Segue. I rimedi. Nella versione originale della norma, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta a ottenere la declaratoria di nullità del patto attraverso il quale l’abuso aveva trovato realizzazione. La disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella dottrina, soprattutto civi- listica, la quale s’era lungamente interrogata circa la natura di questa nullità e la conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa la tesi della natura pro- tettiva di tale nullità, argomentata sulla base di operazioni di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite (65). Era poi stato il legislatore, ad appena tre anni di distanza, a novellare l’art. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità del patto. In particolare, come è emerso anche dai paragrafi precedenti, le azioni in materia di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelare, in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio in sede di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità di una tutela anticipatoria di condanna a un facere infungibile, sotto il profilo della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoli. In ordine alla risoluzione in senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitorio, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibili. In ordine alla seconda questione si è invece valo-
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Samples: L’abuso Di Dipendenza Economica
Segue. I rimedila rinuncia all’azione di riduzione verso corrispettivo o la sua cessione onerosa. Nella versione originale della norma– Una prima differenza tra accordo di integrazione e rinuncia all’azione di riduzione verso corrispettivo si rinviene nell’assenza, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta in quest’ultimo caso, di un momento determinativo avente ad oggetto la lesione. Poiché si è visto che detto momento caratterizza necessariamente l’accordo di integrazione, ne discende l’estraneità tra essa e la rinuncia verso corrispettivo. Si consideri poi la diversità sul piano strutturale: con l’accordo di integrazione, il legittimario soddisfa la propria legittima per mezzo di un atto di trasferimento causalmente orientato in tal senso e, come conseguenza, è lo stesso interesse ad agire in riduzione a ottenere la declaratoria di nullità del patto attraverso il quale l’abuso aveva trovato realizzazionerisultare carente. La disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella dottrinarinuncia verso corrispettivo, soprattutto civi- listicaal contrario, manifesta una diversa intenzione, e cioè dismettere l’azione di riduzione in cambio di una prestazione76. Qui la quale s’era lungamente interrogata circa la natura prestazione costituisce il “prezzo” della rinuncia e dipende da una valutazione economica liberamente convenuta tra le parti, che si agita nell’ambito del conflitto economico tra le medesime e che prescinde dall’attività conoscitiva di questa nullità e la conseguente disciplina applicabilecui si diceva. Era prevalsa la tesi Allo stesso modo del prezzo della natura pro- tettiva di tale nullità, argomentata sulla base di operazioni di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite (65). Era poi stato il legislatore, ad appena tre anni di distanza, a novellare l’art. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità del patto. In particolare, come è emerso anche dai paragrafi precedentivendita, le azioni in materia parti non potranno ordinariamente lamentarsi della inadeguatezza del valore dei diritti ceduti. Infine, un’ulteriore differenza si ravvisa rispetto all’accordo di abuso integrazione non ulteriormente qualificato. Quest’ultimo non preclude al legittimario la richiesta di dipendenza economica sono un’ulteriore integrazione, qualora dovessero emergere altre attività nel patrimonio del defunto di regola precedute da una fase cautelarecui possa dare prova. Con la rinuncia all’azione, invece, è definitivamente preclusa ogni futura ed eventuale richiesta di dare o di avere tra le parti, limitatamente alla lesione di legittima: l’azione infatti è qui dismessa nella sua interezza. Tale ultima differenza peraltro sfuma nel caso in cui il provvedimento richiesto mira normalmente l’accordo di integrazione preveda anche la reciproca rinuncia ad eventuali sopravvenienze attive o passive. Rimangono comunque le differenze strutturali e causali sopra citate. Analogo ragionamento può svolgersi con riferimento alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio in sede cessione onerosa dell’azione di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità di una tutela anticipatoria di condanna a un facere infungibile, sotto il profilo della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoli. In ordine alla risoluzione in senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitorio, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibili. In ordine alla seconda questione si è invece valo-riduzione.
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Segue. I rimediIl regime delle reti prive di soggettività. Nella versione originale Gli esiti appena tracciati abbisognano, per vero, di importanti precisazioni a proposito dell’ipotesi che si verifica quando il conferimento alla rete, com’è possibile per testuale previsione normativa, avviene mediante l’apporto di un patrimonio destinato ai sensi dell’art. 2447-‐bis, 1° comma, lett. a), c.c. Ma si tratta di un tema che approfondiremo nel prossimo paragrafo. Interessa qui soffermarsi, invece, sulle reti prive di soggettività, benché dotate di organo e fondo comune: sono queste le reti con elementi di organizzazione, secondo la terminologia da noi utilizzata. Anche rispetto ad esse vale la regola secondo cui «per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune». E tuttavia bisogna chiedersi quale sia, in tal caso, il punto di riferimento soggettivo di codeste obbligazioni. Dato che manca la soggettività, per espresso volere del legislatore, non si potrà considerarle come obbligazioni propriamente della normarete, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta a ottenere la declaratoria e cioè di nullità del patto attraverso un ente diverso dalle imprese retiste, né esse saranno da imputare al soggetto che svolge l’ufficio di organo comune, il quale l’abuso aveva trovato realizzazioneagisce – salvo ciò che si dirà nel paragrafo successivo – in nome altrui e più precisamente, qui, in rappresentanza dei partecipanti al contratto di rete. Si tratterà di obbligazioni proprie, dunque, delle imprese retiste: ognuna di queste imprese o alcune soltanto a seconda che l’organo comune abbia speso, genericamente, il nome della rete e 110 Può restare qui impregiudicata la questione, a cui poc’anzi s’è fatto cenno a proposito dei consorzi, se debitore principale (e, più latamente, titolare dei rapporti contrattuali assunti dall’organo comune) sia le rete stessa o la singola impresa aderente nel cui interesse l’atto è stato compiuto. In questo secondo senso, rispetto ai consorzi, si veda XXXXXXXXX, La cooperazione tra imprenditori, cit., p. 286, il quale afferma che le obbligazioni assunte dagli organi consortili per conto di singoli consorziati sarebbero «giuridicamente imputabili solo a costoro, con l’aggiunta di una responsabilità sussidiaria, a mero titolo di garanzia, del fondo consortile». Il tema – si può aggiungere – presenta interessanti connessioni con la problematica del significato da riconoscere alla particolare regola, sugli effetti dell’agire dell’institore, codificata nell’art. 2208 c.c.: sia consentito ancora il rinvio, sul punto, a DELLE MONACHE, La 111 Sulla nozione dell’agire per conto altrui, LUMINOSO, Xxxxxxx, commissione, spedizione, in Trattato di dir. civ. e comm. già diretto da X. Xxxx e X. Xxxxxxxx, continuato da X. Xxxxxxx, Milano, 1984, p. 1 ss. così il nome di tutte ovvero abbia agito in rappresentanza solo di taluni tra coloro che formano l’aggregazione imprenditoriale (112). Ciò posto, parrebbe dunque che ci si trovi di fronte, per le reti dotate di elementi di organizzazione, ma prive di soggettività, ad una significativa deroga al principio di cui all’art. 2740 c.c. (113). Le obbligazioni contratte dall’organo comune – abbiamo detto – sono obbligazioni che si collocano in capo ai singoli partecipanti alla rete, ma la correlativa responsabilità – dice la legge – è limitata al fondo comune. Sembra che si verifichi, pertanto, una situazione consimile a quella determinata, rispetto alle società per azioni, dalla costituzione di un patrimonio destinato (114). Invero, ai sensi dell’art. 2447-‐quinquies, 3° comma, c.c., «per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare», le quali sono certamente obbligazioni della società, questa risponde «nei limiti del patrimonio ad esso destinato». Sennonché occorre tener presente il richiamo compiuto dal legislatore all’art. 2615, 2° comma, c.c., quale disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella certamente applicabile, come meglio diremo (115), anche alle reti prive di soggettività ed il cui significato, a proposito dei consorzi, sta nel rendere obbligate e comunque responsabili, in solido con il fondo, le singole imprese per conto delle quali gli organi consortili abbiano agito. Mentre la spendita del nome delle imprese retiste, dunque, determina l’imputazione soggettiva in capo ad esse delle obbligazioni contratte dall’organo della rete, è solo l’agire per conto altrui l’elemento capace di smarcare la responsabilità dal suo confinamento entro i limiti del fondo comune, determinandone l’estensione ai patrimoni dei singoli partecipanti all’aggregazione imprenditoriale. Con questa conseguenza: che, nei consorzi, risponderanno delle obbligazioni assunte anche le imprese per conto delle quali l’organo abbia agito, nonostante non ne sia stato speso il nome (116), laddove, nelle reti prive di soggettività, l’agire per conto altrui funziona da criterio che rende piena la responsabilità delle imprese retiste titolari delle obbligazioni contratte in loro nome dall’organo comune (117). Ciò posto, le premesse del discorso rimandano, qui, alla distinzione concettuale tra “agire in nome altrui” e “agire per conto altrui”, nonché alle possibili combinazioni tra l’uno e l’altro, tenendo presente che, in dottrina, soprattutto civi- listicagià da tempo è stato dimostrato come, la quale s’era lungamente interrogata circa la natura di questa nullità accanto ai più noti moduli dell’agire in nome e la conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa la tesi della natura pro- tettiva di tale nullitàper conto altrui e dell’agire in nome proprio ma per conto altrui, argomentata sulla base di operazioni di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite sia isolabile anche l’ipotesi dell’agire in nome altrui ma per conto proprio (65118). Era poi stato il legislatore112 Cfr. XXXXXXX, ad appena tre anni Reti e contratto di distanzarete, a novellare l’artcit., p. 81. 9113 In tal senso, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie SCIUTO, Imputazione e inibitorieresponsabilità nel contratto di rete, cit., spec. L’esperienza applicativa maturata negli anni ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità del patto. In particolare, come è emerso anche dai paragrafi precedenti, le azioni in materia di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelare, in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio in sede di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità di una tutela anticipatoria di condanna a un facere infungibile, sotto il profilo della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoli. In ordine alla risoluzione in senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitoriop. 106, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti sulla base del testo di merito ottenibili dall’im- presa dipendentelegge uscito dalla novella del 2010, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibiliindividuava nel fondo comune «un patrimonio separato e non entificato». In precedenza, dopo la modifica con cui venne introdotto il richiamo agli artt. 2614 e 2615 c.c., IAMICELI, Contratto di rete, fondo comune e responsabilità patrimoniale, cit., p. 80. 114 Si veda, infatti, ancora XXXXXX, Imputazione e responsabilità nel contratto di rete, cit., p. 89 s. nt. 45. 115 Si rimanda, in proposito, al § 9. 116 V., tuttavia, VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Tratt. di dir. comm. e di dir. pubbl. dell’economia diretto da X. Xxxxxxx, Padova, 1981, p. 317 ss. ed ivi 420, secondo cui il dettato dell’art. 2615, 2° comma, c.c. opererebbe sul presupposto che il consorzio abbia anche speso il nome del singolo consorziato per conto del quale agisce. 117 Quanto all’ipotesi, poi, dell’agire dell’organo comune in nome proprio, x. xxxxx, § 0. 000 Xxx tema è decisivo il contributo di XXXXXXXX, Mandato, commissione, spedizione, cit., p. 1 ss. Xxxxxx, è proprio questa ipotesi a rivelarsi interessante, poiché suggerisce, a proposito del tema su cui stiamo ragionando, che non necessariamente la spendita del nome delle imprese retiste significherà che l’organo comune abbia agito anche per conto di ciascuna di esse. Il problema – occorre precisare – è pur sempre quello delle «obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete». Al contrario, qualora l’organo non agisca dando seguito al programma stabilito dalle imprese retiste, e perciò in attuazione del contratto di rete, ma ponga in essere negozi estranei al suo oggetto, si tratterà di capire se esso, nei singoli casi, possa ritenersi comunque dotato della legittimazione necessaria, con la conseguenza, se questa sussiste, che le obbligazioni assunte in nome degli aderenti alla rete, o di taluni soltanto tra costoro, impegneranno la responsabilità patrimoniale di ciascuno secondo i principi (art. 2740 c.c.). Qui occorre invece riflettere – come si ripete – in ordine alle obbligazioni contratte in relazione al programma di rete, rispetto alle quali la legge stabilisce che «in ogni caso … i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune»: laddove la perentorietà del dettato normativo («in ogni caso») va però valutata tenendo conto degli esiti cui conduce, riguardo al problema in esame, il contestuale richiamo all’art. 2615, 2° comma, c.c. Ora, il fatto che nelle reti prive di soggettività – come si diceva – l’organo comune, quando agisce in rappresentanza della rete, contraendo obbligazioni connesse al programma, determini l’imputazione di queste obbligazioni in capo alle singole imprese retiste, rese così debitrici di fronte al terzo, ancora non significa che queste imprese rispondano dell’adempimento di tali obbligazioni con l’intero loro patrimonio, poiché è solo sulla scorta dell’agire per conto, non in virtù del semplice agire in nome altrui, che può sorgere la responsabilità piena, secondo il dettato dell’art. 2615, 2° comma, c.c., a superamento della sua perimetrazione entro i limiti del (conferimento al) fondo comune (119). Nondimeno è importante chiedersi come sia distribuito l’onere della prova in questa materia, un tale interrogativo parendo essenziale, per vero, al fine di cogliere esattamente gli equilibri determinati dalla dialettica tra il principio, stabilito dalla legge, della localizzazione della responsabilità sul fondo comune e il richiamo al più volte citato cpv. dell’art. 2615 c.c. Di nuovo torna utile il confronto con i consorzi con attività esterna. Come già abbiamo detto, le obbligazioni sorte per effetto degli atti compiuti dagli organi consortili in nome del consorzio sono obbligazioni destinate a collocarsi in capo a quest’ultimo, con la conseguenza che la garanzia patrimoniale ad esse inerenti sarà costituita dal fondo comune. Nessun dubbio può sorgere, dunque, in ordine al fatto che tocchi al terzo creditore, il quale pretenda di far valere il proprio diritto nei confronti di uno dei 119 È soltanto in questi termini che la disciplina dedicata al contratto di rete introduce un’eccezione al principio di cui all’art. 2740 c.c., mentre è eccessivo affermare che «la misura massima della responsabilità … dei debitori, viene costantemente a coincidere con quella della garanzia precostituita ed esistente» (SCIUTO, Imputazione e responsabilità nel contratto di rete, cit., p. 106). consorziati, allegare e dimostrare che l’atto da cui l’obbligazione consortile origina è stato compiuto dagli organi del consorzio per conto di quel consorziato (120). La situazione si presenta invece in termini rovesciati a proposito delle obbligazioni assunte, in relazione al programma comune, dall’organo di una rete di imprese non soggettivata. Tali obbligazioni, se l’organo spende il nome della rete, saranno obbligazioni da imputare alle singole imprese retiste, come più volte ripetuto. E sembra difficile negare che, secondo l’id quod plerumque accidit (121), chi spende il nome altrui agisca anche per conto del soggetto il cui nome viene speso, sicché la spendita del nome è un dato che può considerarsi sufficiente, in generale, a fondare una presunzione di appartenenza dell’atto alla sfera di interessi del soggetto reso destinatario dei suoi effetti giuridici (122). Tanto più che – come già accennato – nulla esclude che l’organo comune, anziché spendere genericamente il nome della rete, possa agire in rappresentanza, nei singoli casi, anche di alcune soltanto delle imprese retiste (123). La spendita del nome è modulabile, in altre parole, in guisa da poter determinare o no il diretto coinvolgimento nei rapporti con il terzo di tutti gli aderenti alla rete, ciò suonando a conferma della sua idoneità, appunto, a fungere da elemento (sia pure solo presuntivo) di riscontro in ordine alla seconda riferibilità soggettiva dell’atto nella sua valenza economico-‐sostanziale. Sarà la singola impresa retista, in definitiva, a dover dimostrare che, nonostante l’organo comune ne abbia speso il nome nel compimento di un determinato atto esecutivo del programma comune, questo non è stato posto in essere per suo conto, non sussistendo dunque i presupposti per l’allargamento della responsabilità al proprio patrimonio secondo quanto previsto dall’art. 2615, 2° comma, c.c. Ci si potrebbe anzi domandare se l’estraneità dell’impresa rispetto all’atto pur compiuto in suo nome, per poter rilevare nel senso detto, debba essere stata percepita o almeno percepibile dal terzo, non potendo altrimenti essergli opposta. Tutto ciò non è ancora sufficiente, peraltro, a definire la questione si su cui stiamo ragionando. Invero, occorre ulteriormente riflettere sulla variegata tipologia degli atti che l’organo comune può essere chiamato a compiere in esecuzione del programma di rete, stabilendone i possibili nessi con l’interesse di cui sono portatori i soggetti retisti. 120 Ai fini dell’azione del terzo verso il singolo consorziato, precisa XXXXXXX, Diritto commerciale. L’imprenditore, cit., p. 159, è invece valo-necessaria «l’identificabilità dell’impresa nell’interesse della quale il consorzio ha contrattato, mentre non basta la semplice appartenenza al consorzio». 121 Cfr. Cass. 4 maggio 2005, n. 9225; Cass. 10 novembre 2003, n. 16831.
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Samples: Contratto Di Rete
Segue. I rimedi. Nella versione originale della norma, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta a ottenere la declaratoria di nullità del patto attraverso il quale l’abuso aveva trovato realizzazioneBENI SOCIALI E LA CONFISCA. La disposizione aveva subito sollecitato possibilità di confiscare penalmente i beni di una persona giuridica rappresenta l’ultima e più delicata questione da esaminare in relazione alla tutela di terzi rispetto alla confisca. Ed invero, come si è sopra anticipato una delle modalità di interposizione del soggetto terzo può appunto realizzarsi attraverso l’utilizzo di un acceso dibattito nella dottrinaente giuridico come “schermo societario”, soprattutto civi- listicanel senso che il bene risulta di proprietà e pertinenza della persona giuridica e non dell’autore del reato, ancorché sia la persona fisica a disporne di fatto. In proposito deve infatti rilevarsi come l’ente giuridico, proprio in quanto previsto dal legislatore quale centro di imputazione autonomo di interessi giuridici rispetto al soggetto-persona fisica che ne faccia parte, deve essere considerato un “terzo” rispetto alla persona fisica medesima. Pertanto, al pari di qualsiasi altro terzo, l’ente potendo essere parte di negozi di trasferimento di beni (fiduciari o fittizi) potrebbe essere utilizzato come schermo protettivo al fine precipuo di evitare iniziative di sequestri e confische. L’ipotesi di dell’ente come schermo fittizio ha sempre creato particolari problemi sia in tema di prova che di configurazione stessa della simulazione assoluta del negozio con una società159. Allo stesso modo, si è ritenuta talvolta l’impossibilità di configurare la simulazione assoluta dello stesso contratto di società, in realtà certamente voluto proprio ai fini di interposizione reale (e non fittizia), per ottenere i vantaggi collegati alla limitazione della responsabilità patrimoniale connessa alla disciplina civilistica160. In questo contesto, la giurisprudenza ha allora precisato che occorre operare una distinzione tra “responsabilità patrimoniale della società”, in relazione alla quale s’era lungamente interrogata circa la natura mai potrebbe parlarsi di questa nullità simulazione assoluta del contratto di società, e la conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa la tesi “responsabilità penale” della natura pro- tettiva di tale nullità, argomentata sulla base di operazioni di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite (65). Era poi stato il legislatore, ad appena tre anni di distanza, a novellare l’art. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni persona fisica che ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità del pattoagito sotto lo schermo societario. In particolaretal modo, come si è emerso anche dai paragrafi precedentirilevato, le azioni la società continua ad essere sempre considerata un soggetto terzo ai fini civilistici della sua eventuale responsabilità patrimoniale, potendosi però procedere a fini penali alla confisca dei beni sociali in materia relazione ai reati commessi dalle persone fisiche che operano al suo interno161. In relazione alla questione in esame, l’aspetto di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelaremaggiore novità intervenuto nell’ordinamento è rappresentato sicuramente dall’entrata in vigore del D.Lgs 8 giugno 2001 nr. 231 volto ad introdurre e regolamentare la disciplina della 159 Ex plurimis Cass. Civ., Sez. I, 29 maggio 2003, in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commercialeCED nr. Proprio in sede di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità 563726. 160 In giurisprudenza esclude la configurabilità di una tutela anticipatoria simulazione assoluta del contratto di condanna a un facere infungibilesocietà Cass. Civ., sotto il profilo della sua utilità28 aprile 1997, nr. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato3666, nel corso Abbatelli c. Agricola Forestale Pian del tempomarmo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoliin CED nr. In ordine alla risoluzione 503955; cfr. anche Cass. Civ. 16 maggio 2007, nr. 11258, Moroni, c. Cisa, in CED nr. 597779; Cass. Civ., Sez. III, 16 aprile 2003, nr. 6100, Oprandi x. Xxxxxxx, in CED nr. 562217. Al fine di superare detto ostacolo l’unica strada percorribile sarebbe quella di provare l’intestazione fittizia delle quote, ciò al fine di far valere la responsabilità illimitata dell’unico socio, nei casi in cui questa sia prevista: in questo senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitorioXxxx. Civ., il qualeSez. I, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente31 gennaio 2008, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibiliin CED nr. In ordine alla seconda questione si è invece valo-601539.
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Samples: N/A
Segue. I rimediLA NOZIONE DI APPARTENZA DEL BENE E IL CONCETTO DI ESTRANEITA’ AL REATO. Nella versione originale Fuori dalla fattispecie sopra ricostruita ovvero quella di confisca di beni intrinsecamente illeciti o pericolosi, può allora effettivamente porsi un problema di tutela del terzo. L’art. 240 c.p. subordina questa tutela a due requisiti: l’“appartenenza” del bene 126 Cfr. T.E. EPIDENDIO, La confisca nel diritto penale e nel sistema della normaresponsabilità degli enti, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione op. cit., pag. 154: l’Autore mette in rilievo come ciò che si pone in questi casi è solo un problema di onere probatorio e di regole di decisone, da risolvere secondo gli usuali criteri in materia di prova di fatti negativi, vale a dire prova positiva del fatto contrario e prove presuntiva del fatto negativo: posto che l’autorizzazione rappresenta giuridicamente la rimozione ad un ostacolo generale valido per tutti, cui si fa eccezione per il soggetto che ne beneficia, una volta a che risulti che la produzione, detenzione e uso del bene costituisce reato e che non risulti acquisita alcuna autorizzazione in base agli accertamenti compiuti, incombe su chi pretenda di ottenere la declaratoria disponibilità del bene il rischio per la mancata prova della rimozione, ottenuta in concreto mediante l’autorizzazione, dell’ostacolo generale posto in proposito dalla norma che preveda in genere come reato le attività di nullità cui sopra. Ciò risponde, secondo l’Autore, anche a criteri di efficienza probatoria concreta, essendo evidente che chi ha ottenuto l’autorizzazione e sulla base di questo rivendichi il bene, sia il soggetto che meglio può essere a conoscenza e dimostrare detta circostanza. al terzo e che lo stesso sia persona “estranea” al reato. Appare, dunque, opportuno spiegare funditus i suddetti requisiti che sono stati invero oggetto di notevoli approfondimenti dottrinali e giurisprudenziali, data la rilevanza non solo teorica ma di rilievo applicativo nell’ambito dell’istituto in esame, dipendendo da essi la maggiore o minore ampiezza dell’ambito di tutela dei terzi. Con riferimento al concetto di “appartenenza” del patto attraverso bene, l’attenzione della dottrina si è fin da subito concentrata sull’estensione interpretativa di detto concetto nel senso se esso facesse riferimento al solo diritto di proprietà o comprendesse anche i diritti reali di godimento o di garanzia. Al riguardo si sono sviluppati due orientamenti: un primo incline a sostenere una accezione lata di appartenenza, comprensiva sia del diritto di proprietà che dei diritti reali, di qui l’impossibilità di sottoporre a confisca il bene gravato da un diritto reale almeno sino al soddisfacimento della garanzia per la quale l’abuso aveva trovato realizzazioneil diritto era stato costituito; un secondo orientamento più propenso verso un’accezione ristretta di appartenenza limitata al solo diritto di proprietà, ma con la precisazione che lo Stato acquisirebbe la proprietà del bene con gli stessi limiti dell’originario titolare, con conseguente obbligo di rispettare i diritti reali gravanti sul bene. La disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella dottrinagiurisprudenza assolutamente prevalente aderisce ad una interpretazione lata del concetto di appartenenza del bene, soprattutto civi- listicao meglio - come evidenziato da taluni Autori127 - la medesima in realtà tende ad escludere che l’applicazione della confisca possa determinare l’estinzione dell’altrui diritto reale considerando questo una forma di appartenenza della cosa cui inerisce il c.d. diritto di seguito: su questa posizione si attesta la nota sentenza a S.U. Bacherotti128, i cui principi di 127 T.E. EPIDENDIO, La confisca nel diritto penale e nel sistema della responsabilità degli enti, op. cit. pag. 156 e 157. 128 Cass. S.U, 8 giugno 1999, nr. 9 Bacherotti, in CED nr. 21351, la quale s’era lungamente interrogata circa ha ritenuto che “l’applicazione della confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall’altrui attività criminosa, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole. In siffatta ipotesi, la natura di questa nullità custodia, l’amministrazione e la vendita delle cose pignorate devono essere compiute dall’ufficiale giudiziario e il giudice dell’esecuzione deve assicurare che il creditore pignoratizio possa esercitare il diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita”. diritto sono stati richiamati anche dalle pronunce giurisprudenziali più recenti129. Il profilo più problematico è emerso tuttavia con riferimento alla natura dell’acquisto del bene per effetto della confisca. Posto, infatti, che il trasferimento del diritto si realizza autoritativamente, si potrebbe essere indotti a qualificare – come in effetti qualche Autore ha proposto – come “originario” detto titolo di acquisto. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti optano invece per la soluzione opposta, affermando che trattandosi pur sempre del trasferimento di un diritto, questo come tale non può avere ad oggetto un diritto diverso da quello che faceva capo al suo precedente titolare. Al riguardo, appare opportuno richiamare ancora una volta la sentenza Bacherotti cit. dalla quale emerge chiaramente come la giurisprudenza colleghi l’opponibilità dei diritti reali sul bene alla funzione attribuita alla confisca, nel senso che, se la medesima avesse quale scopo principale ed immediato l’acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, allora si potrebbe ipotizzare una inopponibilità dei diritti dei terzi allo Stato, con conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa sacrificio dei medesimi, ma se la tesi funzione è preventiva in quanto volta ad interrompere la relazione del bene stesso con l’autore del reato e di sottrarlo alla sua sfera di disponibilità, allora andrebbe riconosciuto che l’acquisizione del bene allo Stato è una conseguenza della natura pro- tettiva sottrazione e non già l’obiettivo primario della confisca, il cui fine principale sarebbe soltanto la spoliazione del reo nei diritti che egli ha sulla cosa, mentre l’acquisto di tali diritti da parte dello Stato costituirebbe soltanto una conseguenza di tale nullitàspoliazione. Orbene, argomentata sulla base tracciati i profili e l’ambito del concetto di operazioni di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite (65)appartenenza, occorre spostare l’attenzione sull’ulteriore requisito richiesto dall’art. Era poi stato il legislatore, ad appena tre anni di distanza, a novellare l’art240 c.p. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità ai fini della tutela del patto. In particolare, come è emerso anche dai paragrafi precedenti, le azioni in materia di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelare, in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio in sede di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto terzo ovvero l’“estraneità” della persona al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità di una tutela anticipatoria di condanna a un facere infungibile, sotto il profilo della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoli. In ordine alla risoluzione in senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitorio, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibili. In ordine alla seconda questione si è invece valo-reato.
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Samples: N/A
Segue. L’esclusione dalle negoziazioni. Il problema del delisting puro I rimedi. Nella versione originale della normadubbi appena sollevati circa i possibili limiti, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta a ottenere per la declaratoria società quotata, di nullità del patto attraverso il quale l’abuso aveva trovato realizzazione. La disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella dottrina, soprattutto civi- listica, la quale s’era lungamente interrogata circa la natura di questa nullità e la conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa la tesi della natura pro- tettiva di tale nullità, argomentata uscire dal mercato regolamentato sulla base di operazioni una sua libera e incondizionata scelta o per altre cause che non siano quelle espressamente previste dal regolamento del mercato o dalla legge, impongono di ortopedia in- terpretativa più approfondire l’indagine sulla base degli altri dati normativi e ordinamentali disponibili. L’art. 133 del t.u.f., significativamente rubricato come «esclusione su richiesta dalle negoziazioni», stabilisce che «le società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati italiani, previa deliberazione dell’assemblea straordinaria, possono richiedere l’esclusione dalle negoziazioni dei propri strumenti finanziari, secondo quanto previsto dal regolamento del mercato, se ottengono l’ammissione su altro mercato regolamentato o meno ardite (65)di altro paese dell’Unione Europea, purché sia garantita una tutela equivalente degli investitori, secondo i criteri stabiliti dalla Consob con regolamento». Era poi stato il legislatore, ad appena tre anni di distanza, a novellare l’art. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo Anche in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata la nullità del patto. In particolare, come è emerso anche dai paragrafi precedenti, le azioni in materia di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelare, in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio tal caso sembra ricorrere lo schema contrattuale bilaterale osservato in sede di cautela sono stati costantemente oggetto ammissione alla quotazione, dal momento che, ai sensi dell’art. 2.5.6 del regolamento del mercato, l’esclusione può aver luogo se la società di discus- sione due classici problemi gestione del diritto processualemercato, a fronte della richiesta di esclusione formulata dalla società quotata, dispone l’esclusione medesima. Si ripropone, quindi, il meccanismo dell’accordo tra la società quotata, che, con delibera dell’assemblea straordinaria, chiede di uscire dal mercato, e la società di gestione, che, valutata tale richiesta, può accettarla o meno al ricorrere di determinate circostanze. È però il caso di osservare che la fattispecie in esame – pur essendo riconducibile ad una manifestazione di autonomia negoziale delle parti – non consente alla società quotata di sottrarsi alla quotazione senz’altro, ma subordina l’esclusione all’ammissione su altro mercato regolamentato dove esistano condizioni di tutela dell’investitore equivalenti a quelle presenti sul mercato dal quale si chiede di uscire24. Si è allora di fronte più che ad un’esclusione incondizionata o a un «delisting puro» ad una migrazione o a un trasferimento su un altro mercato (peraltro solo italiano o di un altro paese dell’Unione Europea), o a un fenomeno, per così dire, di trans listing: ila società in realtà mantiene lo status di società quotata non più sul mercato di originaria quotazione ma su un altro mercato. Il t.u.f. peraltro non prevede alcuna disposizione relativa alla possibilità di chiedere l’esclusione incondizionata dal listino e anche nei regolamenti di Borsa non è dato rintracciare alcuna previsione in tal senso; né, per quanto consta, ciò trova smentita nella prassi dei mercati degli ultimi anni. Al riguardo può anzi notarsi che proprio il dato testuale dell’art. 133 t.u.f., secondo cui il delisting è permesso solo quando coincida con l’ammissione su altro mercato (italiano o comunitario) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto ove esista una tutela equivalente per gli investitori, potrebbe indurre a non reputare ammissibile il delisting cosiddetto puro. E ciò potrebbe in realtà trovare xxxxxxxx- cazione proprio in quella cesura tra momento contrattuale e quello metanegoziale della quotazione al successivo provvedimento quale sopra si è fatto riferimento. Il perfezionamento della quo- 24 In attuazione dell’art. 133 t.u.f. la Consob ha disposto che «l’esclusione dalle negoziazioni di meritoazioni ordinarie è in ogni caso condizionata all’esistenza nel mercato di quotazione di una disciplina dell’offerta pubblica di acquisto obbligatoria applicabile all’emittente nel caso di trasferimento di partecipazioni di controllo ovvero di altre condizioni valutate equivalenti dalla Consob» (art. 144, sotto comma 2, RE). tazione, infatti, mette in gioco interessi e ragioni di tutela che non riguardano più solo le parti contraenti ma soggetti altri nei confronti dei quali l’originaria vicenda contrattuale perde di rilievo, assumendo invece importanza il profilo organizzativo della sua strumentalitàquotazione e, segnatamente, ciò che esso rappresenta in termini di disciplina applicabile agli organi sociali, di diritti e prerogative del singolo socio-investitore. Le implicazioni societarie e di mercato della quotazione, in altre parole, pur non precludendo in assoluto la reversibilità della quotazione medesima, sembrano però non consentire all’autonomia privata di manifestarsi con le stesse modalità e con la medesima intensità riscontrata nella fase di ammissione. Anche se, in ottica ne- gozialista, può effettivamente apparire come una forzatura sottrarre all’autonomia negoziale l’incondizionata esclusione dalle negoziazioni quando invece non le è mai sottratta l’ammissione25. L’art. 2437-quinquies c.c., introdotto dalla riforma delle società di capitali, secondo cui «se le azioni sono quotate sui mercati regolamentati hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso alla deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione», dal canto suo, non è disposizione che inequivocabilmente risolve il problema dell’ammissibilità del delisting puro. Sia perché la norma potrebbe ri- ferirsi alle deliberazioni che hanno ad effetto l’esclusione dalla quotazione (fusione e scissione di società quotata in società non quotata; iiconversione di azioni quotate in non quotate) l’ammissibilità e non anche a quelle che hanno direttamente ad oggetto l’esclusio- ne26, sia perché la disposizione sembra essere la conferma, in termini più generali, di un principio (quello fissato dall’abrogato art. 131 del t.u.f.), che già albergava nel sistema, visto che proprio tale norma attribuiva il diritto di recesso nel caso in cui la perdita della quotazione dei titoli fosse la conseguenza del loro concambio effettuato in occasione di una tutela anticipatoria fusione o di condanna a una scissione. Certo nella possibile indisponibilità da parte della maggioranza della deci- sione di dequotarsi sic et simpliciter (ppassaggio che richiederebbe comunque un facere infungibileintervento esplicito del legislatore) non può, sotto il profilo come si diceva, non avvertirsi, una sensibile compressione dell’autonomia negoziale della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacolisocietà. In ordine questo quadro ci si potrebbe ancora chiedere – al di là della concreta difficoltà di raccogliere l’unanime consenso sociale in una società quotata ad azionariato diffuso – se possa configurarsi l’ipotesi di perdita della quotazione quando la richiesta di esclusione dalle negoziazioni promani dalla volontà unanime dei soci della società quotata. Seguendo una prospettiva che fa coincidere l’interesse al mantenimento della quotazione con il solo interesse dei singoli soci, viene da osservare che non sembra che l’uscita volontaria e incondizionata dal mercato possa essere negata quando decisa all’unanimità; se invece la persistenza alla risoluzione quotazione viene apprezzata in un’ottica non solo endosocietaria (intendendo qui il termine nel senso positivo di tutela delle posizioni dei singoli azionisti), ma in un quadro di più ampio respiro, che consideri anche il rilevante interesse del mercato a che le società mantengano il loro status di quotate: nella convinzione, cioè, che la quotazione delle società sia un valore in sé, in quanto implementa le transazioni finanziarie e dunque crea ric- 25 X. Xxxxx, Tipologia della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione società e società per azioni, in Riv. dir. civ., 2000, I, pp. 212 ss.; anche secondo R. Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2008, p. 398, la tesi dell’inammissibilità del rimedio inibitorio, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibili. In ordine alla seconda questione si è invece valo-delisting puro appare troppo innaturale per essere accolta senza preoccupazione.
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Samples: Contratto Di Quotazione
Segue. I rimediL’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro. Nella versione originale Un’ulteriore forma di responsabilità contrattuale per i coniugi in regime di separazione dei beni può darsi nel caso di inadempimento all’obbligazione ex lege che può gravare su di un coniuge, avente ad oggetto l’indennizzo, in favore dell’altro per i miglioramenti e le addizioni da quest’ultimo apportati a beni del primo. L’art. 218 c.c. non prende in considerazione l’eventualità che un coniuge, godendo dei beni dell’altro, o comunque per effetto di intromissione nella sfera patrimoniale di quest’ultimo, abbia apportato miglioramenti o addizioni. Si pone qui il problema di sapere se per tali miglioramenti o addizioni sia dovuta una qualche forma di indennizzo. In primo luogo andrà ricordato che tra coniugi esiste un preciso dovere di contribuzione «ai bisogni della normafamiglia» che l’art. 143, l’unico rimedio azionabile dall’im- presa « abusata » era l’azione volta a ottenere la declaratoria terzo comma, c.c. parametra «alle proprie sostanze e alla propria capacità di nullità lavoro professionale o casalingo». Si pone dunque il problema se, nell’ipotesi in cui il coniuge sostenga di tasca propria le spese per effettuare migliorie o addizioni sui beni dell’altro, in adempimento del patto attraverso il quale l’abuso aveva trovato realizzazione. La disposizione aveva subito sollecitato un acceso dibattito nella dottrinaproprio obbligo di contribuzione, soprattutto civi- listica, la quale s’era lungamente interrogata circa la natura di questa nullità e la conseguente disciplina applicabile. Era prevalsa la tesi della natura pro- tettiva di tale nullità, argomentata sulla base di operazioni un accordo precedente circa le modalità di ortopedia in- terpretativa più o meno ardite ripartizione fra entrambi dell’onere contributivo stesso (65si pensi ad esempio al caso in cui i coniugi abbiano concordato di dividersi le spese per la ristrutturazione della casa coniugale appartenente al solo marito), l’indennizzo debba ritenersi escluso (148). Era poi stato Applicando questo principio, una decisione di merito ha respinto la richiesta di pagamento per le prestazioni professionali rese, avanzata dal marito architetto il legislatorequale si era dato carico di svolgere tutte le attività occorrenti per la ristrutturazione della casa coniugale, ad appena tre anni appartenente alla sola moglie. Considerando l’attività svolta come prestazione non contrattuale posta in essere nell’interesse della famiglia da ricondursi all’adempimento dell’obbligo di distanzacontribuzione, a novellare l’art. 9, arricchendo il c. 3 con l’espressa intro- duzione delle azioni risarcitorie e inibitorie. L’esperienza applicativa maturata negli anni giudice ne ha dimostrato che il vero rimedio per gli abusi di dipendenza economica è innanzi tutto inibitorio e, solo in subordine, risarcitorio; raramente è stata invocata così affermato la nullità del pattototale gratuità (149). In particolareprecedenza la Corte Suprema aveva invece riconosciuto la possibilità di ottenere un’indennità ex art. 1150 c.c. per il contributo in denaro fornito dalla moglie al marito per il restauro della casa di quest’ultimo adibita a residenza familiare, come è emerso pur avendo affermato che tale contributo era stato prestato in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (150). Rinviando anche dai paragrafi precedentiin questo caso alla trattazione approfondita della questione svolta in altra sede (151), le azioni in materia di abuso di dipendenza economica sono di regola precedute da una fase cautelarepotrà conclusivamente dirsi che la soluzione del problema dovrà trovarsi, in linea di massima, nelle norme in tema di gestione d’affari altrui, salvi i casi in cui il provvedimento richiesto mira normalmente alla pro- secuzione del rapporto commerciale. Proprio in sede nel comportamento tollerante sia eventualmente possibile ravvisare gli estremi di cautela sono stati costantemente oggetto di discus- sione due classici problemi del diritto processuale: i) l’ammissibilità del provvedimento urgente richiesto rispetto al successivo provvedimento di merito, sotto il profilo della sua strumentalità; ii) l’ammissibilità di una tutela anticipatoria di condanna a un facere infungibile, sotto il profilo della sua utilità. Rispetto a entrambi questi problemi si è registrato, mandato tacito (nel corso del tempo, un indirizzo incline a ritenere superabili entrambi gli ostacoli. In ordine alla risoluzione in senso positivo della prima questione ha certa- mente giocato un ruolo l’espressa previsione del rimedio inibitorio, il quale, allargando le maglie dei provvedimenti di merito ottenibili dall’im- presa dipendente, ha ovviamente allargato le maglie dei provvedimenti anticipatori richiedibili. In ordine alla seconda questione si è invece valo-qual caso
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