Common use of SOLUZIONE Clause in Contracts

SOLUZIONE. [1] L’assunto posto dai ricorrenti alla base della censura appena richiamata era che, nella fattispecie, non si trattasse della prova, indubbiamente non somministrabile per testes, di xxxxx aggiunti o contrari al contenuto del documento contrattuale versato in atti, bensì della prova, sicuramente ammessa anche per testimoni, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimo, ovverosia dell’effettiva volontà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegate. La prova testimoniale di cui la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità non sarebbe, insomma, servita per smentire il contenuto del documento contrattuale, bensì, più semplicemente, per precisarlo. Nel sindacare la fondatezza della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandum, il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362, c.c., a tenore del quale, nell’indagare su quella che sia stata la comune intenzione delle parti, necessario è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al di là del senso letterale delle parole utilizzate. E valorizzando, in obbedienza a questi criteri, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito della veranda senza nulla, al tempo stesso, comunicare in merito al suo carattere abusivo, la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare il dubbio che quella, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttorio: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come la Corte ha pianamente riconosciuto, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto di un determinato negozio documentalmente consacrato, mentre non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata del negozio in questione, attraverso l’accertamento degli elementi di fatto risultati determinanti nella formazione del consenso delle parti (il provvedimento richiama Xxxx., 22 febbraio 2017, n. 4601; ma v. pure Cass., 12 giugno 2012, n. 9526; Cass., 9 aprile 2008, n. 9243).

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SOLUZIONE. [1La Corte, riconoscendo la fondatezza del motivo di impugnazione, preliminarmente analizza le disposizioni normative applicabili[6] L’assunto posto dai ricorrenti e richiama la loro evoluzione operando, a supporto sella propria decisione, un raffronto con le analoghe previsioni quanto all’impresa agricola. Nel contempo evidenzia come i requisiti prescritti dalla legge, ed in modo particolare quelli alternativi[7], testimoniano l’intento del legislatore di incentivare, agevolandola, solo la start- up che sia effettivamente – non solo formalmente o statutariamente – e nel continuum[8] munita di una reale capacità innovativa, correlata alla base propria concreta attività[9]. Nel richiamare una parte minoritaria della censura appena richiamata era chegiurisprudenza di merito[10], che valorizza le disposizioni di carattere procedimentale per sostenere come “il dato formale dell’iscrizione della start-up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese costituirebbe in via esclusiva, esaurendolo, il presupposto della fruizione dei benefici di legge”, la Corte ritiene più condivisibile una lettura meno formalistica – e restrittiva – seguita dal Giudice di prime cure, così come dalla prevalente giurisprudenza di merito[11], per cui tale “iscrizione rappresenta una condizione certamente necessaria, ma non anche sufficiente a garantire l’applicazione della disciplina agevolata e, segnatamente, l’esonero dalla dichiarazione di fallimento”. Ciò in quanto, puntualizza la Corte, “dovendo essere sempre assicurato e verificato, nella fattispeciesede giudiziale specificamente preposta, non si trattasse della proval’effettivo e concreto possesso dei requisiti prescritti, indubbiamente non somministrabile per testes, di xxxxx aggiunti o contrari al contenuto del documento contrattuale versato in atti, bensì della prova, sicuramente ammessa anche per testimoni, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimo, ovverosia dell’effettiva volontà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegatedella loro formale attestazione e di un loro riscontro meramente cartolare”. La prova testimoniale di cui la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità non sarebbeSi osservi, insommaquindi, servita per smentire il contenuto del documento contrattuale, bensì, più semplicementecome ne derivi un obbligo, per precisarloil giudice, procedere a detta verifica in sede prefallimentare che in un’interpretazione ampia dell’indirizzo di Legittimità, potrebbe spingersi non solo ai due momenti statiti, riconducibili all’iscrizione ed all’esame in sede prefallimentare, ma anche nel continuum intercorso tra i due attesi gli effetti che derivano dal poter venir meno, anche temporaneo, dei prescritti requisiti di legge. Nel sindacare la fondatezza Merita attenzione il passo della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandumPronuncia in cui, il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362, c.c., a tenore del quale, nell’indagare su quella che sia stata la comune intenzione delle parti, necessario è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al di là del senso letterale delle parole utilizzate. E valorizzando, in obbedienza a questi criteri, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito apparendo quale elemento fondante della veranda senza nulla, al tempo stesso, comunicare in merito al suo carattere abusivo, la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare il dubbio che quella, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione rilevanza attribuita alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttorio: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come la Corte ha pianamente riconosciuto, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto di un determinato negozio documentalmente consacrato, mentre non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata del negozio materia in questione, attraverso l’accertamento degli elementi relativamente agli effetti derivanti da illeciti in materia di fatto risultati determinanti iscrizione non legittima, precisa come siano stati segnalati i rischi di abusi e turbative del mercato e della concorrenza, derivanti da un illegittimo beneficio di incentivi/ benefici fiscali, finanziari, in materia di lavoro e concorsuale. In primis la Corte sgombra il campo dalla «pretesa “presunzione di veridicità” dell’autocertificazione resa dal legale rappresentante della start-up innovativa»[12], indicando come non assuma dirimente neppure il conseguimento dell’iscrizione nella formazione sezione speciale del consenso Registro delle parti (imprese[13]. Le argomentazioni della Corte traggono riferimento dalla diversa posizione giuridica, proprio in ragione di espressa disposizione normativa[14], prevista in materia di impesa artigiana – sempre avuto riferimento alla fruibilità di agevolazioni – che comunque la Corte medesima ha interpretato nel senso che «integra un elemento necessario ma non sufficiente per definire l’impresa come artigiana, costituendo un “coelemento” della fattispecie acquisitiva della qualifica soggettiva … la cui sussistenza deve essere «verificata in concreto dal giudice»»[15]. Di rilevante interesse appare l’ulteriore considerazione dalla Corte[16], a supporto della scelta interpretativa operata, per la quale diversamente affermando “la sufficienza del mero dato formale” si verrebbe a collidere con “il potere del giudice di disapplicare il provvedimento richiama Xxxx.illegittimo, 22 febbraio 2017«in quanto adottato in assenza delle condizioni previste dalla legge …”[17]. Viene quindi analizzata la portata dell’attività di verifica amministrativa in sede di presentazione della domanda di iscrizione alla Sezione Speciale definita, n. 4601; ma v. pure Cass.dalla dottrina “controllo qualificatorio” che. secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito[18], 12 giugno 2012“è di tipo prettamente formale – così come di mera legalità è quello spettante in seconda battuta al Giudice del registro – in quanto limitato alla verifica della corrispondenza tipologica dell’atto da iscrivere a quello previsto dalla legge, n. 9526; Cass.senza alcuna possibilità di accertamento in ordine alla sua validità, 9 aprile 2008controllo invece riservato alla sede giurisdizionale contenziosa”. Chiarisce la Corte, n. 9243).quindi, come tali principi generali siano applicabili anche al controllo da operarsi in sede di iscrizione delle start-up innovative, derivandone come: a) il perimetro di competenza del Conservatore risulterebbe limitato alla carenza formale dei presupposti[19], b) restando esclusa ogni analisi nel merito delle dichiarazioni presentate[20],

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SOLUZIONE. [1] L’assunto posto dai ricorrenti La Corte ha accolto il proposto regolamento, osservando che l’accertamento, da parte della Corte d’appello, del credito opposto in compensazione in sede di verificazione del passivo fallimentare non potrebbe in ogni caso generare effetti vincolanti rispetto al giudizio, pendente davanti al Tribunale, ove dibattuta è l’estinzione dell’ipoteca: vuoi per difetto dell’indispensabile coincidenza dell’elemento soggettivo tra le due cause; vuoi per l’estraneità dello stesso credito al novero degli elementi di cui si compone la fattispecie costitutiva dell’ipoteca in discussione. A ciò si è aggiunto che, essendosi promossa la causa davanti al Tribunale a mezzo di ricorso ex art. 702-bis c.p.c., necessariamente avrebbe dovuto trovare applicazione il principio per cui, sussistendo le condizioni per far luogo alla base sospensione a norma, a seconda dei casi, degli artt. 295 ovvero 337 c.p.c., la stessa non potrebbe essere disposta se non previa conversione del rito – nella specie, evidentemente, mancata -, da sommario in ordinario. [2] Il giudice di legittimità non si è limitato, però, a quanto sopra, sottoponendo, ancorché non richiesto, al proprio sindacato critico il provvedimento sospensivo impugnato anche nella parte concernente il giudizio sul credito per il saldo prezzo della censura appena richiamata era chevendita immobiliare. Tra questa e la causa vertente, in appello, sullo stesso credito, ivi dedotto in compensazione, non intercorre una relazione di pregiudizialità-dipendenza, bensì di identità, non rilevando in senso contrario la circostanza dell’inversione del ruolo processuale delle parti nel passaggio dall’un giudizio all’altro. E questo fa sì che a ricevere applicazione, nella fattispecie, non si trattasse debba essere la disciplina della provalitispendenza ex art. 39, indubbiamente non somministrabile per testes1° comma, di xxxxx aggiunti o contrari al contenuto del documento contrattuale versato in atti, bensì della prova, sicuramente ammessa anche per testimoni, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimo, ovverosia dell’effettiva volontà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegate. La prova testimoniale di cui la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità non sarebbe, insomma, servita per smentire il contenuto del documento contrattuale, bensì, più semplicemente, per precisarlo. Nel sindacare la fondatezza della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandum, il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362, c.cc.p.c., a tenore del qualeciò non potendosi rinvenire ostacolo nel fatto della pendenza delle due cause in gradi differenti di giudizio, nell’indagare su quella dal momento che sia stata la comune intenzione anche in tal caso si profila quel rischio di duplicità di giudizi e confliggenti regolamentazioni dello stesso rapporto che soltanto l’eliminazione dalla scena di una delle partidue cause, necessario e non il suo artificioso mantenimento in vita sebbene nello stato di quiescenza, è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al in grado di là del senso letterale prevenire. Quale delle parole utilizzate. E valorizzandodue cause vada rimossa, mediante declaratoria della litispendenza e annessa cancellazione dal ruolo, è chiaramente, in obbedienza forza del criterio di prevenzione di cui a questi criteridetto art. 39, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito della veranda senza nulla1° comma, c.p.c., quella radicata davanti al tempo stesso, comunicare in merito tribunale: al suo carattere abusivo, qual riguardo la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare il dubbio di poter provvedere direttamente e “in prima persona”, senza bisogno di rinviare la causa al giudice di merito, nell’esercizio dei poteri attinenti alla prosecuzione del processo che quellale sono conferiti dal successivo art. 49, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttorio: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come la Corte ha pianamente riconosciuto, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto di un determinato negozio documentalmente consacrato, mentre non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata del negozio in questione, attraverso l’accertamento degli elementi di fatto risultati determinanti nella formazione del consenso delle parti (il provvedimento richiama Xxxx3° comma., 22 febbraio 2017, n. 4601; ma v. pure Cass., 12 giugno 2012, n. 9526; Cass., 9 aprile 2008, n. 9243).

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SOLUZIONE. [1] L’assunto posto dai ricorrenti alla base La Cassazione ritiene fondate le censure avanzate, analizzate e risolte congiuntamente. Anzitutto, la Suprema Corte ha ricordato le soluzioni interpretative vigenti in tema di mediazione quale condizione di procedibilità della censura appena richiamata era chedomanda giudiziale. In particolare, nella fattispecie, non si trattasse della prova, indubbiamente non somministrabile per testes, di xxxxx aggiunti o contrari al contenuto del documento contrattuale versato in atti, bensì della prova, sicuramente ammessa anche per testimoni, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimo, ovverosia dell’effettiva volontà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegate. La prova testimoniale di cui con la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità non sarebbe, insomma, servita per smentire il contenuto del documento contrattuale, bensì, più semplicemente, per precisarlo. Nel sindacare la fondatezza della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandum, il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362, c.c., a tenore del quale, nell’indagare su quella che sia stata la comune intenzione delle parti, necessario è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al di là del senso letterale delle parole utilizzate. E valorizzando, in obbedienza a questi criteri, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito della veranda senza nulla, al tempo stesso, comunicare in merito al suo carattere abusivosentenza n. 8473/2019, la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare affermato che la condizione di procedibilità può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore, qualora una o entrambe le parti, richieste dal mediatore dopo essere state adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la propria indisponibilità di procedere oltre. Inoltre, le Sezioni Unite, con sentenza n. 19596/2020, hanno poi chiarito che la parte onerata della presentazione della domanda di mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28/20210 nei casi di opposizione a decreto ingiuntivo, sia il dubbio che quellacreditore opposto. In tale contesto viene affrontata la medesima questione, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione con riferimento tuttavia alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttoriofattispecie della mediazione delegata: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come ritiene la Corte che, in tale evenienza, al fine di stabilire se si sia verificata o meno la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, debba aversi riguardo alla specifica prescrizione di legge secondo la quale “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda” (art. 5, 2°co., d.lgs. n. 28/2010) e che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo” (art. 5, comma 2-bis, d.lgs. n. 28/2010). Secondo la Corte, tali indici normativi rappresentano univoche indicazioni con le quali il legislatore ha pianamente riconosciutointeso riconnettere la statuizione giudiziale sulla procedibilità della domanda al solo evento dell’esperimento del procedimento di mediazione e non al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di mediazione. Coerentemente, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto rilevato come, nel caso di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolospecie, il contenuto procedimento di un determinato negozio documentalmente consacratomediazione avesse indubbiamente avuto luogo entro l’udienza di rinvio fissata dal giudice, mentre la Corte rileva come non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata potesse essere pronunciata l’improcedibilità della domanda; ne consegue l’accoglimento del negozio in questionericorso proposto, attraverso l’accertamento degli elementi con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’Appello di fatto risultati determinanti nella formazione del consenso delle parti (il provvedimento richiama XxxxBologna., 22 febbraio 2017, n. 4601; ma v. pure Cass., 12 giugno 2012, n. 9526; Cass., 9 aprile 2008, n. 9243).

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SOLUZIONE. [1] L’assunto posto dai ricorrenti Il ragionamento che ha consentito al giudice di legittimità di pervenire alla base conclusione testé riferita, può essere articolato come segue. Premesso come non potessero, nella specie, reputarsi sussistenti i presupposti legittimanti la rinnovazione della censura appena richiamata era notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.; e così stabilito, pertanto, che, persistendo il ricorrente nell’aspirazione ad una pronuncia sul merito del gravame interposto, quella della remissione in termini si sarebbe profilata come la via obbligata da percorrere: la Corte ha in certo senso invertito l’ordine logico delle questioni, sottoponendo anzitutto ad esame l’istanza di restituzione nei termini formulata in subordine, ossia, come dianzi riportato, ai fini dell’acquisizione della prova documentale attestante l’avvenuta e tempestiva notifica del ricorso. In proposito, il supremo giudice rammenta che, se la legge non prescrive che al deposito di quel supporto documentale si debba far luogo unitamente a quello dell’atto d’impugnazione, esso, però, soggiace a un preciso limite, rappresentato dall’udienza di discussione. E il ricorrente che non sia in grado di assolvere al proprio onere probatorio nel rispetto di quel limite, non può limitarsi a chiederne lo spostamento, ovverosia a chiedere un mero rinvio dell’udienza, cui drasticamente osta il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost.: deve necessariamente adire le vie della rimessione in termini di cui all’art. 153 c.p.c. Il problema è, però, che, nel caso di specie – notificazione a mezzo posta e mancata restituzione al notificante dell’avviso di ricevimento, con annessa necessità, per quello stesso soggetto, di procurarsi un duplicato dell’avviso in oggetto mediante richiesta all’operatore postale nei modi di cui al citato art. 6 l. n. 890/1982 -, è principio saldamente acquisito che le vie della rimessione in termini siano proficuamente percorribili solamente in quanto la parte interessata possa allegare di essersi tempestivamente attivata ai fini del rilascio del duplicato de quo: ciò che, nella fattispecie, risultava escluso addirittura per tabulas, dal momento che la richiesta inoltrata a quel fine all’Amministrazione postale recava una data di oltre sei anni successiva a quella di spedizione del plico contenente il ricorso di legittimità. La Corte non si trattasse della provaè, indubbiamente non somministrabile per testesviceversa, misurata direttamente con la richiesta, esperita in via principale, di xxxxx aggiunti o contrari rimessione in termini per la rinnovazione della notifica del ricorso, limitandosi, a questo riguardo, a richiamare quell’altro suo insegnamento, di portata più generale, per cui, nell’ipotesi di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al contenuto del documento contrattuale versato in attinotificante, bensì quest’ultimo, ove intenda conservare gli effetti della provarichiesta originaria, sicuramente ammessa anche per testimoniè tenuto a riattivare il procedimento notificatorio con assoluta immediatezza, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimosenza, ovverosia dell’effettiva volontà tendenzialmente, superare il limite temporale pari alla metà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegate. La prova testimoniale termini di cui all’art. 325 c.p.c. Il principio non si attaglia esattamente alla fattispecie in rassegna. Ma lecito è pensare che, nel rinviare ad esso, la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità abbia inteso applicarne alla fattispecie la ratio, così che l’immediatezza dell’attivazione di parte, nel rispetto dello stringente limite temporale di cui appena si è detto, abbia a condizionare non sarebbesoltanto la proficuità della ripresa di un procedimento notificatorio dianzi non giunto a buon fine ma altresì l’accoglibilità dell’istanza di rimessione in termini che si renda del caso, insommaa quello scopo, servita per smentire il contenuto del documento contrattualenecessaria: quanto, bensìnel caso di specie, più semplicemente, per precisarlo. Nel sindacare la fondatezza della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandum, il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362condannare all’insuccesso l’iniziativa spiegata a tal fine dal ricorrente, c.canche sotto questo profilo colpevole di aver atteso oltre sei anni prima di mettersi in moto per la tutela delle proprie ragioni., a tenore del quale, nell’indagare su quella che sia stata la comune intenzione delle parti, necessario è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al di là del senso letterale delle parole utilizzate. E valorizzando, in obbedienza a questi criteri, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito della veranda senza nulla, al tempo stesso, comunicare in merito al suo carattere abusivo, la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare il dubbio che quella, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttorio: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come la Corte ha pianamente riconosciuto, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto di un determinato negozio documentalmente consacrato, mentre non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata del negozio in questione, attraverso l’accertamento degli elementi di fatto risultati determinanti nella formazione del consenso delle parti (il provvedimento richiama Xxxx., 22 febbraio 2017, n. 4601; ma v. pure Cass., 12 giugno 2012, n. 9526; Cass., 9 aprile 2008, n. 9243).

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SOLUZIONE. [1] L’assunto posto dai ricorrenti La Suprema Corte ha riconosciuto la fondatezza del ricorso per regolamento sottoposto alla base sua attenzione: e questo, in nome di un’interpretazione rigorosamente restrittiva dell’art. 355 c.p.c., tale per cui, se la norma ammette che il giudice dell’appello sia tenuto a sospendere il giudizio nel caso un documento rilevante per la decisione sia stato oggetto di querela di falso proposta in via incidentale al giudizio medesimo, allora è da ritenersi, in nome del principio inclusio unius, exclusius alterius, che la sospensione non possa essere ordinata nell’opposta eventualità, concretatasi nella fattispecie in esame, di querela di falso esperita in via autonoma o principale. A dispetto delle apparenze, nessuno spunto di segno contrario, a detta della censura appena richiamata era cheCorte, sarebbe ricavabile dagli artt. 221, 1° co., e 295 c.p.c. Xx invero, quanto alla prima di tali disposizioni, essa si limiterebbe a sancire la piena libertà di scelta, per la parte interessata ad impugnare di falso un certo documento in pendenza del giudizio d’appello, tra l’interposizione della querela di falso in via incidentale al giudizio pendente e la sua proposizione come azione autonoma, senza che nulla, però, se ne possa inferire quanto alle ripercussioni della scelta concretamente effettuata sulle sorti del giudizio in atto: onde la necessità di far capo, a codesto fine, al predetto art. 355 c.p.c., con tutto quanto ne consegue in termini di sospensione dell’appello pendente nella fattispeciesola ipotesi di querela esercitata in via incidentale. Laddove, trascorrendo al successivo art. 295, è vero che questo pone come regola generale quella della sospensione necessaria del processo dipendente in attesa della decisione sul processo pregiudiziale; ma, proprio perché si tratta di regola generale, essa sarebbe inesorabilmente destinata a cedere il passo, ove se ne realizzi lo specifico presupposto applicativo, di fronte a una disciplina, come quella del suddetto art. 355 c.p.c., che indiscutibilmente si profila al riguardo come lex specialis. La Corte non si trattasse nasconde, poi, che la lettura da essa accolta della provanorma da ultima richiamata potrebbe originare un conflitto tra il giudizio di falso e quello di merito pendente (e liberamente proseguito) in fase impugnatoria. Ma si tratterebbe, indubbiamente non somministrabile per testesa suo dire, di xxxxx aggiunti o contrari al contenuto conflitto pianamente componibile sulla base delle norme generali e nei termini, testualmente, per cui: – «a) se si conclude per primo il giudizio di xxxxxxx (fondato sull’assunto dell’autenticità del documento contrattuale versato in atticontestato), bensì e successivamente venga accertata nel separato giudizio di falso l’apocrifia del documento, la sentenza d’appello potrà essere rimossa con lo strumento della provarevocazione ai sensi dell’art. 395, sicuramente ammessa anche per testimonin. 2, dell’effettivo contenuto di quel documento medesimo, ovverosia dell’effettiva volontà dei paciscenti al di là delle parole concretamente impiegate. La prova testimoniale di cui la Corte d’appello aveva escluso l’ammissibilità non sarebbe, insomma, servita per smentire il contenuto del documento contrattuale, bensì, più semplicementec.p.c., per precisarlo. Nel sindacare la fondatezza della ricostruzione offerta dai ricorrenti del thema probandum, avere il giudice di legittimità non poteva che attenersi ai canoni dell’interpretazione contrattuale dettati dall’art. 1362, c.c., provveduto “in base a tenore del quale, nell’indagare su quella che sia stata prove (…) dichiarate false dopo la comune intenzione delle parti, necessario è valutare il comportamento dalle stesse tenuto al di là del senso letterale delle parole utilizzate. E valorizzandosentenza”; Nulla, in obbedienza a questi criteridefinitiva, il fatto che l’appartamento fosse stato mostrato ai futuri acquirenti come fornito della veranda senza nulla, al tempo stesso, comunicare si opporrebbe all’esegesi restrittiva dell’art. 355 c.p.c. condensata nella massima enunciata in merito al suo carattere abusivo, la Corte ha ritenuto come ben si potesse sollevare il dubbio che quella, ancorché non espressamente menzionata, fosse elemento integrante del compendio posto in vendita, a maggior ragione in relazione alla clausola contrattuale per cui quel compendio doveva intendersi trasferito «nello stato di fatto e di diritto in cui si trova[va]». Necessario si rendeva, a quel punto, un approfondimento istruttorio: e trattandosi di approfondimento finalizzato non già a sconfessare il contenuto di un documento ma ad esplicitarne il significato, nulla poteva impedire il ricorso a quel fine alla prova testimoniale, come la Corte ha pianamente riconosciuto, uniformandosi a quel suo costante insegnamento per cui il divieto di avvalersi di quello strumento sancito dall’art. 2722 c.c. concerne esclusivamente gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto di un determinato negozio documentalmente consacrato, mentre non investe affatto la prova diretta a individuare la reale portata del negozio in questione, attraverso l’accertamento degli elementi di fatto risultati determinanti nella formazione del consenso delle parti (il provvedimento richiama Xxxxepigrafe., 22 febbraio 2017, n. 4601; ma v. pure Cass., 12 giugno 2012, n. 9526; Cass., 9 aprile 2008, n. 9243).

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