DIRITTO. Il Collegio ritiene il ricorso non meritevole di accoglimento. Deve premettersi che non può ragionarsi in merito ad una possibile applicazione dell’art. 56 cod. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare la sua tesi difensiva. La norma è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuato, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercente, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuite.
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DIRITTO. Il Collegio ritiene il ricorso ritiene, in via preliminare, di dovere esaminare la questione relativa alla sopravvenuta cancellazione dell’intermediario dall’elenco di cui all’art. 106 del t.u.b., avvenuta in data 10.1.17. Sebbene non meritevole eccepita dalle parti, la sopravvenuta cancellazione impone di accoglimento. Deve premettersi che non può ragionarsi in merito ad una possibile applicazione dell’art. 56 cod. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare verificare se permanga la sua tesi difensivalegittimazione passiva del resistente. La norma risposta al quesito è stata affermativa. Xxxx infatti interamente riscritta ritenersi che la legittimazione passiva si radica al momento della proposizione del ricorso e, quindi, non si perde a seguito della successiva cancellazione del resistente dall’albo degli intermediari ex artt. 106 e 107 t.u.b. (nello stesso senso Coll. Milano, n. 804 del 2014). Prima ancora di venire al merito della controversia occorre ancora sottolineare che al momento della sottoscrizione del contratto la società resistente non era autorizzata al rilascio di garanzie con la conseguenza che, se il contratto in esame dovesse essere inteso come una garanzia concessa dall’intermediario, verrebbe in rilievo il problema della validità del contratto in mancanza della prescritta autorizzazione per l’esercizio dell’attività. Ritiene il Collegio che l’assunzione dell’obbligo di acquisto dei crediti della ricorrente nei confronti del conduttore di un immobile di sua proprietà persegue indiscutibilmente la finalità di garantire il cedente per il caso di ritardo od inadempimento del conduttore, il che del resto ben si concilia con la causa variabile che caratterizza la cessione di credito. Viene, dunque, in rilievo il tema della illiceità dell’attività d’impresa svolta in mancanza delle prescritte autorizzazioni; illiceità che nel caso di specie darebbe luogo all’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 1132 t.u.b. per l’esercizio abusivo di attività finanziaria. Com’è noto un ormai risalente orientamento di dottrina e giurisprudenza esclude che dalla violazione delle disposizioni che dette autorizzazioni richiedono per l’esercizio dell’attività d’impresa possano prodursi conseguenze di rilievo in ordine alla stessa configurabilità della fattispecie-impresa ed alla applicabilità della disciplina ad essa eventualmente dedicata. Proprio in tema di esercizio dell’attività bancaria può considerarsi ormai acquisito il principio secondo cui l’esercizio di fatto dell’attività bancaria non esenta affatto l’imprenditore dall’applicazione delle disposizioni dettate dal testo unico bancario, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento né in cui si è verificata la vicenda, tale particolare della disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La dello stesso testo unico dedicata alla regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuato, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercente, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuitecrisi dell’impresa bancaria.
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DIRITTO. Il Collegio ritiene Sul ricorso presentato dallo SNALS, la Commissione osserva quanto segue. Va innanzitutto sottolineato che secondo l’unanime giurisprudenza "È inammissibile il ricorso proposto contro il rifiuto, espresso o tacito, di accesso a documenti amministrativi meramente confermativo di un precedente xxxxxxx non meritevole tempestivamente impugnato dall'interessato, potendo quest'ultimo reiterare l'istanza solo in presenza di accoglimentofatti nuovi, sopravvenuti o non, non rappresentati nell'originaria istanza, o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè della posizione legittimante all'accesso" (Consiglio di Stato, Sez. Deve premettersi V, 10/02/2009, n. 742; conforme: T. A. R. Lombardia - Milano, 19.05.2009, n. 3783). Nella fattispecie concreta, parte ricorrente non ha prodotto l’originaria domanda d'accesso, ma tuttavia il contenuto della seconda richiama quello della prima. In ogni caso, la Commissione rileva che parte ricorrente non può ragionarsi in merito ad una possibile applicazione definirsi soggetto “interessato” ai sensi dell’art. 56 cod22 comma 1 lett. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare b) della legge 241/90, difettando la sua tesi difensivasussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso richiesto. La norma è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi finalità dell’istanza di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuatoaccesso presentata appare, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercentenon strumentale alla tutela di una situazione giuridica collegata alla documentazione richiesta e all’esercizio delle prerogative proprie della sigla sindacale ricorrente. Essa appare, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuiteinvece - ed inammissibilmente – volta ad un dichiarato controllo generalizzato dell’attività della P.A. (art. 24 comma 3, L. 241/90).
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DIRITTO. La fattispecie portata all’esame della scrivente Commissione concerne l’accessibilità dei documenti coperti da segreto professionale, con particolare riferimento alla documentazione difensiva scaturente da rapporti tra amministrazione e Avvocatura dello Stato. Al riguardo il d.P.C.M. n. 200 del 1996 sottrae all’accesso i documenti in questione qualora essi siano preordinati alla fase difensiva nell’ambito di un contenzioso in atto. Il Collegio ricorrente, viceversa, sostiene di aver domandato gli atti posti in essere da parte resistente in via amministrativa precedenti all’instaurazione del contenzioso e che ha questo hanno portato in seguito. In realtà, dalla risposta fornita dall’amministrazione e dalla quale non si hanno elementi per discostarsi, risulta che i documenti oggetto della domanda siano direttamente riferibili proprio a rapporti difensivi con l’Avvocatura dello Stato. Pertanto, non si può accedere alla prospettazione del ricorrente il quale ritiene che il segreto professionale non sia invocabile con riferimento a documenti, anche coinvolgenti l’Avvocatura, ma che abbiano natura amministrativa precontenziosa. Parte resistente, invero, nega che la fattispecie sia nei termini prospettati dal ricorrente. Se il parere o il documento coinvolgente l’Avvocatura viene reso in una fase endoprocedimentale, prodromica quindi ad un provvedimento amministrativo, lo stesso è ammesso all’accesso mentre se viene reso in una fase contenziosa o anche precontenziosa, l’accesso è escluso a tutela delle esigenze di difesa (così, T.A.R. Lazio, Sez. III quater, n. 7930, 2008). Per questi motivi il ricorso non meritevole di accoglimento. Deve premettersi che non può ragionarsi in merito ad una possibile applicazione dell’art. 56 cod. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare la sua tesi difensiva. La norma è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore infondato e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuato, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercente, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuitedeve essere respinto.
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DIRITTO. Il Collegio La Commissione pur tenendo conto di quanto rappresentato dall’Amministrazione in ordine all’archiviazione del procedimento di trasferimento d’autorità, in ragione della sopravvenuta inidoneità al servizio del dipendente, ritiene il ricorso non meritevole di accoglimento. Deve premettersi Con riferimento alla sussistenza del diritto di accesso in capo al dipendente pubblico agli atti del proprio fascicolo personale o ai procedimenti che non può ragionarsi lo riguardano è costante l’avviso di questa Commissione (tra le altre, cfr. decisioni della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 14 giugno 2012 e seduta del 10 giugno 2015) e pacifica la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 aprile 2006, n. 2068; Cons. Stato Sez. IV, Sent., 13/01/2010, n. 63). Il pubblico dipendente è titolare, invero, di una posizione giuridicamente tutelata in merito ad una possibile applicazione dell’art. 56 cod. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare relazione alla conoscenza degli atti contenuti nei fascicoli che riguardano la sua tesi difensiva. La norma persona senza, tra l’altro, che ricorra la necessità per il medesimo di esternare espressamente la presenza di un concreto ed immediato interesse, atteso che la richiesta di accesso è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si per sé sufficientemente circoscritta ed è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso da qualificare di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuato, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercente, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuitenatura endoprocedimentale.
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DIRITTO. Il In via preliminare, il Collegio ritiene il ricorso non meritevole di accoglimento. Deve premettersi che non può ragionarsi che censurare e stigmatizzare il contegno tenuto dall’intermediario resistente, che esprime senza dubbio un comportamento altamente contrario ai principi e ai fini dell’Arbitro Bancario Finanziario (il cui primario scopo è di contribuire a dirimere le controversie attraverso la costruzione, o la “ricostruzione”, di un compiuto e trasparente dialogo fra clientela e intermediari), oltre che irrispettoso della stessa funzione del Collegio. Sempre in merito via preliminare e come correttamente evidenziato dall’ordinanza di rimessione, il Collegio rileva l’inammissibilità della domanda formulata in via subordinata dal ricorrente e diretta al rimborso delle commissioni e degli oneri accessori e del premio assicurativo secondo il criterio pro rata temporis, in quanto domanda avanzata per la prima volta con il ricorso. Come noto, secondo le Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari di Banca d’Italia, “Il ricorso deve avere ad una possibile applicazione dell’artoggetto la stessa questione esposta nel reclamo” (Sez. 56 codVI, par. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare la sua tesi difensiva1). La norma è stata infatti interamente riscritta controversia sottoposta all’esame del Collegio si limita, pertanto, al solo accertamento della nullità del contratto di finanziamento concluso con l’intermediario resistente per la violazione, lamentata dal ricorrente, delle previsioni di cui agli artt. 1, 2, 5, 39 e 40 del d.P.R. n. 180/1950. Al riguardo, come opportunamente rammentato dall’ordinanza di rimessione, questo Collegio ha già avuto occasione di pronunciarsi sulla violazione dei termini di cui all’art. 39 d.P.R. n. 180/1950, in caso di estinzione anticipata di un precedente contratto di finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio (o della pensione) per tramite della conclusione di un nuovo finanziamento stipulato prima del decorso, per l’appunto, del termine biennale o quadriennale stabilito dall’art. 139, comma 1, d.lgsd.P.R. n. 39/1950. 21 febbraio 2014In tale circostanza, il Collegio ha chiarito che la violazione dell’art. 39 d.P.R. n. 180/1950 integra “la violazione di norme comportamentali da parte dell’intermediario, e non [può] comportare, pertanto, un’ipotesi di nullità del contratto in base al disposto dell’articolo 1418 c.c., con particolare riferimento all’ipotesi di nullità per contrarietà a norme imperative prevista dal primo comma di tale disposizione, in relazione alla quale il Collegio conosce e condivide pienamente l’insegnamento della Giurisprudenza di legittimità in materia di nullità virtuale del contratto (cfr. Cass. Sez. Un. 19 dicembre 2007, n. 2126724)” (Collegio di Coordinamento, decisione n. 5762/2016). Sotto tale profilo, la lamentata violazione dei termini di cui all’art. 39 d.P.R. n. 180/1950 non può, pertanto, costituire, di per sé sola, ragione sufficiente di nullità del secondo contratto di finanziamento concluso dal ricorrente. Sul punto, né il ricorrente, né l’ordinanza di rimessione hanno, del resto, prospettato argomenti a sostegno della nullità virtuale del contratto ex art. 1418, primo comma, c.c. nuovi o diversi rispetto a quelli già esaminati da questo Collegio nella decisione sopra richiamata e tali da indurre il Collegio a rivalutare la questione. Come sottolineato dall’ordinanza di rimessione, la questione oggetto del caso di specie è parzialmente distinta da quella già decisa dal Collegio nella decisione sopra richiamata e attiene al “possibile cumulo” di due o più contratti di finanziamento contro cessione del quinto e, più specificamente, al conseguente “superamento del limite della quota cedibile” consentita, in termini generali, dall’art. 5 d.P.R. n. 180/1950. Più chiaramente, ci “si domanda insomma se”, come nel caso di specie, “possano o meno coesistere per la loro intera durata di ammortamento o per periodo di tempo limitati due o più contratti del medesimo tipo per come configurati dalla disciplina inderogabile di riferimento contenuta nel D.P.R. 180/1950 per le cessioni delle quote del quinto dello stipendio o della pensione”. Al riguardo, gli artt. 1 e 2 del d.P.R. n. 180/1950, invocati dal ricorrente, non appaiono rilevanti ai fini della decisione del caso in esame: l’art. 1 si limita a stabilire in generale il divieto di cessione dello stipendio, con decorrenza le eccezioni previste nelle disposizioni successive (spec. art. 5); mentre l’art. 2 si riferisce ai limiti di sequestro e pignoramento degli stipendi, sicché non riguarda la conclusione del contratto di cessione dello stipendio, ma i limiti all’esercizio dell’azione esecutiva o cautelare sulla quota dello stipendio oggetto di cessione. L’art. 5 d.P.R. n. 180/1950, invece, fissa l’eccezione al divieto dell’art. 1, consentendo la conclusione di contratti di finanziamento contro cessione dello stipendio purché la cessione negoziata abbia ad oggetto una quota non superiore al quinto della retribuzione. Ne consegue che se la cessione oggetto del contratto è limitata entro il quinto dello stipendio, il contratto è validamente concluso. Sotto questo profilo, il (secondo) contratto in questione è – in sé considerato – perfettamente valido, avendo ad oggetto la quota cedibile dello stipendio. Si tratta, pertanto, di verificare se la successione e il cumulo di due (o più) contratti di finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio, che, come nel caso di specie, congiuntamente considerati determinano una cessione di una quota complessiva dello stipendio (della pensione) superiore a quella consentita, possano determinare una (indiretta) violazione dell’art. 5 del d.P.R. n. 180/1950 e, in caso positivo, quali siano le conseguenze che da tale violazione discendono. Così ridefinita la questione da affrontare per la soluzione del caso di specie, il Collegio osserva, anzitutto, come sul punto non paiono assumere rilievo le disposizioni dell’art. 70 del d.P.R. n. 180/1950 (relative alla diversa ipotesi del concorso tra cessione e delegazione di pagamento), che l’articolata ordinanza di rimessione sottopone, invece, al Collegio in ragione della “possibilità di giungere ad una diversa conclusione” – rispetto a quella prospettata dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versioneCollegio di Napoli nelle decisioni richiamate dalla stessa ordinanza (decisioni n. 7104/2014, esso si occupava effettivamente del n. 450/2015) – “Pagamento mediante carta”in relazione all’individuazione dei responsabili, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recessoritenuta violazione, nel caso qui in esame, che riguarda peraltro un’ipotesi di cumulo omogeneo e non tra cessione e delegazione” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente della conseguente possibilità che si determini “un contrasto giurisprudenziale (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente…) in relazione assenza di una valutazione complessiva della disciplina di legge in materia, che appare di esclusiva competenza del Collegio di Coordinamento”. Secondo il Collegio di Napoli, i limiti previsti dall’art. 70 d.P.R. n. 180/1950 (secondo cui in “caso di concorso di cessione e delegazione, non può superarsi il limite della metà dello stipendio o salario se non quando l’amministrazione dalla quale l’impiegato o il salariato dipende ne riconosca la necessità e dia il suo assenso”) sono “comunque stabiliti ad esclusivo carico dell’amministrazione di appartenenza e datrice di lavoro del dipendente, nella sua qualità di ceduta ovvero di delegata al diritto pagamento. Non a caso è proprio ad essa che viene altresì imposto espressamente il rilascio della dichiarazione autorizzativa, tanto in via ordinaria, quanto in xxx xxxxxxxxxxxxx xx ricorrere delle eccezionali circostanze del caso, al fine di riaddebitoconsentire il Ciò chiarito, gli artt. L’intermediario ha effettuato39 e 40 d.P.R n. 180/1950 escludono una sovrapposizione di due (o più) contratti di finanziamento contro cessione del quinto, indipendentemente, peraltro, dal superamento della soglia del quinto prevista dall’art. 5 del medesimo decreto. Xxxxx restando i termini indicati dall’art. 39, commi 1 e 2, se il primo finanziamento non è stato estinto altrimenti (nel qual caso il termine per la conclusione di un nuovo contratto di finanziamento si riduce a un anno), il secondo finanziamento è (recte, deve essere) comunque destinato all’estinzione del primo, come chiaramente confermato anche dalle disposizioni dell’art. 40 e, in particolare, dall’obbligo del secondo mutuante di “pagare al primo cessionario” il credito residuo (art. 40, comma 3). Più chiaramente: i) l’art. 39, comma 1, ultima parte, d.P.R. n. 180/1950 disciplina l’ipotesi in cui il cliente richiede un nuovo (secondo) finanziamento, avendo già estinto il precedente. In tal caso, il cliente può stipulare il nuovo finanziamento decorso un anno dall’estinzione anticipata del primo, senza che si ponga, neppure in astratto, la questione, rilevante per la soluzione del caso di specie, di una violazione indiretta del limite stabilito dall’art. 5 d.P.R. n. 180/1950; ii) l’art. 39, comma 2, d.P.R. n. 180/1950 si riferisce, invece, all’ipotesi in cui l’estinzione del primo finanziamento avviene mediante il successivo finanziamento. In tal caso, il cliente può attivare il nuovo finanziamento soltanto dopo il termine di due o quattro anni previsto dall’art. 39, comma 1, d.P.R. n. 180/1950 (o anche prima del decorso del termine biennale, qualora il secondo contratto sia una “cessione decennale” stipulata “per la prima volta”, art. 39, comma 3). Il quadro normativo tracciato dagli artt. 39 e 40 d.P.R. n. 180/1950 non contempla, quindi, la permanenza di due (o più) contratti di finanziamento, benché nella seconda ipotesi sopra delineata (ii) non possa escludersi, in concreto, la permanenza di due cessioni e, quindi, per quanto qui più rileva, la possibile violazione indiretta dell’art. 5 del medesimo decreto. In tal caso, indipendentemente dalla qualificazione dell’art. 5 d.P.R. n. 180/1950 – e del limite del quinto da esso previsto – quale regola di condotta o, come pare più corretto, regola di validità del (successivo) contratto, la violazione indiretta dell’art. 5 d.P.R. n. 180/1950, attraverso la stipulazione di una successiva cessione che viene a cumularsi con quella precedente oltre la soglia del quinto, non è, in ogni caso, idonea a determinare la nullità del secondo contratto. Conformemente a quanto previsto, in linea generale, dallo stesso art. 1418, comma 1, c.c. (che esclude la nullità del contratto contrario a norme imperative - c.d. nullità virtuale - qualora “la legge disponga diversamente”), deve, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercenteosservarsi come sia lo stesso impianto normativo delineato dagli artt. 39 e 40 d.P.R. n. 180/1950 ad escludere che la violazione del limite stabilito dall’art. 5 d.P.R. n. 180/1950, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità in caso di prenotazione convenzionalmente pattuite.permanenza di due (o
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DIRITTO. Il Collegio ritiene Sul ricorso presentato dallo SNALS, la Commissione osserva quanto segue. Va innanzitutto sottolineato che secondo l’unanime giurisprudenza "È inammissibile il ricorso proposto contro il rifiuto, espresso o tacito, di accesso a documenti amministrativi meramente confermativo di un precedente diniego non meritevole tempestivamente impugnato dall'interessato, potendo quest'ultimo reiterare l'istanza solo in presenza di accoglimentofatti nuovi, sopravvenuti o non, non rappresentati nell'originaria istanza, o anche a fronte di una diversa prospettazione dell'interesse giuridicamente rilevante, cioè della posizione legittimante all'accesso" (Consiglio di Stato, Sez. Deve premettersi V, 10/02/2009, n. 742; conforme: T. A. R. Lombardia - Milano, 19.05.2009, n. 3783). Nella fattispecie concreta, parte ricorrente non ha prodotto l’originaria domanda d'accesso, ma tuttavia il contenuto della seconda richiama quello della prima. In ogni caso, la Commissione rileva che parte ricorrente non può ragionarsi in merito ad una possibile applicazione definirsi soggetto “interessato” ai sensi dell’art. 56 cod22 comma 1 lett. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare b) della legge 241/90, difettando la sua tesi difensivasussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale all’accesso richiesto. La norma è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi finalità dell’istanza di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuatoaccesso presentata appare, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercentenon strumentale alla tutela di una situazione giuridica collegata alla documentazione richiesta e all’esercizio delle prerogative proprie della sigla sindacale ricorrente. Essa appare, sostenendo che questi non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuiteinvece - ed inammissibilmente – volta ad un dichiarato controllo generalizzato dell’attività della P.A. (art. 24 comma 3, L. 241/90).
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DIRITTO. Il Collegio ritiene ricorso è fondato. L’organizzazione sindacale ricorrente ha chiesto di potere accedere agli indicati documenti al fine di potere svolgere l’attività sindacale e verificare eventuali “abusi” a danno dei lavoratori. Secondo il ricorso non meritevole costante orientamento della giurisprudenza “sussiste il diritto dell’organizzazione sindacale ad esercitare il diritto di accoglimentoaccesso per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l’ associazione. Deve premettersi Rileva, infatti, un duplice profilo di legittimazione che non può ragionarsi in merito ad consente di azionare il diritto di accesso da parte delle organizzazioni sindacali sia iure proprio, sia a tutela di interessi giuridicamente rilevati della categoria rappresentata” (C.d.S., Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 00024). Inoltre, secondo l’art. 2, comma 2 del d.P.R. n. 184 del 2006, il diritto di accesso “si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una possibile applicazione dell’art. 56 cod. cons. - disposizione richiamata dall’intermediario per corroborare la sua tesi difensiva. La norma è stata infatti interamente riscritta dall’art. 1pubblica amministrazione, di cui all’articolo 22, comma 1, d.lgslettera e), della legge, nei confronti dell’autorità competente a formare l’atto conclusivo o a detenerlo stabilmente”. 21 febbraio 2014Pertanto, n. 21parte resistente, con decorrenza dal 13 giugno 2014. Nella sua precedente versione, esso si occupava effettivamente del “Pagamento mediante carta”, disciplinando anche l’ipotesi di charge back. Nella sua nuova versione, vigente al momento in cui si è verificata la vicenda, tale disciplina non esiste più. La norma è rubricata adesso “Obblighi del professionista in caso di recesso” del consumatore e nulla più dispone in merito. La regolamentazione delle cd. clausole di riaddebito – ad eccezione delle ipotesi specificamente previste dalla legge – è dunque demandata all’autonomia negoziale. Appare dunque imprescindibile esaminare il regolamento dei rapporti tra esercente (odierna ricorrente) e emittente della carta di credito (odierna resistente) in relazione al diritto di riaddebito. L’intermediario ha effettuato, infatti, il charge back dell’importo precedentemente accreditato all’esercente, sostenendo che questi se non ha correttamente adempiuto alle modalità di prenotazione convenzionalmente pattuiteformato i documenti è tenuta a consentire l’accesso.
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