile dalle due definizioni, in quanto a esse comune: la diligenza professionale pone in capo al professionista un dovere di «attenzione», di «cura» o «competenza» nei confronti del consumatore. Le regole della diligenza professionale, dunque, possono anzitutto definirsi - come sono state autorevolmente definite - «regole oggettive di comportamento corrispondenti ad un determinato grado/livello di conoscenze specialistiche, di cura e d’attenzione»274 che il professionista è tenuto a osservare “in protezione” del consumatore.
Tanto indubitabile, occorre però individuare la misura o il livello della cura e attenzione richieste al professionista, ovvero i parametri che fissino tale misura, «rispetto» ai quali cioè «debbono essere concretizzati i contenuti delle “ragionevoli aspettative” (di cura e attenzione) che i consumatori possono legittimamente nutrire nei confronti dei professionisti275. E al riguardo le due formule definitorie sembrerebbero sensibilmente divergere giacché, mentre la formula ex art. 2, lett. h) della direttiva riferisce al «principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista» e alle «pratiche di mercato oneste», nell’art. 18, lett. h), cod. cons. il riferimento alle cd. best practice del settore viene del tutto espunto e sostituito da quello «ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista».
273 Tra le differenze più marcate, s’è segnalato che la disposizione della direttiva si riferisce alla competenza e attenzione che «si possono presumere» (dunque da un terzo, diverso dal professionista e consumatore, neutro ed esterno) essere esercitate da un professionista nei confronti di consumatori, mentre nella disposizione italiana il grado di competenza e attenzione è quello che si possono ragionevolmente attendere i consumatori. Le diverse prospettive dalle quali valutare tali
«ragionevoli aspettative» considerate dalle due formulazioni è stata però ritenuta una mera
«sfumatura», cui non dare significativo rilievo (X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1704).
Quanto alla eliminazione nelle disposizione italiana del riferimento alle «pratiche di mercato oneste», x. xxxxx.
000 X. XX XXXXXXXXXX, sub art. 20, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., pp. 156, 157; così anche C. LO SURDO, sub art. 20, in Codice del consumo, a cura di X. XXXXXXX, cit., pp. 102-103.
275 Nei termini G. DE XXXXXXXXXX, o.u.c., p. 156.
Va detto che in realtà tale differenza, per quanto evidente su di un piano testuale, non ha destato grandi preoccupazioni tra gli studiosi, che anzi hanno accolto l’originale intervento del legislatore italiano con favore. Era invero sin dall’origine parso evidente come il richiamo alla «pratiche di mercato oneste», oltre a essere alquanto generico, potesse dare adito a non poche incertezze interpretative, prestandosi alternativamente o ad «avallare un pericoloso appiattimento del giudizio di scorrettezza sulla conformità alle prassi di settore»276, ovvero a tradursi in un ridondante richiamo al parametro, subito dopo invocato, della buona fede: invero la consonanza di una pratica alla «prassi di settore» avrebbe comunque dovuto passare dall’accertamento e dalla verifica della rispondenza della stessa prassi al principio di buona fede, in tal senso dovendosi intendere il giudizio di «onestà»277 (riferito alla best practice) richiesto dalla disposizione. Né le prassi correnti nel settore - è stato pure attentamente osservato
- potrebbe assurgere a criterio ulteriore della misura o livello di cura e attenzione richieste al professionista in forza del riferimento, contenuto nell’art. 2, lett. h) della direttiva, «al principio di buona fede nel settore di attività del professionista». Una simile interpretazione è stata condivisibilmente definita inaccettabile, non solo e non tanto perché, sotto un profilo letterale, il principio di buona fede è chiaramente indicato come «criterio aggiuntivo e indipendente rispetto a quello delle «pratiche di mercato oneste»», ma anche perché una siffatta lettura - prestandosi a consentire un rinvio al modo in cui il principio di buona fede è autonomamente inteso (potenzialmente in modo differente) dai diversi
276 Così X. XXXXXXX, sub art. 20, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, cit., p. 1704. A meglio spiegare perché la valutazione della natura scorretta di una pratica alla luce delle pratiche di settore rischierebbe di andare incontro a gravi incertezze è G. DE CRISTOFARO Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., p. 123, che così rileva: «è fortemente dubbio quale debba essere il contesto territoriale cui fare riferimento per stabilire se una determinata pratica commerciale possa considerarsi «in uso» nel settore di attività nel quale opera il professionista che la ponga in essere, e soprattutto per valutare se la pratica in questione sia sentita e vista come onesta: occorrerà guardare (soltanto) al territorio dello Stato nel quale il professionista che utilizza la pratica ha la propria sede, o dello Stato (eventualmente diverso) nel quale detto professionista abbia in concreto agito, ovvero si dovrà tener conto del territorio dell’intera Ue?».
277 X. XXXXXXX, u.o.c., pp. 1704 ss. Xxx, a p. 1707, così osserva l’Autore: «la conformità alla prassi non basterebbe di per sé ma dovrebbe essere valutata in ragione della “onestà” della prassi medesima, criterio, quest’ultimo, probabilmente riconducibile al già evidenziato concetto di conformità alla buona fede, che è alla base della nozione di diligenza professionale richiamata dalla norma».
operatori di settore e non in una prospettiva terza ed esterna - avrebbe “pericolosamente” rischiato di consentire standard di tutela del consumatore (i.e. di «attenzione», «competenza» e «cura» richieste al professionista) di volta in volta diversi e, come tali, non rispettosi allo stesso modo degli interessi dei consumatori278: ciò a dispetto dell’ambizione di “armonizzazione massima” della direttiva stessa e con inevitabile negazione della dimensione di «principio generale» unanimamente riconosciuta alla «buona fede»279.
Escluso che il rispetto delle prassi di settore possa influire nel giudizio di lealtà/correttezza di una pratica commerciale, è pertanto da ritenersi condivisibile l’opinione di Xxxxxx individuano nel (solo) principio di «buona fede» (o
«correttezza»280) il criterio volto a «specificare in concreto il contenuto» della diligenza professionale281, ovvero la misura di quel dovere di «attenzione», «cura» e «competenza» dovuto dal professionista nei confronti del consumatore282. E in questa prospettiva, non sembra potersi neppure dubitare - come pure è stato generalmente rilevato - che il principio di buona fede esprima una regola di comportamento coerentemente ispirata a un’esigenza di «solidarietà», notoriamente espressione di un valore – dalla rilevanza costituzionale (art. 2
278 X. XXXXXXXXX, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 93. Il riferimento al «settore di attività del professionista» deve allora essere inteso come riferimento al target dei consumatori destinatari della pratica commerciale, con riguardo al quale valutare il rispetto del principio di buona fede (cfr. X. XXXXXXX, o.u.c., pp. 112,113 e 136).
279 Come già indicato, la buona fede può dirsi «presente oggi come principio pervasivo in tutti gli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale» (così da X. XXXXXXX, Il principio generale di buona fede, in Manuale di diritto privato europeo, cit., p. 495).
280 Può dirsi che «buona fede» e «correttezza» abbiano nel linguaggio giuridico corrente tra i giuristi italiani e presso i Tribunali lo stesso significato e che siano oggi utilizzabili come sinonimi. Cfr. X. XXXXXXX, Il valore attuale della massima «fraus omnia corrumpit», in Studi Carnelutti, III, Padova, 1950, p. 436, per il Quale la buona fede intesa in senso oggettivo, significa
«agire sleale o scorretto in danno di altri»; C.M. XXXXXX, Il contratto, in Diritto civile, Vol. 3, Milano, 2000, p. 505; X. XXXXXXXXX, Trattato breve della responsabilità civile, ed. II, Padova, 1999, p. 83 ss.; X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1698; in giurisprudenza, ex multis, x. Xxxx. civ. Sez. Unite Sent., 25/11/2008, n. 28056, Giust. Civ. Mass., 2008, 11, p. 1681.
281 Così X. XXXXXXX, o.u.c., p. 135.
282 La scelta di valutare la sleatà/scorrettezza di una pratica commerciale alla luce del principio generale di buona fede è stato ribadito dal legislatore italiano nei già richiamati artt. 2, lett. c bis), cod. cons. (che riconosce tra i diritti fondamentali del consumatore quello «all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà») e 39 cod. cons. (a mente del quale «Le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie dei consumatori») (v. supra, Cap. 1, § 3.1).
Cost.) nell’ordinamento italiano283, ma non meno rilevante nella storica impostazione «protezionista» riservata dalla legislazione comunitaria al consumatore – che impone per l’appunto un «dovere di salvaguardia»284, un «duty of care» di interessi deboli, così fondando, a tutela degli stessi, specifici obblighi (anzitutto positivi) di comportamento. E che – sembra altresì corretto osservare – specularmente opera come limite esterno al lecito perseguimento degli interessi economici delle imprese285, alle quali, proprio a tutela degli «interessi più deboli» dei consumatori, è fatto divieto di «abusare»286 della loro posizione di
«supremazia», ovvero, nella specie, avendo riguardo all’intenzione del legislatore comunitario di disciplinare le sole pratiche idonee a influenzare il comportamento economico dei consumatori, di abusare di siffatta capacità o potere (di fatto proprio di ogni professionista) di «influenza decisionale»287.
Tale ultima considerazione consente ora di meglio precisare in quale direzione debba operare questo dovere di solidarietà: ciò nel senso di meglio specificare quale sia l’oggetto dell’«attenzione» e della «cura» cui, conformemente a buona fede, è tenuto il professionista, ovvero cosa debba concretamente intendersi con «abuso» del potere di influenzare.
In questo senso viene in rilievo il “secondo” (ma, come detto, simmetrico rispetto al “primo”) elemento che compone la clausola generale di
283 Le pronunce della Suprema Corte di Cassazione sul punto sono numerose, in particolare in commento agli artt. 1175 e 1375 c.c. Ex multis, si vedano x. Xxxx. civ. Sez. Unite Sent., 25/11/2008, n. 28056; Cass. civ., 16/10/2002, n. 14726, Danno e resp. 2003, 174: «In tema di esecuzione del contratto, la buona fede si atteggia come impegno od obbligo di solidarietà - imposto, tra l’altro, dall’art. 2 Cost. - tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a prescindere altresì dal dovere extracontrattuale del neminem ledere, siano idonei (senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell’altra parte» (cfr. altresì Cass. civ., Sez. III, 10/11/2010, n. 22819, in Obbl. e contr, 2011, 3, 216; Cass. civ., 5/11/1999, n. 12310, in Foro pad., 2000, I, 348).
284 Così C.M. XXXXXX, o.u.c., p. 505.
285 L’espressione è di X. XXXXXXXXX, o.u.c., p. 93 (nota 36).
286 Ancora nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione il principio della buona fede (e della solidarietà) è richiamato per fondare il divieto di «abuso del diritto». X. Xxxx. xxx., Xxx. XXX, 00/0/0000, x. 00000, in Contratti, 2009, 11, 1009: «Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti».
287 C.A. PRATESI, Marketing sleale e tutela giuridica dei consumatori, in Le pratiche commerciali sleali. Direttiva comunitaria ed ordinamento italiano, cit., p. 45.
slealtà/scorrettezza, i.e. l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio. L’art. 2, lett. e) della direttiva (cui corrisponde, questa volta senza alcuna differenza, l’art. 18, lett e) cos. cons.) così definisce tale «falsare»:
«l’impiego di una pratica commerciale idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso»288. Alla lettura di tale disposizione va accompagnata quella del Considerando 18 della medesima direttiva che, avendo riguardo alla definizione di consumatore medio (con riferimento al quale deve essere valutata l’idoneità della pratica a falsare), introduce il concetto generale di «vulnerabilità» del consumatore, da valutare anzitutto con riferimento alla condizioni soggettive della
«informazione», della «attenzione» e della «avvedutezza»289. Al concetto di vulnerabilità rimanda altresì il considerando 19 («Qualora talune caratteristiche, quali età, infermità fisica o mentale o ingenuità, rendano un gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile ad una pratica commerciale o al prodotto a cui essa si riferisce […]») e l’art. 5, para 3 (art. 20, comma 3°, cod. cons.), che, in linea con tale ultimo considerando, dispone che le pratiche commerciali che sono idonee a influenzare in misura apprezzabile il comportamento economico di un gruppo di consumatori «particolarmente vulnerabili» a cagione di una
288 È da ritenersi che la formula legislativa di cui agli artt. 2, lett. e) della direttiva e 18, lett.
e) cod. cons. non introduca due requisiti (idoneità ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole» e capacità di indurlo a «assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso»). Il requisito sembrerebbe unico: la capacità di indurre il consumatore ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso si pone come concretizzazione dell’idoneità della pratica ad alterare sensibilmente una decisione consapevole (così X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1698). Nello stesso senso anche C. LO SURDO, o.u.c., p. 105. Per G. DE CISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., p. 131, a favore di tale opzione interpretativa depone la circostanza che nella definizione si afferma «inducendolo pertanto ad adottare…» (corsivo dell’Autore), anche se, per altro verso, tale interpretazione finirebbe per svilire il ruolo e la portata dell’avverbio «sensibilmente», usato dal legislatore comunitario allo scopo di escludere dal novero della pratiche sleali quelle prive di potenzialità pregiudizievoli rilevanti.
289 Così recita precisamente il considerando 18: «Conformemente al principio di proporzionalità, e per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione in essa previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali».
particolare loro caratteristica, deve essere valutata nell’ottica del membro medio di tale gruppo.
Ebbene, è stato efficacemente osservato come sia proprio tale concetto di vulnerabilità media a costituire il riferimento del dovere di attenzione e cura imposto al professionista: «il legislatore ha inteso dire che, nel porre in essere un’attività capace di influenzare le decisioni dei consumatori, il professionista deve con «competenza» rappresentarsi le condizioni soggettive di vulnerabilità decisionale dei consumatori, e che il professionista ha in questo senso un dovere di «attenzione nei confronti dei consumatori», cioè un dovere di prestare attenzione alle condizioni soggettive di vulnerabilità decisionale dei consumatori»290 .
In questo senso meglio si specifica anche la portata del richiamo al principio generale della buona fede: il professionista, correttamente rappresentatosi le condizione soggettive di vulnerabilità del consumatore medio, non deve approfittarne291, diversamente potendosi dire che questi abbia illegittimamente abusato del potere di influenzare il comportamento economico del consumatore. Detto ancora in altri termini, agire conformemente alla diligenza professionale (o buona fede) significa prestare «cura» e «attenzione» nella misura necessaria acchè il consumatore possa assumere proprie decisioni commerciali che siano autentiche292, frutto cioè di scelte libere e consapevoli perché assunte in condizioni (di informazione, attenzione, impressionabilità, etc.) non alterate.
Vale da ultimo precisare che, ai sensi della direttiva, le condizioni soggettive rilevanti perché il consumatore possa assumere una decisione commerciale «non falsata» non sono solamente quelle - quali l’«informazione», l’«attenzione» e l’«avvedutezza» (richiamate dal considerando 18) - necessarie per prendere una decisione consapevole. È senz’altro vero che gli artt. 2, lett. e) e 18, lett. e) cod. cons. fanno esclusivo riferimento all’incidenza della pratica sull’assunzione di una «decisione consapevole», mentre alcun espresso richiamo è
290 Così X. XXXXXXX, o.u.c., p. 135.
291 X. XXXXXXX, o.u.l.c.; X. XXXXXXX, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, p. 53.
292 Parla di «inautenticità» delle scelte del consumatore X. XXXXXXX, o.u.l.c.
compiuto all’attitudine della pratica a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore: ciò che ha indotto Xxxxxx ad affermare che, a rigore, un problema di sussumibilità nella nozione generale di pratica commerciale scorretta non potrebbe porsi per quelle pratiche che, senza alterare, falsare, omettere, o ridurre le informazioni di cui il consumatore necessita per prendere una decisione commerciale, incidono (limitandola o condizionandola) esclusivamente sulla libertà di scelta, indipendentemente dalla consapevolezza di questa293.
È non meno vero, però, che una tale conclusione sarebbe - come pure è stato osservato - «paradossale»: nella più generale nozione di pratica commerciale sleale/scorretta non sarebbero incluse le pratiche commerciali aggressive294; le quali, in effetti, per definizione normativa incidono sulla «libertà di scelta o di comportamento» del consumatore con condotte «moleste», di «coercizione», di
«violenza fisica» e di «indebito condizionamento» (artt. 8, 9 della direttiva e 24 cod. cons.)295, con riferimento alle quali il giudizio di vulnerabilità sociale è parametrato su condizioni soggettive diverse, quali l’«impressionabilità», la
293 Così G. DE XXXXXXXXXX, sub. art. 20, in Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., p. 159, per il Quale «le pratiche commerciali che incidono soltanto sulla libertà di scelta del consumatore senza compromettere la completezza e l’esattezza delle informazioni di cui egli dispone, se non rientrano in una delle previsioni della lista «nera» (art. 26 c. cons.) né si prestano a essere qualificate come «aggressive» a norma dell’art. 24 c. cons., non possono mai essere considerate «scorrette», dovendosi ritenere preclusa l’applicabilità della «nozione generale» di cui al 2° co. dell’art. 20 c.cons.»; cfr. ID, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale «sleale» e i parametri di valutazione della «slealtà», cit., p. 132 ss.
294 X. XXXXXXX, o.u.c., p. 1708. C. LO SURDO, sub art. 20, in Codice del consumo, cit., p. 105-106, definisce una tale interpretazione «inaccettabile»: «… rientrerebbero nella categoria delle pratiche sleali solo quelle aventi effetto sulla consapevolezza delle decisioni, e dunque solo le pratiche ingannevoli, rimanendone invece fuori quelle aggressive, specie quelle che, mediante molestie o la forza fisica, costringono il consumatore ad adottare, pur consapevolmente, una decisione diversa da quella che altrimenti avrebbero adottato». X. XXXXXXX, o.u.c., p. 139 osserva che la formulazione della definizione ex artt. 2 lett. e) della direttiva e 18, lett. e) cod. cons. (ove riferisce alla «decisione consapevole»), è spiegabile con la constatazione che storicamente il primo fronte di contrasto alle più evidenti e diffuse pratiche commerciali sleali si è costruito intorno al concetto di «asimmmetria informativa».
295 Cfr. anche il considerando 16 della direttiva: «Le disposizioni sulle pratiche commerciali aggressive dovrebbero riguardare le pratiche che limitano considerevolmente la libertà di scelta del consumatore. Si tratta di pratiche comportano ricorso a molestie, coercizione, compreso l'uso di forza fisica, e indebito condizionamento».