Common use of SOLUZIONE Clause in Contracts

SOLUZIONE. [1] Tanto la Cassazione quanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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SOLUZIONE. [1] Tanto Il Supremo Xxxxxxxx ha respinto il motivo di ricorso sottoposto al suo sindacato sotto entrambi i profili considerati. Il primo era quello riguardante l’ammissibilità, nelle vicenda concretamente esaminata, della rimessione in termini da overruling, ossia motivata in relazione a un sopravvenuto revirement dell’interpretazione giurisprudenziale di legge che sia idoneo a pregiudicare la Cassazione quanto parte che abbia conformato il proprio agire all’orientamento ermeneutico precedentemente invalso. Sulla base di un excursus sulla pregressa elaborazione in materia, le Sezioni unite pervengono a identificare le condizioni congiuntamente, a quel fine, richieste: a) in un mutamento della giurisprudenza di legittimità relativo all’interpretazione di norme processuali; b) nella connotazione come obiettivamente imprevedibile di quella svolta; c) negli effetti preclusivi dell’intercorso overruling, quale, cioè, causa diretta di una situazione di inammissibilità, improcedibilità o decadenza connessa alla diversità delle forme o dei termini che avrebbero dovuto osservarsi sulla base dell’orientamento sopravvenuto. Di tali condizioni, però, soltanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva prima poteva dirsi integrata, stante l’indiscutibile natura, se non solo, certo anche processuale della disposizione di cui all’art. 829, 3° comma, c.p.c. Non, al contrario, la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e seconda, visto che, di conseguenzaalla data della cit. Cass. n. 6148/2012, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come mai si era pronunciata sulla disciplina di diritto intertemporale di cui all’art. 27 d. lgs. n. 40/2006 e, dunque, mancava un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità che potesse alimentare un ragionevole affidamento della parte. E non, soprattutto, la terza, visto che l’innovativo orientamento inaugurato da detta Cass. n. 6048/2012 (e poi definitivamente consacrato da Cass., Sez. un., 9 maggio 2016, n. 9284, 9285 e 9341) aveva portata ampliativa, e non restrittiva, dei poteri processuali spettanti alla parte, sì che la decadenza in cui la xxxxxxxx era incorsa non era certo ad esso addebitabile, bensì all’interpretazione di legge dianzi recepita: ciò che esclude, nella fattispecie, l’ammissibilità della rimessione in termini da overruling anche a voler ammettere – ma la Corte, in ogni caso, lo nega – che un affidamento meritevole di tutela della parte potrebbe essere generato, in mancanza di un dictum del giudice di legittimità, da una compatta e incontrastata interpretazione della giurisprudenza di merito. [2] Il secondo profilo del motivo rimesso all’esame delle Sezioni unite atteneva all’applicabilità, nella specie, di una rimessione in termini “ordinaria”, ovverosia svincolata dai presupposti messi a punto dalla giurisprudenza per poter invocare il prospective overruling: ma neppure su questo versante esse hanno lasciato aperto un qualche margine alla discussione. A prescindere da quella che sarebbe stata, nell’occasione, la vistosa intempestività dell’iniziativa spiegata dalla parte al fine di vedersi restituita nei poteri processuali rimasti preclusi, essendosi la stessa attivata a distanza di quasi due anni dal momento in cui, con la pronuncia della S.C. n. 6148/2012, si sarebbe palesata l’astratta possibilità di recuperare quei poteri medesimi: ciò che alle Sezioni unite preme porre in risalto è che, se a concretare la nozione di «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento causa non imputabile» di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (cui al predetto art. 1358 c.c153, 2° comma, c.p.c. (ed al previgente art. 184-bis c.p.c.), tutte le attività dev’essere un fatto impeditivo che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare presenti il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessicarattere dell’assolutezza, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…)porsi del tutto al di fuori della sfera di controllo della parte, questo, evidentemente, non può dirsi dell’errore di diritto che quella abbia commesso nell’uniformarsi a una lettura del testo di legge che la Cassazione sia poi venuta a smentire. L’obbligo Né, prosegue il supremo giudice, può opporsi alla presente considerazione il fatto che quella di comportarsi secondo buona fedecui, incombente sui contraenti ai sensi degli arttnella circostanza, si discuteva fosse norma di significato assolutamente univoco, sì da non potersi imputare a colpa della parte la scelta di conformare la propria condotta processuale a quel significato medesimo. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivoltoL’interpretazione di un testo normativo, infatti, ad impedire non è mai un dato acquisito a priori, bensì il precipitato di molteplici fattori e varianti, che sovente trascendono il mero elemento della littera legis, tanto da doversi imputare a responsabilità della parte, ovvero, il che è lo stesso, del suo difensore, la scelta di confidare esclusivamente in quest’ultimo, trascurando ogni altra, anche soltanto astratta, possibilità alternativa: come, peraltro, dimostra la vicenda quivi in rassegna, dove la Cassazione si è discostata dalla lettera dell’art. 27, 4° comma, d. lgs. n. 40/2006 in nome di un’interpretazione costituzionalmente orientata che ha poi ricevuto l’avallo dello stesso giudice delle leggi (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggioCorte cost., ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse30 gennaio 2018, quindin. 13, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenireForo it., tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto2018, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparteI, 707).

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SOLUZIONE. [1] Tanto La Corte di Cassazione compie un excursus sulle interpretazioni e modificazioni della norma all’indomani della sua emanazione nel 1970. Dottrina e giurisprudenza hanno sempre attribuito all’assegno divorzile una natura composita: assistenziale, stante il riferimento alle condizioni economiche dei coniugi, risarcitoria, quando si richiamano le ragioni della decisione, compensativa, in relazione al richiamo del contributo personale ed economico dato alla condizione della famiglia e al patrimonio di entrambi. I criteri erano utilizzati in maniera equivalente dal giudice ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio. Nel tempo, la funzione dell’assegno si è caratterizzata sempre più come “perequativa”, mirando a colmare lo squilibrio economico che può venirsi a creare con la fine del matrimonio. Nel 1987, anche a causa del mutamento sociale e del cambiamento del ruolo della donna nella famiglia e nella società, la formulazione della norma è stata modificata introducendo la condizione “dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”. Con la sentenza a sezioni unite n. 11490/1990, la Cassazione quanto fornì un’interpretazione rimasta costante per circa trenta anni, con cui si affermava che l’assegno di divorzio, dopo la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e chenovella legislativa, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto»acquisiva principalmente funzione assistenziale. Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello coniuge aveva diritto all’assegno se il giudice accertava l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (redditi, patrimonio e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione altro) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto nel corso del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomentimatrimonio. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesseFaceva ingresso, quindi, gli ermellini giudicano legittimo un parametro, quale il rifiuto tenore di vita, a cui si ancorava il giudizio di inadeguatezza ai fini dell’an debeatur dell’assegno, per poi passare alla determinazione del La sentenza della società committente prima sezione n. 11504/2017, eliminando il riferimento al tenore di addivenirevita, tramite ha posto alla base del giudizio d’inadeguatezza il solo presupposto dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno, rendendo la sottoscrizione valutazione degli altri criteri solo eventuale. Con la pronuncia resa a sezioni unite, la Cassazione precisa che il criterio dell’autosufficienza non può da solo stare alla base del giudizio di fondatezza della variante progettuale preparata dall’architettodomanda di assegno. Il ruolo del singolo coniuge nella relazione matrimoniale costituisce un fattore importante, ad una modifica frutto di scelte comuni che si fondano sull’autodeterminazione e sull’autoresponsabilità. Tali scelte incidono sul profilo economico-patrimoniale post matrimoniale. Pertanto, secondo la Corte Suprema, occorre tenere conto del contenuto modello di relazione che i coniugi hanno voluto attuare, nel rispetto del contratto principio della pari dignità dei coniugi, di uguaglianza e di libertà di scelta. Il giudizio di adeguatezza dei mezzi, in sostanza, deve essere rapportato non solo all’insufficienza oggettiva ma anche a quello che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla contropartesi è contribuito a realizzare nella famiglia.

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SOLUZIONE. [1] Tanto Dopo un lungo iter giudiziario, che vede come prodromico l’accertamento con passaggio in giudicato delle vicende inerenti la Cassazione quanto proprietà del bene e la validità dell’accordo fiduciario, Il Tribunale di Firenze accoglie le richieste risarcitorie del convivente non intestatario del bene costretto a lasciare l’immobile, accerta e quantifica il danno da quest’ultimo subito per effetto del mancato godimento del bene, modulando ai criteri propri delle principali pronunce di legittimità sulla materia del risarcimento dei danni da indebita occupazione dell’immobile, in particolare tenendo conto del valore locativo del bene. QUESTIONI Il punto di partenza per accertare l’esistenza di un danno ed arrivare alla necessaria quantificazione dello stesso, risulta essere la pacifica circostanza che uno dei due conviventi abbia avuta la piena ed esclusiva disponibilità di un bene di cui non era proprietario a discapito dell’altro e contro la volontà di quest’ultimo e dall’altra che in base alla comune esperienza, deve ritenersi che l’immobile sarebbe stato oggetto di un’utilizzazione fruttifera, mediante, ad esempio, la sua locazione, facendo uso delle presunzioni, ai fini probatori. In effetti, il Tribunale giunge alla pacifica conclusione dell’esistenza di un danno risarcibile, per il mancato godimento dell’immobile, facendo applicazione degli istituti: del danno in re ipsa, come indicato nella massima, alla configurazione del c.d. “danno conseguenza”, di cui alle Sezioni Unite del 11.11.2008 n.26972 ed infine al “danno figurativo”, inteso quale valore locativo del cespite abbandonato, richiamando Xxxx. Civ. 649/00; 1373/99; 1123/98). Il Tribunale ancora la propria decisione all’oramai pacifico principio espresso dalla Suprema Corte d’Appello muovono dalla constatazione per il quale: “il comproprietario che durante il negozio dal periodo di comunione abbia goduto l’intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l’esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale scaturiva ristoro per la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili, con riferimento ai prezzi di mercato correnti, frutti che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono – solo in mancanza di conseguenzaaltri più idonei criteri di valutazione – essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile” (in tal senso sentenza Cass. del 5 settembre 2013, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazionin. 20394 che richiama Xxxx. nn. 7881/11 e 7716/90, invero mai sorteentrambe pronunciate in ipotesi di giudizio di divisione). Risulta iniquo immaginare che una volta definita pacificamente e con passaggio in giudicato, che lo stesso prevedeva l’accertamento della quota di comproprietà di un bene immobile in capo alle partiad uno dei due comproprietari, quest’ultimo possa essere escluso tout court da ogni “beneficio” e/o vantaggio derivante dall’essere titolare di un diritto reale, tanto più che l’estromissione dal bene (rectius: rilascio) per effetto della cessazione della convivenza, interveniva contro la propria volontà. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegiIn altri termini, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione Cassazione, facendo propri i principi della dottrina di autorevoli precedenti di legittimità, valorizza la “titolarità del dovere diritto reale”, ritenendo iniquo che colui che sia privato – contro la propria volontà – dell’utilizzo del bene, possa rimanere privo di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizionetutela, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto questo caso: indennitaria/risarcitoria. Pur arrivando alla progettazione e realizzazione precisa definizione di opere edili, è configurabile, una quota consistente di danni riconosciuti in capo al committenteconvivente non intestatario del bene immobile, commisurata ad un dovere apprezzabile lasso di cooperare all’adempimento dell’esecutore tempo nell’occupazione abusiva del bene immobile e determinati attraverso l’ausilio di CTU sul valore locativo del bene, tuttavia il Tribunale, in perfetta aderenza ai principi della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Civ. 11629/99).ha escluso la domanda di risarcimento danni per danno emergente e lucro cessante; la domanda di risarcimento dei lavoridanni per le spese di mutuo finalizzato all’acquisto di altro immobile, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorioper carenza di immediata e diretta consequenzialità del contraente inadempiente, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e ritenendo non sussistere nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 de quo gli estremi applicativi tipici dell’articolo 1223 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte...

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SOLUZIONE. [1] Tanto Entrambi i suddetti motivi sono stati accolti dalla Suprema Corte. In primo luogo, i Giudici di legittimità hanno affermato che dall’atto di appello, nel suo complesso, ben si riconosce l’errore commesso dall’Agenzia delle Entrate nel richiamare l’art. 184 L.fall., posto che il principio dedotto da parte appellante a fondamento dell’impugnazione (ovverosia il fatto che i creditori, malgrado l’omologa del concordato, conservano impregiudicati i diritti verso i coobbligati del debitore) è comunemente previsto sia dall’art. 184 L.fall. (xxxxx erroneamente invocata dall’Agenzia delle Entrate) sia dall’art. 135 L.fall. (norma che l’Agenzia delle Entrate avrebbe invece dovuto invocare). Conseguentemente, la Commissione Tributaria Regionale avrebbe dovuto autonomamente procedere “all’esatta qualificazione giuridica delle questioni dedotte in giudizio sostanziali, attinenti al rapporto, o processuali, attinenti all’azione e all’eccezione”. Per quanto attiene poi al secondo motivo d’impugnazione, la Cassazione quanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione ha parimenti accolto le ragioni addotte dall’Agenzia delle Entrate, ribadendo che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle partil’art. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art135 L.fall. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (artparimenti all’art. 1358 c.c184 L.fall.), tutte le attività nel prevedere che da lui dipendono per l’avveramento a seguito dell’omologa del concordato preventivo i creditori conservano i loro diritti nei confronti dei coobbligati del debitore, dei suoi fideiussori e degli obbligati in via di siffatta condizioneregresso, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto rappresenta una deroga alla progettazione disciplina comune prevista dagli artt. 1239 e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 1301 c.c. presuppone l’accertamento Per effetto di tale deroga, che trova sua giustificazione nella natura pubblicistica del fatto checoncordato e del relativo favor legislativo, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in cui si è verificato tale inadempimentovia di regresso sono tenuti a rispondere dell’intero debito e a subire le conseguenze, «per loro negative, della falcidia concordataria o degli effetti modificativi favorevoli al debitore. Sulla base di detti principi la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo Corte di Cassazione ha accolto il legittimo rilascio ricorso dell’Agenzia delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo Entrate e cassato la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cassimpugnata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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SOLUZIONE. [1] Tanto I motivi di ricorso, concernenti la contestazione della giurisdizione del giudice italiano e l’applicazione la legislazione italiana, in ragione della loro connessione, sono stati trattati congiuntamente dalle Sezioni Unite della Cassazione, cui la Sezione II della Cassazione quanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che aveva rimesso il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento ricorso della condicio iuris apposta dai contraenti Società francese, e che, di conseguenzanon sono fondati. In primo luogo, non vi era possibilità alcuna sussistono le condizioni per discorrere dell’inadempimento delle obbligazionidisporre rinvio pregiudiziale alla CGUE. La giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 6 ottobre 1982, invero mai sorteCilfit, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegiC283/81; sentenza, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo6 ottobre 2021, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si proponeC-561/19, Consorzio italiano), ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva chiarito che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre evitare che in un qualsiasi Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le ragioni dell’altra parte) norme del diritto dell’Unione, qualora non può implicare per una delle parti l’accettazione sia previsto alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un sacrificio giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di suoi diritti o legittimi interessiprincipio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto Europeo, al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri, fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Xxxxx (Xxxxx xx xxxxxxxxx, xxxxxxxx xxx 00 marzo 2017, in causa C-3/16, Aquino, par. 32). Gli organi giurisdizionali non sono, invece, tenuti a disporre il rinvio pregiudiziale qualora rilevino, come nella specie in ragione della giurisprudenza della CGUE di seguito richiamata, che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi sia già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi. Nel merito, viene in evidenza l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, alla quale sono seguiti i Regolamenti Bruxelles I (Reg. CE 22/12/2000, n. 44/2001) e Bruxelles Ibis (Reg. UE n. 12/12/2012 n. 1215). La Convenzione di Bruxelles del 1968, all’art. 2, salvo le eccezioni poi previste, pone la regola generale che “le persone aventi il domicilio nel territorio di uno Stato contraente sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti agli organi giurisdizionali di tale Stato”. All’art. 5, comma 1, nel senso prevedere un foro alternativo, sancisce, per quanto qui rileva, che “il convenuto domiciliato nel territorio di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: Più complesso, ma coerente con la Convenzione, il contenuto dell’art. 5 del Reg 44/2001, richiamato dalla sentenza di appello, laddove prevede, dopo aver stabilito una regola analoga a quella sopra riportata, che in via alternativa “ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: La Corte d’Xxxxxxx, nel decidere la controversia, aveva qualificato come appalto (prestazione di servizi) e non come compravendita, il contratto in questione. La Corte d’Appello nell’interpretare l’atto negoziale aveva rilevato come le parti avevano voluto dar luogo ad un contratto di appalto, in quanto lo stesso non si limitava a stabilire solo una semplice fornitura ma prevedeva la posa in opera di una apparecchiatura industriale e poneva, come risultava anche letteralmente dal documento contrattuale in atti, una serie di attività a carico della società Francese che andavano dalla esecuzione di alcuni collegamenti elettrici ed idrici alla installazione in loco dell’apparecchiatura industriale, all’avviamento e al collaudo di essa, tutte attività da svolgere in Marcianise. L’obbligazione della società Francese non era limitata alla consegna di un bene ma consisteva nell’attivazione di un impianto di notevoli dimensioni, e la società Francese aveva riconosciuto di essere obbligata a tali prestazioni, essendo pacifico che essa si era adoperata per il montaggio dell’impianto e per il suo avviamento. Inoltre, la Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che risultava dalla documentazione che la società Francese aveva compiuto una serie di interventi di adeguamento operativo degli impianti. Si trattava, quindi, di un’obbligazione di risultato che andava inquadrata nel contratto condizionato di appalto. Dunque, alla luce dell’accertamento della Corte d’Appello e della rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati è corretta l’attività di qualificazione giuridica e la sussunzione del contratto in esame nel modello dell’appalto, ancor più se si consideri che, ai fini della differenziazione tra vendita ed appalto, quando alla prestazione di fare, caratterizzante l’appalto, si affianchi quella di dare, tipica della vendita, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla materia, con riguardo alla volontà dei contraenti oltre che al senso oggettivo del negozio, al fine di accertare se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro lo scopo del contratto (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l’effettiva finalità del contratto (vendita); in tal senso, Xxxx., n. 5935/2018. Pertanto, assodata (non essendo peraltro di interesse ai fini della presente nota) la qualificazione del contratto intercorso tra le parti quale contratto di appalto, la competenza giurisdizionale era individuata dalla Corte d’Appello in capo al giudice del luogo di esecuzione del contratto che si trova in Italia. Come già affermato dalla Corte di cassazione (Cass., Sez. Un. n. 23593/2010 ed anche Xxxx. Sez. Un. n. 8224/2002, Cass. Sez. Un. n. 9105/2005, e da ultimo, dandovi continuità, Xxxx., Sez. Un. n. 26986/2020), in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente, in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; luogo che va determinato in conformità della legge che disciplina l’obbligazione controversa secondo le norme di conflitto del giudice adito, nella specie il giudice italiano, e quindi, in base all’art. 57 della L. n. 218/1995, vertendosi in materia contrattuale, secondo la legge del Paese con il quale il contratto presenti il collegamento più stretto, nella specie in ragione di quanto sopra esposto l’Italia. La determinazione della giurisdizione e della legge applicabile in ragione di quanto sopra esposto non è oggetto di deroga in quanto, come affermato dalla Corte d’Appello, tra le parti non era intervenuta una Legittima clausola di proroga della giurisdizione e della legge applicabile. Nelle “General terms and conditions of sales” (Condizioni generali di vendita) della società Francese, riportate, dopo la sigla delle parti, all’ultimo capitolo “I”, ultima pagina, all’art. 15, si prevedeva: “Any dispute arising from the interpretation or execution of a sales contract or relating thereto, which cannot be settled amicably, shall be submitted of the Court of our Head Office, The agreements are governed by the law of France. The generaL terms and conditions of sales in French language is the sole authentic text” (“Ogni controversia nascente dall’interpretazione o dall’esecuzione di un contratto di vendita o ad esso connessa che non possa essere composta in via amichevole dalle parti sarà sottoposta al Tribunale della nostra sede legale [vale a dire della società Francese]. Gli accordi sono regolati dal diritto francese. Le condizioni generali di vendita in lingua francese costituiscono l’unico testo autentico”). L’obbligo La Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che tale clausola risultava contenuta in un testo separato ed autonomo dal testo del contratto e questo testo era privo di comportarsi secondo buona fedesottoscrizione del Fallimento, incombente sui contraenti e mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo nel testo del contratto di appalto dedotto in lite, per cui il contenuto della ridetta clausola non poteva essere considerato quale contenuto del contratto di appalto stesso. Ad avviso della ricorrente (la società Francese), invece, le condizioni generali di vendita non erano contenute in un testo separato e autonomo rispetto al documento contrattuale, né il testo era stato allegato al contratto in modo precario, né il contratto mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo alle condizioni generali di vendita. A tal fine, la ricorrente metteva in evidenza come il contratto siglato tra le parti era costituito da un unico documento di 41 pagine materialmente unite da una legatura e composto da un’intestazione, un indice analitico “Summary” contenente la lista dei capitoli costituenti il contratto stesso; otto capitoli rubricati con le lettere dalla lettera A alla lettera I; a seguire i capitoli stessi che si susseguono nell’ordine indicato nell’indice iniziale, ognuno preceduto da un’intestazione identica al nome del capitolo indicato nell’Indice. Alle condizioni generali di vendita della società Francese era dedicato l’ultimo capitolo rubricato nell’indice sotto la lettera I, denominato “General terms and conditions of sales”. Tale capitolo era poi, in effetti, costituito dalle ultime tre pagine del complessivo documento negoziale, di cui la prima è costituita dall’intestazione del capitolo identica a quella contenuta nell’indice sub “I”, e le due pagine seguenti riportavano il testo delle condizioni generali di vendita della società Francese, tra cui, l’ultima pagina, l’art. 15 sopra riportato relativo alla clausola di proroga. Il Fallimento deduceva la necessità della specifica approvazione della clausola, ai sensi degli arttdell’art. 13371341, 1358, 1375 e 1460 c.c., in quanto clausola vessatoria. L’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (entrata in vigore il 1° febbraio 1973) concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, regola la “proroga di competenza” giurisdizionale. La Convenzione di Bruxelles del 1968 è rivoltostata dapprima sostituita dal Regolamento (CE) n. 44/2001 e successivamente dal Regolamento (UE) n. 1215/2012, infattianche noto come Regolamento “Bruxelles I bis”, ad impedire in vigore dal 10 gennaio 2015. L’art. 17, prevede: “Qualora le parti, di cui almeno una domiciliata nel territorio di uno Stato contraente, abbiano convenuto la competenza di un giudice o dei giudici di uno Stato contraente a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competenza esclusiva spetta al giudice o ai giudici di quest’ultimo Stato contraente. Questa clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: La Convenzione di Bruxelles del 1968, prima, ed i Regolamenti Bruxelles I e I bis, poi, hanno così attribuito la possibilità alle parti di stabilire la giurisdizione, di talché, in tal caso, il potere- dovere di decidere di un dato giudice viene esteso (prorogato) a comprendere una controversia rispetto alla quale esso non avrebbe competenza giurisdizionale. Analoga disposizione si rinviene nell’art. 23, commi 1 e non 2, del reg, n. 44 DEL 2001 del 2001 “(...) La clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: a) per iscritto o oralmente con conferma scritta, o b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro, o Anche nell’art. 25 del Reg. n. 1215 del 2012 si rinviene analoga disposizione: “Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L’accordo attributivo di competenza deve essere: La questione proposta dalla società Francese era incentrata sui requisiti richiesti dall’art. 17, ai fini della validità della clausola di attribuzione della giurisdizione, la quale, in linea di principio, deve intendersi esclusiva (Corte giustizia, 21 maggio 2015, El Majdoub, si cfr., Cass., S.U., n. 1717 del 2020, e Cass., S.U., n. 3624 del 2012). Come la Corte di cassazione ha già affermato (Cass., Sez. Un. n. 16491/2021 ed anche Cass., Sezz. Un. n. 13594/2022), va considerato che, in quanto espressione dell’autonomia negoziale, che l’ordinamento unionale accorda alle parti in materia di attribuzione della competenza giurisdizionale, la clausola di proroga della giurisdizione – art. 17 della Convenzione del 1968, art. 23 Reg. 44/2001, art. 25 Reg. UE 12 dicembre 2012, n. 1215, tanto che i principi sviluppati con riferimento alla Convenzione di Bruxelles si reputano applicabili anche ai regolamenti Bruxelles I ed I bis (Corte giust., 7/02/2013, C-543/10, Refcomp) – consente di derogare ai principi generali in materia di competenza stabiliti dai citati Convenzione e Regolamenti, a provocare) agli stessi condizione che le parti vi aderiscono in uno dei modi previsti dalla norma stessa. È l’incontro delle manifestazioni di volontà delle parti che giustifica il primato accordato alle parti, in nome del principio di autonomia della volontà, alla scelta di un minor vantaggiogiudice diverso da quello che sarebbe stato eventualmente competente (CGUE, 20 aprile 2016, C-366/13, Profit Investment SIM Spa ). I requisiti di forma prescritti, ovvero la predisposizione in forma scritta della clausola o la conferma di essa per iscritto se stipulata oralmente sono propriamente intesi a garantire che il consenso in merito alla proroga sia stato effettivamente prestato (Corte giust., 21 maggio 2015, X-000/00, Xxxxxx Xx Xxxxxxx). Si intende tutelare il contraente più debole evitando che clausole attributive di giurisdizione, inserite nel contratto da una sola delle parti, passino inosservate (sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, C-159/97, par. 19 e giurisprudenza ivi citata). Pertanto, è compito prioritario del giudice, avanti al quale la questione del forum prorogatum sia sollevata in virtù dell’attribuzione convenzionale della competenza operata dalle parti, accertare se la relativa pattuizione abbia formato oggetto di un maggior aggravio economico»effettivo consenso tra le medesime parti e se l’incontro delle volontà in tal modo realizzatosi sia avvenuto in modo chiaro e preciso (Corte giust., 20/02/1997, C-106/95, Mainschiffahrts-Genossenschaft eG). Coerentemente con queste premesseLa CGUE ha avuto modo di affermare nella sentenza 8 marzo 2018, quindiX00/00, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente Xxxx Xxxx & Xxxxxx XX/XX, par. 27, che “allorchè una clausola attribuiva di addiveniregiurisdizione è stipulata nell’ambito di condizioni generali, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architettoCorte ha dichiarato che una simile clausola è lecita qualora, ad una modifica del contenuto nel testo stesso del contratto che avrebbe comportato firmato dalle due parti, sia fatto un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparterichiamo espresso a condizioni generali contenenti la clausola medesima”.

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SOLUZIONE. [1Il Tribunale penale di Ferrara, ritenuta fondata, in base alla “credibilità soggettiva e attendibilità intrinseca del racconto” (e non confutata dalla difesa avversaria), la deposizione della parte offesa[1] Tanto e ritenuti sussistenti sia l’elemento oggettivo sia il dolo specifico, dichiarava la proprietaria responsabile del reato di cui all’art. 392 c.p.: già in precedenza era stato punito in tal modo “il proprietario di un immobile che, una volta scaduto il contratto di locazione, di fronte all’inottemperanza del conduttore dell’obbligo di rilascio, anzichè ricorrere al giudice con l’azione di xxxxxxx, si fa ragione da sé, sostituendo la serratura della porta di accesso e apponendovi un lucchetto”[2]. Il Giudice ravvisava l’elemento oggettivo dell’imputazione nell’arbitrario mutamento di destinazione della cosa, pur avendo l’agente a disposizione le opportune azioni civili; quanto all’elemento soggettivo, il dolo veniva individuato nella coscienza e volontà di esercitare con violenza (cambio della serratura) un preteso diritto. Il Giudice, peraltro, avvalorava la propria già condivisibile decisione richiamando, tra i tanti, due precedenti della Corte di Cassazione quanto penale (segnatamente, le sentenze numero 3348/2017 e numero 10066/2005), che confermano che – a prescindere da rilevanti questioni di natura squisitamente civilistica e locatizia – per integrare la Corte d’Appello muovono dalla constatazione fattispecie di reato di cui all’art. 392 c.p. “… non si richiede che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, diritto che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove inteso tutelare (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato insussistente in concreto, poiché la legge punisce il modo antigiuridico con il quale tale diritto è stato fatto valere, astraendo dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni sua effettiva esistenza o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (meno …). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c[3]., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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SOLUZIONE. [Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia delle entrate denunciava, in relazione all’art. 360 c.p.c., comm 1] Tanto , n.4, la Cassazione quanto nullità per motivazione apparente della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 132 c.p.c., per non avere la Corte d’Appello muovono dalla constatazione Commissione tributaria regionale adeguatamente esposto le ragioni in fatto e in diritto della decisione. Con il secondo motivo, in via subordinata, l’Agenzia denunciava, in relazione all’art. 360 c.p.c., comm 1, n.3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 485 c.c. e 2697 c.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale ritenuto non sussistente il possesso dei beni ereditari, a fronte invece di una pacifica circostanza per cui i chiamati all’eredità hanno il domicilio nello stesso immobile in cui lo aveva il de cuius, e di conseguenza per aver ritenuto che i chiamati non avessero perso il negozio diritto di rinunciare all’eredità ex art. 485 c.c. Il giudice di legittimità accoglie il primo motivo ritenendolo fondato, con assorbimento del secondo, argomentando come segue. In primo luogo, richiamando una sua precedente pronuncia, la Suprema corte ritiene che se il chiamato si trovi nel possesso di beni ereditari e non compie l’inventario entro tre mesi dal quale scaturiva giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità non può rinunciare all’eredità, ai sensi dell’art. 519 c.c., in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, dovendo il chiamato, allo scadere dei termini stabiliti per l’inventario, essere considerato erede puro e semplice. In secondo luogo, la lite era rimasto inefficace considerazione per cui “non è dato sapere se gli eredi rinunciatari si trovano nel possesso dei beni ereditari” pare essere, per la Suprema corte, una considerazione apodittica e priva di riferimenti alla situazione concreta (considerate le specifiche deduzioni portate dall’Ufficio in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che ordine all’accertata domiciliazione degli eredi nell’immobile in cui aveva il domicilio lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…de cuius) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativoe, in quanto mancava tale, idonea a rendere la prova sentenza censurabile per vizio di motivazione apparente. Tutto ciò in conformità a due orientamenti giurisprudenziali precedenti (Cass. n. 9097/2017 e Cass. n. 13977/2019) secondo cui “ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza quando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento o indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del fatto che suo ragionamento” ovvero “quando la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione sentenza non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del Comune competenteproprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie ipotetiche”. Da un secondo punto di vista La Corte pertanto accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo, cassa la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto sentenza impugnata e a limiti rinvia alla Commissione tributaria regionale del dovere di cui si discuteLazio, in particolare affermando che «l’obbligodiversa composizione, previsto dall’art. 1358 c.ccui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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SOLUZIONE. [1] Tanto La clausola di scelta del foro competente in favore del Giudice francese, ed in favore della legge francese, era contenuta nelle condizioni generali di contratto non firmate, né la Cassazione quanto clausola era stata espressamente richiamata nel suo contenuto nel testo del contratto firmato. Pertanto, la Corte d’Appello muovono ha chiarito che dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito mera indicazione – nell’indice – del capitolo recante condizioni generali di contratto, seppure congiunto materialmente al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenzacontratto, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento può farsi discendere che la clausola di proroga abbia costituito oggetto di specifica pattuizione negoziale delle obbligazioniparti, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva manifestatasi “in capo alle partimodo chiaro e preciso”. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi La Cassazione si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizioneè, in modo da non impedire che tal modo, posta in linea sia con la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove propria giurisprudenza (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto»si veda ad es. Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992SU, 29 aprile 2022, n. 6676; Cass.13594), 22 marzo 2001sia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso che anche recentemente ha chiarito che “allorchè una clausola attributiva di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto giurisdizione è stipulata nell’ambito di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per condizioni generali […[ una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessisimile clausola è lecita qualora, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel testo stesso del contratto condizionato firmato dalle due parti, sia fatto un richiamo espresso a condizioni generali contenenti la clausola medesima” (sentenza 8 marzo 2018, X00/00, Xxxx Xxxx & Xxxxxx XX/XX). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivoltoSi vuole, infatti, ad impedire in tal modo tutelare il contraente più debole evitando che clausole attributive di giurisdizione, inserite nel contratto da una sola delle parti, passino inosservate (Corte di Giustizia, sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, C-159/97). Quanto alla giurisdizione, la Corte ha individuato il Giudice italiano quale foro competente ex art. 7, 1° comma, lett. b) Reg. (UE) n. 1215/2012 trattandosi di contratto internazionale di appalto (prestazione di servizi) e non di vendita (come sostenuto, invece, dalla società francese). A tale conclusione la Corte è giunta utilizzando i criteri posti dall’art. 3 CISG e ha rilevato che le parti avevano voluto dare luogo ad un contratto di appalto in quanto esso non si limitava a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad stabilire solo una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla contropartesemplice fornitura.

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SOLUZIONE. [1] Tanto Per quanto di interesse l’assicurazione del vettore defunto con primo motivo di ricorso denunciava, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la Cassazione quanto violazione degli artt. 2909 c.c., 324 c.p.c., 329 co. 2 c.p.c. e 342 c.p.c., e l’omesso accertamento di giudicato interno attinente all’inapplicabilità dell’art. 141 cod. ass. A sostegno della doglianza il ricorrente faceva presente che fin dal primo atto difensivo aveva eccepito che l’incapienza del massimale assicurativo dell’altra assicurazione e la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e chemessa a disposizione di quest’ultima senza riserve, con l’azione ai sensi dell’art. 140, co. 4 cod. ass., comportavano l’inapplicabilità dell’art. 141 cod. ass. e, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna il venir meno dell’onere della compagnia assicuratrice del vettore di risarcire i trasportati. Con il secondo motivo di ricorso la compagnia assicuratrice censurava la sentenza d’appello per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioniviolazione, invero mai sorteex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., che lo stesso prevedeva degli artt. 140 e 141 cod. ass. in capo alle partiquanto la Corte territoriale, pur avendo accertato la mancanza di responsabilità del vettore defunto, applicando l’art. 141 cod. ass., aveva comunque condannato entrambe le compagnie a risarcire i danni. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivoltoricorrente, infatti, ad impedire l’art. 141 cod. ass. non stabilirebbe un onere dell’assicuratore del vettore a risarcire i trasportati anche nel caso in cui il suo assicurato non è responsabile bensì lo delegherebbe soltanto a risarcire per conto dell’assicuratore del responsabile civile nei cui confronti potrebbe rivalersi dopo il pagamento. Inoltre i trasportati insoddisfatti dal massimale minimo potrebbero agire per il residuo risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile (e quindi anche nei confronti dell’assicuratore del vettore se il vettore è responsabile o corresponsabile civile) qualora il massimale sia superiore al minimo di legge. Non sussiste, infatti, alcuna forma di responsabilità oggettiva in quanto l’art. 141 cod. ass. non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico»è applicabile in ipotesi di caso fortuito. Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo La Corte di Cassazione dopo aver analizzato dettagliatamente l’art. 141 cod. ass e la questione di diritto sottesa al caso ha accolto il rifiuto della società committente primo e il secondo motivo di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla contropartericorso.

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SOLUZIONE. [1] Tanto Al fine di pronunciarsi sullo scioglimento dei contratti in esame, il tribunale ha innanzitutto precisato quali siano i presupposti dell’autorizzazione regolata dall’art. 169-bis l. fall., enucleando il principio riportato nella prima massima riportata in epigrafe. Più in particolare, secondo il giudice vicentino, il legislatore avrebbe configurato lo scioglimento dei contratti pendenti come un diritto potestativo dell’imprenditore ammesso ad una procedura di concordato preventivo, la Cassazione quanto cui ratio risiede nell’intento di conseguire, attraverso la Corte d’Appello muovono soluzione concordataria della crisi d’impresa, il miglior soddisfacimento del ceto creditorio. Pertanto, al ricorrere dei requisiti stabiliti dalla constatazione che legge – tra cui non rientrerebbero né la quantificazione dell’indennizzo da versare alla controparte contrattuale, né la valutazione circa la fattibilità del piano di concordato –, il negozio contraente in bonis viene a ricevere una tutela limitata, costituita esclusivamente dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e diritto alla corresponsione di una somma di denaro, che, in caso di conseguenzacontestazioni in merito alla sua quantificazione, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazionideve essere accertata nell’ambito di un autonomo giudizio di cognizione. [2] Il tribunale ha autorizzato lo scioglimento dei contratti richiesto da Xxxxx, invero mai sortestatuendo, tra l’altro, che lo stesso prevedeva in capo alle partiné il contratto di affitto di ramo d’azienda né il contratto preliminare di cessione di ramo di azienda rientrano tra quelli esclusi dal comma 4° dell’art. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art169-bis l. fall. 1358 c.c.: a tale riguardo, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, Il collegio ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire evidenziato che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in ratio sottesa all’esclusione della possibilità di sciogliersi da un contratto diretto alla progettazione e realizzazione preliminare di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere vendita di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare immobile ad uso non abitativo – vale a dire la necessità di tutelare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se futuro acquirente che abbia programmato di esercitare la sua impresa presso l’immobile oggetto del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e preliminare – non sussiste nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativopreliminare di cessione di ramo d’azienda, atteso che, prima dell’acquisto, il promittente acquirente non esercita alcuna attività d’impresa presso l’immobile che fa parte del predetto complesso aziendale. Nulla viene, invece, detto circa la possibilità di scioglimento del contratto di affitto di azienda, che viene data evidentemente per scontata dal tribunale. [3] Infine, per quanto attiene alle osservazioni sollevate dal commissario xxxxxxxxxx, il tribunale, dopo aver qualificato l’intervento del terzo nel concordato come “investimento partecipativo” ai sensi dell’art. 182-quater, comma 3°, l. fall., ha escluso la possibilità di applicare nel caso in quanto mancava esame la prova del fatto disciplina di cui all’art. 163-bis. Ciò sul presupposto che il c.d. “investimento partecipativo” non comporta in alcun modo il rischio, che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e norma sulle offerte concorrenti mira a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c.scongiurare, di comportarsiun depauperamento del patrimonio della società con conseguente danno alle ragioni dei creditori, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionantementre, al fine contrario, vede l’ingresso nella compagine sociale di conservare integre le ragioni dell’altra parte) soggetti non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.ccoinvolti nella gestione precedente che ha condotto alla crisi., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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SOLUZIONE. [1] Tanto I motivi di ricorso, concernenti la contestazione della giurisdizione del giudice italiano e l’applicazione la legislazione italiana, in ragione della loro connessione, sono stati trattati congiuntamente dalle Sezioni Unite della Cassazione, cui la Sezione II della Cassazione quanto la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che aveva rimesso il negozio dal quale scaturiva la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento ricorso della condicio iuris apposta dai contraenti Società francese, e che, di conseguenzanon sono fondati. In primo luogo, non vi era possibilità alcuna sussistono le condizioni per discorrere dell’inadempimento delle obbligazionidisporre rinvio pregiudiziale alla CGUE. La giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza del 6 ottobre 1982, invero mai sorteCilfit, che lo stesso prevedeva in capo alle parti. Secondo il ragionamento sviluppato da entrambi i collegiC283/81; sentenza, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione contrattuale previsto dall’art. 1358 c.c.: a tale riguardo6 ottobre 2021, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si proponeC-561/19, Consorzio italiano), ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edili, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva chiarito che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativo, in quanto mancava la prova del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione del Comune competente. Da un secondo punto di vista la Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discute, in particolare affermando che «l’obbligo, previsto dall’art. 1358 c.c., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre evitare che in un qualsiasi Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le ragioni dell’altra parte) norme del diritto dell’Unione, qualora non può implicare per una delle parti l’accettazione sia previsto alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un sacrificio giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di suoi diritti o legittimi interessiprincipio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto Europeo, al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri, fra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Xxxxx (Xxxxx xx xxxxxxxxx, xxxxxxxx xxx 00 marzo 2017, in causa C-3/16, Aquino, par. 32). Gli organi giurisdizionali non sono, invece, tenuti a disporre il rinvio pregiudiziale qualora rilevino, come nella specie in ragione della giurisprudenza della CGUE di seguito richiamata, che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi sia già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi. Nel merito, viene in evidenza l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, alla quale sono seguiti i Regolamenti Bruxelles I (Reg. CE 22/12/2000, n. 44/2001) e Bruxelles Ibis (Reg. UE n. 12/12/2012 n. 1215). La Convenzione di Bruxelles del 1968, all’art. 2, salvo le eccezioni poi previste, pone la regola generale che “le persone aventi il domicilio nel territorio di uno Stato contraente sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti agli organi giurisdizionali di tale Stato”. All’art. 5, comma 1, nel senso prevedere un foro alternativo, sancisce, per quanto qui rileva, che “il convenuto domiciliato nel territorio di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: Più complesso, ma coerente con la Convenzione, il contenuto dell’art. 5 del Reg 44/2001, richiamato dalla sentenza di appello, laddove prevede, dopo aver stabilito una regola analoga a quella sopra riportata, che in via alternativa “ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: La Corte d’Xxxxxxx, nel decidere la controversia, aveva qualificato come appalto (prestazione di servizi) e non come compravendita, il contratto in questione. La Corte d’Appello nell’interpretare l’atto negoziale aveva rilevato come le parti avevano voluto dar luogo ad un contratto di appalto, in quanto lo stesso non si limitava a stabilire solo una semplice fornitura ma prevedeva la posa in opera di una apparecchiatura industriale e poneva, come risultava anche letteralmente dal documento contrattuale in atti, una serie di attività a carico della società Francese che andavano dalla esecuzione di alcuni collegamenti elettrici ed idrici alla installazione in loco dell’apparecchiatura industriale, all’avviamento e al collaudo di essa, tutte attività da svolgere in Marcianise. L’obbligazione della società Francese non era limitata alla consegna di un bene ma consisteva nell’attivazione di un impianto di notevoli dimensioni, e la società Francese aveva riconosciuto di essere obbligata a tali prestazioni, essendo pacifico che essa si era adoperata per il montaggio dell’impianto e per il suo avviamento. Inoltre, la Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che risultava dalla documentazione che la società Francese aveva compiuto una serie di interventi di adeguamento operativo degli impianti. Si trattava, quindi, di un’obbligazione di risultato che andava inquadrata nel contratto condizionato di appalto. Dunque, alla luce dell’accertamento della Corte d’Appello e della rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati è corretta l’attività di qualificazione giuridica e la sussunzione del contratto in esame nel modello dell’appalto, ancor più se si consideri che, ai fini della differenziazione tra vendita ed appalto, quando alla prestazione di fare, caratterizzante l’appalto, si affianchi quella di dare, tipica della vendita, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla materia, con riguardo alla volontà dei contraenti oltre che al senso oggettivo del negozio, al fine di accertare se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro lo scopo del contratto (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l’effettiva finalità del contratto (vendita); in tal senso, Xxxx., n. 5935/2018. Pertanto, assodata (non essendo peraltro di interesse ai fini della presente nota) la qualificazione del contratto intercorso tra le parti quale contratto di appalto, la competenza giurisdizionale era individuata dalla Corte d’Appello in capo al giudice del luogo di esecuzione del contratto che si trova in Italia. Come già affermato dalla Corte di cassazione (Cass., Sez. Un. n. 23593/2010 ed anche Xxxx. Sez. Un. n. 8224/2002, Cass. Sez. Un. n. 9105/2005, e da ultimo, dandovi continuità, Xxxx., Sez. Un. n. 26986/2020), in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente, in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; luogo che va determinato in conformità della legge che disciplina l’obbligazione controversa secondo le norme di conflitto del giudice adito, nella specie il giudice italiano, e quindi, in base all’art. 57 della L. n. 218/1995, vertendosi in materia contrattuale, secondo la legge del Paese con il quale il contratto presenti il collegamento più stretto, nella specie in ragione di quanto sopra esposto l’Italia. La determinazione della giurisdizione e della legge applicabile in ragione di quanto sopra esposto non è oggetto di deroga in quanto, come affermato dalla Corte d’Appello, tra le parti non era intervenuta una Legittima clausola di proroga della giurisdizione e della legge applicabile. Nelle “General terms and conditions of sales” (Condizioni generali di vendita) della società Francese, riportate, dopo la sigla delle parti, all’ultimo capitolo “I”, ultima pagina, all’art. 15, si prevedeva: “Any dispute arising from the interpretation or execution of a sales contract or relating thereto, which cannot be settled amicably, shall be submitted of the Court of our Head Office, The agreements are governed by the law of France. The generaL terms and conditions of sales in French language is the sole authentic text” (“Ogni controversia nascente dall’interpretazione o dall’esecuzione di un contratto di vendita o ad esso connessa che non possa essere composta in via amichevole dalle parti sarà sottoposta al Tribunale della nostra sede legale [vale a dire della società Francese]. Gli accordi sono regolati dal diritto francese. Le condizioni generali di vendita in lingua francese costituiscono l’unico testo autentico”). L’obbligo La Corte d’Xxxxxxx aveva accertato che tale clausola risultava contenuta in un testo separato ed autonomo dal testo del contratto e questo testo era privo di comportarsi secondo buona fedesottoscrizione del Fallimento, incombente sui contraenti e mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo nel testo del contratto di appalto dedotto in lite, per cui il contenuto della ridetta clausola non poteva essere considerato quale contenuto del contratto di appalto stesso. Ad avviso della ricorrente (la società Francese), invece, le condizioni generali di vendita non erano contenute in un testo separato e autonomo rispetto al documento contrattuale, né il testo era stato allegato al contratto in modo precario, né il contratto mancava di qualsiasi aggancio o specifico richiamo alle condizioni generali di vendita. A tal fine, la ricorrente metteva in evidenza come il contratto siglato tra le parti era costituito da un unico documento di 41 pagine materialmente unite da una legatura e composto da un’intestazione, un indice analitico “Summary” contenente la lista dei capitoli costituenti il contratto stesso; otto capitoli rubricati con le lettere dalla lettera A alla lettera I; a seguire i capitoli stessi che si susseguono nell’ordine indicato nell’indice iniziale, ognuno preceduto da un’intestazione identica al nome del capitolo indicato nell’Indice. Alle condizioni generali di vendita della società Francese era dedicato l’ultimo capitolo rubricato nell’indice sotto la lettera I, denominato “General terms and conditions of sales”. Tale capitolo era poi, in effetti, costituito dalle ultime tre pagine del complessivo documento negoziale, di cui la prima è costituita dall’intestazione del capitolo identica a quella contenuta nell’indice sub “I”, e le due pagine seguenti riportavano il testo delle condizioni generali di vendita della società Francese, tra cui, l’ultima pagina, l’art. 15 sopra riportato relativo alla clausola di proroga. Il Fallimento deduceva la necessità della specifica approvazione della clausola, ai sensi degli arttdell’art. 13371341, 1358, 1375 e 1460 c.c., in quanto clausola vessatoria. L’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (entrata in vigore il 1° febbraio 1973) concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, regola la “proroga di competenza” giurisdizionale. La Convenzione di Bruxelles del 1968 è rivoltostata dapprima sostituita dal Regolamento (CE) n. 44/2001 e successivamente dal Regolamento (UE) n. 1215/2012, infattianche noto come Regolamento “Bruxelles I bis”, ad impedire in vigore dal 10 gennaio 2015. L’art. 17, prevede: “Qualora le parti, di cui almeno una domiciliata nel territorio di uno Stato contraente, abbiano convenuto la competenza di un giudice o dei giudici di uno Stato contraente a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competenza esclusiva spetta al giudice o ai giudici di quest’ultimo Stato contraente. Questa clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: La Convenzione di Bruxelles del 1968, prima, ed i Regolamenti Bruxelles I e I bis, poi, hanno così attribuito la possibilità alle parti di stabilire la giurisdizione, di talché, in tal caso, il potere- dovere di decidere di un dato giudice viene esteso (prorogato) a comprendere una controversia rispetto alla quale esso non avrebbe competenza giurisdizionale. Analoga disposizione si rinviene nell’art. 23, commi 1 e non 2, del reg, n. 44 DEL 2001 del 2001 “(…) La clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: a) per iscritto o oralmente con conferma scritta, o b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro, o Anche nell’art. 25 del Reg. n. 1215 del 2012 si rinviene analoga disposizione: “Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L’accordo attributivo di competenza deve essere: La questione proposta dalla società Francese era incentrata sui requisiti richiesti dall’art. 17, ai fini della validità della clausola di attribuzione della giurisdizione, la quale, in linea di principio, deve intendersi esclusiva (Corte giustizia, 21 maggio 2015, El Majdoub, si cfr., Cass., S.U., n. 1717 del 2020, e Cass., S.U., n. 3624 del 2012). Come la Corte di cassazione ha già affermato (Cass., Sez. Un. n. 16491/2021 ed anche Cass., Sezz. Un. n. 13594/2022), va considerato che, in quanto espressione dell’autonomia negoziale, che l’ordinamento unionale accorda alle parti in materia di attribuzione della competenza giurisdizionale, la clausola di proroga della giurisdizione – art. 17 della Convenzione del 1968, art. 23 Reg. 44/2001, art. 25 Reg. UE 12 dicembre 2012, n. 1215, tanto che i principi sviluppati con riferimento alla Convenzione di Bruxelles si reputano applicabili anche ai regolamenti Bruxelles I ed I bis (Corte giust., 7/02/2013, C-543/10, Refcomp) – consente di derogare ai principi generali in materia di competenza stabiliti dai citati Convenzione e Regolamenti, a provocare) agli stessi condizione che le parti vi aderiscono in uno dei modi previsti dalla norma stessa. È l’incontro delle manifestazioni di volontà delle parti che giustifica il primato accordato alle parti, in nome del principio di autonomia della volontà, alla scelta di un minor vantaggiogiudice diverso da quello che sarebbe stato eventualmente competente (CGUE, 20 aprile 2016, C-366/13, Profit Investment SIM Spa ). I requisiti di forma prescritti, ovvero la predisposizione in forma scritta della clausola o la conferma di essa per iscritto se stipulata oralmente sono propriamente intesi a garantire che il consenso in merito alla proroga sia stato effettivamente prestato (Corte giust., 21 maggio 2015, X-000/00, Xxxxxx Xx Xxxxxxx). Si intende tutelare il contraente più debole evitando che clausole attributive di giurisdizione, inserite nel contratto da una sola delle parti, passino inosservate (sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, C-159/97, par. 19 e giurisprudenza ivi citata). Pertanto, è compito prioritario del giudice, avanti al quale la questione del forum prorogatum sia sollevata in virtù dell’attribuzione convenzionale della competenza operata dalle parti, accertare se la relativa pattuizione abbia formato oggetto di un maggior aggravio economico»effettivo consenso tra le medesime parti e se l’incontro delle volontà in tal modo realizzatosi sia avvenuto in modo chiaro e preciso (Corte giust., 20/02/1997, C-106/95, Mainschiffahrts-Genossenschaft eG). Coerentemente con queste premesseLa CGUE ha avuto modo di affermare nella sentenza 8 marzo 2018, quindiX00/00, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente Xxxx Xxxx & Xxxxxx XX/XX, par. 27, che “allorchè una clausola attribuiva di addiveniregiurisdizione è stipulata nell’ambito di condizioni generali, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architettoCorte ha dichiarato che una simile clausola è lecita qualora, ad una modifica del contenuto nel testo stesso del contratto che avrebbe comportato firmato dalle due parti, sia fatto un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparterichiamo espresso a condizioni generali contenenti la clausola medesima”.

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SOLUZIONE. [1] Tanto Per quanto di interesse con il primo motivo di ricorso Xxxxx, lamentando la Cassazione quanto violazione e l’erronea applicazione degli artt. 1401, 1402 e 1403 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’Appello muovono dalla constatazione che il negozio dal quale scaturiva d’appello ha escluso la lite era rimasto inefficace in seguito al mancato avveramento della condicio iuris apposta dai contraenti e che, di conseguenza, non vi era possibilità alcuna per discorrere dell’inadempimento delle obbligazioni, invero mai sorte, che lo stesso prevedeva in capo alle partisua legittimazione attiva. Secondo il ragionamento sviluppato ricorrente il giudice d’appello aveva erroneamente valutato un fatto decisivo della controversia ossia che l’electio amici da entrambi i collegi, la controversia doveva essere piuttosto decisa verificando se alla società committente fosse o meno rimproverabile una violazione del dovere di comportamento secondo buona fede parte dell’originario contraente era stata tempestivamente ed efficacemente notificata al promittente venditore in pendenza della condizione contrattuale previsto conformità a quanto sancito dall’art. 1358 1402 c.c.: a tale riguardo. Tale comunicazione, evidenzia in particolare la Suprema Corte come «chi si sia obbligato sotto la condizione sospensiva dell’ottenimento infatti, era stata ritualmente effettuata con l’atto di determinate autorizzazioni o concessioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizionecitazione e, in modo da non impedire quanto anteriore rispetto al termine che le parti si erano date, era sicuramente tempestiva ed oltretutto era stata anche depositata nel corso del giudizio di primo grado alla prima udienza di comparizione delle parti nel rispetto dei termini di rito. A maggior riprova il ricorrente sostiene che la P.A. provveda sul rilascio degli auspicati provvedimenti ampliativi»; comunicazione dell’electio non richiede formule sacramentali e può essere comunicata anche da un nuncius e desunta dall’atto di citazione che il terzo abbia notificato all’altro contraente per poi soggiungere che «in un contratto diretto alla progettazione e realizzazione di opere edilil’esecuzione del contratto, è configurabile, in capo al committente, un dovere di cooperare all’adempimento dell’esecutore dei lavori, affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, se del caso anche favorendo l’elaborazione di varianti progettuali resesi necessarie in corso d’opera, vieppiù ove (…) l’approvazione del progetto sia stata elevata dalle parti a condizione di efficacia dell’intero contratto». Il ragionamento sviluppato dalla Corte d’Appello e successivamente confermato dalla Cassazione peraltro esclude che alla società committente sia addebitabile una violazione del dovere di correttezza pendente condicione, facendo leva su due ordini di argomenti. Il primo rileva che, nelle ipotesi considerate, il giudizio circa l’inosservanza dell’art. 1358 c.c. presuppone l’accertamento del fatto che, avuto riguardo alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato tale inadempimento, «la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo certo il legittimo rilascio delle autorizzazioni o concessioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile» (a tale riguardo la sentenza richiama alcuni precedenti di legittimità: Cass., 2 giugno 1992, n. 6676; Cass., 22 marzo 2001, n. 4110; Cass., 18 marzo 2002, n. 3942; Cass., 3 luglio 2014, n. 16501): e proprio com’è accaduto nel caso di specie tale accertamento aveva avuto esito negativospecie, dove la dichiarazione di nomina è stata formalizzata dall’attore, quale terzo nominato, con l’atto di citazione nel quale si fa riferimento ad una scrittura sottoscritta ed è stata, in quanto mancava la prova seguito, dimostrata in giudizio con il suo deposito in udienza. Tali circostanze, pertanto, dovevano condurre alla conseguenza dell’acquisizione da parte del fatto che la variante progettuale avrebbe certamente ottenuto l’approvazione terzo della legittimazione ad agire in giudizio per l’adempimento del Comune competentecontratto preliminare. Da un secondo punto di vista la La Suprema Corte motiva la propria decisione svolgendo alcune precisazioni in merito al contenuto e a limiti del dovere di cui si discuteCorte, in particolare affermando che «l’obbligoaccoglimento del primo motivo di ricorso, previsto dall’art. 1358 c.cha cassato con rinvio la sentenza impugnata., di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede (e cioè in modo da non influire sul libero corso della condizione pendente e di non accrescere il margine d’incertezza insito nell’evento condizionante, al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte) non può implicare per una delle parti l’accettazione di un sacrificio di suoi diritti o legittimi interessi, nel senso di veder mutare l’equilibrio economico delle prestazioni stabilito nel contratto condizionato (…). L’obbligo di comportarsi secondo buona fede, incombente sui contraenti ai sensi degli artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c., è rivolto, infatti, ad impedire (e non a provocare) agli stessi un minor vantaggio, ovvero un maggior aggravio economico». Coerentemente con queste premesse, quindi, gli ermellini giudicano legittimo il rifiuto della società committente di addivenire, tramite la sottoscrizione della variante progettuale preparata dall’architetto, ad una modifica del contenuto del contratto che avrebbe comportato un ampliamento dell’attribuzione traslativa dovuta alla controparte.

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